di Massimo Giannini, da "Repubblica".
Resta un'Armata Brancaleone
Com'era prevedibile, è fallita anche questa caccia a "Ottobre rosso". Con la cinquantatreesima fiducia in tre anni e mezzo, il governo Berlusconi supera anche questa prova d'autunno, che per difficoltà e incertezza era quasi pari a quella alla prova d'inverno del 14 dicembre di un anno fa, quando i futuristi di Fini uscirono dalla maggioranza e tentarono inutilmente la spallata con una mozione di sfiducia. È quasi grottesco che, nelle stesse ore in cui un pur rabbioso Cavaliere festeggia lo scampato pericolo, il presidente della Repubblica inviti il governo a "non eccedere" con lo strumento delle fiducie, che producono una "inaccettabile compressione delle prerogative delle Camere". Come se quel clamoroso "eccesso" non si fosse già ampiamente prodotto, e quella "compressione" non fosse già palesemente avvenuta.
Ma recriminare è ormai inutile. Il Capo dello Stato ritiene che il "vulnus" della mancata approvazione del Rendiconto generale del bilancio pubblico sia sostanzialmente sanato dall'avvenuta "verifica parlamentare". La maggioranza di centrodestra, disperata e dissoluta, continua a perdere i pezzi. Ma continua ad avere i numeri per sopravvivere. Nel modo più avventuroso, rocambolesco e improduttivo possibile. Grazie alla stampella dei radicali, all'indecisione degli scajoliani, alla resistenza degli ex "responsabili". Ormai è peggio che un'Armata Brancaleone. È un manipolo di sbandati, irriducibili e mercenari, che va
avanti per pura inerzia, per puro istinto di conservazione. Senza etica, senza politica. Ma con il conto in banca e gli appannaggi mensili, i benefit e le auto blu, lo scranno parlamentare e la ricca pensione da salvare. Questo, oggi, è il solo cemento della coalizione berlusconiana.
Altrove avrebbe fatto gridare allo scandalo non solo i cittadini, ma l'intero establishment. E avrebbe portato inevitabilmente il presidente del Consiglio a rassegnare le sue dimissioni. Non in Italia, dove il dissenso popolare non serve e lo sdegno istituzionale non basta. Per quanto posticcio, per quanto esecrabile, quel cemento resiste, ed è sufficiente per durare. Fino a quando? E soprattutto a quale prezzo? Questo, ancora una volta, è il cuore del problema. Napolitano ha agito con rigore e correttezza: non poteva essere lui a "disarcionare" il Cavaliere. Ma c'è da chiedersi se questo pur "doveroso passaggio" della fiducia abbia dissipato il dubbio cruciale che il Quirinale aveva puntualmente posto, tre giorni fa: esiste la "costante coesione necessaria" per affrontare l'asprezza di una crisi economico-finanziaria che non accenna a regredire, e per adempiere agli impegni sottoscritti con l'Europa? La risposta, chiara, è no. In questa anomala scheggia di centrodestra italiano non esiste alcuna "costante coesione", strategica e politica, ma solo un'inquietante adesione, opportunistica e totemica.
Non c'è interesse nazionale. Non c'è bene comune che tenga. C'è solo la tutela del privilegio, e dunque la difesa del Capo che la garantisce. Il resto è noia, come dimostra la pochezza del discorso del premier in aula. O è polemica, come dimostra lo scontro mortale tra i ministri sul fantomatico "decreto crescita", che non vedrà mai la luce. O se la vedrà, sarà l'ennesimo abbaglio. Come il primo "decreto scossa" varato il 2 febbraio, e il secondo "decreto sviluppo" varato il 5 maggio. Nello "spot" del premier, avrebbero dovuto far crescere il Pil "di almeno un punto e mezzo, forse due". Tocchiamo con mano, sulle nostre tasche, com'è andata a finire. L'Italia declina, stabilmente, verso crescita zero. "Il Cavaliere deve finalmente scendere da cavallo", titola il Financial Times 1, ricordando che "l'Italia deve salvare se stessa per salvare l'euro". Lui non è sceso. L'Italia non è salva. E l'euro è sempre più a rischio. Purtroppo, Silvio c'è.
Resta un'Armata Brancaleone
Com'era prevedibile, è fallita anche questa caccia a "Ottobre rosso". Con la cinquantatreesima fiducia in tre anni e mezzo, il governo Berlusconi supera anche questa prova d'autunno, che per difficoltà e incertezza era quasi pari a quella alla prova d'inverno del 14 dicembre di un anno fa, quando i futuristi di Fini uscirono dalla maggioranza e tentarono inutilmente la spallata con una mozione di sfiducia. È quasi grottesco che, nelle stesse ore in cui un pur rabbioso Cavaliere festeggia lo scampato pericolo, il presidente della Repubblica inviti il governo a "non eccedere" con lo strumento delle fiducie, che producono una "inaccettabile compressione delle prerogative delle Camere". Come se quel clamoroso "eccesso" non si fosse già ampiamente prodotto, e quella "compressione" non fosse già palesemente avvenuta.
Ma recriminare è ormai inutile. Il Capo dello Stato ritiene che il "vulnus" della mancata approvazione del Rendiconto generale del bilancio pubblico sia sostanzialmente sanato dall'avvenuta "verifica parlamentare". La maggioranza di centrodestra, disperata e dissoluta, continua a perdere i pezzi. Ma continua ad avere i numeri per sopravvivere. Nel modo più avventuroso, rocambolesco e improduttivo possibile. Grazie alla stampella dei radicali, all'indecisione degli scajoliani, alla resistenza degli ex "responsabili". Ormai è peggio che un'Armata Brancaleone. È un manipolo di sbandati, irriducibili e mercenari, che va
avanti per pura inerzia, per puro istinto di conservazione. Senza etica, senza politica. Ma con il conto in banca e gli appannaggi mensili, i benefit e le auto blu, lo scranno parlamentare e la ricca pensione da salvare. Questo, oggi, è il solo cemento della coalizione berlusconiana.
Altrove avrebbe fatto gridare allo scandalo non solo i cittadini, ma l'intero establishment. E avrebbe portato inevitabilmente il presidente del Consiglio a rassegnare le sue dimissioni. Non in Italia, dove il dissenso popolare non serve e lo sdegno istituzionale non basta. Per quanto posticcio, per quanto esecrabile, quel cemento resiste, ed è sufficiente per durare. Fino a quando? E soprattutto a quale prezzo? Questo, ancora una volta, è il cuore del problema. Napolitano ha agito con rigore e correttezza: non poteva essere lui a "disarcionare" il Cavaliere. Ma c'è da chiedersi se questo pur "doveroso passaggio" della fiducia abbia dissipato il dubbio cruciale che il Quirinale aveva puntualmente posto, tre giorni fa: esiste la "costante coesione necessaria" per affrontare l'asprezza di una crisi economico-finanziaria che non accenna a regredire, e per adempiere agli impegni sottoscritti con l'Europa? La risposta, chiara, è no. In questa anomala scheggia di centrodestra italiano non esiste alcuna "costante coesione", strategica e politica, ma solo un'inquietante adesione, opportunistica e totemica.
Non c'è interesse nazionale. Non c'è bene comune che tenga. C'è solo la tutela del privilegio, e dunque la difesa del Capo che la garantisce. Il resto è noia, come dimostra la pochezza del discorso del premier in aula. O è polemica, come dimostra lo scontro mortale tra i ministri sul fantomatico "decreto crescita", che non vedrà mai la luce. O se la vedrà, sarà l'ennesimo abbaglio. Come il primo "decreto scossa" varato il 2 febbraio, e il secondo "decreto sviluppo" varato il 5 maggio. Nello "spot" del premier, avrebbero dovuto far crescere il Pil "di almeno un punto e mezzo, forse due". Tocchiamo con mano, sulle nostre tasche, com'è andata a finire. L'Italia declina, stabilmente, verso crescita zero. "Il Cavaliere deve finalmente scendere da cavallo", titola il Financial Times 1, ricordando che "l'Italia deve salvare se stessa per salvare l'euro". Lui non è sceso. L'Italia non è salva. E l'euro è sempre più a rischio. Purtroppo, Silvio c'è.
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