Probabilmente è un passo avanti dettato dall’istinto di sopravvivenza. Cambiare legge elettorale, o almeno tentare di farlo, sembra l’atto d’omaggio obbligato che i partiti offrono ai nuovi tempi: quelli dell’indignazione o, peggio, della stanchezza dell’opinione pubblica. Si tratta di un gesto di realismo per evitare il tracollo di un sistema che sfiora pericolosamente il capolinea. Il problema è capire se le forze politiche ritengano di salvarsi lasciando le cose come stanno, dopo aver finto una riforma; oppure se davvero stiano prendendo coscienza dell’esigenza di un cambiamento netto.
In sé, il fatto che dopo anni di rissa Pdl e Pd accettino di discuterne insieme è un progresso: se non altro sul piano del metodo. E per paradosso, l’ostilità della Lega e la diffidenza dell’Idv sugli «incontri da sottoscala » finiscono per dare più credibilità all’operazione. Non solo. Il pungolo del Quirinale offre a chi la vuole vedere l’opportunità di cambiare registro; di prendere atto che una fase si è conclusa e che è consigliabile presentarsi con categorie mentali meno datate, dopo il finale inglorioso della Seconda Repubblica. È difficile non scorgere una somiglianza tra anni Novanta e 2012, anche in termini di sistema elettorale.
Allora, i referendum provocarono e insieme rivelarono lo smottamento della geografia politica italiana. Adesso, il governo dei tecnici presieduto da Mario Monti riflette un’altra crisi di legittimità, stavolta dettata dall’emergenza finanziaria. E nei sedici mesi che ci separano dalla fine della legislatura si annida l’esigenza di restituire uno straccio di credibilità alla nomenklatura politica: anche permettendo agli elettori di scegliere i propri candidati senza vederseli imposti dall’alto. Ma non ci sono referendum, bocciati dalla Corte costituzionale. E nessuno è in grado di prevedere la fisionomia del futuro sistema elettorale.
È difficile pensare che il Pdl possa abbozzare un’intesa col Pd, e il partito di Pier Luigi Bersani con quello berlusconiano, a pochi mesi da un turno di elezioni amministrative. La Lega che ironizza sulle «chiacchiere in libertà» e chiede prima una riduzione del numero dei parlamentari è l’avanguardia di chi non vuole la riforma elettorale, e avverte Silvio Berlusconi. E le parole d’ordine del centrosinistra, che invita a «non escludere nessuno» e a «mantenere il bipolarismo », potrebbero rivelarsi cortine fumogene che nascondono interessi divergenti.
L’impressione è che solo a primavera, a urne chiuse, si comincerà a capire quale direzione prenderà la discussione appena cominciata; e quali alleanze i partiti immaginano alla fine della parentesi del governo Monti: parentesi più dinamica e traumatica di quanto alcuni pensino. Il ritorno agli schieramenti del 2008 appare inverosimile. Altrettanto improbabile è una riedizione del bipolarismo con le storture che lo hanno reso impopolare. Decisivo sarà l’orientamento dell’elettorato. È l’unica incognita che spaventa i partiti; e che forse li indurrà a cambiare più di quanto vorrebbero.
di Massimo Franco, dal Corriere
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