mercoledì 29 febbraio 2012

Il crollo dei consumi che sfibra l'Occidente


di VITTORIO EMANUELE PARSI, dalla stampa

Ha ragione Charly Kupchan: «L’eventualità di un’epoca “post-occidentale”», contraddistinta dall’ascesa economica e geopolitica di potenze diverse da quelle della comunità atlantica sta alimentando un animato dibattito ricco «di riflessioni ansiose sul futuro dell’Occidente. Di fronte alla perdita della centralità dell’Occidente, la prospettiva di un suo progressivo allargamento, ovvero della trasmissione dei «valori occidentali» ai più rampanti tra gli attori emergenti (la Cina innanzitutto, ma anche la Turchia o la nuova Russia) può suonare rassicurante. In fondo essa riecheggia l’antico motto per cui «la Grecia conquistata conquistò a sua volta il rozzo vincitore», come ebbe a dire Orazio.

Una prospettiva rassicurante, quindi, eppure una prospettiva, purtroppo, irrealistica, per un Occidente che sembra intento piuttosto a «perdere i pezzi», abdicando ai suoi stessi valori, piuttosto che a espandere l’area della sua penetrazione politico-culturale. Proprio ciò che sta avvenendo in Grecia in questi mesi è la manifestazione più evidente della rinuncia occidentale a tutelare quella capacità di coniugare mercato e democrazia, sviluppo economico ed eguaglianza politica, ciò che - in altri termini - ha costituito la cifra più intima del «modello occidentale». La natura della crisi odierna è duplice. Da un lato paghiamo l’insufficiente sforzo di riflessione per adeguare le istituzioni politiche democratiche rappresentative alle sfide che esse devono fronteggiare. Dall’altro siamo schiacciati da forme di organizzazione della produzione che troppo spesso ottimizzano la produttività a scapito di qualunque altro valore (la globalizzazione evocata da Kupchan). Il risultato è il divorzio della ragione politica dalla ragione economica, la secessione di una razionalità rispetto all’altra che costituisce l’abiura dell’Occidente rispetto a se stesso.

Così va in scena il dramma greco, il dramma di un popolo il cui ceto medio è letteralmente «piallato», la cui sovranità è sospesa fino a data da destinarsi e i cui sacrifici sembrano oramai un supplizio di Tantalo. Tutto compiuto affinché l’euro sopravviva (certo), ma anche perché le banche estere che hanno concesso prestiti consapevolmente d’azzardo (lucrando profitti tanto facili quanto rischiosi) possano «socializzare» le perdite. Di fronte allo spettacolo di un Paese che può solo scegliere tra la bancarotta finanziaria e la bancarotta etica e sociale, a chi assiste non resta che la scelta tra il privilegio di una logica o di un’altra, tra il prevalere dell’economicismo o del politicismo.

Che «le cicale greche» riducano i loro consumi, dunque; che i greci tornino a essere «poveri» come son sempre stati, fin quando non potranno nuovamente «permettersi» i livelli di consumo degli «altri» europei, degli «altri» occidentali. Peccato che pochi sembrino preoccuparsi di quanto non i greci, ma tutti noi, cittadini (ex?) delle democrazie occidentali potremo permetterci (e fino a quando) che i livelli di consumo possano abbattersi senza trascinare con sé anche la pur minima fede nella democrazia. Democrazia che ha al suo cuore l’idea di eguaglianza, quella inscritta nella Dichiarazione del 4 luglio 1776, «che tutti gli uomini sono creati eguali (…) dotati di certi inalienabili diritti, (…) per garantire i quali sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla».

La sperimentazione concreta di questa idea di eguaglianza - disponibile a tutti e non solo a pochi - è il cuore della modernità politica occidentale, ciò che ha consentito la realizzazione della democrazia di massa, la quale è proceduta sottobraccio all’elevazione degli standard di consumo delle masse. A chi storce il naso di fronte a questo parallelo, a chi ci parla oggi della «virtù» del pauperismo e della decrescita e indulge nella nostalgia per società meno consumiste e più sobrie, occorre ricordare che il «volgare consumismo» è stato il meccanismo che ha indotto mobilità, rotto le gilde e le corporazioni e messo in crisi quelle società «bene ordinate», ma tremendamente ingiuste, sperequate, conservatrici e immobili.

Vale ancora la pena di rammentare che l’espansione dei consumi di massa ha fatto sperimentare in via concreta e indiretta - potremmo dire «surrogata», ma non per questo meno vera - l’eguaglianza a centinaia di milioni di persone, per le quali essa era stata fino a quel momento un concetto astratto e lontano. Ma non solo. Alla promessa di alti standard di consumi e di progresso individuale e collettivo, l’Occidente ha dovuto non poca parte della sua vittoria sul modello sovietico. Basti ricordare i diplomatici dell’Est espulsi dagli Usa negli Anni Ottanta, che tornavano a casa carichi di televisori e lavatrici o quanto la «voglia di fragole» (introvabili nella Ddr) e in generale di ordinari beni di consumo sia stata per i tedeschi dell’Est una molla non meno forte dell’aspirazione di libertà per voltare le spalle al paradiso dei lavoratori di Honecker.

Tutto questo ha fatto parte del mito attrattivo dell’Occidente rispetto al resto del mondo. Di tutto questo sembra che, oggi, ci stiamo dimenticando. Allora, come possiamo pensare di espandere agli altri un modello in cui neppure noi sembriamo più disposti a credere?


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