martedì 21 febbraio 2012

L'Europa che passa dall'Italia


di FABIO MARTINI, dalla stampa

Sembravano prediche inutili, stanno diventando proposte tangibili e condivise da tanti leader europei, ansiosi di scovare il prima possibile le ricette giuste per uscire da una crisi epocale. Per anni Mario Monti, da stimato professore, aveva dispensato consigli, scritto ponderosi rapporti per i capi di governo europei, ma ora che lui stesso è diventato leader di uno dei Paesi fondatori dell’Unione, quelle proposte stanno entrando, di «peso», in documenti fatti propri da avanguardie, gruppi di Paesi più sensibili su alcuni dossier.

Ieri è stato reso noto un documento, firmato da 12 Paesi e promosso da Italia e Regno Unito, una lettera indirizzata ai vertici dell’Unione, ma che in realtà si rivolge ai due Paesi-guida dell’Ue, Germania e Francia, sinora i più tenaci nella difesa dei «campioni nazionali», soprattutto nel campo dell’energia e dei servizi. In questo senso, nella lettera c’è un passaggio esplicito, nel quale gli estensori hanno rinunciato all’algido lessico di Bruxelles, preferendo un’ironia «montiana»: «Non sempre i Paesi più grandi e più forti sono anche i più virtuosi». Un documento che in diversi passaggi riprende proposte e suggestioni del rapporto Monti, realizzato nel 2010 su richiesta della Commissione europea. Ma contemporaneamente - e qui sta la novità della strategia italiana - già da tempo si sta lavorando sotto traccia per un’altra Dichiarazione, in questo caso di forte rilancio del processo europeista. Ma questa volta Roma gioca di sponda con Germania e Francia.

Certo, il lavorio degli sherpa è ancora embrionale, un primo incontro a livello di ministri degli Esteri e di Politiche comunitarie potrebbe tenersi il 20 marzo a Berlino e il punto di approdo dovrebbe essere il Consiglio di Bruxelles di giugno.

Le due iniziative, complementari ma non sovrapponibili, prefigurano una strategia italiana del «doppio pedale»: assieme agli inglesi, liberisti per vocazione e tradizione, Monti spinge la leva del completamento del mercato interno, del superamento di barriere e difese nazionaliste; assieme a tedeschi e francesi, Paesi fondatori dell’Unione (e col consenso di «medie potenze» come Polonia e Spagna), si spinge per un rilancio energico del processo di integrazione, per un’Europa comunitaria e non solo a parole.

La volatilità dei mercati e la profondità dei debiti rendono friabili le strategie di medio periodo, compresa quella italiana.

Ma è pur vero che Mario Monti, senza complessi di inferiorità, ha iniziato a comporre i tasselli del suo piano, appena arrivato a Palazzo Chigi. Ai primi di gennaio, quando è rimasto a tu per tu con Nicolas Sarkozy all’Eliseo, Monti ha chiesto al presidente francese se non fosse il caso di far rientrare gli inglesi nel gioco. E quando Sarkozy ha fatto capire che lui non era di quell’avviso, Monti gli ha risposto senza perifrasi: «Ma questo è un errore». In quel colloquio si sono creati i presupposti, politici e psicologi, del documento italo-inglese sul mercato interno, al quale hanno dato un contributo anche gli olandesi.

Ma stimoli significativi sono venuti a Monti anche nel corso dell’incontro con Barack Obama. Il 9 febbraio, nello studio Ovale della Casa Bianca, il presidente americano aveva chiesto l’opinione di Monti su come stanare l’«orso tedesco», così insensibile alla crescita dell’Unione e il premier aveva risposto che era del tutto inutile immaginare che i tedeschi possano allentare i vincoli sul disavanzo, mentre un effetto indotto sulla crescita può essere prodotto, «inducendoli a liberalizzare di più il loro mercato dei servizi».

Il documento reso noto ieri e quello in gestazione spiegano anche alcune decisioni di politica interna. L’annuncio della futura separazione tra Eni e Snam, nella vulgata dei mass media letta come una delle tante decisioni del governo, in realtà colpisce al cuore uno dei colossi nazionali. Monti aveva bisogno di quello «scalpo» anche per essere più credibile in Europa. Anche perché l’1 e 2 marzo, al Consiglio europeo di Bruxelles, si compie una nemesi lunga 20 anni: nel 1992, a Maastricht, quando si fece l’euro, la Germania cedette agli altri partner la sua sovranità sul marco, la prossima settimana, col fiscal compact, saranno gli altri 16 Paesi a cedere la sovranità sul proprio bilancio per compiacere la Germania. Pagato pegno, l’«altra Europa» spera di ritrovare voce e argomenti.

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