Economia
08/10/2011 - DOSSIER/IL NODO DEL PRECARIATO- ANALISI
Il decennio perduto dei giovani dimenticati

Un momento di una manifestazione di giovani precari a Torino
Lavori poco gratificanti,
niente tutele né sussidi:
così si è impantanata l’Italia
di TONIA MASTROBUONI, dalla "Stampa"
TORINO
E' un caso se negli ultimi dieci anni di crescita «quasi zero» il numero dei precari è esploso, il fenomeno dei cosiddetti «bamboccioni» si è cronicizzato e i giovani hanno nella stragrande maggioranza dei casi la netta sensazione di stare peggio dei genitori? Secondo Mario Draghi no. Ieri il governatore della Banca d’Italia lo ha detto chiaramente: «La crescita economica non può fare a meno dei giovani né i giovani della crescita». Altre volte il prossimo presidente della Bce aveva avvertito che gli under 35 avrebbero risentito maggiormente della crisi a causa dei «buchi» di una legislazione sui quali non si è mai stancato di mettere l’accento. Ma le premesse per questo decennio perduto, soprattutto dal punto di vista delle riforme, vanno ricercate anche in quello precedente. Ed è indubbio, oggi che non aver investito nelle nuove generazioni ha fatto arretrare tutto il Paese.
Uno dei peccati originali risale al 1997, quando la famosa legge Treu pose le premesse per quella che è stata una vera e propria «primavera» dell’occupazione, dal punto di vista strettamente numerico. Ma quel governo e quelli successivi omisero di riformare anche gli ammortizzatori sociali, rinunciarono insomma a introdurre un sussidio di disoccupazione adatto a quelle nuove forme contrattuali. Anche perché costava caro, circa 12-13 miliardi di euro all’anno. La Treu ed altre leggi regolarono alcuni contratti flessibili, l’interinale o il co.co.co., e li resero molto appetibili per le imprese anche attraverso contributi bassissimi. Esplosero negli anni seguenti, come sappiamo, le forme di lavoro atipico. Anche perché nel frattempo il vecchio contratto a tempo indeterminato, strettamente presidiato dai sindacato, rimase blindato.
L’abuso di quelle decine di forme contrattuali, reiterate negli anni, crearono un «effetto criceto», schiere sempre più ampie di giovani che facevano sempre lo stesso lavoro, pagati per anni le stesse, bassissime cifre nel confronto europeo, senza prospettive di carriera, come roditori in una ruota. Soprattutto, privi di qualsiasi tutela, tra un contratto o e l’altro. Tanto che a un certo punto la Commissione europea sentenziò che avevamo condizioni di lavoro avanzate, da Paese nordico, ma tutele da Est Europa.
Le imprese, cullate dalla moderazione salariale garantita anche dagli accordi di luglio ‘93 che fecero divorziare per sempre gli stipendi dall’inflazione, accentuarono la tendenza già molto diffusa ad investire poco in ricerca e sviluppo e continuarono ad essere poco attente al capitale umano. Non impararono a cambiare prodotto, a qualificarsi di più, a star dietro ai concorrenti tedeschi invece che a quelli cinesi. Laurearsi in Italia, oggi, conta dunque meno che negli altri Paesi avanzati. Eppure, come dimostra anche uno studio della Banca d’Italia, un livello di istruzione più alto aumenta la produttività. Che è il mattone essenziale della crescita.
In questi anni il connubio dei contratti rinnovati ad libitum, l’assenza di una rete protettiva e la permanenza in posti di lavoro poco soddisfacenti ha trasformato il termine «flessibilità» anche in bocca agli studiosi che negli anni Novanta se ne erano innamorati in «precarietà». La differenza? Esistenziale. Se si fa una vita da criceti senza prospettive di miglioramento, è impossibile costruirsi un futuro.
Da un lato, perché a causa dei bassi salari - quelli di ingresso sono tra i peggiori d’Europa - si è costretti spesso a restare a casa dei genitori oltre la soglia d’allarme dell’età adulta. Draghi, ieri, lo ha ricordato: due terzi dei giovani tra 18 e 34 anni vive ancora «con almeno uno dei genitori». Inoltre, non è un caso che in Italia le donne facciano il primo figlio ormai tardissimo, alla soglia dei 30 anni. Tra l’altro, senza le immigrate che fanno più bambini, il tasso di natalità non sarebbe neanche a 1,4 com’è attualmente. Per inciso: il minimo per garantire la sopravvivenza a un popolo è 2,1, secondo gli studiosi.
Le donne, in questa ruota da criceto sono particolarmente penalizzate perché in Italia sono rari gli asili nido, soprattutto per i bambini sotto i due anni, e spesso sono costosissimi. E i congedi sono mal congegnati. Più in generale il dato sull’occupazione femminile - neanche un’italiana su due lavora contro la media europea del 60 per cento segnala che su questo c’è un problema specifico.
Infine, non c’è dubbio che la crisi ha esaltato tutti i difetti del sistema. Non potendo toccare i lavoratori «tradizionali», le aziende in crisi si sono limitate a non rinnovare i contratti ai giovani. Oltre due terzi della disoccupazione è ricaduta sulle loro spalle. Moltissimi, evidentemente, sono tornati a casa. Il risultato è agghiacciante. Un giovane su cinque, secondo l’Istat, non ha un lavoro e non lo cerca più. Tra le donne la percentuale sfiora il 50 per cento. Come fa un Paese a crescere se lascia i figli a casa?
E' un caso se negli ultimi dieci anni di crescita «quasi zero» il numero dei precari è esploso, il fenomeno dei cosiddetti «bamboccioni» si è cronicizzato e i giovani hanno nella stragrande maggioranza dei casi la netta sensazione di stare peggio dei genitori? Secondo Mario Draghi no. Ieri il governatore della Banca d’Italia lo ha detto chiaramente: «La crescita economica non può fare a meno dei giovani né i giovani della crescita». Altre volte il prossimo presidente della Bce aveva avvertito che gli under 35 avrebbero risentito maggiormente della crisi a causa dei «buchi» di una legislazione sui quali non si è mai stancato di mettere l’accento. Ma le premesse per questo decennio perduto, soprattutto dal punto di vista delle riforme, vanno ricercate anche in quello precedente. Ed è indubbio, oggi che non aver investito nelle nuove generazioni ha fatto arretrare tutto il Paese.
Uno dei peccati originali risale al 1997, quando la famosa legge Treu pose le premesse per quella che è stata una vera e propria «primavera» dell’occupazione, dal punto di vista strettamente numerico. Ma quel governo e quelli successivi omisero di riformare anche gli ammortizzatori sociali, rinunciarono insomma a introdurre un sussidio di disoccupazione adatto a quelle nuove forme contrattuali. Anche perché costava caro, circa 12-13 miliardi di euro all’anno. La Treu ed altre leggi regolarono alcuni contratti flessibili, l’interinale o il co.co.co., e li resero molto appetibili per le imprese anche attraverso contributi bassissimi. Esplosero negli anni seguenti, come sappiamo, le forme di lavoro atipico. Anche perché nel frattempo il vecchio contratto a tempo indeterminato, strettamente presidiato dai sindacato, rimase blindato.
L’abuso di quelle decine di forme contrattuali, reiterate negli anni, crearono un «effetto criceto», schiere sempre più ampie di giovani che facevano sempre lo stesso lavoro, pagati per anni le stesse, bassissime cifre nel confronto europeo, senza prospettive di carriera, come roditori in una ruota. Soprattutto, privi di qualsiasi tutela, tra un contratto o e l’altro. Tanto che a un certo punto la Commissione europea sentenziò che avevamo condizioni di lavoro avanzate, da Paese nordico, ma tutele da Est Europa.
Le imprese, cullate dalla moderazione salariale garantita anche dagli accordi di luglio ‘93 che fecero divorziare per sempre gli stipendi dall’inflazione, accentuarono la tendenza già molto diffusa ad investire poco in ricerca e sviluppo e continuarono ad essere poco attente al capitale umano. Non impararono a cambiare prodotto, a qualificarsi di più, a star dietro ai concorrenti tedeschi invece che a quelli cinesi. Laurearsi in Italia, oggi, conta dunque meno che negli altri Paesi avanzati. Eppure, come dimostra anche uno studio della Banca d’Italia, un livello di istruzione più alto aumenta la produttività. Che è il mattone essenziale della crescita.
In questi anni il connubio dei contratti rinnovati ad libitum, l’assenza di una rete protettiva e la permanenza in posti di lavoro poco soddisfacenti ha trasformato il termine «flessibilità» anche in bocca agli studiosi che negli anni Novanta se ne erano innamorati in «precarietà». La differenza? Esistenziale. Se si fa una vita da criceti senza prospettive di miglioramento, è impossibile costruirsi un futuro.
Da un lato, perché a causa dei bassi salari - quelli di ingresso sono tra i peggiori d’Europa - si è costretti spesso a restare a casa dei genitori oltre la soglia d’allarme dell’età adulta. Draghi, ieri, lo ha ricordato: due terzi dei giovani tra 18 e 34 anni vive ancora «con almeno uno dei genitori». Inoltre, non è un caso che in Italia le donne facciano il primo figlio ormai tardissimo, alla soglia dei 30 anni. Tra l’altro, senza le immigrate che fanno più bambini, il tasso di natalità non sarebbe neanche a 1,4 com’è attualmente. Per inciso: il minimo per garantire la sopravvivenza a un popolo è 2,1, secondo gli studiosi.
Le donne, in questa ruota da criceto sono particolarmente penalizzate perché in Italia sono rari gli asili nido, soprattutto per i bambini sotto i due anni, e spesso sono costosissimi. E i congedi sono mal congegnati. Più in generale il dato sull’occupazione femminile - neanche un’italiana su due lavora contro la media europea del 60 per cento segnala che su questo c’è un problema specifico.
Infine, non c’è dubbio che la crisi ha esaltato tutti i difetti del sistema. Non potendo toccare i lavoratori «tradizionali», le aziende in crisi si sono limitate a non rinnovare i contratti ai giovani. Oltre due terzi della disoccupazione è ricaduta sulle loro spalle. Moltissimi, evidentemente, sono tornati a casa. Il risultato è agghiacciante. Un giovane su cinque, secondo l’Istat, non ha un lavoro e non lo cerca più. Tra le donne la percentuale sfiora il 50 per cento. Come fa un Paese a crescere se lascia i figli a casa?
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