Un decalogo contro la corruzione
di Raffaele Cantone*, da L'Espresso, 1 ottobre 2011
Nello stesso giorno in cui la maggioranza dei deputati negava l’arresto di un parlamentare accusato di corruzione, nella Commissione giustizia di Montecitorio proseguiva lentamente la discussione del nuovo disegno di legge anticorruzione: un provvedimento che viene giudicato un pannicello caldo di fronte alla gravità del problema.
L’attenzione nel nostro Paese per la corruzione può essere paragonata ad un fiume carsico. Non se ne parla per lunghi periodi, malgrado le relazioni della Corte dei conti o i documenti di organismi internazionali evidenzino ogni anno l’estensione del fenomeno. Di tanto in tanto, poi, il rigagnolo sotterraneo fuoriesce potente. E il ritorno dell’interesse coincide sempre con fatti di cronaca così clamorosi da non passare inosservati, come l’arresto lunedì scorso di un assessore di Parma accusato di mazzette per le forniture delle mense scolastiche e già interrogato in passato per i rapporti con camorristi.
Vent’anni fa le indagini di Mani Pulite svelarono un sistema corruzione generalizzata. L’entusiasmo della cittadinanza, che sperava di vedere scomparire la rete delle mazzette, nel corso del tempo si è trasformato in delusione o peggio sfiducia. Da un lato si è fatto credere che i processi e le condanne avevano annientato il male; dall’altro ci si è mossi rimarcando soprattutto gli inevitabili errori che pure c’erano stati. Tangentopoli è divenuta, per qualcuno, il simbolo del terrore giacobino e giustizialista. Le indagini, al di là di ogni valutazione di merito, avrebbero comunque dovuto imporre ad una democrazia matura di introdurre gli anticorpi per il futuro. Invece tutto l’apparato dei controlli è stato smantellato o reso inefficace.
Partiamo dal basso, ossia da ciò che è avvenuto negli enti locali. C’è un dato innegabile: gli organi di controllo rappresentati dai Coreco, lottizzati politicamente e senza garanzie di indipendenza, avevano dato pessima prova e si è ritenuto, in modo incomprensibile, di abrogare integralmente il sistema dei controlli piuttosto che di individuarne altri che sterilizzassero gli inconvenienti.
Inoltre, sempre in nome dell’efficienza, si è aggirato quel meccanismo certamente farraginoso che è la normativa sugli appalti, creando le famigerate società miste pubblico-private con consigli di amministrazioni debordanti di uomini nominati dalla politica che, sganciati spesso da ogni forma di sorveglianza, hanno gestito le risorse pubbliche in modo tutt’altro che trasparente.
Negli appalti si è verificata una vera e propria rivoluzione copernicana con effetti paradossali. Mutuando ciò che avviene per le aziende private, i controlli in molte occasioni - come nelle Soa, ossia le società organismi di attestazione - sono stati affidati ad entità non pubbliche, con un criterio che è il contrario dell’indipendenza e dell’efficienza: i controllori scelti e pagati dai controllati!
Sul piano giudiziario si sono rese più complicate le attività investigative sui reati contro la pubblica amministrazione. Gli interventi sull’abuso d’ufficio e sui reati fiscali, fino alla depenalizzazione di molti aspetti del falso in bilancio, hanno limitato o escluso l’intervento dei magistrati. E si è anche ridotto il termine di prescrizione per la corruzione: una scelta che ha vanificato indagini sulle tangenti anche di grande importanza, finite nel nulla nonostante fossero provati vasti giri di mazzette. Invece gli strumenti di controllo preventivo, alternativi a quelli giudiziari e tanto pubblicizzati, non sono mai stati dotati di poteri reali; chi si ricorda, ad esempio, di attività significative svolte dalla cosiddetta Authority contro la corruzione?
Mentre per quasi vent’anni è stato fatto di tutto per annichilire prevenzione e repressione, la corruzione è cambiata.
Le inchieste più recenti, molto a macchia di leopardo, stanno dimostrando come la corruzione tradizionale della mazzetta consegnata al burocrate o al politico sia un ricordo del passato. Come ha più volte evidenziato il giudice Piercamillo Davigo, gli arresti del passato hanno aguzzato l’ingegno e favorito un’evoluzione della specie. Oggi le forme attraverso cui il mercimonio degli uffici avviene vanno da quei sistemi definiti gelatinosi - in cui pubblici funzionari ed imprenditori sono in rapporti intrecciati di affari - fino a tecniche quasi geniali, come l’occultare la tangente dietro una caparra per una vendita di un bene che non si comprerà mai.
Di fronte a questa situazione che mina l’efficienza e la credibilità delle istituzioni, determinando la fine del libero mercato in molti settori dell’economia e un costo per tutti i cittadini, la reazione della classe politica è costellata di soli propositi. È, invece, indispensabile ed urgente mettere in cantiere una riforma complessiva, che contenga un mix di misure che riguardino sia l’aspetto repressivo penale che quello preventivo, anche mutuando i suggerimenti di organismi internazionali cui l’Italia ha aderito, come il Greco (Group d’état contre la corruption). Su 22 “raccomandazioni” trasmesse al governo dal Greco, ne risultano eseguite meno della metà.
Per il controllo giudiziario, andrebbe prevista accanto alla norma sulla corruzione - che richiede di individuare uno specifico atto oggetto del patto criminale - una sul “traffico di influenze” che consentirebbe di punire quei pubblici ufficiali che si mettano a disposizione di privati, dietro corrispettivo, anche a prescindere dal compimento di un’attività: è l’unico deterrente contro il proliferare di comitati d’affari come le varie cricche, le P3 e le P4 emerse nelle ultime inchieste. Bisognerebbe, inoltre, intervenire sui termini di prescrizione, che sono divenuti talmente brevi da rendere inutile ogni indagine: è impossibile arrivare alla conclusione dei tre gradi di giudizio, l’impunita ormai è pressoché certa. Ci vorrebbero poi tutele per chi denuncia: troppo spesso chi si espone rischia oltre all’incriminazione anche di essere escluso di fatto per il futuro dai rapporti con gli enti. Mentre non dovrebbe essere consentito mai a chi è stato condannato per reati gravi di rimanere nella pubblica amministrazione.
Le norme sulla corruzione andrebbero poi estese, con le dovute garanzie, anche ai privati; è un inaccettabile paradosso che se si corrompe un funzionario con 50 euro per ottenere più velocemente un certificato si è puniti ed invece non è sanzionata la tangente ad un manager per ottenere appalti milionari da parte di una multinazionale.
Ma occorre un impegno anche sul piano della prevenzione. Creare sistemi di controllo sulla spesa degli enti locali, affidati a organi che diano garanzie di indipendenza, senza che divengano intralci burocratici. La pubblica amministrazione non è tutta nella mani di fannulloni e corrotti: ci sono persone oneste ed efficienti, energie positive che vanno valorizzate. Molti segretari comunali – prima che il loro ruolo venisse riformato - sono stati la migliore sentinella del malaffare. In questo campo si dovrebbe copiare le aziende, che introducono nei contratti clausole per impedire che i propri manager vadano subito a lavorare per la concorrenza: va limitato il passaggio da alti incarichi dirigenziali pubblici al privato. Ultimo punto, redditi e proprietà dei dipendenti pubblici e dei loro familiari, entro un certo grado, dovrebbero confluire in una sorta di anagrafe tributaria che consenta di monitorare arricchimenti troppo rapidi.
Sul conflitto di interessi andrebbe prevista una disciplina efficace, che prescinda dalle polemiche spesso strumentali che hanno riguardato il premier: ci sono nel rapporto pubblico-privato tantissime ipotesi di conflitto di interesse che minano l’imparzialità delle istituzioni. Gli enti, soprattutto quelli territoriali, dovrebbero smettere di fare gli imprenditori; quanto sta emergendo sulla vicenda dell’acquisto delle azioni dell’autostrada Serravalle da parte della Provincia di Milano, dimostra i rischi clamorosi di distorsioni.
Per i partiti politici, andrebbe individuato un sistema di finanziamento trasparente: bilanci certificati ed in cui sia chiaro in che modo giungano fondi, senza più zone d’ombra. È anche arrivato il momento di regolare le lobbies, facendo tesoro delle legislazioni degli altri Stati occidentali; se è vero che una moderna economia non può fare a meno di intermediazioni, anche tecniche, nei momenti decisori istituzionali da parte dei portatori di interessi, è altrettanto indispensabile che esse si manifestino in modo limpido e non come è avvenuto fino ad oggi.
Riforme ambiziose? La situazione del paese, con una crisi economica che impone sacrifici per decine di miliardi e il crollo di credibilità delle istituzioni documentato dagli ultimi sondaggi, richiede medicine amare. Di certo, non le norme del disegno di legge voluto dal centrodestra che oggi viene lentamente discusso nella Commissione Giustizia: quelle sono aspirine, che non possono curare un male così esteso.
* magistrato della Corte di Cassazione, ex pm che ha condotto le inchieste sulla camorra casalese
(1 ottobre 2011)
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