martedì 21 dicembre 2010

Ecco perchè i ricchi non capiscono gli altri.

Come Giustiniano e Teodora nei mosaici dorati di San Vitale, a Ravenna: dorati, alti, distanti, circondati ma non sfiorati dai dignitari della corte di Bisanzio. La qualità più distintiva dei ricchi è l'autosufficienza, che riflette poi il loro status economico: non hanno bisogno degli altri, casomai se ne devono difendere dietro cancelli, siepi, vetri oscurati e complicati sistemi di password per entrare in casa o nel pc. Orgogliosi come quei ricchi Anderson del film di Orson Welles, dove i concittadini della facoltosa famiglia non aspettavano altro che vederli franare sotto il proprio egoismo.
Che essere ricchi significasse essere tendenzialmente ego-riferiti è antica convinzione, e ora è anche la psicologia a confermarlo con uno studio firmato da tre università, quella di San Francisco, quella di Berkeley e quella di Toronto, pubblicato sul magazine Psychological Science: i ricchi sono molto meno empatici dei poveri, cioè capiscono molto di meno le emozioni degli altri e sono meno capaci di collocare gli eventi nel contesto nel quale si verificano. Lo studio è composto da tre esperimenti condotti su circa 300 fra impiegati nelle università e studenti, chiamati a confrontarsi sulla percezione delle emozioni umane.

Per "ricchi", gli studiosi nordamericani hanno inteso persone con sostanziosi redditi, ma anche con un'istruzione elevata e un'occupazione prestigiosa. E hanno scoperto che chi ha meno soldi, un'istruzione di base e un lavoro magari dipendente, per avere successo è più abituato a fare affidamento sugli altri del ricco, molto più concentrato su se stesso e le proprie capacità e possibilità individuali. Ecco perché i meno abbienti sanno cogliere meglio le emozioni degli altri, o meglio, decifrarle per poter trarne vantaggio. Stranamente i più istruiti, dai quali ci si attenderebbe una capacità empatica più profonda, sono anche i più piatti emozionalmente, come dimostrato dal primo esperimento. Nel secondo i più poveri sono stati più bravi a cogliere il contesto delle emozioni da fotografie con diversi volti, e nel terzo i ricchi hanno fallito nel riconoscere un'emozione solo dai movimenti dei muscoli perioculari
Un trionfale disastro emotivo, insomma. E non serve appellarsi a quei signori rinascimentali che affinavano l'animo con lo studio, la poesia e i begli oggetti. Perché alla fine, al popolo che chiedeva più pane, alcuni hanno creduto andassero bene le brioche.

Come la mettiamo però con la questione generosità? Secondo l'assioma delle università nordamericane, la filantropia sarebbe un atteggiamento meramente estetico, un vezzo al pari di un peloso Akita giapponese nel giardino di una villa a St. Lucia. Eppure, se i ricchi di tutto il mondo continuano a sborsare milioni per i meno abbienti, non devono sentirli poi così lontani e alieni da loro. L'ultimo a partecipare a The Giving Pledge, il club dei miliardari filantropi lanciato da Bill Gates e Warren Buffet, che vorrebbero convincere i colleghi di conto a donare il 50% delle loro fortune a chi non ne ha, è stato Mark Zuckerberg, ceo di Facebook, al quale di recente si sono uniti anche Carl Icahn, Steve Case di Aol e Joe Mansueto di Morningstar.

Da questa considerazione, poi, ne nasce un'altra: ma come hanno fatto molti dei ricchi di oggi a diventare tali? Israel Kirzner scriveva che l'imprenditore di successo è colui che ha individuato e risolto un bisogno insoddisfatto della società. Insomma, per fiutare il business la sensibilità serve. Zuckerberg con gli studenti di Harvard, i Rockefeller con il petrolio, gli Agnelli con le auto, Jobs e Gates con i bit. Teodora, che prima di diventare imperatrice faceva la ballerina, e a quanto scrivono gli storici, conosceva bene tutte le emozioni umane, quelle maschili in particolare. E che oggi se ne sta ancora agghindata a osservarci dal suo paradiso di tessere d'oro.
Fonte: Il sole 24 ore

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