sabato 2 aprile 2011

Dove va il Pd?

di Emilio Carnevali

Se di questo documento si fosse discusso non diciamo la metà, ma un ventesimo di quanto ci si è arrovellati sulla nuova campagna pubblicitaria del Pd – l'ormai celeberrimo Bersani in bianco e nero, maniche di camicia, davanti alla scritta “Oltre” – lo stato del dibattito pubblico in questo Paese, e all'interno della sinistra, non sarebbe al livello infimo al quale in effetti si trova.

Dunque non c'è sorprendersi se il ponderoso “Europa-Italia. Un progetto alternativo per la crescita. Contributo del Pd al Programma Nazionale di Riforme” – concepito con riferimento al rapporto che tutti i governi dell'Unione dovranno consegnare entro fine aprile alla Commissione europea – non ha ricevuto l'attenzione che meritava, o forse sarebbe meglio dire che non ha ricevuto attenzione alcuna. Eppure si tratta di un documento significativo e importante, che pur in presenza di evidenti ambiguità e contraddizioni (soprattutto fra la prima parte dedicata alle politiche europee e la seconda dedicata all'Italia), rivela innovazioni importanti nell'ambito della cultura politica ed economica della sinistra riformista italiana.

Già al vertice del Pse svoltosi all'inizio di dicembre a Varsavia si era compreso, dopo la débâcle storica subita dalle formazioni progressiste in quasi tutti i paesi del Continente alla quale si è sommata una crisi economica che oltre agli assetti sociali della “prospera e sicura Europa” ha contribuito a rimettere in discussione molte certezze teoriche, già lì si era compreso che volenti o nolenti le socialdemocrazie europee si trovano costrette ad andare alla ricerca di nuove bussole dopo l'ubriacatura ideologica “blariana” del passato recente (il famigerato “liberismo di sinistra”).

Questo documento del Pd vive nelle contraddizioni di una ricerca ancora affannosa (in parte attribuibile anche allo scontro fra le diverse “anime” presenti all'interno del partito), ma certamente contiene spunti di una “visione”, di una ricerca intellettuale alta, di un approccio critico e alternativo che è l'essenza stessa del riformismo. Non si può cambiare la realtà se si è subalterni ad essa, al “quadro dato” in termini tanto analitici quanto propositivi.

Ciò è evidente in primo luogo nell'interpretazione della recente crisi economica globale: «Ci sembra che in molti casi prevalga un'interpretazione parziale», si legge nel documento, «che sottovaluta il ruolo degli squilibri reali ed enfatizza in modo quasi esclusivo il nesso di causalità che dalla crisi puramente finanziaria si trasmette all'economia reale». «Sia nell'interpretazione della crisi che nell'individuazione delle vie d'uscita da essa», prosegue il testo, «sembrano essere del tutto sottovalutati i problemi legati alla domanda aggregata. Uno dei fattori che ha maggiormente inciso e tuttora incide da questo punto di vista è l'aumento della disuguaglianza nella distribuzione del reddito, in particolare da lavoro, e delle ricchezze, che ha caratterizzato quasi tutti i paesi dell'Ocse ma gli Stati Uniti in particolare, e che ha progressivamente compresso il potere di acquisto delle famiglie, non solo in quelle più povere ma anche in quelle in classi di reddito intermedie».

All'erosione del reddito disponibile – che viene ricondotta ad una molteplicità di fattori, dalla pressione concorrenziale innescata dalla globalizzazione dei mercati alle politiche dei governi che hanno ad esempio ridotto un po' ovunque la progressività della tassazione – si è cercato di rispondere con l'espansione del credito al consumo. Il forte indebitamento privato, cui si è connessa la forte impennata dei valori della ricchezza immobiliare, avrebbe introdotto forti elementi di fragilità nel sistema finanziario esponendolo al rischio di una crisi anche a fronte di piccoli shock. Quel che ne è seguito è storia dei giorni nostri, con la crisi finanziaria che si è ben presto trasferita all'economia reale e che, tuttavia, negli squilibri della stessa economia reale affonda le proprie radici.

Ma il documento contiene altri passaggi importanti che meritano menzione:

a) La proposta di uno «standard retributivo europeo» capace di coinvolgere i paesi in surplus nel processo di aggiustamento delle bilance commerciali tramite una crescita delle retribuzioni in linea con la dinamica della produttività.

b) L'attenzione dedicata al riavvio di un «motore autonomo della domanda interna» in Europa alimentato dalle risorse raccolte tramite l'emissione di Eurobonds e misure fiscali come la Financial Transation Tax (sotto questo aspetto viene avanzata una esplicita critica alla strategia di fuoriuscita dalla crisi suggerita dalle istituzioni Ue «focalizzata quasi esclusivamente sull'aumento della competitività» e su interventi «dal lato dell'offerta»)

c) La critica a misure di politica economica prigioniere del trade-off fra crescita ed equità (in altre parole a quelle tesi molto in voga nell'epoca dei ruggenti anni blariani secondo le quali “alti tassi di crescita e uguaglianza non sono fra loro compatibili”).

d) Le importanti “messe a punto”, sul piano del mercato del lavoro italiano e delle politiche per l'occupazione, rispetto alle mode intellettuali imperversate negli anni scorsi e che tanto ascolto hanno affascinato anche la sinistra riformista: «Nessuno studio», si legge nel documento, «ha dimostrato un'automatica relazione positiva fra deregolamentazione del mercato del lavoro e crescita occupazionale. Al contrario, non si può trascurare l'eventualità che le modalità con cui si è flessibilizzato il mercato del lavoro italiano possano aver contribuito al rallentamento delle dinamica della produttività».

e) La proposta, all'interno di una più generale riforma del fisco che sposti il carico «da chi paga a chi evade» e «dal lavoro e l'impresa alla rendita», di una aliquota unica sui redditi da capitale al 20% (con l'esclusione dei titoli di Stato a tutela dei piccoli risparmiatori) che si troverebbe ad essere equiparata alla prima aliquota Irpef (la quale, nel sistema fiscale riformato, passerebbe dal 23% al 20%).

f) Infine, ma qui torniamo a muoverci all'interno di una scala continentale, la critica alle politiche restrittive varate in Italia e in quasi tutti i governi dell'Unione Europea al fine di ripristinare la stabilità macroeconomica: «Una politica restrittiva rischia di deprimere le prospettive di crescita dell'area e di deteriorare ulteriormente le condizioni di solvibilità dei debitori, siano essi pubblici o privati. Va infatti ricordato che la sostenibilità del debito – sia esso pubblico e privato – non dipende semplicemente dalla dimensione del medesimo. Essa riflette una serie articolata di fattori, fra i quali assume particolare rilievo l'esistenza di un differenziale positivo fra il tasso di crescita del reddito e il tasso di interesse sui prestiti».

Da qui la centralità che il documento attribuisce alla crescita come unico strumento per compiere gli sforzi necessari a gestire il nostro debito in ottemperanza ai trattati Ue senza operazioni di finanza pubblica socialmente inaccettabili (tradotto in cifre: senza gli avanzi primari superiori al 5% che ci sarebbero imposti dati gli attuali sentieri di crescita. Tuttavia la questione del debito è una fra quelle dove maggiormente traspare la molteplicità di sensibilità e impostazioni che sono confluite nel testo).

Il carattere estremamente ambizioso di alcune fra queste proposte – che difficilmente potranno trovare attuazione nell'ambito degli attuali assetti politici dell'Unione Europea – non è da considerarsi per forza un limite del documento. Diceva lo storico leader della sinistra svedese Olof Palme che il socialismo democratico «non deve perdere la sua carica utopica, perché l'antagonismo fra le nostre idee e la realtà è il dilemma affascinante che dà forza motrice alle politiche socialdemocratiche».

Da micromega

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