di Stefano Folli, dal sole 24 ore
La decisione italiana di partecipare alle azioni belliche anti-Gheddafi sollecita quattro riflessioni sul governo, la Lega, il Quirinale e l'opposizione. Sul primo punto, non c'è dubbio che il governo ha oscillato a lungo prima di abbracciare fino in fondo la linea dell'alleanza. All'inizio si è creduto di tutelare i nostri complessi interessi in Libia con una posizione defilata, addirittura ammiccante a Gheddafi.
Era il tempo in cui Berlusconi non voleva «disturbare» il colonnello. In seguito l'Italia si è sforzata con successo di sottrarre alla Francia la guida di fatto delle operazioni, riportandola sotto l'ombrello Nato. Più tardi ancora si è appreso che i nostri aerei non avrebbero preso parte ai bombardamenti, limitandosi a inibire con i sorvoli i radar avversari.
L'ambiguità era evidente. Si voleva credere a una mediazione che ci avrebbe visto protagonisti in caso di stallo. A tal fine era indispensabile tenere aperto un canale con i «gheddafiani», senza però indispettire la Nato e, anzi, consolidando i rapporti con gli insorti. Un equilibrismo degno di Houdini, corroborato da recenti affermazioni di Berlusconi: «Noi non bombarderemo la Libia perché siamo l'ex potenza coloniale. Non possiamo farlo». Argomento discutibile, ma serio e in un certo senso definitivo. Tanta determinazione è durata poco. Come era prevedibile, ha prevalso il realismo: la convinzione che i nostri interessi nella Libia del futuro si tutelano essendo ben integrati nella Nato. E dunque accettando le richieste di maggiore impegno che sono giunte pressanti dall'Alleanza, in particolare da Obama.
Secondo punto, la Lega. Bossi è sempre stato con coerenza ostile alla guerra. La sua posizione è ricalcata su quella di Berlino (neutralità assoluta). Con la differenza che la Lega è parte di un governo interventista. Il Carroccio non aprirà adesso la crisi di governo su Tripoli, ma è in grado di raccogliere il malcontento di una discreta fetta di elettorato, anche del Pdl. I bombardamenti sono impopolari e i leghisti ne faranno ricadere la responsabilità sul solo Berlusconi. C'è una frase di Bossi che non lascia dubbi: «È colpa sua se arriveranno i clandestini».
Veniamo al Quirinale. Napolitano è stato lineare. Fin dal primo minuto ha detto che l'Italia non poteva restare indifferente alle sofferenze delle popolazioni, quindi l'insurrezione andava aiutata. Ha sempre chiesto che l'Italia si muovesse nel solco della mozione Onu e d'intesa con gli alleati. Oggi il capo dello Stato appare come il vincitore della partita: ha definito una linea di politica estera e ha incoraggiato il governo a riconoscersi in essa. Non solo. Napolitano ha parlato ieri di «naturale sviluppo della scelta compiuta dal'Italia a metà marzo» e sulla quale si era registrato «un largo consenso in Parlamento». In termini politici significa che esiste una continuità nella posizione ufficiale e quindi non c'è bisogno di un altro voto delle Camere.
Quarto punto, l'opposizione. Il Pd critica il governo per i distinguo leghisti, ma non ha molta voglia di tornare in Parlamento. Se così fosse, la maggioranza avrebbe i suoi problemi, ma l'opposizione non sarebbe da meno: ieri Di Pietro ha attaccato Napolitano e la sinistra vendoliana è di sicuro contro i bombardamenti. Il Pd invece è tenuto a «coprire» il capo dello Stato. Sulla carta si arriverebbe al paradosso di una maggioranza in politica estera Pdl-Pd, con i due poli equamente spaccati. Anche per questo non dovrebbe esserci alcun voto. Ma sulla Libia l'opposizione resta divisa e impacciata.
La decisione italiana di partecipare alle azioni belliche anti-Gheddafi sollecita quattro riflessioni sul governo, la Lega, il Quirinale e l'opposizione. Sul primo punto, non c'è dubbio che il governo ha oscillato a lungo prima di abbracciare fino in fondo la linea dell'alleanza. All'inizio si è creduto di tutelare i nostri complessi interessi in Libia con una posizione defilata, addirittura ammiccante a Gheddafi.
Era il tempo in cui Berlusconi non voleva «disturbare» il colonnello. In seguito l'Italia si è sforzata con successo di sottrarre alla Francia la guida di fatto delle operazioni, riportandola sotto l'ombrello Nato. Più tardi ancora si è appreso che i nostri aerei non avrebbero preso parte ai bombardamenti, limitandosi a inibire con i sorvoli i radar avversari.
L'ambiguità era evidente. Si voleva credere a una mediazione che ci avrebbe visto protagonisti in caso di stallo. A tal fine era indispensabile tenere aperto un canale con i «gheddafiani», senza però indispettire la Nato e, anzi, consolidando i rapporti con gli insorti. Un equilibrismo degno di Houdini, corroborato da recenti affermazioni di Berlusconi: «Noi non bombarderemo la Libia perché siamo l'ex potenza coloniale. Non possiamo farlo». Argomento discutibile, ma serio e in un certo senso definitivo. Tanta determinazione è durata poco. Come era prevedibile, ha prevalso il realismo: la convinzione che i nostri interessi nella Libia del futuro si tutelano essendo ben integrati nella Nato. E dunque accettando le richieste di maggiore impegno che sono giunte pressanti dall'Alleanza, in particolare da Obama.
Veniamo al Quirinale. Napolitano è stato lineare. Fin dal primo minuto ha detto che l'Italia non poteva restare indifferente alle sofferenze delle popolazioni, quindi l'insurrezione andava aiutata. Ha sempre chiesto che l'Italia si muovesse nel solco della mozione Onu e d'intesa con gli alleati. Oggi il capo dello Stato appare come il vincitore della partita: ha definito una linea di politica estera e ha incoraggiato il governo a riconoscersi in essa. Non solo. Napolitano ha parlato ieri di «naturale sviluppo della scelta compiuta dal'Italia a metà marzo» e sulla quale si era registrato «un largo consenso in Parlamento». In termini politici significa che esiste una continuità nella posizione ufficiale e quindi non c'è bisogno di un altro voto delle Camere.
Quarto punto, l'opposizione. Il Pd critica il governo per i distinguo leghisti, ma non ha molta voglia di tornare in Parlamento. Se così fosse, la maggioranza avrebbe i suoi problemi, ma l'opposizione non sarebbe da meno: ieri Di Pietro ha attaccato Napolitano e la sinistra vendoliana è di sicuro contro i bombardamenti. Il Pd invece è tenuto a «coprire» il capo dello Stato. Sulla carta si arriverebbe al paradosso di una maggioranza in politica estera Pdl-Pd, con i due poli equamente spaccati. Anche per questo non dovrebbe esserci alcun voto. Ma sulla Libia l'opposizione resta divisa e impacciata.
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