mercoledì 5 gennaio 2011

Tutti i rischi dell'Italia
di Stefano Vergine
Le dimensioni delle nostre aziende, gli oligopoli energetici, la fame delle banche: la politica dovrebbe affrontare questi nodi. Parla Marco Onado, docente alla Bocconi di Milano ed ex commissario Consob
(04 gennaio 2011)
Un investitore che ha in mano un titolo di Stato portoghese e lo vende non è uno speculatore, è uno che teme di non vedersi ripagato il bond. Quella del debito sovrano in Europa è una questione reale, e non vedo via d'uscita se non quella della crescita, aspetto a cui la politica italiana sembra non pensare... Parte da qui l'analisi di Marco Onado, docente di Economia degli intermediari finanziari all'Università Bocconi di Milano ed ex commissario della Consob.
Professor Onado, sarà un 2011 migliore dell'anno appena trascorso per l'economia europea?
"Non sono particolarmente ottimista. I segnali di ripresa riguardano poco l'Europa: solo la Germania ha delle buone prospettive. In generale credo che i livelli di crescita europei saranno simili a quelli del 2010".
Per l'Italia che anno si prospetta?
"Da noi i segnali di ripresa sono molto limitati. L'ufficio studi della Confindustria ha limato la stima di crescita del Pil per il 2011, abbassandola dall'1,3 per cento all'1,1 per cento. È un segnale importante, ma la politica non sembra in grado di recepirlo".
Che problemi ha l'economia italiana?
"Il suo rallentamento rispetto a quella europea dura da tre decenni e dipende dalla scarsa competitività e produttività del Paese. Senza modifiche strutturali continueremo a incrementare questo svantaggio".
Come si fa concretamente ad aumentare la produttività e migliorare la competitività?
"Realizzando le cose indicate anche ultimamente dalla Banca d'Italia. Innanzitutto facendo una riforma del mercato del lavoro che non punti a dare competitività alle imprese solo agendo sulla parte meno protetta del mercato, cioè i lavoratori. Poi attraverso la semplificazione burocratica e tutte quelle cose che sentiamo dire da anni. Una delle più necessarie sarebbe la maggiore concorrenza nel mercato dei servizi, in quello dell'energia particolarmente: basti pensare a tutte quelle municipalizzate che continuano a gestire il potere consegnandoci il costo dell'elettricità più alto d'Europa".
Il governo dice che i costi alti delle bollette dipendono dalla mancanza di centrali nucleari.
"Basterebbe non avere un oligopolio che gestisce il mercato: sarebbe sufficiente più concorrenza per ottenere prezzi più bassi".
Moody's ha minacciato un ulteriore declassamento di Grecia e Portogallo, Fitch lo ha già fatto con Lisbona. I problemi di bilancio di alcuni paesi europei continueranno a creare ripercussioni in Borsa anche nel 2011?
"In questo momento i problemi fondamentali non sono quelli di bilancio, ma della crescita. Più di quello che hanno fatto i greci e gli irlandesi con i tagli ai bilanci statali mi sembra impossibile immaginare. Resta invece una forte perplessità sulla capacità di crescita economica dei paesi della periferia europea. Il debito si ripaga se c'è crescita economica, e in Europa oggi solo la Germania ha questa capacità".

Impossibile per l'Italia imitare i tedeschi?
"Impossibile, sicuramente, nel 2011. In realtà abbiamo un sistema produttivo che dovrebbe essere in grado di farlo, ma servono riforme e un atteggiamento adeguato delle imprese".
Fino al 2006 l'economia italiana e quella tedesca camminavano a braccetto: livelli di crescita o decrescita sempre simili, con l'export a fare da stella polare. Poi qualcosa si è spezzato. Che cosa?
"La Germania ha realizzato prima di noi lo spostamento massiccio delle sue produzioni verso i paesi emergenti. Il nostro sistema di imprese si è invece cullato per troppo tempo nell'idea del "piccolo è bello". Ovviamente, se devi fare un impianto produttivo in Cina hai bisogno di grandi dimensioni. Uno dei miti sfatati dalla globalizzazione è che un sistema produttivo fatto di piccole imprese, possa competere con uno fatto da colossi. Funzionava negli anni '70, ora non più".
Con la crisi dei debiti sovrani che cosa rischia l'Italia?
"Credo che anche nel 2011 la volatilità dei mercati resterà alta. In tutto questo l'Italia mostra una doppia faccia. Da un lato non rischia, perché davanti a lei ha diversi paesi messi peggio: questo è l'aspetto positivo, anche se non c'è da essere proprio soddisfatti. Dall'altra parte c'è la consapevolezza che se l'Italia non risolverà i suoi problemi e sui mercati continuerà ad esserci grande attenzione per i debiti dei paesi europei, anche noi rischiamo di finire male".
Condivide l'idea di creare un'agenzia del debito ed emettere obbligazioni europee?
"Certamente l'Europa ha bisogno di dare una risposta forte in termini di coesione, e l'emissione di eurobond va in questa direzione. Le modalità tecniche attraverso cui realizzare l'ipotesi sono molto delicate da definire, ma è una possibilità per lo meno da vagliare, mentre escludo l'ipotesi del doppio euro perché sarebbe il segno della fine dell'Unione monetaria, un invito esplicito a non puntare sull'Europa".

La Cina ha detto che verrà in soccorso dell'Europa, che comprerà titoli di stato portoghesi. Ci salverà Pechino?
"La Cina ha un problema enorme di surplus di partite correnti: ha grandi capitali da investire e non può scommetterli solo in titoli di Stato americani. Ma alle promesse cinesi io non credo molto, basta ricordare la svalutazione dello yuan annunciata l'anno scorso e di fatto mai realizzata".

Lei dice che alcuni governi europei hanno già riformato abbastanza. Eppure recentemente il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, ha bacchettato l'Irlanda sulla riforma del sistema finanziario. E l'Ocse ha definito troppo timida quella della Spagna.
"Attenzione: sia Trichet che l'Ocse parlano delle riforme finanziarie, indispensabili per uscire dalla crisi senza addossare tutti i sacrifici sul settore pubblico. Quando bisogna fare pagare i cittadini sono tutti bravi, ma quando devi fare riforme strutturali il prezzo lo devono pagare anche i produttori di energia, i lavoratori protetti o, nel caso dell'Irlanda, le banche. Lì il totale delle attività degli istituti di credito è pari a otto volte il Pil del paese, che significa anche otto volte i debiti del paese. È chiaro che in situazioni del genere per curare la malattia bisogna usare l'accetta: l'Aspirina non basta. Lo stesso vale per la Spagna. Questo, credo, sia il senso delle parole di Trichet e dell'Ocse".

Quello bancario è il settore che anche nel 2010 ha perso più di tutti in Borsa. È stato il peggiore a Piazza Affari e il penultimo a livello mondiale dopo le utilities. Perché?
"Probabilmente c'è un eccesso di pessimismo sulle quotazioni bancarie, ma il pessimismo ha una ragione semplice: c'è un'interconnessione tra crescita economica, accantonamenti che le banche devono fare per i crediti dubbi e il prezzo del titolo in Borsa. Se non c'è crescita economica, gli accantonamenti vanno a pesare sui profitti, e questo si riflette sul valore del titolo. In Italia, nel 2010 le banche hanno visto calare i profitti del 7 per cento rispetto all'anno prima, e contemporaneamente gli accantonamenti per perdite su crediti sono aumentati di 2,5 volte. Se invece l'attività economica riprendesse, gli accantonamenti potrebbero ridursi, e anche il prezzo del titolo aumenterebbe".

Questa situazione pesa indifferentemente sulle banche italiane e su quelle europee?

"A livello generale possiamo dire di sì, ma gli istituti italiani sono più attivi nei prestiti e quindi pagano di più questa situazione. Mi immagino perciò un 2011 simile a quello appena trascorso".

Gli investitori devono aspettarsi massicci aumenti di capitale?
"Sicuramente. Tutte le stime indicano un fabbisogno di capitale per gli istituti italiani di circa 40 miliardi di euro".

Oltre a chiedere soldi agli azionisti, cosa potrebbero fare le banche italiane?
"Ci sono due strade. Da una parte liberarsi delle attività meno redditizie, e in questo modo diminuire il fabbisogno di capitale. Dall'altra c'è la strada della ristrutturazione operativa. Questo significa andare ad incidere sui processi di produzione riducendo i costi. Se andiamo a guardare i dati delle banche italiane, vediamo che il livello dei costi sul margine di intermediazione, cioè sui profitti, è rimasto invariato rispetto a 25 anni fa. È l'unico settore dove è avvenuta una cosa simile. Credo sia arrivato il momento delle scelte drastiche, perché mi sembra l'unico modo per non scaricare le inefficienze sugli azionisti".
Fonte : L’Espresso

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