domenica 30 ottobre 2011

Se l'opzione generazionale non arriva mai.


30/10/2011

Se l'opzione generazionale
non arriva mai




di IRENE TINAGLI, dalla " Stampa"

Se pensiamo alla velocità con cui il mondo sta cambiando e la confrontiamo con la lentezza con cui pensano e agiscono i nostri politici, ci accorgiamo che qualcosa non torna. E' stridente il contrasto tra il mondo reale, fatto di fenomeni nuovi che ci colgono alla sprovvista, di Paesi emergenti che esplodono strappandoci quote di mercato, e il mondo della nostra politica, fatta di signori attempati che periodicamente si siedono attorno a un tavolo, scambiandosi scartoffie in attesa del prossimo meeting.

Cosi come colpisce il contrasto tra l'immagine di giovani manager, analisti e imprenditori che fanno e disfanno le sorti dei mercati internazionali, e le immagini dei nostri politici vecchi e stanchi che non sanno più capire ciò che gli passa sopra la testa né dare risposte a nulla. Politici appesantiti non solo da acciacchi e ceroni, ma ancora più da decenni di compromessi, irrigiditi dal cinismo più che dall'artrosi. Sono i politici navigati, scaltri, che cercano di minimizzare energie e sforzi per arrivare al prossimo piccolo traguardo.

E così vanno avanti a forza di rinvii, palleggiandosi lettere d'intenti, lanciando proclami che tengano impegnata l'opinione pubblica per tre o quattro giorni, seguiti da smentite che ne occupano altri tre. Così un'altra settimana è andata in chiacchiere. Con sollievo di tutti gli schieramenti politici. Perché tutti ormai hanno alle spalle decenni di onorata carriera da cui hanno imparato che la politica conviene (a loro) farla così. Di fronte a questo avvilente scenario viene da chiedersi se tutto questo sia davvero inevitabile.

Possibile che non esista una chance di ricambio, un’«opzione generazionale» in grado di farci riprendere il passo col mondo? Fino ad oggi l'Italia non sembra aver maturato gli strumenti per una tale opzione. I pochi giovani che riescono a farsi spazio tra i vari Berlusconi, Bersani, Bossi o D'Alema sono stati accuratamente selezionati in modo da neutralizzare ogni possibile cambio sostanziale. E quando capita qualche eccezione, come il caso di Matteo Renzi che ha sfidato i «dinosauri» del Pd, viene isolata e ignorata come una cellula impazzita, un cancro da estirpare. Perché, chiaramente, è troppo giovane (!), deve imparare a «non scalciare», e, soprattutto, deve dimostrare ciò che vale.

E' vero: le persone devono dimostrare sul campo quello che valgono. Ma questo vale per i giovani come per i vecchi. E non è chiaro come mai quelli che sono sulla stessa poltrona da venti o trent’anni, senza essere riusciti a cambiare quasi niente, non possano, per la stessa teoria, farsi da parte. Così come non è chiaro come mai un quarantenne o un trentenne che sia più fresco di studi, che abbia vissuto in prima persona cosa significhi studiare o cercare lavoro nel mondo di oggi, debba essere più inadeguato di un politico che, nella migliore delle ipotesi, ha preso una laurea agli inizi degli anni Settanta, non ha mai dovuto neanche scrivere o inviare un curriculum nella sua vita, e biascica tre parole d’inglese.

Perché quindi abbiamo tanta paura a dare un'opportunità a qualche volto nuovo? Questa diffidenza verso i giovani e il cambiamento è un atteggiamento tipico italiano, e forse delle culture più tradizionali come quelle mediterranee. In Spagna, per esempio, dopo l'esperimento Zapatero si è registrata una nuova chiusura. Carme Chacón, la trentanovenne ministra della Difesa che avrebbe voluto essere il candidato socialista alle prossime elezioni, è stata subito fatta fuori dai baroni di partito, che hanno ripiegato su Rubalcaba, uomo di più consolidata tradizione partitica. I Paesi del Nord Europa, invece, sono più abituati a cambi anche radicali, a dare fiducia a volti e generazioni nuove. E proprio il loro esempio potrebbe farci capire che cambi generazionali anche radicali possono essere un'opportunità e non devono far paura.

E il riferimento non è solo all'Inghilterra che ha eletto il quarantacinquenne David Cameron o che, a suo tempo, elesse il quarantaquattrenne Tony Blair. Anche i Paesi scandinavi offrono ottimi spunti. Jens Stoltenberg, attuale primo ministro norvegese, fu eletto quando aveva 41 anni, dopo essere stato, all'età di 36 anni, ministro dell'Economia e delle Finanze. Il nuovo primo ministro danese, Helle Thorning-Schmidt, ha 44 anni, ed è tra le più anziane della sua squadra di governo. La Thorning-Schmidt, infatti, non ha avuto paure o esitazioni ad affidare il ministero delle Finanze al trentottenne Bjarne Corydon o il ministero degli Interni alla ventottenne Astrid Krag Kristensen. Per dare un'idea di ciò che questo possa significare in termini di cambiamento culturale, basta pensare che quando Susanna Camusso è diventata dirigente della Fiom milanese, la trentaquattrenne ministro del Lavoro danese, Mette Frederiksen, non era ancora nata.

E quando il nostro ministro Sacconi veniva eletto per la prima volta in Parlamento, Mette non andava neppure all'asilo. Certo, non è detto che tutti questi giovani ministri e primi ministri facciano un buon lavoro. E finché non avranno completato il loro mandato non sapremo con certezza dove avranno condotto i loro Paesi. Ma sappiamo con certezza dove i nostri grandi politici tanto esperti e navigati hanno portato il nostro.

sabato 29 ottobre 2011

Avvocati senza cause ...


IL SOGNO E LA REALTA' di SARAH MARTINENGHI
Avvocati senza causa e alternative
quei 30enni da mille euro al mese

I più si iscrivono all'università inseguendo un immaginario fatto anche di benessere, che spesso non coincide con la realtà. Nonostante solo il 35 per cento dei laureati superi il test ogni anno si iscrivono all´albo 400 nuovi professionisti. Tutti a mille euro al mese e senza previdenza. L´Ordine ha istituito una commissione che si prende cura degli under 40, offrendo informazioni e aggiornamento Studio sulla loro condizioneTORINO - Si iscrivono all´università pieni di sogni, con l´idea di avviarsi alla professione di Perry Mason, per difendere gli interessi dei buoni e combattere le ingiustizie del mondo. Un mestiere, l´avvocato, fortemente legato all´idea di un benessere economico e di un affermato ruolo sociale. Ottenuta la laurea, si scontrano invece con una realtà ben diversa: soldi pochi, fatica tanta. Ben oltre i 30 anni sono costretti a vivere con l´aiuto dei genitori.

Ogni anno a Torino circa 400 avvocati si iscrivono all´albo professionale: aggiungono il loro nome e cognome a quello di altri 9000 principi del foro. Ogni anno più di 600 giovani laureati in legge, usciti dall´università, si iscrivono invece nel registro dei praticanti: dopo due anni di gavetta tenteranno di dare l´esame di abilitazione finale per poter esercitare la professione. Solo il 35 per cento di loro supera però quell´esame. Uno sbarramento importante, che tuttavia non è sufficiente ad evitare che la categoria sia in costante esubero, con la drammatica conseguenza di una crisi sempre più forte del settore dell´avvocatura. Meno lavoro per tutti, meno guadagni, grandi difficoltà ad avviare un proprio studio, e una concorrenza spietata che va spesso a discapito della deontologia professionale, è il quadro a tinte fosche che negli ultimi anni sta caratterizzando il panorama forense, e che viene tratteggiato con sempre maggiore preoccupazione sia dall´ordine che dalle associazioni di categoria. In attesa di riforme, come l´inserimento del numero chiuso all´università di legge, in un mondo di "imprenditori di se stessi", la categoria cerca di correre ai ripari.
L´ordine degli avvocati di Torino ha da poco istituito una commissione, quelli dei "giovani avvocati", presieduta dall´avvocato Lauretta Sangiorgio, per offrire aiuti, aggiornamenti e sostegni specifici come informazioni sulle convenzioni e sulle assicurazioni professionali. «In questa categoria inseriamo i colleghi fino a 39 anni di età - spiega l´avvocato Sangiorgio - L´obiettivo è avvicinare l´ordine a tutti, non solo ai più "anziani", e affrontare le problematiche che caratterizzano la giovane avvocatura di oggi, che è cambiata. Per questo abbiamo distribuito un questionario, raccogliendo circa 500 dati (avremo un campione del 25 per cento) che stiamo analizzando con l´aiuto di un esperto di statistiche, per poter avere una fotografia della realtà locale più puntuale, affinché l´ordine possa essere di effettivo supporto e migliorare la qualità del lavoro». Rispetto a un tempo ci sono meno praticanti intesi nel senso "tradizionale" del termine. L´iter università, pratica da un dominus per imparare il mestiere, e avvio del proprio studio, è cambiata. Oggi il "privilegio" di trovare un avvocato di grido disposto ad "assumere" o insegnare, è spesso concesso a pochi, fortunati e spesso "figli di".

«Senza un dominus che ti insegna a mettere su lo studio, ci troviamo di fronte a tanti giovani abbandonati a se stessi: non hanno i soldi per iscriversi alla cassa forense, non conoscono forme di assicurazione e di prevenzione, oppure non se le possono permettere. Si privilegiano dunque altre strade rispetto alla pratica - spiega ancora l´avvocato Sangiorgio - come le scuole forensi». «Lo studio "giusto" dove fare pratica è fondamentale - racconta Federica Franchi, avvocato di 30 anni - i curriculum si inseriscono o nel programma di Almalaurea, oppure si lasciano a uno sportello del Consiglio dell´ordine e si aspetta di essere chiamati». «Da solo non ce la fai, sei allo sbaraglio. La soluzione migliore è unire le forze e aprire uno studio con altri colleghi», racconta invece l´avvocato Luca Carnino, 33 anni che dopo la pratica come penalista nello studio Rossomando ha deciso di mettersi in proprio, tre anni fa: «Io sono di Avigliana, e parlando con altri amici e colleghi della zona, civilisti, abbiamo pensato di creare in Val Susa uno studio, a Chiusa di San Michele, che offra assistenza in qualsiasi ramo, e un altro a Torino: siamo in quattro, tra i 27 e i 35 anni, per ora risparmiamo sulla segreteria perché i costi fissi sono il problema più grosso. Sopperiamo però con le tecnologie: i fascicoli sono tutti scannerizzati per averli sempre a disposizione con un pc, e a differenza degli altri avvocati, visto che abbiamo la vocazione a seguire problematiche aziendali e di grossi enti, siamo noi che andiamo in sede da loro».

«Gestire uno studio significa anche affrontare difficoltà che non ti aspetti - aggiunge - devi acquisire nozioni anche di marketing e di contabilità. Però ti dà il sapore di fare l´avvocato davvero». «Oggi 90 mila avvocati dichiarano redditi sotto ai 15 mila euro in Italia - spiega l´avvocato Massimo Gotta presidente dell´Aiga (associazione italiana giovani avvocati) di Torino - con un guadagno medio che si aggira intorno ai 1000 euro al mese. I giovani avvocati non si iscrivono alla cassa che prevede assistenza e previdenza anche in caso di infortunio o di morte, perché è costosa e obbligatoria solo oltre un certo limite di reddito». Senza soldi i giovani avvocati «non investono in libri e codici, e si crea una situazione di concorrenza dove i clienti si accaparrano per cifre ben al di sotto dei limiti tabellari». «Torino tuttavia è ancora un´isola felice - commenta Gotta - per tutelare i praticanti è stato emanato un regolamento in cui si prevede che non siano più costretti a fare solo fotocopie e commissioni, ma che abbiano a disposizione dei fascicoli, e una qualche remunerazione. Nonostante questo, i giovani cercano di evitare la schiavitù negli studi e scelgono specializzazioni universitarie». Ma la conseguenza si fa sentire: «Questa è una professione che si impara per mimesi, sul modello del dominus: la deontologia, ad esempio, si apprende proprio negli studi».
29 ottobre 2011, da "Repubblica"

Pensioni: perchè è giusto indignarsi.


Pensioni: perchè è giusto indignarsi
di Felice Roberto Pizzuti, da il manifesto, 27 ottobre 2011

Siamo nel bel mezzo di quella che si avvia a diventare la più grave crisi economica del capitalismo e c'è chi mette al primo posto delle cose da fare una nuova riforma pensionistica in Italia. Sembrerebbe che se non si fa quest'intervento, l'Italia non reggerebbe alla «critica» dei mercati, il suo bilancio pubblico andrebbe in default e, per effetto domino, crollerebbe l'euro, l'Unione europea e l'economia mondiale. Boom!

In effetti, la situazione è drammatica, ma come avrebbe detto Flaiano, non è seria. E non lo è anche per i risolini del duo Merkel-Sarkozy che certo non depongono a favore della loro levatura di statisti ma mostrano come si possa sfruttare la reputazione di barzellettiere del nostro presidente del consiglio per distogliere l'attenzione dai problemi dei sistemi bancari francese e tedesco (particolarmente esposti al ben più probabile default greco) e dai vincoli che le prossime scadenze elettorali nei loro paesi stanno esercitando nel fronteggiare la crisi.
Rimane da spiegare l'attenzione spasmodica verso il nostro sistema pensionistico che non più tardi di qualche mese fa veniva presentato come il nostro fiore all'occhiello rispetto ai ritardi e alle difficoltà di riforma incontrati da altri paesi, a cominciare dalla Francia.

La situazione del nostro sistema previdenziale, per ammissione comune, è strutturalmente in equilibrio attuariale. Tuttavia, alcuni sostengono che la fase di transizione al suo funzionamento a regime sarebbe molto lunga, il ché - si lascia intendere - determinerebbe un vulnus finanziario nel sistema e, conseguentemente, per il complessivo bilancio pubblico. I dati mostrano che non solo non è così, ma accade il contrario: il saldo tra le entrate contributive e le prestazioni pensionistiche previdenziali al netto delle ritenute fiscali (cioè quanto esce dalle casse pubbliche e entra nelle tasche dei pensionati) è attivo per un ammontare di 27,6 miliardi, pari all'1,8% del Pil (ultimi dati disponibili riferiti al 2009). Questo avanzo si verifica in misura crescente dal 1998, a riprova che le riforme degli anni Novanta erano state efficaci rispetto al giusto obiettivo di riportare il sistema pubblico in condizioni di sostenibilità finanziaria, ma si è andati oltre. Sono state eliminate iniquità di trattamento e prestazioni giustificate da logiche clientelari e di consenso elettorale, ma le previsioni segnalano anche una forte generalizzata riduzione del grado di copertura pensionistica e la corrispondente maturazione di un grosso problema sociale: prima delle riforme del mercato del lavoro e pensionistiche avviate negli anni Novanta, un lavoratore dipendente poteva normalmente accumulare 40 anni di contributi e ritirarsi anche prima dei 60 anni con una pensione pari a circa l'80% dell'ultima retribuzione; nel 2035, un lavoratore parasubordinato che con difficoltà sarà riuscito ad accumulare 35 annualità contributive, ritirandosi a 65 anni, maturerà un tasso di sostituzione pari a circa la metà.

Se si omogeneizzano i dati della nostra spesa pensionistica - relativamente gonfiata nelle statistiche Eurostat dall'indebita inclusione dei trattamenti di fine rapporto (che sono salario differito, semmai ammortizzatori sociali, non pensioni) e dalla valutazione al lordo delle ritenute fiscali (da noi mediamente più elevate) la sua incidenza sul Pil è inferiore o in linea rispetto a quelle di Francia e Germania.
Altro punto di critica scarsamente fondato al nostro sistema pensionistico è la bassa età di pensionamento. Allo stato attuale, l'età di vecchiaia degli uomini e delle donne del settore pubblico (a partire dal prossimo gennaio) è ufficialmente di 65 anni, ma con il ritardo di 12 mesi della «finestra» (18 per gli autonomi) è di fatto 66 - cioè superiore a quello tedesco (65) e francese (62) - e dal 2013 aumenterà automaticamente in connessione all'aumento della vita media attesa, raggiungendo i 67 anni nel 2021 e i 70 nel 2047; per le donne del settore privato è già previsto un rapido aumento dai 61 anni effettivi attuali ai 65 nel 2021 e poi si uniformeranno ai maschi.

Si dice tuttavia che la nostra anomalia sarebbe la pensione d'anzianità. Ebbene, l'età effettiva di pensionamento degli uomini in Italia è di 61,1 anni, cioè poco meno che in Germania (61,8) e più che in Francia (59,1); per le donne il nostro dato (58,7) è inferiore sia a quello tedesco (60,5) che a quello francese (59,7),ma ciò rispecchia la congenita minore partecipazione al mercato del lavoro delle donne italiane e il loro ruolo di supplenza alle carenze assistenziali del nostro sistema di welfare. Comunque, la parificazione della loro età di pensionamento a quella maschile da poco decisa eliminerà rapidamente il divario e probabilmente lo invertirà.
A fini comparativi si deve anche tener presente che dal 1992 le nostre prestazioni pensionistiche non sono più agganciate agli incrementi salariali e sono indicizzate ai prezzi solo in misura parziale. Ce ne siamo accorti poco perché nel frattempo i salari italiani non sono cresciuti e l'inflazione è bassa, ma in Germania - dove secondo alcuni commentatori nostrani i pensionati invidierebbero quelli italiani - le prestazioni pensionistiche non hanno mai smesso di essere indicizzate sia agli incrementi reali dei salari che all'inflazione.

L'Unione europea (da non confondere con la Bce) non ci chiede nuove riforme pensionistiche, ma misure che - pur nel rispetto dei vincoli di bilancio - rilancino la crescita la cui necessità dovrebbe esserci chiara autonomamente. La crisi globale non è puramente finanziaria, ma ha radici strutturali connesse alla crescente difficoltà alimentata dal modello neoliberista di equilibrare una capacità produttiva in forte espansione con una pari dinamica della domanda alimentata da redditi da lavoro adeguati e stabili e da una spesa pubblica capace di favorire contemporaneamente le condizioni produttive e quelle sociali. Nel bel mezzo di un'imponete crisi recessiva - che sconta gli effetti cumulati del forte peggioramento distributivo e dell'accentuata instabilità determinata dall'autonomizzazione dei mercati, dalla finanziarizzazione dell'economia e dal contenimento delle politiche sociali - pensare di rilanciare la crescita mettendo al centro degli interventi una nuova riforma pensionistica è paradossale appunto:(drammatico, ma non serio); e considerando che l'età di pensionamento è già stata «indicizzata» attuarialmente agli aumenti della vita media attesa, imporre un ulteriore slittamento al ritiro dal lavoro (come molti auspicano), proprio in questa fase caratterizzata da una disoccupazione giovanile di circa il 30%, protrarrebbe ulteriormente l'entrata dei giovani nel mondo del lavoro, determinando un ulteriore invecchiamento degli occupati e del loro costo medio per le imprese; inoltre ridurrebbe la domanda complessiva delle famiglie e accentuerebbe i motivi della nostra demografia asfittica, ostacolando ulteriormente i processi di innovazione produttiva e di rinnovamento sociale indispensabili a frenare e invertire il declino specifico lungo il quale ci siamo avviati nell'ultimo ventennio.

Ma allora perché, anche in ambiti progressisti incontra favore l'idea di nuovi interventi sulle pensioni? Il punto è che i maggiori ostacoli a superare questa crisi epocale risiedono non solo nelle difficoltà frapposte dagli interessi economici, politici e culturali collegati al modello produttivo affermatosi nel passato trentennio e adesso entrato in crisi; le ragioni vanno individuate anche nei limiti delle forze progressiste nel saper rinnovare il modello economico-sociale, la mentalità prevalente nell'opinione pubblica e gli equilibri politici. A questo riguardo, un segnale positivo viene dalla «indignazione» che sta scuotendo il mondo. Quando gli indignati (di ogni età e in particolare i giovani) gridano che «la vostra crisi noi non la paghiamo», non solo manifestano una sacrosanta istanza etica e politica, ma indicano anche un presupposto economicamente qualificante e la direzione per superare la crisi in modo efficace. Ma se questo è vero, a maggior ragione non è accettabile che le giuste motivazioni dell'indignazione siano confuse e contraddette da azioni squadristiche di piazza o da analisi tanto inconsistenti quanto irresponsabili e controproducenti che, nel loro insieme, ostacolano l'affermazione di un nuovo senso comune progressista. Gli oneri della crisi devono essere accollati a coloro che l'hanno provocata con i comportamenti e con il sostegno a modelli socio-produttivi che hanno determinato la loro ricchezza personale e di ceto a discapito delle condizioni economiche, sociali e civili della grande maggioranza della collettività. Non è un caso che ciò sia avvenuto indebolendo le istituzioni pubbliche regolate da relazioni più democratiche e favorendo il potere dei «mercati», le cui scelte sono prese da pochissime persone e sospinte dalla logica dell'individualismo.

L'indicazione che viene dall'analisi della crisi e dall'indignazione di chi maggiormente ne ha subito prima le cause e adesso gli effetti è che per superare in meglio lo stato di cose presente sia utile e necessario un riequilibrio decisionale a favore delle istituzioni democratiche - da creare e rafforzare in quanto tali anche a livello sovranazionale, a cominciare dall'Europa. Naturalmente, il rafforzamento delle istituzioni della collettività anche in campo economico e nel loro ruolo d'interazione con i mercati non può certo essere effettuato riducendone la credibilità finanziaria; ad esempio, dovrebbe essere evidente che il default del debito sovrano, a parte altre drammatiche conseguenze, stroncherebbe la reputazione finanziaria, economica, sociale e politica dello stato e di chi da esso è rappresentato; e poi non ci si potrebbe nemmeno lamentare dei risolini altrui. Ma per approfondire le conseguenze devastanti di un default statale, specialmente per chi maggiormente sta soffrendo per le cause e per gli effetti della crisi, occorrerà un altro articolo.

(27 ottobre 2011)

Sinistra in movimento: intervista a Miguel Gotor, docente di storia moderna all'Università degli Studi di Torino


l centrosinistra ha una responsabilità storica: far uscire l'Italia dall'era Berlusconi senza svolte a destra. Come? Con un patto repubblicano e un risveglio civile che rompano la contrapposizione tra partiti e società 
di Davide Orecchio,da  rassegna.it


Mica facile mettersi alle spalle Berlusconi. Abbandonare l'epoca di B. e uscirne "a sinistra": manovra per niente scontata. Il tramonto di un personaggio, ma forse non del costume col quale ha vestito l'Italia (il cosiddetto "berlusconismo") è pieno di insidie e imprevisti. C'è chi pensa che per riuscirci si debba attraversare un ossimoro politico: imboccare una "porta stretta" cercando di farci passare attraverso l'alleanza più larga possibile. Tenere insieme i terzisti Fini e Casini con l'Idv di Di Pietro e SeL di Nichi Vendola. Lo pensa ad esempio Miguel Gotor, docente di storia moderna all'Università degli Studi di Torino, autore di monografie su Aldo Moro ed editorialista di Repubblica. Gotor assegna questo compito "costituente" a un centrosinistra al cui timone, e al cui centro, colloca saldamente il Partito democratico, entro una contesa che per lo studioso sarà ancora nel solco prevalente del bipolarismo. Un Pd, quello auspicato da Gotor, privo di velleità "frontiste" e aperto al dialogo coi moderati (non solo i partiti, ma la società, le imprese, ecc.). Un partito, infine, che lo storico considera rafforzato dal recente voto amministrativo e dai referendum. È questo il quadro?

Gotor Il quadro è questo e dobbiamo collocarlo nel lungo periodo. Il Partito democratico ha una responsabilità diciamo pure "storica", se non abbiamo timore a utilizzare termini importanti, e cioè quella non solo di battere Berlusconi ma di costruire intorno a sé un nuovo principio di equilibrio del sistema politico, entro il quale il Pd stesso debba essere il fulcro in quanto partito "temporaneamente" all’opposizione che si candida al governo. Non solo vincere, quindi, ma costruire una governabilità credibile.

Il Mese Con una coalizione così estesa? Governare insieme a Casini, Di Pietro e Vendola?

Gotor È quella la porta stretta. Del resto l'alternativa a Berlusconi non la si può costruire in base alla logica dell'autosufficienza mostrata nelle elezioni del 2008. La cosiddetta vocazione maggioritaria ha portato il Pd a gonfiarsi dal punto di vista della quantità dei voti ma non della qualità della sua azione politica. Era una scelta che nasceva dal fallimento dell’Unione. Ma ora non potrebbe funzionare. E non funziona neppure una logica frontista dove si proceda ribaltando l’avversario, cioè dividendo la contesa in due sole fazioni: il berlusconismo e l'antiberlusconismo. La linea politica che sta adottando il Pd da due anni a questa parte sta dando dei frutti, nonostante lo scetticismo che accompagna la sua azione. Ma c’è ancora molto da fare per costruire un’alleanza il più possibile larga e stabile che coinvolga in un patto repubblicano, costituzionale, tutte le forze disponibili. È un passaggio molto difficile e carico di instabilità: il passaggio che porterà l’Italia oltre e fuori da Berlusconi.

Il Mese Insomma la santa alleanza?

Gotor Non amo questa formula. Non si pensi a un qualcosa di politicistico, ad accordi di vertice. Nemmeno io li vedo tutti insieme. Credo che nel prossimo passaggio elettorale il Terzo polo correrà autonomamente. Però il Pd, seppure questo avvenisse, dovrebbe continuare a svolgere una interlocuzione, essere presente nel campo dell’elettorato moderato, che non è un campo di sigle o di leader, ma è occupato da forze, associazioni, gruppi imprenditoriali ai quali il Pd deve restare aperto. È proprio questo ciò che non si vuole. Il sogno dei poteri forti italiani è quello di portare il Pd a sinistra, isolarlo nell’alleanza stretta con Di Pietro e Vendola e aprirsi uno spazio elettorale al centro. Questo dev’essere evitato.

Il Mese Le ultime amministrative, con i casi di Napoli, Milano, Cagliari, qualche interrogativo lo pongono. Il patto di fiducia tra il Pd e l'elettorato di centrosinistra non è proprio solidissimo. Una fiducia intermittente non potrebbe essere compromessa da un eccesso di dialogo col centro? Come lo spieghi agli elettori che dovrebbero essere il tuo zoccolo duro, e che chiedono un'azione più radicale sui temi che riguardano le loro vite?

Gotor Lo spieghi con l’azione di un partito strutturato nel territorio nazionale, una felice anomalia del Pd. Alla fine di questa fase politica lunga e difficile il Pd si ritrova ad essere l’unico partito non personale, che ha un'ambizione e un raggio d’azione nazionali. L’elettorato italiano se ne rende conto. Perché non è fatto solo dai mobilitati, dai consapevoli, dai ceti medi riflessivi che costituiscono opinione pubblica. L’elettorato italiano sono decine di milioni di persone e di voti che si conquistano nella misura in cui il Pd è in grado di esercitare una funzione egemone. E la esercita se l’elettorato comprende che il Pd stesso può essere il perno di una rinascita italiana. La vocazione maggioritaria non è in contraddizione con le alleanze larghe. Il tutto per un’alternativa il più possibile condivisa che consenta a questo paese di rimettersi in marcia.

Il Mese Berlusconi permettendo…

Gotor Ma la parabola declinante di Berlusconi è evidente a tutti, solo che il Cavaliere sta trascinando il paese in un pozzo senza fondo. Per questo bisogna opporgli un’alleanza repubblicana, costituzionale e un risveglio civile che rompa la contrapposizione partiti-società civile e allarghi il quadro delle alleanze in base a un principio di coesione nazionale. Mettiamoci insieme e ricostruiamo l’Italia. Poi avremo tempo per dividerci, ma se non lo facciamo rischiamo che l'uscita di scena di Berlusconi si risolva con una soluzione a destra. Inoltre ho la sensazione che questa situazione di stallo durerà a lungo. Perché un Berlusconi debole conviene a tanti. Non siamo solo "noi" e "loro". Ci sono tante forze, istituzionali, paraistituzionali, economiche, imprenditoriali, alle quali lo sfizio di un Cavaliere umiliato ma in sella, e ricattabile, appare come un’occasione impagabile. Tra l'altro, siamo sicuri che all'estero non preferiscano la caricatura berlusconiana del nostro paese a un'Italia degna del suo ruolo e della sua forza?

Il Mese Torniamo al centrosinistra. Una scelta non leaderistica può aiutare a cementarlo?

Gotor Assolutamente sì. L’altro caposaldo di quest’azione è il rapporto con la società civile. In questo senso Bersani, non tatticamente ma per scelta e vocazione, ha interpretato il suo ruolo in una forma rispettosa, che simbolicamente ha assunto l’immagine di lui che il giorno in cui Pisapia concludeva la campagna elettorale era sotto al palco, non sul palco, perché sceglieva politicamente con saggezza una posizione di ascolto e di rapporto col candidato milanese. È un rapporto con la società civile che non si deve impostare sui due binari del ventennio trascorso: o quello della contrapposizione, o quello dell’autosufficienza, sia dei partiti, sia della società civile. Se facciamo un bilancio, questa stagione ha coinciso col periodo qualitativamente più povero della democrazia italiana. I partiti da soli o contro la società civile non ce la fanno a riformarsi, ma la società civile da sola o contro i partiti ha delle espressioni che poi non riescono a trasformarsi in un consenso stabile. Una delle novità del Pd è questo tentativo di aprire un dialogo: due gambe che camminano insieme per superare nella stessa direzione Berlusconi. Finora questo non è avvenuto anche perché ci sono piccoli o grandi interessi editoriali che sulla cultura della contrapposizione tra partiti e società civile hanno costruito fortune culturali ed economiche.


 Il Mese A chi si riferisce?

Gotor A case editrici come Chiarelettere, a esperienze giornalistiche originali come quelle del «Fatto». Tutte esperienze culturali apprezzabili per la loro energia. Però sono attaccate al berlusconismo nella misura in cui sono antiberlusconiane. Sono fondate sull’etica e sul principio della contrapposizione, ma rispondono a interessi che hanno un orizzonte minoritario. Prima o poi si dovranno porre il problema di come fare buon giornalismo e buona editoria a prescindere dalla caduta del sovrano.

Il Mese Va bene. L'antipolitica non basta. Anche se viene da sinistra. Partiti e società civile (l'associazionismo, le organizzazioni) devono tornare a parlarsi. La vittoria di Pisapia a Milano ne è stato un buon esempio. I partiti però, in questi anni, non solo hanno conservato chiusure e forme di controllo e potere, ma si sono anche disgregati in clientelismi territoriali. Sono insomma nello stesso tempo molto chiusi e fin troppo aperti agli interessi esterni. Ed è un problema che riguarda anche il Pd. Come si fa ad assegnare al Pd il timone del risveglio civile?

Gotor Rispondo con una domanda: cosa accomuna un partito a una associazione? La volontarietà. Un partito è una macchina che si regge su una cosa che si chiama volontariato, che ha una sua gratuità di impegno. Il Pd si sta ponendo la sfida di rinnovare le sue forme dello stare insieme come partito e di aprirsi all’esterno il più possibile. È un percorso non semplice e ha delle resistenze, ma è un prerequisito. La società civile, venendo al nodo del rapporto con le clientele, non è una formula magica positiva. Purtroppo la società civile italiana conosce anche sacche profonde di comportamenti corporativi, particolaristici e persino criminali. Non credo che ci sia una società civile capace da sola di riformare i partiti. I partiti il male, la società il bene? Mi sembra una lettura parziale. Bisogna piuttosto distinguere, discernere criticamente il positivo nella società civile e nei partiti e cucire insieme le cose positive. Ma facciamo in modo che cattivi partiti e cattive società civili lascino il campo. Dietro l’ideologia della casta c’è un pensiero nocivo: "Rubano tutti, rubano in quanto partiti e politica". La conseguenza è: se tutti rubano, nessuno ruba. Giocando su questa svalutazione della politica Berlusconi è entrato come nel burro nel '94, quando "scese in campo". Andate a rivedere i dibattiti del '94 su YouTube. Andate a vedere il servizio di un giovanissimo Pionati che presenta la nuova Forza Italia al popolo degli spettatori del TG1. Da questi materiali si capisce che Berlusconi ha ottenuto il consenso degli italiani proprio partendo dalla svalutazione della politica - l'imprenditore contro i "ladri" - e tutta la sua parabola si è costruita su questo. La stessa uscita di scena di Berlusconi si gioca sulla riduzione ai minimi termini del Parlamento, sullo sfregio massimo alla politica simboleggiato da questa legge elettorale che non ha garantito neppure la stabilità e ha annullato una dialettica tra maggioranza parlamentare ed esecutivo che c’è sempre stata, anche nei peggiori momenti della vita democratica italiana.



Il Mese Berlusconi sostituì la politica tradizionale sfruttandone la fragilità, dopo Tangentopoli. Cosa le ha insegnato occuparsi di un'altra fase di estrema fragilità della politica italiana, gli anni che culminarono nel rapimento e nell'omicidio di Aldo Moro?

Gotor Condurre questi studi porta inevitabilmente a riflettere sulla macchina del potere italiano e sul suo funzionamento. Uno degli assi portanti del libro sul Memoriale Moro è la dicotomia tra potere e politica. A ben guardare in una democrazia la politica rappresenta la parte più debole del potere, quella visibile che deve comunque esporsi periodicamente alle regole del consenso e del voto. In Italia abbiamo la tendenza ad avere una politica debole e dei poteri forti che pretendono di condizionarla. A me interessa comprendere per quali ragioni nel nostro Paese la politica è perennemente sotto scacco: fragile e, al tempo stesso, ipertrofica finisce per occupare dei terreni che non riesce però a conquistare. Certo, ci sono anche responsabilità della politica nel determinare questa situazione, ma ho l'impressione che questa sia una risposta semplicistica e tautologica. Sta di fatto che in questa condizione di debolezza s'innesta e si alimenta il dualismo tra partiti e società civile, la dialettica tra politica e antipolitica. Una politica autorevole saprebbe recepire e interpretare le istanze della società civile e magari assorbirne la conflittualità. In Italia ciò non avviene anche perché la macchina del potere sviluppa un rapporto autonomo e diretto, frammentato e molecolare con la società civile: le cricche, le consorterie sono anch’esse espressione di una società che si autorganizza senza mediazioni. E quando dico potere, intendo i militari, i servizi segreti, gli imprenditori, il clero, la massoneria, le corporazioni, gli apparati bucrocratici, i sindacati, il giornalismo. Una caratteristica di lungo periodo sulla quale il potere italiano ha puntato le sue carte è stata la supplenza: della magistratura, dei tecnocrati, della Banca d’Italia. Ci sono settori che auspicano la debolezza della politica e la risolvono o nella contrapposizione politica/antipolitica o nella supplenza. Ma questa non mi sembra più un’opzione sufficiente a risolvere l'equazione italiana e far uscire il paese dalla crisi, anzi è la ragione principale che ci ha portato sin qui. E non possiamo uscire dal berlusconismo con un Berlusconi in piccolo, né con nuove supplenze, recitando vecchi copioni.

Il Mese E quando se ne sarà andato, la potremo chiamare Italia berlusconiana? Lo spessore dell'uomo, il corpo di leggi e normative promulgato nei suoi anni, il modello sociale scelto consentiranno agli storici di assegnare il nome di Berlusconi a quest'epoca che si chiude, così come accadde per l'Italia crispina o giolittiana?

Gotor Quando gli storici racconteranno questo ventennio non ho dubbi che verrà utilizzata la formula dell’Italia berlusconiana. Perché se è vero che c’è stata l’alternanza, importante elemento di novità nella storia unitaria, l’egemonia è stata però certamente di Berlusconi e della sua capacità di costruire un referendum permanente sulla sua persona. C’è però un dato clamoroso: Berlusconi negli anni 90 ha governato 6 mesi: dall'aprile al dicembre del 1994. Nel decennio 2001-2011, invece, ha governato otto anni su dieci. Quando parleremo di età berlusconiana dovremo tenere bene a mente questo dato: nel primo decennio Berlusconi ha governato troppo poco rispetto alla qualità (non solo alla quantità) dei voti che ebbe e allo stato di salute della sua proposta politica. È come un vaccino che non si è espresso. E invece ha governato troppo nel periodo calante della sua azione politica, nella fase della stanchezza e della difficoltà. E adesso ci ritroviamo, anche grazie alla legge elettorale, con l'asse Pdl-Lega che tiene in mano il paese pur essendo minoranza, visto che non va oltre il 37-38 per cento.

Il Mese C'è un aspetto che segna il volto torbido dell'Italia berlusconiana: dalla P2 alle trame di Bisignani. Una sorta di doppio Stato analogo a quello emerso dalle sue monografie su Moro?

Gotor Non sono un sostenitore della formula del doppio Stato. Per quanto riguarda il periodo che ho studiato preferisco il concetto di doppia lealtà, del quale siamo sempre debitori a Franco De Felice. Ossia una tensione tra campi di fiducia e di fedeltà nazionali e internazionali che metteva in discussione tante appartenenze. Non vedo un doppio Stato nella cosiddetta P4: vedo un'attitudine alla cricca e ai legami privatistici che non riesce a farsi Stato e punta sulla trama condizionante dei rapporti personali e sull'arma del ricatto. In Italia abbiamo difficoltà a fare uno Stato, figuriamoci se riusciamo a farne due. Credo invece che valga ancora la riflessione di Gramsci sul fascismo: c’è una disponibilità al sovversivismo delle classi dirigenti italiane. Gramsci descrive una correlazione tra il sovversivismo dall’alto e il sovversivismo popolare. E questa correlazione è il sintomo di una difficoltà cronica dell’Italia a farsi Stato e ad affermare la sovranità della legge. È sintomatico che sia stato il conflitto d’interessi a caratterizzare l’egemonia di Berlusconi.

Il Mese Bersani, Fini, Casini, Montezemolo, lo stesso Vendola. Dai 50 in su. Vogliamo parlare della questione generazionale? Chi ha 30-40 anni è maturo per governare questo paese o dobbiamo lasciarlo in mano ai "vecchietti" ancora per un po'?

Gotor La gerontocrazia è un problema, ma io ho una visione abbastanza agonistica, non credo alla cooptazione. Non ci si può illudere che basta aspettare e un giorno i vecchi ti cederanno lo spazio e lo scettro del comando. Bisogna prendersi quello spazio se si hanno forze ed energie. Significa sviluppare una qualche forma di conflittualità. L’attuale classe dirigente italiana è emersa alla metà degli anni 80 lottando contro dirigenti più vecchi. Fini, Casini, Veltroni, D’Alema avevano poco più di trent'anni all'epoca. Questa in fondo è una lezione. Un giovane non si afferma in nome del rinnovamento generazionale. Si afferma se ha buone idee.

venerdì 28 ottobre 2011

Aria nuova


Acli: la gente vuole aria nuova
Se si votasse domani, 49 cattolici praticanti su cento diserterebbero le urne. Ma non vogliono un partito cattolico: chiedono un impegno concreto a servizio del bene comune.
27/10/2011
di Andrea Olivero, da "Famiglia Cristiana"

Se si votasse domani, il 49% dei cattolici praticanti diserterebbe le urne, a fronte del 37% dei non credenti. Sale l’astensione e crolla la fiducia non solo nei partiti politici, che dal 2008 a oggi passa dal 30% al 14%, ma anche nei confronti delle istituzioni di Camera e Senato (rispettivamente 22% e 25% contro il 49% e il 51% del 2008). Sono alcuni dei dati raccolti dall’Istituto Ipsos per la Fondazione Achille Grandi per il Bene Comune, nata dalle Acli, dai quali si evince la drammaticità del momento e l’urgenza di una proposta credibile di cambiamento. “Purificare l’aria”, disse il cardinale Bagnasco in occasione dell’ultimo consiglio permanente della Cei. E l’80% dei credenti si dice d’accordo con il presidente della Conferenza episcopale.

Ma la crescita spaventosa della sfiducia tra i cattolici nei confronti della politica e delle istituzioni deve farci molto riflettere. È il fallimento evidente di un modello politico e il risultato di una legge elettorale che disincentiva la partecipazione degli elettori. La sfiducia generalizzata allontana i cattolici da tutte le forze politiche, ma anche dallo spirito di partecipazione alla democrazia. È una sfida che interpella non solo i partiti ma anche le organizzazioni sociali, in particolare quelle di ispirazione cristiana come le Acli.

I credenti – ci dice ancora la ricerca – mostrano interesse per un movimento sociale organizzato dei cattolici, ma non chiedono un partito cattolico. Non interessa un impegno di parte, magari a difesa della “cittadella fortificata” dei nostri valori, ma un impegno concreto a servizio del bene comune. L'esperienza di Todi darà dunque i suoi frutti se riusciremo a essere credenti credibili per il nostro mondo, ma se sapremo anche parlare a tutti i cittadini attraverso iniziative e proposte precise. Pane e speranza: lavoro per i giovani, welfare rinnovato, famiglie sostenute e protagoniste.

Il sindaco di Nova Siri sollecita interventi per la messa in sicurezza del torrente ‘Toccacielo’

Il sindaco di Nova Siri sollecita interventi per la messa in sicurezza del torrente ‘Toccacielo’

Licenziamenti: regole e nuove norme

Licenziamenti: regole e nuove norme

Il lavoro è garantito dalla Costituzione, ma le leggi ne hanno cambiato l'idea fondativa

La formula «licenziamenti facili» con cui il Governo si è presentato a Bruxelles per promettere riforme e cambiamento per l’Italia è quanto meno difficile da far digerire ai lavoratori italiani. Soprattutto perché la parola «lavoro», in Italia, ha un significato e una genesi particolare.  

Nella Costituzione
Molti sono gli articoli della Costituzione Italiana che, direttamente o indirettamente, sanciscono il diritto dei cittadini al lavoro. Innanzi tutto l'art.1, che statuisce: "L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro" e l'art. 4 che stabilisce: "La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società". Quindi il lavoro è alla base stessa dello sviluppo democratico della nostra società e si configura come diritto e dovere di ogni cittadino. L'art. 35 aggiunge che la Repubblica deve tutelare il lavoro in tutte le sue forme e e le sue applicazioni; l'art. 36 stabilisce che "il lavoratore ha diritto ad una retribuzione (…) ed in ogni caso sufficiente ad  assicurare a sé ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa”.  

La genesi
Pensate all’articolo 1 dove si parla di Italia come Repubblica democratica fondata sul lavoro. Ebbene, intorno a questa formulazione, nel 1946, ci furono vere e proprie contrapposizioni. Prima di arrivare alla forma tuttora vigente, vennero esposte varie proposte. La prima, presentata dal deputato Mario Cevolotto ometteva la formula “…fondata sul lavoro” e venne presentata il 28 novembre 1946. Questa, però, non piacque alla quasi totalità dei membri dell’Assemblea e venne definita algida e carente dei tratti precisi del nascente Stato Italiano.   Fu Aldo Moro a chiedere di inserire un riferimento al lavoro. Palmiro Togliatti presentò una seconda proposta: “L’Italia è una Repubblica democratica di lavoratori”. Ma anche questo emendamento venne bocciato. Ma fu il democristiano Amintore Fanfani a presentare la formula attuale che fu appoggiata dal Partito Comunista Italiano e dal Partito Socialista Italiano.  

Dal 1946 a oggi
Il diritto al lavoro è oggi regolamentato dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, nel quale si afferma che il licenziamento è valido se avviene per giusta causa o giustificato motivo. In assenza di questi presupposti, il giudice dichiara l'illegittimità dell'atto e ordina la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro. In alternativa, il dipendente può accettare un'indennità pari a 15 mensilità dell'ultimo stipendio, o un'indennità crescente con l'anzianità di servizio. Il lavoratore può presentare ricorso d'urgenza e ottenere la sospensione del provvedimento del datore fino alla conclusione del procedimento, della durata media di 3 anni. Nelle aziende che hanno fino a 15 dipendenti, se il giudice dichiara illegittimo il licenziamento, il datore può scegliere se riassumere il dipendente o pagargli un risarcimento. Può quindi rifiutare l'ordine di riassunzione conseguente alla nullità del licenziamento. La differenza fra riassunzione e reintegrazione è che il dipendente perde l'anzianità di servizio e i diritti acquisiti col precedente contratto (tutela obbligatoria). Le intese sottoscritte a livello aziendale o territoriale possono derogare ai contratti ed alle leggi nazionali sul lavoro, incluso lo Statuto dei lavoratori, ed alle relative norme, comprese quelle sui licenziamenti.  

L’articolo 8
L’attuale governo, prima dei «licenziamenti facili», aveva già provato ad aggirare l’articolo 18. Modificando l’articolo 8 nella manovra di settembre. Il provvedimento che, "fermo restando il rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro", le specifiche intese aziendali e territoriali "operano anche in deroga alle disposizioni di legge" ed alle "relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro". L'emendamento prevede, in aggiunta, che le intese valide saranno non solo quelle "sottoscritte a livello aziendale o territoriale da associazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale", ma che anche le associazioni "territoriali" avranno la possibilità di realizzare specifiche intese "con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati" su temi come "le mansioni del lavoratore, i contratti a termine, l'orario di lavoro, le modalità di assunzione, le conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro".
Le materie escluse - Restano escluse dalla contrattazione aziendale alcune materie e norme generali a tutela di diritti e interessi superiori. Così non si potranno fare accordi locali su temi quali "il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio, il licenziamento della lavoratrice dall'inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione al lavoro, nonché fino ad un anno di età del bambino, il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore ed il licenziamento in caso di adozione o affidamento".  

Licenziamento facile
Secondo il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, «le aziende per assumere devono licenziare». Sarà pure uno dei nuovi assiomi di Diritto del Lavoro, intanto però ecco quello che ha previsto il Governo: entro maggio 2012 l'esecutivo approverà una riforma della legislazione del lavoro:
a)   funzionale alla maggiore propensione ad assumere e alle esigenze di efficienza dell'impresa anche attraverso una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato;
b)   più stringenti condizioni nell'uso dei 'contratti para-subordinati’ dato che tali contratti sono spesso utilizzati per lavoratori formalmente qualificati come indipendenti ma sostanzialmente impiegati in una posizione di lavoro subordinato.
Fonte :"Vivere"

Baby pensioni, grandi spese

Baby pensioni, grandi spese

Riguardano tutte quelle persone che hanno smesso di lavorare con meno di 50 anni

I nomi, a volte, già dicono tutto. Come, ad esempio, quello dedicato alle “baby pensioni”. Ovvero tutti quei dipendenti pubblici che percepiscono una pensione dallo Stato per 20, 30, 40 anni. Dunque, le pensioni saranno anche “baby”, ma la spesa non lo è affatto.   

Cosa sono le “baby pensioni”
Il termine baby pensioni indica quelle godute da lavoratori del settore pubblico che hanno smesso di lavorare a meno di 50 anni di età. Furono introdotte nel 1973 dal governo Rumor e cancellate quasi venti anni dopo, nel 1992.  

Chi ne aveva diritto?
Chi aveva 14 anni 6 mesi e 1 giorno di contributi se si trattava di donne sposata con figli, 20 anni per gli statali, 25 per i dipendenti degli enti locali.  

In quanti ne godono?
Sono 531.752 le pensioni di vecchiaia e di anzianità concesse in questi anni secondo l’ultimo rapporto della Confartigianato. In media i baby pensionati ricevono un assegno di circa 1.500 euro lordi al mese. Cifre di tutto rispetto, se si considera che mediamente incassano la pensione per più di 30 anni avendo versato pochissimi contributi. Incassano minimo tre volte rispetto a quanto hanno versato.  

Quanto ci costano?
Venti anni di baby pensioni costano allo Stato 163,5 miliardi. Una sorta di 'tassa' pari a 6.630 euro a carico di ciascuno dei 24.658.000 lavoratori italiani. Il 78,6% di queste pensioni sono erogate dall'Inpdap, l'ente di previdenza del pubblico impiego, che registra 424.802 pensioni a dipendenti pubblici ritirati dal lavoro ad una età inferiore a 50 anni: di queste il 56,5% sono erogate a donne. Il costo di queste pensioni pubbliche ammonta a 7,43 miliardi. Il rimanente 21,4% è relativo alle 106.950 pensioni erogate dall'Inps a soggetti con età di uscita inferiore a 50 anni in relazione a regimi speciali e prepensionamenti, per una spesa complessiva di 2,02 miliardi.  

Quanti anni in pensione?

Considerata l'età di uscita dal lavoro dei baby pensionati, la loro età attuale e la speranza di vita, i baby pensionati rimangono in pensione, in media per 40,7 anni. Con una durata media della vita stimata a 85,1 anni, si tratta del 48% della vita trascorso in pensione. Le baby pensioni - rileva Confartigianato - hanno un impatto sulle finanze pubbliche tutt'altro che trascurabile. La spesa previdenziale relativa a questi trattamenti previdenziali ammonta a 9,45 miliardi di euro all'anno. Ma, poiché il mezzo milione di pensionati precoci riceve un trattamento pensionistico più lungo di 15,7 anni rispetto ad un pensionato medio, il risultato è che le baby pensioni determinano una maggiore spesa pubblica cumulata per i 15,7 anni di durata della pensione eccedenti alla media che ammonta a 148,6 miliardi di euro. Ciò significa che per ciascun baby pensionato viene erogata una maggiore spesa rispetto ad un pensionato ordinario di 279.582 euro. A questa somma va aggiunta la minore contribuzione pari a 138.582 euro per ciascun baby pensionato del settore privato che complessivamente si traduce in 14,8 miliardi di mancate entrate previdenziali per gli oltre centomila baby pensionati privati.  

Il paradosso mamma-figlia
Facciamo un esempio concreto per capire la disparità creata dalle baby pensioni tra una mamma e una figlia. Una donna nata nel 1946, con figli, poteva andare in pensione con 19 anni sei mesi e un giorno di lavoro. Quindi poteva essere collocata a riposo, avendo lavorato dal 1966, anche nel 1986, prima di raggiungere i quaranta anni. Per sua figlia nata nel 1966 la pensione di anzianità sarà raggiungibile solo con almeno 40 anni di contributi (oltre a un anno di finestra mobile, quindi con 41 anni di servizio) o con 62 anni di età e 35 di contributi (di fatto 63 anni considerata la finestra mobile). Se poi la figlia non è riuscita ad ottenere un lavoro stabile o ha cominciato a lavorare tardi e quindi non ha i contributi per la pensione di anzianità dovrà sperare di arrivare alla pensione di vecchiaia che per chi ha oggi 45 anni sarà solo nel 2033, a 67 anni e tre mesi. Quindi, la figlia avrà lavorato oltre 20 anni in più rispetto alla madre.
Fonte:"Vivere"

giovedì 27 ottobre 2011

Tremonti non firma il libro dei sogni.

Economia
27/10/2011 - CRISI- RETROSCENA

Lettera all'Ue, l'ira di Tremonti:
non potremo mantenere le promesse

Il ministro Tremonti, titolare del dicastero dell'Economia

Il ministro del Tesoro non avalla, un collega: l'ha fatto volutamente

AMEDEO LA MATTINA, dalla "Stampa"
ROMA
Fate voi. Non riusciremo a mantenere tutti questi impegni e poi quello che conta, più che il giudizio di Bruxelles, sarà la reazione dei mercati». Non ci ha messo la sua firma nella lettera che ieri Silvio Berlusconi ha portato al vertice europeo. Il ministro dell’Economia è rimasto ai margini della trattativa. «Volutamente», dice chi ci lavora accanto: se tutto dovesse precipitare Tremonti potrebbe sperare di essere il successore del Cavaliere per un governo di transizione. «Macché spiega un ministro che è stato parte attiva nella stesura della lettera - è fuori gioco. Si è messo alla finestra quando ha capito che non era lui a dirigere le danze. E infatti questa volta non è stato lui a definire la griglia di proposte che ci consente di superare l’esame in Europa».

Tremonti non ha sopportato che il ruolo principale nella stesura della missiva sia stato affidato a Romani e Brunetta, con la supervisione di Gianni Letta. Un problema di metodo e protagonismo, ma non è escluso che ci sia una questione di merito. Ad esempio sulle dismissioni e le privatizzazioni l’inquilino di via XX Settembre non avrebbe le stesse idee dei suoi colleghi; non è disponibile alla vendita di alcuni gioielli dello Stato, anche in parte, come Finmeccanica, Eni ed Enel. Aziende che fanno gola ai privati e che potremmo mettere sul mercato per recuperare le risorse necessarie a finanziare la crescita e lo sviluppo. Soldi che serviranno anche ad abbattere il debito pubblico. Per fare questo il governo affiderà l’elaborazione di un piano ad «una commissione ristretta di personalità di prestigio». Ed è quello che Tremonti ha sempre visto come fumo negli occhi. Comunque si tratta di un versante ancora incerto, un terreno scivoloso tutto da definire nel quale Tremonti non potrà essere escluso.

Rimane il fatto, ripetono alcuni ministri, che il responsabile dell’Economia questo giro non ha toccato palla. Martedì sera, quando si è recato a Palazzo Grazioli (dove è rimasto in tutto mezz’ora), la lettera era già stata scritta e si trattava di una bozza, mentre la versione finale con tutte le scadenze non l’ha mai vista. Ne ha preso atto. Del resto per tutta la gestione della vicenda si sarebbe messo sull’Aventino, irritando pure Umberto Bossi, che però continua a proteggerlo. Un atteggiamento che stupisce il premier: «Umberto è l’unico che ancora lo difende, tutti gli altri lo vorrebbero morto». Nessuno nella maggioranza ha più paura delle sue dimissioni, spiegano i berlusconiani. Tra l’altro, Tremonti non può più ergersi a unico interlocutore in Europa: il Cavaliere si sarebbe ripreso il ruolo che gli spetta, perché la lettera porta la sua firma e non quella del ministro dell’Economia.

Il punto però è come dare gambe alle promesse fatte ieri da Berlusconi a Bruxelles. Come trasformare in provvedimenti il «libro dei sogni» e poi farlo passare nelle aule del Parlamento dove l’odore di elezioni anticipate nel 2012 sta nuovamente mettendo in moto le frange legate a Scajola e Pisanu. Tutti attendono l’esito del vertice europeo, ma gli occhi sono puntati sulla reazione che avranno i mercati sull’Italia. Lo scenario del voto, con l’indiscrezione di un patto tra Bossi e Berlusconi per andare a votare il prossimo marzo, sta facendo fibrillare la maggioranza. Anche in un incontro ristretto che si è tenuto ieri nella sede del Pdl si è ragionato di questa eventualità. Il segretario Alfano ha riunito alcuni ministri e diversi parlamentari a lui vicini, quelli che vengono chiamati i «quarantenni» e che stanno preparando il ricambio generazionale in vista di urne aperte nella prossima primavera. Uno scenario che Alfano considera il più probabile. Nella Lega si parla addirittura di «black list», di maroniani da epurare in caso di voto. Gli estensori di questa lista sarebbero quelli del cerchio magico di Bossi, tra i quali il capogruppo Reguzzoni. Proprio tra lui e due deputati in odore di epurazione (Molteni e Rivolta) è andato in scena un alterco alla buvette di Montecitorio. La tensione è a fior di pelle e ieri alla Camera il governo è andato sotto diverse volte.
 

Camera vietata ai minori, studenti di Scanzano assistono alla lite parlamentare

Camera vietata ai minori, studenti di Scanzano assistono alla lite parlamentare

Pensioni : Commedia all'italiana.

La previdenza

Pensioni, ecco la riforma fantasma
i 67 anni nel 2026 erano già previsti

Nella lettera inviata all'Europa, vincoli anche meno severi di quelli in vigore. In base alla legge, quell'anno uomini e donne lasceranno per vecchiaia solo a 67 anni e 7 mesi. Il vero terreno di riforma chiesto dalla Bce era l'anzianità, dove non cambia nulla .

di ROBERTO PETRINI, da "Repubblica"

ROMA - Un bluff. Un'incomprensione. Nella migliore delle ipotesi un giallo. Oppure come in Alice una "non-riforma". La linea dell'Italia, come espressa dalla lettera di Berlusconi alla Ue, è quella che le pensioni di anzianità e vecchiaia vanno bene così, come sono state modificate dalla manovra d'estate, niente di più.

Nulla si tocca sull'anzianità, in base al "nyet" di Bossi: si andrà a "quota 97" nel 2013 (ovvero 62 anni anagrafici e 35 di versamenti), come regolarmente previsto dalla riforma Prodi-Damiano. Ma l'equivoco più grosso - avvalorato dall'intervento del ministro Gelmini a Ballarò di martedì sera che ha spacciato la cosa per una novità - è sulla vecchiaia.

Non ci sarà infatti alcun innalzamento dell'età per la pensione di vecchiaia perché nel 2026 è già previsto dalla manovra d'estate (legge 111 del 2011) che si vada in pensione a 66 anni e 7 mesi. A questa età, per calcolare il momento effettivo del pensionamento, bisogna aggiungere tuttavia un anno, come previsto dalla recente introduzione della cosiddetta "finestra mobile" che impone a tutti di aspettare dodici mesi prima del ritiro dell'assegno.

A conti fatti dunque nel 2026 si andrà in pensione, come previsto dalla vigente normativa, a 67 anni. Anzi, per la precisione la normativa attuale è già più severa di quella che sembra garantire Berlusconi all'Europa, perché
il traguardo della vecchiaia in base alla manovra d'estate, che peraltro ha accelerato la partenza del processo di due anni (al 2013), potrà essere tagliato solo a 67 anni e 7 mesi.

Infatti, come è evidente da una tabella di fonte Inps che tiene conto delle proiezioni demografiche Istat, dal 2013 l'età di vecchiaia salirà in base alle cosiddette "aspettative medie di vita" di tre mesi ogni tre anni. Grazie a queste riforme in Italia il traguardo dei 65 anni è rimasto in vita solo dal punto di vista "legale", perché "aspettative di vita" e "finestra mobile" fanno sì che già dal prossimo anno si andrà in vecchiaia a 66 anni, nel 2013 a 66 anni e tre mesi, nel 2019 a 66 anni e 11 mesi fino a raggiungere - come accennato - i fatidici 67 anni e 7 mesi nel 2026. Tutto scritto e votato dal Parlamento, perché la prima versione della riforma sulle "aspettative di vita" risale alla legge 122 del 2010. "Si ripercorre il cammino realizzato con le norme vigenti e resta aperto il nodo dell'anzianità", conferma Giuliano Cazzola (Pdl).

Anche per le donne la lettera del governo italiano a Bruxelles promette l'immobilità. Infatti la manovra d'estate ha messo in moto un meccanismo di accelerazione che parte blandamente dal 2014 (con l'aumento di un mese) e via via sale fino al 2026. Anche in questo caso al meccanismo bisogna sommare le "aspettative di vita" e la "finestra mobile": così facendo, come dimostra la tabella Inps-Istat, nel 2026 l'età effettiva di pensionamento delle lavoratrici del settore privato sarà di 67 anni e 7 mesi. La novità dei due calcoli comparati sta nel fatto che donne e uomini nel 2026, quanto a pensione di vecchiaia, raggiungeranno una parità sostanziale: sommate le varie riforme andranno entrambi in pensione effettiva a 67 anni e 7 mesi.

Detto ciò, il nostro sistema, che mantiene l'atipicità europea delle pensioni di anzianità oggetto del pressing della Bce, darà le seguenti opzioni. Chi potrà, perché come molti lavoratori garantiti del Nord ha una storia contributiva forte, sfrutterà l'occasione di andare in pensione dal prossimo anno a "quota 96" (ovvero con 61 anni di età anagrafica e 35 di contributi) o nel 2013, quando il meccanismo di innalzamento si fermerà con 62 anni e 35 di versamenti.

Meglio ancora si troverà chi, avendo lavorato per 40 anni, potrà sfruttare il "semaforo verde" permanente che prescinde dall'età anagrafica. Chi invece ha una storia contributiva frammentata, dovrà tirare la carretta: fino a 67,7 anni nell'anno di grazia 2026.
 

Cronaca di una morte annunciata

 
27/10/2011 - TACCUINO
Dopo l'armistizio europeo
un calvario verso le urne
di MARCELLO SORGI, dalla "Stampa"
Il compromesso di Bruxelles che ha consentito a Berlusconi di evitare la crisi di governo è stato raggiunto a un prezzo alto e ha dimostrato, se ancora ce ne fosse bisogno, che di fronte all’Unione le astuzie non funzionano. Dunque, o l’Italia è in grado di garantire che le riforme elencate nella famosa lettera di intenti - dalle pensioni ai licenziamenti più facili alle liberalizzazioni delle professioni, per fare gli esempi più controversi tra quelli indicati nelle quattordici pagine del testo - saranno realizzate entro tempi brevi e certi, o in caso di inadempienza si troverà quasi automaticamente fuori dal sistema di protezione dell’euro, nel pieno del vortice della crisi. Non a caso si è discusso della possibilità di mettere il testo nel verbale conclusivo del vertice Ue, cioè in pratica di trasformarla in una cambiale che avrebbe reso vincolanti da subito gli impegni presi da Berlusconi ma non ancora dettagliati né trasformati in provvedimenti. E questo malgrado il presidente Napolitano e il governatore e futuro presidente della Bce Draghi si fossero mossi simultaneamente ieri per garantire la serietà delle intenzioni messe per iscritto dal governo italiano e l’impossibilità, in questa fase, di evitare politiche impopolari pur di uscire dalla crisi.

Berlusconi non avrà molte possibilità di godersi il successo della sua missione al ritorno a Roma. A parte il contenzioso aperto con la Lega, e aggravato dalla polemica Fini-Bossi sulla baby-pensione della moglie del Senatùr, che ha infiammato la seduta della Camera, si muovono i sindacati, da sempre sensibili al tema della previdenza e irritati dalle decisioni annunciate dal governo senza consultazione preventiva, mentre le opposizioni continuano a dare battaglia in Parlamento (ieri il governo è andato sotto altre quattro volte).

La via d’uscita a questo calvario, che in tutta evidenza non potrà trascinarsi a lungo, è quella - inconfessabile ma ormai data per scontata nei corridoi di Montecitorio - delle elezioni anticipate. Un mese e mezzo di melina sulle riforme, all’ombra della quale Berlusconi cercherebbe di portare a casa la prescrizione breve e gli altri aggiustamenti procedurali che gli servono per i processi di Milano, e poi la rottura e lo scioglimento. Circola già la data dell’ultima domenica di marzo, come conseguenza di una conclusione anticipata della legislatura a fine anno, per andare a votare con l’attuale legge, rinviando il referendum e tutti i problemi aperti alle prossime Camere e al governo che verrà.

mercoledì 26 ottobre 2011

Diffamazione online : indennizzi facili.


Diffamazione online: indennizzi facili
Chi si sente diffamato su internet può rivolgersi ai giudici dello Stato in cui risiede
La Corte di giustizia UE con una sentenza del 25 ottobre 2011 nelle cause riunite C-509/09 e C-161/10, relative a due noti casi di cronaca, interviene nel settore della competenza giurisdizionale in caso di diffamazione on line con una sentenza che appare contrastare con i recenti orientamenti della corte di Cassazione italiana.  

In particolare la Corte ha affermato che:  
«in caso di asserita violazione dei diritti della personalità per mezzo di contenuti messi in rete su un sito Internet, la persona che si ritiene lesa ha la facoltà di esperire un’azione di risarcimento, per la totalità del danno cagionato, o dinanzi ai giudici dello Stato membro del luogo di stabilimento del soggetto che ha emesso tali contenuti, o dinanzi ai giudici dello Stato membro in cui si trova il proprio centro d’interessi. In luogo di un’azione di risarcimento per la totalità del danno cagionato, tale persona può altresì esperire un’azione dinanzi ai giudici di ogni Stato membro sul cui territorio un’informazione messa in rete sia accessibile oppure lo sia stata. Questi ultimi sono competenti a conoscere del solo danno cagionato sul territorio dello Stato membro del giudice adito».  

In pratica chi si sente diffamato su internet può rivolgersi direttamente ai giudici dello Stato in cui risiede o e domiciliato per chiedere il completo ristoro dei danni subiti in tutto il territorio dell’Ue.  Se invece adirà singolarmente i giudici dei vari Stati membri, ciascuno di essi sarà competente unicamente per i danni cagionati all’interno del suo paese.

La Corte, nell'affrontare la problematica, ha precisato che la pubblicazione di contenuti su internet si distingue dalla diffusione, circoscritta territorialmente, di un testo a stampa: contenuti online possono essere consultati istantaneamente da un numero indefinito di persone, ovunque nel mondo.

Pertanto la diffusione universale, da una parte, può aumentare la gravità delle violazioni dei diritti della personalità e, dall'altra, rende estremamente difficile individuare i luoghi di concretizzazione del danno che può derivare da queste violazioni.

A differenza poi di quanto avviene a mezzo stampa, dove è stata affermata la competenza in linea di massima dello Stato del luogo dove ha sede l'editore, i giudici europei ritengono che l'impatto sui diritti alla personalità (come quello alla reputazione) di un'informazione messa in rete può essere meglio valutato dal giudice del luogo dove la vittima ha il proprio centro di interessi. Località che coincide di regola con quella della residenza abituale della persona fisica o con quello della sede statutaria per le persone giuridiche. Nei confronti di questo giudice è possibile la richiesta di risarcimento integrale.
Fonte : "Vivere"

LA NECESSITÀ DI UNA SVOLTA VERA

Mettere il Paese davanti a tutto

LA NECESSITÀ DI UNA SVOLTA VERA
Mettere il Paese davanti a tutto
Prima il Paese. L'Italia non è la Grecia. È la settima economia al mondo, la seconda industria manifatturiera d'Europa. Ha più patrimonio che debiti. È ricca il doppio della Spagna. È perfettamente solvibile. Fine. Non merita ironie e sarcasmi. Ma il rispetto deve conquistarselo. E poi pretenderlo. Le misure che l'Europa ci chiede sono sempre state necessarie. Ora lo sono anche per gli altri, per la salvezza dell'euro. Le avessimo adottate per tempo, non correremmo il rischio di confezionarle in fretta e male. Da commissariati. Qualcuno dice: no al diktat di Bruxelles. Bene, ma non scordiamoci che: siamo un Paese fondatore dell'Unione europea; che chiediamo ogni anno 200 miliardi in prestito; che viviamo di export e moriremmo di autarchia (è già accaduto). Il resto sono chiacchiere in libertà e perniciose illusioni.
Sarà anche ingiusto, ma oggi siamo percepiti come il lato debole dell'Europa. Perché non siamo più credibili. Abbiamo annunciato per mesi provvedimenti poi smentiti o non attuati. Varato sì una manovra da 59,8 miliardi, di cui 20 però incerti, ma per la crescita, che rende sostenibile il debito, non è stato fatto finora nulla. Alesina e Giavazzi, sul Corriere , hanno proposto misure concrete. Discutiamone. Non basta una lettera d'intenti (Tremonti l'ha firmata?) per dimostrare agli altri, dopo mesi di ondeggiamenti, che facciamo finalmente sul serio. Berlusconi sembra voler sopravvivere a se stesso. Ma se non è in grado di adottare, per l'opposizione della Lega, provvedimenti seri ed equi, non solo sulle pensioni, ne tragga le conseguenze. E in fretta. Vada da Napolitano e rimetta il mandato. Esiste in Europa, piaccia o no (a noi non piace perché vi vediamo anche un pregiudizio anti-italiano) un problema legato alla persona del premier, più che al governo. E la colpa è solo sua. Il Cavaliere, con il quale la storia sarà meno ingenerosa della cronaca, è anche uomo d'azienda. Sa valutare il momento in cui è necessario mettersi da parte per salvare la sua creatura, il partito e le future sorti del centrodestra italiano. Ma prima ancora viene il Paese. Una volta tanto.
E la soluzione quale potrebbe essere? Non è semplice. Più volte, su queste colonne, si è invitato il premier a fare come Zapatero: chiedere le elezioni anticipate e dire che non si ricandiderà. L'avesse fatto, saremmo fuori dal mirino della speculazione. Come la Spagna. Oggi, davanti alla palese dissoluzione di una maggioranza, che vota la fiducia ma non governa, l'esito non potrebbe essere che quello di elezioni ravvicinate, imposte dagli eventi. Un eventuale governo Letta o Schifani, o tecnico (improbabile) di cui si parla in queste ore, si troverebbe comunque nella scomoda necessità di dare una risposta economica credibile ai mercati. E di fare scelte impopolari e costose in termini di consensi. Una proposta utile potrebbe essere quella di considerare il «pacchetto Europa» di un eventuale nuovo esecutivo come un programma bipartisan, aperto al contributo e al voto di tutti. Un'opposizione responsabile, se si trovasse al governo, non potrebbe fare diversamente su molti temi oggi in discussione. E non avrebbe più l'alibi della presenza ingombrante di Berlusconi. Ma a giudicare dalle dichiarazioni di queste ore, sembrano prevalere populismo e opportunismo. Le malattie italiane sono tante, purtroppo.

26 ottobre 2011 07:36
Fonte : il corriere
Domande & Risposte
25/10/2011 - LA NUOVA EMERGENZA

Quanto costano le pensioni?

A CURA DI MARCO SODANO, dalla "Stampa"
TORINO
Il governo vuole alzare a 67 anni l’età pensionabile. Quando sono nate le pensioni in Italia?
Nel 1898, con la fondazione della Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai. L’iscrizione diventò obbligatoria nel 1919, anno in cui l’istituto cambiò nome in Cassa nazionale per le assicurazioni sociali. Nel 1933 la Cnas diventò, infine, l’Istituto nazionale per la previdenza sociale. La pensione sociale è stata invece introdotta nel 1969.

Quanto spendiamo ogni anno?
Nel 2010, ultimo dato annuale disponibile, la spesa per le pensioni ha superato di poco i 190 miliardi di euro, l’11,4% del prodotto interno lordo. La cifra comprende 13 miliardi pagati per le indennità agli invalidi e gli assegni di accompagnamento. L’Inps paga, in media, una pensione ogni tre cittadini. Il 65,6% è costituito da trattamenti di vecchiaia e anzianità; il 9,2% da pensioni di invalidità e inabilità e il 25,2% dalle reversibilità, cioè le pensioni pagate ai coniugi superstiti.

Oggi sono in vigore due sistemi di calcolo diversi. Perché? Come funzionano?

Il primo è quello retributivo: l’importo della pensione è calcolato sulla base (in genere l’80%) dell’ultimo stipendio percepito. Questo sistema si sta progressivamente sostituendo con quello contributivo: la pensione viene pagata sulla base dei contributi effettivamente versati durante la vita lavorativa. In questo secondo caso l’assegno è più basso, perché gli ultimi anni di lavoro sono quelli in cui di solito si riceve lo stipendio più alto. Il cambio si è reso necessario perché il sistema retributivo, per reggere, ha bisogno di una crescita costante della popolazione: sempre più nuovi lavoratori che pagano per chi è a riposo. Ha inciso anche l’allungamento delle prospettive di vita. I pensionati restano sempre più a lungo a carico dello Stato.

Perché si torna sempre a parlare di pensioni?
Davvero si può risparmiare senza affamare gli anziani?

Secondo un calcolo di Elsa Fornero, docente alla Facoltà di Economia dell’Università di Torino, introdurre il metodo contributivo per tutti affiancandolo a una fascia di flessibilità per l’uscita dal lavoro tra i 63 e i 70 anni potrebbe portare un risparmio entro il 2016 tra i 30 e i 40 miliardi. Con il contributivo, infatti, oltre a limare gli assegni che saranno pagati in futuro, si incoraggiano i lavoratori ad andare in pensione più tardi per ottenere una pensione più alta. Le pensioni sono al centro dell’attenzione perché sono una voce di spesa molto alta e perché la situazione è destinata a peggiorare. La popolazione scende, gli anziani che si mettono a riposo sono sempre di più e in futuro i giovani che lavorano (e pagano i contributi) saranno sempre meno.

Eppure le regole sulle pensioni sono state ritoccate più volte, anche di recente.
La crisi del debito pubblico dell’Eurozona ha reso necessari interventi di risparmio sempre più rapidi e più incisivi. Ciò che due anni fa sembrava sufficiente non lo era più l’anno scorso. Quest’anno le condizioni si sono fatte ancora più difficili. Bisogna aggredire i capitoli di spesa più pesanti. Così, per fare un esempio, si parla di accelerare il processo che dovrebbe portare all’equiparazione tra l’età pensionabile di donne e uomini a 65 anni.

E negli altri Paesi come funziona?
La Germania ha avviato una riforma che tra il 2012 e il 2019 porterà l’età della pensione da 65 a 67 anni, come in Spagna e Danimarca. In Francia si salirà da 62 a 65, nel Regno Unito invece si arriverà fino a 68 anni per gli uomini (ma nel 2046), mentre le donne saliranno da 62 a 68.

Perché questo tema scatena tensioni così forti nella politica?
Sul punto i sondaggi sono unanimi: quando si tratta di toccare le pensioni, sette italiani su dieci sono contrari.

Ma le riforme toccheranno gli assegni già in essere? Chi è in pensione cosa rischia?
Tra le ipotesi circolate ieri c’era quella di un prelievo sugli assegni di chi è riuscito a ottenere una baby pensione. In linea generale però le pensioni già erogate non si toccano.

Perché l’Europa ha parlato proprio di pensioni?

Perché all’Unione europea non interessano le misure in grado di far crescere le entrate degli Stati occasionalmente. Condoni e una tantum, Bruxelles l’ha ribadito più volte, non contano: producono introiti difficili da quantificare e - soprattutto - limitati nel tempo. La spesa pensionistica, viceversa, è un valore che si può prevedere con una certa precisione nel suo sviluppo futuro. Oltre ad essere, naturalmente, anche una spesa molto significativa: da sola può fare la differenza.

martedì 25 ottobre 2011

Cibo : il sottovuoto riduce gli sprechi

Cibo: il sottovuoto riduce gli sprechi

Circa il 30% del cibo acquistato, tra cui frutta, verdura, pane e latticini viene buttato

In occasione dell’XI edizione del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione sono stati presentati i risultati dell’indagine su “Gli italiani e l’alimentazione nel tempo della crisi”, realizzata da Coldiretti-Swg. I dati mostrano che circa il 30% del cibo acquistato, soprattutto frutta, verdura, pane, pasta, latticini e affettati finisce nella spazzatura.  

Per FoodSaver, marchio di riferimento nei sistemi di confezionamento sottovuoto, ridurre questi enormi sprechi è possibile proprio grazie a metodi di conservazione degli alimenti più efficaci. Il sottovuoto, infatti, è progettato per eliminare l’aria e prolungare la freschezza del cibo fino a cinque volte di più rispetto ai metodi di conservazione tradizionali e può, quindi, rappresentare la chiave della cucina antispreco.  

Secondo i dati di Coldiretti, il 57% degli italiani ha ridotto lo spreco di cibo per effetto della crisi facendo la spesa in modo più oculato (47%), riducendo le dosi acquistate (31%), utilizzando quello che avanza per il pasto successivo (24%) e guardando con più attenzione alla data di scadenza (18%).  

Il sottovuoto si ottiene tramite un'azione meccanica che permette la rarefazione dell'aria. Quello che accade all'interno di una macchina confezionatrice è un procedimento molto semplice: un'apposita pompa entra in azione estraendo l’aria presente nella confezione che contiene il prodotto. Questo permette di estrarre l'ossigeno, gas vitale per l’uomo, ma anche per microrganismi quali batteri e muffe.

La loro proliferazione, pertanto, è bloccata e sono inibiti i loro metabolismi, quindi le attività fermentative. Proprio per il processo sopra descritto, per rendere efficace e mantenere nel tempo il sottovuoto, il contenitore e la busta devono essere correttamente sigillati.  

Grazie al sottovuoto di FoodSaver anche la data di scadenza non è più un problema: il cibo rimane fresco nel congelatore per mesi, persino anni, senza subire alterazioni da congelamento. Il formaggio rimane fresco in frigorifero per mesi e la frutta e la verdura rimangono fresche per settimane. I cibi secchi e le merendine non diventano stantii e non perdono sapore una volta confezionati sottovuoto e riposti nella dispensa.
Fonte ; "Vivere"

lunedì 24 ottobre 2011

Diventare vegetariani

Alimentazione
24/10/2011 - fare le giuste scelte

Diventare vegetariani: ecco come con i consigli del nutrizionista

Scegliere di seguire una dieta vegetariana può dare adito a numerosi dubbi. Per cercare di fare un po’ di chiarezza, ecco i consigli del nutrizionista
La storia è piena di esempi di illustri personaggi che hanno scelto di alimentarsi più “verde” seguendo una dieta vegetariana. E oggi, di riflesso, sono sempre più le persone che attuano la stessa scelta. Secondo il rapporto Eurispes 2011, infatti gli italiani che seguono una dieta vegetariana sono circa 5 milioni – un numero decisamente significativo.

Se i dati confermano che il fenomeno è in costante aumento, tuttavia anche la confusione spesso accompagna chi opta per questo tipo di dieta, tant’è che a volte non si hanno le idee ben chiare su cosa implichi decidere di alimentarsi, unicamente o quasi, di cibi vegetali. In altri casi, sempre la scarsa informazione, può far tentennare chi vorrebbe prendere una decisione in merito.
Per fare dunque un po’ di chiarezza, con gli esperti di Melarossa si è deciso di porre alcune domande al nutrizionista Luca Piretta della SISA – Società Italiana di Scienze dell’Alimentazione.

Dottor Piretta, nel caso in cui una persona decidesse di diventare vegetariano, il cambiamento di alimentazione deve avvenire a piccoli passi riducendo gradualmente il consumo di carne e pesce oppure in maniera radicale?«Il cambiamento può avvenire anche in modo radicale senza che ci siano ripercussioni immediate – spiega Piretta – Una dieta vegetariana non comporta difetti nutrizionali nel breve termine, in particolare se parliamo di una dieta latto-ovo-vegetariana. I rischi si potrebbero verificare nel lungo termine qualora non si prestasse sufficiente attenzione alle sostituzioni alimentari».

Quali sono gli accorgimenti che deve avere chi è o chi decide di diventare vegetariano?«I principali accorgimenti riguardano l’apporto proteico, vitaminico (in particolare la vitamina B12 presente solo negli alimenti di origine animale) e alcuni minerali come ferro, zinco e selenio.
Pertanto è  importante che chi sceglie di seguire una dieta vegetariana si garantisca una abbondante razione di soia, legumi, funghi e cereali come fonte di proteine. Legumi, prezzemolo, fiori di zucca, radicchio verde, come fonte di ferro. E, infine, [per chi non è vegano] di latte, uova e formaggio come fonte di  vitamina B12, zinco e selenio».

È vero che seguendo una dieta vegetariana si corre il rischio di non assumere nella giusta dose elementi nutritivi fondamentali per il corpo umano?«Si, è vero. Ma il fatto di dire che si corre il rischio non significa che necessariamente debba accadere. È importante essere bene documentati e sapere cosa mangiare. I vegani che non mangiano neanche latte, uova o formaggio corrono ovviamente un rischio maggiore».

In quali alimenti è possibile trovare gli stessi componenti nutritivi che troviamo per esempio nel pesce o nella carne?«Per le proteine, oltre che nelle uova e nei formaggi, i vegetariani le possono trovare nella soia, nei legumi (piselli, fagioli, ceci e lenticchie) e nei funghi. Alcuni oligoelementi come zinco e selenio  sono presenti nel formaggio e nelle uova, mentre per la vitamina B12, i vegani la possono assumere solo attraverso preparati farmaceutici – sottolinea Piretta – Più difficile è sostituire gli omega 3 del pesce. Gli omega 3 si trovano anche abbondantemente nelle noci ma l’apporto calorico è decisamente troppo alto per garantire un corretto apporto di questi nutrienti molto importanti senza rischiare un aumento di peso che sarebbe poco conveniente.
È importante precisare che spesso si commette un errore, quello di compensare i nutrienti della carne e del pesce andando a cercare i corrispondenti componenti alimentari nei prodotti vegetali che li contengono – aggiunge Piretta – In realtà spesso accade che per assumere in uguale quantità le proteine, il ferro e altri minerali presenti nella carne e nel pesce si dovrebbero assumere quantità di vegetali tali da rendere quasi impossibile la loro tollerabilità intestinale. Infine, bisogna sottolineare che nei vegetali la presenza di fibra, fitati e ossalati spesso rende i Sali minerali seppure presenti poco biodisponibili».

Per tirare le fila del discorso, sommariamente, quali potrebbero essere i pro e i contro di una dieta vegetariana?«I pro potrebbero consistere in una alimentazione povera in grassi animali e quindi con un basso rischio cardiovascolare e ricca di polifenoli e antiossidanti se si scelgono frutta e verdura di stagione e fresca. I contro sono rappresentati dal rischio di qualche carenza nutrizionale e la comparsa di disturbi gastrointestinali (gonfiore, sindrome dell’intestino irritabile) per il tentativo di compensare gli eventuali deficit».

Non mangiando cibi animali, per avere il giusto apporto di nutrienti che troviamo nella carne dobbiamo aumentare le porzioni di alimenti che contengono proteine calcio ferro e vitamina B, così facendo però non si corre il rischio di ingrassare?«No, calcio, ferro e vitamina B non apportano calorie e il fabbisogno proteico di un individuo va soddisfatto obbligatoriamente in ogni schema dietologico e quindi non dovrebbe cambiare da una dieta all’altra. In ogni caso le proteine appartano una quantità di calorie leggermente inferiore agli zuccheri e la metà dei grassi – continua Piretta – Il calcio lo troviamo nel latte, nel cavolo, negli spinaci, nella cicoria, nelle mandorle, nelle noci, nel prezzemolo e nelle arance. La vitamina B12 la troviamo, per i vegetariani: nel latte nel formaggio e nelle uova. Per i vegani: la vitamina B12 deve essere assunta con preparati farmaceutici. Le proteine si trovano nella soia, nelle lenticchie, nei funghi, nei pistacchi, nel lievito di birra e nel grano. Il ferro lo troviamo nelle fragole, nei cavoli e cavolfiori, nei legumi, nella cicoria, nelle noci, nel prezzemolo. Infine, gli agrumi e il kiwi per la presenza di vitamina C rendono il ferro più biodisponibile», conclude il nutrizionista.
Insomma, qualsiasi sia la vostra scelta ora, in linea di massima, sapete quali sono le differenze tra i vari tipi di dieta.

Fonte : "la stampa"

L'Italia derisa....e colpita al cuore.

24/10/2011
La scelta che il premier
non può più rinviare
MARIO CALABRESI, dalla "Stampa"
E’ odioso essere commissariati, essere cittadini di uno Stato a sovranità limitata, a cui premier stranieri dettano l’agenda delle riforme e impongono tre giorni di tempo per dare risposte.

È irritante assistere ai risolini e agli ammiccamenti di Merkel e Sarkozy quando sentono parlare d’Italia e di Berlusconi: ciò non è accettabile ed è irrispettoso.

È umiliante ascoltare che l’Europa ci considera alla stregua della Grecia, anzi - a quanto ci risulta - al vertice di ieri è stato detto che «in questo momento non solo l’Italia è in pericolo, ma è il pericolo».

Il rispetto però ce lo si conquista con la credibilità e mantenendo gli impegni e tutto questo a noi manca da troppo tempo. Siamo il malato d’Europa perché il governo è paralizzato e non riesce a indicare una direzione di crescita e riforme. In tutto il Continente, pur tra mille divisioni, si concorda su una cosa: o il premier italiano cambia improvvisamente marcia o - per il bene di tutti - si fa da parte seguendo l’esempio spagnolo.