domenica 10 aprile 2011

Le due Italie del lavoro che non si parlano
di Mario Deaglio, dalla " Stampa"

Una manifestazione nazionale dei lavoratori precari, come quella di ieri, articolata in varie fasi e in varie città, sarebbe stata impensabile anche solo un anno fa e rappresenta un importante sviluppo economico-sociale.

I precari, infatti, tradizionalmente sono cani sciolti, con diversissime storie personali, ai quali la continua mobilità rende comunque difficile, in via normale, un’azione comune. Assunti a termine, pagati, di solito non molto, e poi arrivederci e grazie. Una simile situazione può anche essere accettabile se esiste una sorta di patto implicito in base al quale questi spezzoni di lavoro, a termine o a tempo parziale, si possono trasformare in un lavoro vero entro un ragionevole intervallo di tempo. In questo caso l’attività precaria può costituire una sorta di apprendistato, anomalo ma in grado di insegnare una professione; non è invece possibile restare apprendisti - o precari - per tutta la vita.

Con la crisi economica la durata del precariato si è allungata, la sua natura è cambiata. I precari, in grande maggioranza giovani, diventano lavoratori-cuscinetto che assorbono direttamente i colpi della crisi e quindi, implicitamente, forniscono un riparo ai lavori più sicuri degli altri. Il caso più evidente è quello dell’Alitalia quando per i dipendenti a tempo indeterminato si negoziò una lunghissima, e quindi privilegiata, cassa integrazione, mentre i precari rimasero sostanzialmente a bocca asciutta. Per questo il rapporto con il sindacato è molto difficile anche se la Cgil, che ha appoggiato le manifestazioni di ieri, fa di tutto per ricucire uno strappo generazionale. Non basta però, rendere più difficile il licenziamento, come appunto la Cgil propone, occorre rendere più facili le assunzioni a tempo indeterminato. E questo si può fare soltanto cercando di imboccare a tutti i costi un sentiero di crescita, un argomento di cui il Paese, apparentemente troppo occupato con il teatrino della politica, con gli insulti tra parlamentari e le barzellette sconce del presidente del Consiglio, si dimentica allegramente.

Che i precari sopportino direttamente gran parte del peso della crisi è confermato dall’analisi della Confartigianato, resa nota ieri, in base alla quale quasi un milione di lavoratori sotto i trentacinque anni (una fascia di età in cui i precari sono molto fortemente rappresentati) ha perso il lavoro nel 2009-10, mentre è aumentato il numero degli occupati più anziani. La condizione di disagio derivante dall’incertezza del precariato si è allargata a categorie che una volta ne erano immuni: giovani medici, aspiranti ricercatori o liberi professionisti, insegnanti vedono le loro prospettive di vita messe in forse dai tagli alla spesa pubblica e non ricevono alcuna solidarietà dal resto del Paese.

E’ chiaro che la riduzione di un terzo della capacità di risparmio delle famiglie italiane nel periodo 2002-2010, che risulta dai dati diffusi dall’Istat qualche giorno fa, deve essere avvenuta tra queste fasce dai redditi più deboli. Sempre qui, e non certo tra i lavoratori a tempo indeterminato del pubblico impiego, si deve collocare gran parte della riduzione del potere d’acquisto delle famiglie italiane, risultato, nell’ultimo trimestre del 2010, inferiore del 5,5 per cento al livello pre-crisi. La risalita del potere d’acquisto rispetto ai minimi toccati un anno fa (-6,4 per cento) è lentissima: di questo passo ci vorranno 4-5 anni, sempre che tutto vada bene, perché il potere ritorni, in termini reali, alla situazione precedente la crisi. Il vero interrogativo è se l’Italia possa permettersi altri quattro-cinque anni di stagnazione dei consumi e dei risparmi familiari, altri quattro-cinque anni con i giovani con la cinghia tirata che lavorano con il contagocce senza alcuna vera possibilità di metter su famiglia o di impostare un qualsiasi piano di vita.

Si stanno così creando le condizioni per una frattura orizzontale sempre maggiore tra un Paese «normale», composto prevalentemente di persone sopra i quarant’anni, e un Paese «precario», composto prevalentemente di persone sotto i quarant’anni, alle prese tutti i giorni con difficoltà economiche gravi; tra chi sta a casa quando ha il raffreddore perché il posto è comunque garantito e chi va a lavorare con la febbre perché altrimenti il posto è perso. La comunicabilità tra i due Paesi è scarsa, le due parti non si conoscono.

Si tratta di una frattura molto pericolosa che presenta una somiglianza di fondo - pur in contesti ovviamente molto diversi - con la frattura sociale alla base delle «rivoluzioni» in atto sulla Riva Sud del Mediterraneo, dove fasce sociali di basso reddito, prive di veri meccanismi di rappresentanza, sono state spinte, da un forte aumento dei prezzi dei generi alimentari, alla rivolta contro élites molto anziane, da lungo tempo prive di ricambio politico. Siamo proprio sicuri di essere immuni da questo contagio? Quanti rappresentanti hanno in Parlamento i lavoratori precari? E quanti appartenenti alla classe politica, ossia parlamentari nazionali e regionali, nonché consiglieri provinciali, comunali o di quartiere hanno meno di quarant’anni? Quanti sono i quarantenni in posizioni di primo piano nelle strutture delle imprese?

In Italia, nessuna banca offrirebbe a un giovane di talento facilitazioni creditizie del tipo di quelle di cui negli Stati Uniti hanno potuto godere Bill Gates e Steve Jobs, che sono così riusciti a creare imprese di successo e centinaia di migliaia di posti di lavoro. Politici come Obama (50 anni), Sarkozy (56 anni), Merkel (57 anni), Cameron (55 anni), Zapatero (51 anni) in Italia non avrebbero spazio. L’Italia non ha favorito il ricambio generale e ha, per così dire, saltato una generazione, spingendo i giovani a un precariato perenne. Ma un Paese che non sa risolvere i problemi dei suoi precari diventa esso stesso precario, cresce stentatamente e viene marginalizzato a livello internazionale. Come dimostrano gli avvenimenti recenti.
mario.deaglio@unito.it
Fonte : la stampa

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