sabato 9 aprile 2011



Cosa c’è sotto Lampedusa

Left n.13 dell'1 aprile 2011La Tunisia accoglie 160mila rifugiati senza battere ciglio mentre noi gridiamo all’emergenza per qualche migliaio. Ma non c’è alcuna invasione. Chi arriva in Europa non fugge dalla guerra ma dalla sua povertà. La stessa di sempre
di Paola Mirenda
«Abbiamo visto arrivare più di 160mila rifugiati in poche settimane. Non abbiamo gridato all’invasione. Gli abbiamo prestato soccorso nei limiti dei nostri mezzi. Gli abitanti delle regioni alla frontiera li hanno accolti presso di loro. Non ci è stato riferito di alcun
malcontento locale. Voi, quando in un momento di crisi cinquemila tunisini sbarcano a  Lampedusa, gridate al cataclisma. Pensateci: 160mila immigrati arrivati all’improvviso qui da noi è, fatte le debite proporzioni, l’equivalente di un milione di immigrati in Francia in pochi giorni. Non oso immaginare il panico. Io non voglio dare lezioni a nessuno ma credo che la democrazia significhi risolvere senza scontri i problemi che sorgono
naturalmente dentro una società». 
 Béji Caid Essebsi,
primo ministro tunisino, 20 marzo
«Immigrati? Föra da i ball».
Umberto Bossi, ministro italiano, 28 marzo
 
A Zarzis la bella stagione non l’annunciano le rondini ma i barconi pronti a salpare. «Bastano 2.000 dinari per partire, e a ogni angolo di strada trovi uno che ti indirizza alla persona giusta», spiega un giornalista tunisino. Si dice che qui metà degli abitanti siano “passeur”, traghettatori. Gente che per mestiere ti porta dall’altro lato del Mediterraneo, verso Lampedusa, quando il mare non è agitato, e che si limita a pescare se le onde si fanno alte. Il resto della popolazione campa del turismo degli hotel di lusso di questa cittadina balneare di 140mila abitanti, pochi chilometri dalla più famosa Djerba, la “perla della Tunisia”. Da settimane però negli alberghi stazionano altri tipi di stranieri: bengalesi, pakistani, egiziani, senza costume da bagno né voglia di divertirsi. Aspettano pazientemente un volo che li riporti in patria, lontano dalla Libia in guerra da cui sono fuggiti. Nel campo di Choucha, a sette chilometri dalla frontiera, restano poco più di tremila persone, per lo più somali una volta rifugiati in Libia, che aspettano di sapere che ne sarà di loro. A mettersi su un barcone la maggior parte non ci pensa nemmeno. Non sono i fuggitivi di Tripoli che possono impensierire i nostri governanti, eppure è loro lo spettro che si aggira oggi per l’Europa. Secondo un sondaggio dell’Ifop - istituto di ricerca francese - nei cittadini dell’Unione la “primavera araba” suscita più i timori che le speranze. Finché si parla di rivoluzioni gentili, si discute di democrazia, di libertà, di opportunità, tutti hanno parole di solidarietà e ammirazione per i giovani in rivolta. Poi ci si ricorda che sono tutti «potenziali candidati all’immigrazione», secondo la vulgata della destra, e tornano a essere nemici. L’Ifos rivela che sono la Spagna e l’Italia a detenere la palma della paura, «per la prossimità con Tunisia e Marocco», ma segue da vicino la Francia, dove Sarkozy per primo mette in guardia, riferendosi alla Libia, da «le conseguenze di queste tragedie sui flussi migratori». Marina le Pen sbarca a Lampedusa, desiderosa di confermare al suo elettorato che è davvero figlia di suo padre, il ministro Frattini. Con il fedele Maroni, tiene una conferenza stampa all’aeroporto di Tunisi dopo la sua visita del 25 marzo, e spiega di aver offerto alla Tunisia 70 milioni di euro in «fuoristrada, motovedette, radar». La Spagna, per bocca del suo ministro dell’Interno, il socialista Alfredo Perez Rubalcaba, chiede il rinforzo di Frontex. È  l’Europa unita, come da tanto non si vedeva.

La Turchia invece manda le sue navi a Benghazi a raccogliere i feriti, e li porta ad Ankara per curarli. Non fa notizia, eppure è l’unico dato reale che cambia la “normalità” delle migrazioni. Il governo di Erdogan è stato il solo finora a comprendere che se ci sarà un’emergenza profughi, come si impegnano a urlare tutti, sarà quella scatenata dall’arrivo dei feriti gravi, che la Croce rossa e la Mezzaluna non possono curare sul posto. Per il resto, si tratta di polemiche di ogni primavera, che puntualmente ritornano anno dopo anno. Quando le giornate si scaldano, anche gli animi le imitano. Fino a perdere la ragione. Come il  governo israeliano, che si dice disponibile a prendere i migranti tunisini, però solo «quelli ebrei», precisa il portavoce del ministero degli Esteri Ygal Palmor. Il governo di Essebsi si indigna, la comunità ebraica  tunisina - che, ironia della sorte, si concentra proprio a Djerba -  respinge al mittente l’offerta: «Restiamo qui, questo è il nostro Paese». Qualcuno però accetta, puntualizza Palmor: «Una ventina sono già arrivati. Del resto gli offriamo duemila euro quando arrivano, più altri 6.600 i primi due anni». Il governo italiano, in accordo con lo Iom e la Ue, ne promette 1.800 per chi rimpatria volontariamente. Soldi. Solo soldi. «Voglio viaggiare, voglio venire da te come tu vieni qui da me», dice Mohamed al tavolino di un bar di Sidi Bou Said. Lui partirà, lo ha deciso prima che scoppiasse la rivolta. «Aspettavo la primavera, quella vera. È arrivata quella del cambiamento. Ma non era la mia. La mia comincia adesso». 
 
Da "Left" 

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