mercoledì 29 febbraio 2012

Il male greco è anche tedesco


Il male greco è anche tedesco
P er la prima volta da quando è cominciata la crisi dell'euro, Angela Merkel ha perso la sua maggioranza politica al Bundestag. Dei 330 voti di cui dispone il centrodestra, solo 304 hanno votato sì al secondo salvataggio della Grecia, sette in meno dei 311 seggi che fanno la maggioranza assoluta. Solo grazie al voto favorevole, ma molto critico, dell'opposizione socialdemocratica, il Bundestag ha autorizzato comunque con un amplissimo margine il nuovo piano da 130 miliardi per Atene. Ma l'indebolimento politico della Merkel è evidente. Oggi il 62 per cento dei tedeschi pensa che versare ancora soldi nel «pozzo senza fondo» della Grecia sia una follia. Lo ha gridato in prima pagina a titoli cubitali anche la Bild con un perentorio «Stop». E il ministro dell'Interno di Berlino ha rotto la disciplina di governo per dichiarare che sarebbe meglio il default, anche per i greci.
In queste condizioni è più difficile che la Merkel possa accettare nel vertice di fine settimana ciò che gli altri capi di governo dell'Europa si augurano, e cioè di portare a 750 miliardi di euro la dotazione complessiva dei fondi salva-Stati. Proprio quando sembrava che i nervi dei tedeschi si potessero rilassare insieme a quelli dei mercati (la Bce da due settimane non ha più bisogno di comprare titoli italiani e spagnoli), la doccia fredda del Bundestag ricorda a tutti che la crisi dell'euro è politica, prima ancora che finanziaria. E dunque ben lungi dall'essere risolta.
Tre lezioni si possono trarre dall'incidente di Berlino. La prima è che tutti coloro che, anche in Italia, accusano la Merkel di egoismo nazionale e di scarsa generosità nel salvare Atene, devono sapere che le cose potrebbero andare anche peggio se a prevalere fossero i sentimenti maggioritari nel popolo e nel parlamento tedesco. Del resto il primo salvataggio greco risale ormai a quasi due anni fa, e nemmeno la Merkel può escludere che ne sarà necessario un terzo. Ma il numero di volte in cui un governo può giustificare davanti ai propri contribuenti il salvataggio di un altro Paese è limitato. Forse in Germania il limite è già stato toccato.
Seconda lezione: non è proprio il caso di rilassarsi nemmeno in Italia. I progressi del nostro Paese ormai sono uno dei pochi argomenti efficaci in mano a chi sta provando a far ragionare i tedeschi. Se la minore pressione dei mercati si traducesse da noi in un annacquamento del programma di riforme, il danno non sarebbe solo interno. Non c'è nulla da temere di più che la mancanza di paura, chiosa l' Economist .
Terza lezione: si sta creando una tensione molto forte tra ciò che va fatto e ciò che gli elettorati sono disposti ad accettare, e questa tensione «democratica» è da sempre il pericolo maggiore per l'Unione, progetto di élite e tecnocratico per eccellenza. La Merkel è nei guai che abbiamo visto, e deve conquistarsi un terzo mandato l'anno prossimo. Ma già tra poche settimane in Francia una vittoria del socialista Hollande potrebbe portare alla richiesta francese di rinegoziare il Trattato fiscale appena varato. Senza contare che i sondaggi in Grecia pronosticano un trionfo di estremisti di ogni colore, e che in Italia nessuno sa chi governerà tra un anno, e se per vincere dovrà promettere di fermare la marcia delle riforme.
Neanche ancora scampato ai mercati, l'euro è ora nelle mani degli elettorati.

di Antonio Polito, dal corriere

Il crollo dei consumi che sfibra l'Occidente


di VITTORIO EMANUELE PARSI, dalla stampa

Ha ragione Charly Kupchan: «L’eventualità di un’epoca “post-occidentale”», contraddistinta dall’ascesa economica e geopolitica di potenze diverse da quelle della comunità atlantica sta alimentando un animato dibattito ricco «di riflessioni ansiose sul futuro dell’Occidente. Di fronte alla perdita della centralità dell’Occidente, la prospettiva di un suo progressivo allargamento, ovvero della trasmissione dei «valori occidentali» ai più rampanti tra gli attori emergenti (la Cina innanzitutto, ma anche la Turchia o la nuova Russia) può suonare rassicurante. In fondo essa riecheggia l’antico motto per cui «la Grecia conquistata conquistò a sua volta il rozzo vincitore», come ebbe a dire Orazio.

Una prospettiva rassicurante, quindi, eppure una prospettiva, purtroppo, irrealistica, per un Occidente che sembra intento piuttosto a «perdere i pezzi», abdicando ai suoi stessi valori, piuttosto che a espandere l’area della sua penetrazione politico-culturale. Proprio ciò che sta avvenendo in Grecia in questi mesi è la manifestazione più evidente della rinuncia occidentale a tutelare quella capacità di coniugare mercato e democrazia, sviluppo economico ed eguaglianza politica, ciò che - in altri termini - ha costituito la cifra più intima del «modello occidentale». La natura della crisi odierna è duplice. Da un lato paghiamo l’insufficiente sforzo di riflessione per adeguare le istituzioni politiche democratiche rappresentative alle sfide che esse devono fronteggiare. Dall’altro siamo schiacciati da forme di organizzazione della produzione che troppo spesso ottimizzano la produttività a scapito di qualunque altro valore (la globalizzazione evocata da Kupchan). Il risultato è il divorzio della ragione politica dalla ragione economica, la secessione di una razionalità rispetto all’altra che costituisce l’abiura dell’Occidente rispetto a se stesso.

Così va in scena il dramma greco, il dramma di un popolo il cui ceto medio è letteralmente «piallato», la cui sovranità è sospesa fino a data da destinarsi e i cui sacrifici sembrano oramai un supplizio di Tantalo. Tutto compiuto affinché l’euro sopravviva (certo), ma anche perché le banche estere che hanno concesso prestiti consapevolmente d’azzardo (lucrando profitti tanto facili quanto rischiosi) possano «socializzare» le perdite. Di fronte allo spettacolo di un Paese che può solo scegliere tra la bancarotta finanziaria e la bancarotta etica e sociale, a chi assiste non resta che la scelta tra il privilegio di una logica o di un’altra, tra il prevalere dell’economicismo o del politicismo.

Che «le cicale greche» riducano i loro consumi, dunque; che i greci tornino a essere «poveri» come son sempre stati, fin quando non potranno nuovamente «permettersi» i livelli di consumo degli «altri» europei, degli «altri» occidentali. Peccato che pochi sembrino preoccuparsi di quanto non i greci, ma tutti noi, cittadini (ex?) delle democrazie occidentali potremo permetterci (e fino a quando) che i livelli di consumo possano abbattersi senza trascinare con sé anche la pur minima fede nella democrazia. Democrazia che ha al suo cuore l’idea di eguaglianza, quella inscritta nella Dichiarazione del 4 luglio 1776, «che tutti gli uomini sono creati eguali (…) dotati di certi inalienabili diritti, (…) per garantire i quali sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla».

La sperimentazione concreta di questa idea di eguaglianza - disponibile a tutti e non solo a pochi - è il cuore della modernità politica occidentale, ciò che ha consentito la realizzazione della democrazia di massa, la quale è proceduta sottobraccio all’elevazione degli standard di consumo delle masse. A chi storce il naso di fronte a questo parallelo, a chi ci parla oggi della «virtù» del pauperismo e della decrescita e indulge nella nostalgia per società meno consumiste e più sobrie, occorre ricordare che il «volgare consumismo» è stato il meccanismo che ha indotto mobilità, rotto le gilde e le corporazioni e messo in crisi quelle società «bene ordinate», ma tremendamente ingiuste, sperequate, conservatrici e immobili.

Vale ancora la pena di rammentare che l’espansione dei consumi di massa ha fatto sperimentare in via concreta e indiretta - potremmo dire «surrogata», ma non per questo meno vera - l’eguaglianza a centinaia di milioni di persone, per le quali essa era stata fino a quel momento un concetto astratto e lontano. Ma non solo. Alla promessa di alti standard di consumi e di progresso individuale e collettivo, l’Occidente ha dovuto non poca parte della sua vittoria sul modello sovietico. Basti ricordare i diplomatici dell’Est espulsi dagli Usa negli Anni Ottanta, che tornavano a casa carichi di televisori e lavatrici o quanto la «voglia di fragole» (introvabili nella Ddr) e in generale di ordinari beni di consumo sia stata per i tedeschi dell’Est una molla non meno forte dell’aspirazione di libertà per voltare le spalle al paradiso dei lavoratori di Honecker.

Tutto questo ha fatto parte del mito attrattivo dell’Occidente rispetto al resto del mondo. Di tutto questo sembra che, oggi, ci stiamo dimenticando. Allora, come possiamo pensare di espandere agli altri un modello in cui neppure noi sembriamo più disposti a credere?


Ma la realtà è ancora allarmante Ma la realtà è ancora allarmante Ma la realtà è ancora allarmante Ma la realtà è ancora allarmante Ma la realtà è ancora allarmante Ma la realtà è ancora allarmante Ma la realtà è ancora allarmante Ma la realtà è ancora allarmante


Ma la realtà è ancora allarmante

di MARCELLO SORGI, dalla stampa

Si può guardare il compromesso raggiunto dal governo sugli emendamenti al decreto sulle liberalizzazioni con la logica del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Troppi cedimenti alle lobbies e alle categorie più forti di parlamentari professionisti, come gli avvocati, accusa chi si aspettava più durezza da Monti. Nella normale dialettica tra governo e Parlamento è normale che un decreto subisca delle modifiche nel corso dell'iter che precede la conversione in legge, è la replica dei tecnici, che oggi porranno la fiducia per evitare un ulteriore annacquamento del testo.

Su taxisti, farmacisti e avvocati, effettivamente il compromesso raggiunto sposta verso il basso l'asticella delle novità a cui adeguarsi: l'istituzione della nuova Autorità dei trasporti, che richiederà mesi, e la rinuncia ai preventivi obbligatori per i professionisti imposta dai molti deputati avvocati, sono due dei prezzi pagati al via libera per il decreto.

È innegabile tuttavia che così Monti in tempi brevi porterà a casa il secondo impegnativo capitolo del suo programma, mentre le proteste dei vertici bancari contro i conti correnti gratuiti per i pensionati con i redditi più bassi indeboliscono le accuse al governo di proteggere gli interessi delle banche.

Resta il fatto che man mano che i problemi economici per l'Italia si allontanano dal livello di guardia, pur restando gravi, grazie agli effetti dei primi mesi di attività del governo, e via via che le scadenze elettorali si avvicinano, aumentano le resistenze dei partiti, che non vedono l'ora di recuperare il loro ruolo, rispetto alle iniziative riformatrici dei tecnici. Valutazioni che non fanno i conti con una realtà che continua a rimanere allarmante e in cui il quadro europeo non fa purtroppo registrare mutamenti significativi (bastino solo come esempi la crescente instabilità tedesca che riduce i margini di manovra della Merkel e l'ulteriore peggioramento della situazione della Grecia).

Inoltre, al di là della crisi economica che continua, il governo deve fronteggiare le altre emergenze. A cominciare da quella No-tav che non accenna a placarsi, ora che la fase degli espropri dei terreni è arrivata.

Non a caso ieri, dopo un'altra giornata di blocchi stradali e scontri tra manifestanti e polizia, la preoccupata ministra dell' Interno Cancellieri ha sottolineato la necessità di muoversi con cautela, e non solo con la forza, in uno scenario, come questo, ad alto rischio.

martedì 28 febbraio 2012

LA CLASSE DIRIGENTE ITALIANA


LA CLASSE DIRIGENTE ITALIANA
Un club esclusivo di una certa età
Ciò che più colpisce nell'elenco dei grandi manager pubblici percettori di alti redditi, reso noto nei giorni scorsi, è sì l'ammontare di denaro che ognuno di essi intasca ma insieme, e forse soprattutto, è il loro sesso e la loro età. Non ce n'è uno che abbia meno di cinquant'anni (a dir poco: la media è senz'altro assai più alta) e, tranne un paio di eccezioni che confermano la regola, sono tutti invariabilmente maschi. È una situazione che non riguarda solo il settore pubblico. In generale, infatti, è tutta la classe dirigente italiana che corrisponde a questa caratteristica: un gruppo di maschi maturi, o più che maturi, con retribuzioni enormemente superiori alla media, ognuno titolare di una quantità straordinaria di incarichi. Non si tratta dunque solo dei politici che anzi, secondo me, possono essere annoverati da molti punti di vista tra i meno privilegiati. In misura assai più pronunciata presentano i caratteri di un'oligarchia di anziani colmi di benefici vari (non sempre monetari) pure i vertici delle aziende e delle amministrazioni pubbliche, dell'università, della magistratura e al tempo stesso anche quelli del settore privato: dalla finanza (dove qualche tempo fa, non a caso, un novantenne si sentì vittima di una colossale ingiustizia perché invitato a lasciare il suo posto) all'industria, fino al giornalismo, dove spesso i direttori, i commentatori e i titolari di rubriche costituiscono un vero e proprio club esclusivo dei soliti noti.

Intendiamoci: parole d'ordine come «largo ai giovani» o «rottamiamo i vecchi» di per sé non hanno mai portato da nessuna parte, ma ciò non toglie che una società com'è per l'appunto quella italiana attuale, ai cui posti di comando non c'è neppure un quarantenne, sia inevitabilmente una società poco dinamica, incapace di rischiare, di misurarsi con il futuro. Cioè una società destinata alla decadenza oltre a essere una società profondamente ingiusta. Infatti - poiché è difficile pensare che l'eccellenza, guarda caso, corrisponda sempre e comunque all'età - nulla come un così diffuso dominio dei vecchi indica fino a che punto in Italia il merito non sia tenuto quasi in alcun conto come criterio decisivo per l'assegnazione di un qualunque incarico. Dappertutto sempre uomini di una certa età, accumulatori spesso a dismisura di cariche e incarichi sottratti ai più giovani: anche in questo modo il nostro Paese si è venuto privando di quella grande risorsa che in mille occasioni passate ha rappresentato il suo capitale umano.

Quanto detto riguarda anche i partiti. Stretti nella tenaglia del discredito pubblico che li colpisce dal basso e del commissariamento del governo Monti che li insidia dall'alto, non riusciranno a sopravvivere se non cambieranno profondamente. Innanzi tutto evitando di presentarsi con le stesse voci e gli stessi volti di sempre. In nessun Paese sono oggi al potere persone che già negli anni 70-80 occupavano posti di rilievo sulla scena pubblica. E di conseguenza in nessun Paese capita di sentire oggi sulla bocca dei politici affermazioni, proposte, enunciazioni programmatiche, che sono l'esatto contrario, o comunque diversissime, da quelle che i medesimi, con la medesima sicurezza, dicevano ieri. Uno ieri che in più di un caso era soltanto pochi mesi fa.

di Ernesto Galli Della Loggia, dal corriere

Nostalgia bipolarista per Pd e Pdl


di MARCELLO SORGI, dalla stampa

Le reazioni, non ancora esaurite, alla sentenza di proscioglimento per prescrizione di Berlusconi dall'accusa di corruzione al processo Mills, per due giorni hanno fatto rivivere l'atmosfera del muro contro muro a cui il ventennio del Cavaliere ci aveva abituato e che era stata via via cancellata dall'avvento dei tecnici. Era un po' che i paladini delle due parti non scendevano in campo con tanta veemenza. Viene da chiedersi cosa sarebbe successo se, invece che prescritto, Berlusconi fosse uscito condannato dal tribunale di Milano, e quanto ne avrebbe risentito l'attuale governo che si regge su una tregua tra centrodestra e centrosinistra: quanto fragile s'è appena visto.

Casini resta l'unico a predicare tutti i giorni che Monti e la maggioranza a tre restano la soluzione per l'oggi e per il domani. Data la portata dell'emergenza, non si può escludere che si riveli necessario anche dopo le elezioni del 2013. Ma in realtà la stanca rimessa in scena dello scontro pro o contro Berlusconi rivela, più che un'insofferenza alla camicia di forza imposta da Napolitano con il governo tecnico a Pdl e Pd, una nostalgia del bipolarismo come unico terreno di sopravvivenza di partiti che solo formalmente si confrontano sull' eventualità di una serie di riforme mirate a riqualificare la politica davanti a elettori ormai scettici, e a una sorta di disarmo equilibrato dopo la guerra dei vent'anni, per uscire dalla lunghissima e inconcludente stagione della transizione italiana. Mentre i vertici trattano, infatti, la pancia dei diversi partiti mette in conto, e in parte punta apertamente, sul fallimento di ogni tentativo di intesa e sul ritorno alle elezioni, l'anno prossimo, o con la vecchia legge Porcellum o con un sistema elettorale leggermente modificato ma sostanzialmente uguale a quello tante volte ufficialmente vituperato. Di qui appunto il risveglio delle polemiche sulla giustizia dopo la sentenza Berlusconi. E di qui il probabile affondamento di ogni tentativo riformatore del settore da parte del ministro tecnico Severino, che sta andando incontro in Parlamento a difficoltà sempre maggiori sulla legge anticorruzione.

Anche il crescente discredito dei partiti nei sondaggi, che segnalano come la soglia di fiducia nelle forze politiche dei cittadini sia scesa sotto il dieci per cento, non sembra preoccupare più di tanto i sostenitori dello status quo. Ai loro occhi il bipolarismo serve anche a costringere gli elettori disillusi ad abbandonare le ubbie e a schierarsi a qualsiasi costo. Almeno al momento del voto.

lunedì 27 febbraio 2012

Il vero spread è tra debito e democrazia


Il vero spread è tra debito e democrazia
di Guido Rossi, Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2012

Il rapporto tra il debito degli Stati e le sovranità popolari rimane incerto e inquietante. Incerto perché non sono ancora né chiare né risolutive le soluzioni che vengono offerte per il debito pubblico, sia quella che si affidi a una rigorosa disciplina di tipo costituzionale sulla parità dei bilanci statali, accompagnata a forme di salvataggio e ristrutturazione del debito, sia quella che si voglia invece affidare alle forze dei mercati, ondeggiando pericolosamente sulle loro irrazionali tenute. Nell'un caso, come nell'altro, il debito degli Stati porta ad affrontare il complicato rapporto con la democrazia.

Due sono le difficoltà che rendono inquietante il rapporto. La prima riguarda un problema di equità fra generazioni. Ogni decisione governativa che prenda impegni finanziari vincolanti per le politiche economiche future è certamente incauta se non irresponsabile, perché impegna inesorabilmente le nuove generazioni. Tuttavia, permettere al futuro di esercitare un veto sulle decisioni relative alle attuali imposizioni fiscali e spese pubbliche è altrettanto pericoloso.

Tutto ciò va detto, in verità, perché questa incredibile tensione tra democrazia e debito rimane inquietante anche laddove le maggioranze democratiche siano costrette, per ragioni esterne, ad affrontare serie politiche di austerity, come sta succedendo attualmente nei Paesi dell'Unione Europea.

Il rapporto "debito pubblico democrazia" ha una lunga storia, ben illustrata da una recente ampia letteratura. Ne è esempio l'autorevole Yale Law Journal il cui ultimo numero contiene ben due articoli su "democrazia e debito".

Il rapporto conflittuale emergeva negli Stati Uniti già nella prima metà dell'800, quando nove Stati erano ridotti all'insolvenza, impossibilitati a pagare i loro debiti alla scadenza; ma la più eclatante emersione avvenne nel periodo della Grande Depressione, quando più di tremila municipalità si trovavano in stato di default.

È pur vero che già il grande filosofo David Hume aveva avvertito che il debito pubblico cede i poteri a una classe di finanzieri subordinando il benessere dei cittadini a quello dei creditori, e così mette in discussione l'indipendenza dello Stato. La verità è che Stati come quelli europei, che non controllano la loro politica monetaria, sono in preda a una disciplina diversa rispetto a quella degli Stati completamente sovrani, che hanno tutti i loro strumenti di politica finanziaria e monetaria sotto il loro controllo e a loro disposizione. E non corre dubbio che, tuttavia, anche per quegli Stati a piena sovranità, i limiti costituzionali agli investimenti pubblici e a ogni tipo di politica fiscale e di restrizione dei requisiti di bilancio, costituiscono un ostacolo al retto processo rappresentativo politico, condizionando i rappresentanti dei cittadini a svolgere pratiche di governo che sovente sono contrarie al bene comune che dovrebbero perseguire.

A evitare che con lo stato di eccezione il problema si trasformi da questione teorica in disciplina legislativa, sorda a ogni esigenza di eguaglianza sociale e vittima dell'imposto salvataggio delle strutture della speculazione finanziaria, è indispensabile che le priorità e il baricentro delle politiche dei governi europei si spostino. Anziché badare esclusivamente alla difesa del sistema finanziario, che invece necessita di una rigorosissima nuova regolamentazione, occorre che le politiche economiche e sociali si orientino all'eliminazione delle disuguaglianze, per assicurare ai cittadini la priorità dei diritti che Norberto Bobbio usava chiamare di prima e di seconda generazione, piuttosto che soddisfare l'interesse dei creditori, da pagare col sacrificio dei contribuenti.

(27 febbraio 2012)

Art. 18 : quante inesattezze, approssimazioni, bugie! universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!


APPELLO

Desta grande sconcerto, tra gli operatori giuridici (avvocati, magistrati) che quotidianamente hanno a che fare, per il loro lavoro, con la tematica dei licenziamenti, il livello di approssimazione e di assoluta lontananza dalla realtà con cui tanti autorevoli personaggi della politica, del giornalismo e persino dell’economia affrontano l’argomento, contribuendo ad alimentare una campagna di disinformazione senza precedenti.
Sta infatti entrando nella convinzione del cittadino (che non abbia, in prima persona o attraverso persone vicine, vissuto il dramma della perdita del posto di lavoro) la falsa impressione che in Italia sia pressoché impossibile licenziare, persino nei casi in cui un’impresa, in comprovate difficoltà economiche e finanziarie, con forte calo di ordini e bilanci in rosso, avrebbe necessità di ridurre il proprio personale (caso spesso citato nei dibattiti televisivi per mostrare l’assurdità di una legislazione che ingessi fino a questo punto l’attività imprenditoriale). Queste leggi assurde, poi, si salderebbero con una asserita “eccessiva discrezionalità interpretativa” dei magistrati (categoria della quale, nell’ultimo ventennio, ci hanno insegnato a diffidare) e sarebbero la causa, o quantomeno la concausa, del precariato giovanile.
Senza considerare che è l’Europa a chiederci di rivedere la normativa in tema di licenziamenti, perché eccessivamente rigida. Inoltre il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro sarebbe un’ “anomalia nazionale”.
Come si sa, il principio di propaganda che sostiene che “una bugia ripetuta mille volte diventa verità” paga, ed è estremamente rara, nei talk show televisivi, la presenza di giuslavoristi che raccontino cosa effettivamente accade nei luoghi di lavoro, nelle trattative sindacali, negli studi degli avvocati e nelle aule di giustizia: che cioè la legge già consente di licenziare per motivi “inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” e che conseguentemente i licenziamenti per riduzione di personale avvengono quotidianamente, sia da parte di aziende con meno di 16 dipendenti (che non hanno altro onere che quello di pagare un’indennità di preavviso molto più bassa di quella prevista in altri paesi europei: solo ove un giudice accerti che le motivazioni addotte non sono vere, dovrà pagare un’ulteriore indennità, comunque non superiore a sei mensilità) sia da parte delle grandi aziende (che in caso di esubero di personale di più di cinque unità devono solo seguire una procedura che coinvolge il sindacato, ma che le vincola – anche in caso di mancato accordo sindacale al suo esito – esclusivamente a seguire dei criteri oggettivi nella selezione del personale da licenziare). Al di fuori dei licenziamenti per motivi economici – rispetto ai quali il giudice ha (solo) il potere di effettuare un controllo: a) di verità sui motivi addotti nei licenziamenti individuali e b) di regolarità della procedura nei licenziamenti collettivi – l’art. 18 si applica, ai datori di lavoro con più di 15 dipendenti, in caso di licenziamenti individuali, quasi sempre per motivi disciplinari.
E qui, di volta in volta, il magistrato valuta il caso concreto, che non è mai come quelli da barzelletta che vengono talvolta riportati per dimostrare l’arbitrarietà del giudice e la presunta assurdità del sistema. Da oltre trent’anni si sente parlare del caso del garzone del macellaio amante della moglie del datore di lavoro, che sarebbe stato reintegrato perchè i fatti avvenivano al di fuori dell’orario di lavoro. Basta che una falsa notizia come questa venga detta in televisione, ed ecco che il quadro è completo e il prodotto confezionato: l’opinione pubblica, dopo un mese di questa martellante propaganda, è pronta ad accettare le giuste soluzioni che – condivise o non condivise da tutti i sindacati – ci facciano fare quel passo decisivo per adeguare l’Italia alle nuove esigenze della globalizzazione e renderla finalmente competitiva anche rispetto ad altri paesi europei che hanno una maggiore flessibilità in uscita.
Ma è proprio vera quest’ultima cosa? Come mai non riusciamo a leggere in nessun giornale che gli indici OCSE che segnalano la cd. rigidità in uscita collocano attualmente l’Italia (indice dell’1.77) al di sotto della media europea (basti dire che la Germania ha l’indice 3.00)? Ed è proprio vero che il diritto alla reintegrazione (in caso di licenziamento dichiarato illegittimo) è previsto solo nel nostro Paese? Premesso che il discorso dovrebbe essere approfondito, va detto che in certi Paesi è addirittura costituzionalizzato (Portogallo) ed in altri è un rimedio possibile (ad esempio Svezia, Germania, Norvegia, Austria, Grecia, Irlanda, in taluni casi Francia) spesso accompagnato da ulteriori tutele.
La verità è che non esiste un vero collegamento tra la ripresa produttiva e la libertà di licenziare, e forte è quindi il timore che il ”governo tecnico”, approfittando della crisi economica, possa dare attuazione ad un antico progetto di riassestamento del potere nei luoghi di lavoro, che per essere esercitato in modo sovrano mal tollera l’esistenza di norme di tutela dei lavoratori dagli abusi. Perchè è questo, e solo questo, il senso profondo dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: una norma che sanziona il comportamento illegittimo del datore di lavoro ripristinando lo status quo ante che precedeva il licenziamento – lo si ribadisce – illegittimo. E la cui esistenza, per l’appunto, impedisce che il potere nei luoghi di lavoro (con più di 15 addetti, purtroppo, perchè altrove, appunto, tale tutela non c’è) possa essere esercitato in modo arbitrario e lesivo della dignità dei dipendenti.
Ma nello stesso tempo occorre valutare con estrema attenzione anche tutte quelle prospettate soluzioni che, prevedendo la “sospensione temporanea” dell’articolo 18 per i primi tre o quattro anni per i giovani in cerca di un’occupazione stabile, teoricamente non sottrarrebbero la tutela dell’art. 18 “a chi già ce l’ha”.
Occorre, infatti, quanto meno scongiurare l’ipotesi che in tale formula rientrino tutti i nuovi rapporti di lavoro poiché, altrimenti, inevitabilmente vi ricadrebbero anche coloro che, pur avendo goduto in passato della tutela dell’articolo 18, si ritrovino in stato di disoccupazione (dato che, come abbiamo visto, la norma non vieta affatto di licenziare, sanzionando solo i licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo, e quindi solo quelli illegittimi). E dal momento che, checché se ne dica, il posto di lavoro fisso a vita è veramente un sogno e il mercato del lavoro è in continuo movimento (specie per quanto riguarda l’invocata flessibilità in uscita), nel caso in cui le disposizioni in cantiere non siano circoscritte con precisione, avremmo un esercito di disoccupati attuali o potenziali anche ultracinquantenni che, lungi dal portarsi dietro, infilato nel taschino della giacca, l’articolo 18 goduto nel precedente posto di lavoro, ingrosserebbero le fila dei nuovi precari. Perchè diversamente non possono essere considerati dei dipendenti che per tre o quattro anni siano sottoposti al ricatto della mancata stabilizzazione ove non “righino dritto” senza ammalarsi, fare figli, scioperare o avanzare rivendicazioni di sorta (e se, alla fine del triennio, non vi sarà – com’è probabile – alcuna garanzia di “stabilizzazione” del rapporto, in questo gioco dell’oca si potrà tornare alla casella di partenza, con un diverso datore di lavoro…).
Ecco quindi che, per altra strada, si arriverebbe a ridimensionare anche i diritti di coloro ai quali l’articolo 18 attualmente si applica, risultato che la propaganda vorrebbe finalizzato a favorire quelli che ne sono esclusi: come ha scritto Umberto Romagnoli, è come avere la pretesa di far crescere i capelli ai calvi rapando chi ne ha di più.
Un’ultima annotazione su un’altra soluzione di cui si sente parlare: la sostituzione della sanzione prevista dall’articolo 18 (reintegrazione) con un’indennità in tutti i casi di licenziamenti semplicemente motivati da ragioni economiche.
Si è già detto che tali licenziamenti sono già consentiti, e secondo l’art. 30 della legge 183 del 2010 “il controllo giudiziale è limitato esclusivamente (…) all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro”.
Cosa si vuole di più? Perchè si vorrebbe impedire al giudice anche un accertamento di legittimità (e non di merito) sulle motivazioni addotte? Forte è il sospetto che in questo modo si voglia consentire al datore di lavoro di liberarsi di dipendenti scomodi semplicemente adducendo una motivazione economica, anche se non vera. Sancendo così, automaticamente, il pieno ritorno agli anni cinquanta, quando i licenziamenti erano assolutamente liberi e la Costituzione nei luoghi di lavoro, faticosamente introdotta nel 1970 dallo Statuto dei lavoratori, semplicemente un sogno.
Auspichiamo proprio che, con la scusa di dover riformare il mercato del lavoro, non si arrivi a tanto.



Tratto da: L’articolo diciotto: le verità nascoste | Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2012/02/27/l%e2%80%99articolo-diciotto-le-verita-nascoste/#ixzz1ncY9qwZl
- Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!

domenica 26 febbraio 2012

Presidenzialismo parlamentare


PROPOSTE PER RIFORMARE I POTERI
Presidenzialismo parlamentare
L'imprevisto governo dei tecnici ha riaperto tutti i giochi, ivi incluso quello (necessarissimo) della riforma elettorale. Difatti i maggiori partiti (Lega esclusa) si stanno già incontrando per accordarsi su una nuova legge per votare. Ma dai primi incontri sono emerse soltanto, per ora, stramberie che anch'io stento a capire. Aspettando idee migliori, è tempo di realizzare che noi abbiamo già sviluppato e stiamo già praticando un costituzionalismo anomalo che dirò «presidenzialismo parlamentare». Che non ha bisogno di essere spiegato ai lettori del Corriere perché questa formula trova nel mio collega Angelo Panebianco un inventore di straordinaria perseveranza e bravura. Il che mi consente di entrare subito in argomento.

Ripartendo dall'inizio, noi abbiamo una costituzione parlamentare «pura» il cui difetto di nascita è di essere nata nel 1948 e quindi con la paura del «troppo potere» (uscivamo da una dittatura e già si intravedeva, nel Pci, un temibile partito comunista). Questo difetto di nascita non ha creato problemi finché è durata l'egemonia democristiana; ma con la sua fine è presto diventato evidente che il nostro era un potere di governo troppo debole. Difatti il grosso dei nostri costituzionalisti da gran tempo suggerisce due rinforzi: l'adozione del voto di sfiducia costruttivo vigente in Germania (un governo non può essere rovesciato se non è già concordato il nuovo premier) e, secondo, l'attribuzione al premier del potere di cambiare sua sponte i ministri del suo governo.

Io e molti altri si accontenterebbero di queste due piccole e semplici riforme. Ma Panebianco e il gruppo al quale appartiene persegue da tempo un altro disegno: quello di trasformare il nostro sistema parlamentare in un sistema di potere presidenziale diretto e pressoché incontrollato (molto più forte del presidenzialismo americano, perché non sarebbe intralciato dalla divisione dei poteri tra esecutivo e legislativo).

Non posso illustrare qui l'intero disegno; basterà ricordarne qualche aspetto. Intanto, uno spauracchio: attenti, rischiamo di perdere il nostro bipolarismo. Ma questa perdita non dipende, se avviene, dal sistema elettorale (maggioritario o proporzionale che sia) ma semmai dalla frammentazione-polverizzazione del sistema partitico. Secondo, la dottrina del ribaltone. Un reato che non è contemplato da nessun sistema parlamentare, perché la caratteristica di questi sistemi è, appunto, la loro flessibilità e cioè di consentire cambiamenti di governo e di maggioranze. L'ultima trovata, la più recente, è di conferire al premier (togliendolo al capo dello Stato) il potere di sciogliere le Camere. Una proposta che mi sembra inaccettabile, visto che darebbe al premier un potere sui parlamentari che è davvero uno strapotere.

Tutta questa deriva verso un presidenzialismo (anzi un iperpresidenzialismo), che non è disciplinato né dalle regole del sistema parlamentare né dai vincoli del presidenzialismo americano, si riassume nel colpo di mano (avallato a suo tempo senza fiatare dal presidente Ciampi) che introdusse il nome del candidato premier sulla scheda elettorale. Per ora non è successo, ma un qualche futuro candidato potrebbe sostenere che il capo dello Stato non interviene più nel processo di nomina. Lui è già eletto capo del governo dal voto popolare e poi potrà governare vantando di essere direttamente eletto e voluto dal popolo. Un vanto infondato (il suo nome non è scritto dal votante e la scheda nemmeno consente cancellazioni). Mi auguro che il prossimo sistema elettorale cancelli anche questa pericolosa birbonata.

di Giovanni Sartori, dal corriere
26 febbraio 2012

Legge Ciriello, lodo Alfano e Legittimo impedimento: ovvero il gioco delle tre carte truccate.


Un esito figlio di tre leggi




di CARLO FEDERICO GROSSO, dalla stampa

Il Tribunale di Milano ha «prosciolto» ieri Berlusconi per intervenuta prescrizione. Questa decisione può essere condivisa o non essere condivisa. Come dimostra la varietà delle reazioni manifestate alla sentenza, c’è chi ritiene che l’ex presidente del Consiglio avrebbe dovuto essere assolto nel merito e chi ritiene che egli avrebbe dovuto essere invece condannato.

Discutere questo tema, a questo punto, non appassiona più di tanto. Interessa, piuttosto, chiarire le ragioni che hanno consentito che la prescrizione potesse maturare. La domanda è la seguente. Si è trattato di un decorso del tempo dovuto alle eccessive lungaggini in cui si dibatte sovente la giustizia italiana o di un epilogo giudiziale che non si sarebbe verificato se non fossero intervenute pesanti interferenze legislative sull’ordinato e ragionevole svolgimento dei processi?

Sul punto non credo vi possano essere dubbi. La sentenza maturata ieri è la conseguenza diretta degli interventi legislativi attraverso i quali, nell’ultimo decennio, una parte della classe politica ha cercato di intralciare, coprire, proteggere. Intralciare l’ordinato esercizio della giustizia; coprire e proteggere coloro che avrebbero dovuto essere, invece, inflessibilmente perseguiti.

Tre sono gli interventi legislativi che hanno, sia pure in modo diverso, interferito sul processo Mills: la legge Cirielli, il lodo Alfano, il c.d. legittimo impedimento. Il primo intervento, diretto in realtà a «tutelare» numerosi imputati eccellenti in numerosi processi penali, ha prodotto sul processo Mills effetti devastanti, consentendo l’epilogo di non luogo a procedere per prescrizione maturato ieri.

Il secondo ed il terzo, pensati specificamente per «coprire» l’allora presidente del Consiglio, non hanno conseguito l’obiettivo «di blocco» del processo perseguito con la loro approvazione (in quanto entrambi sono stati tempestivamente dichiarati illegittimi dalla Corte Costituzionale), ma sono comunque serviti a dilatare i tempi processuali.

La legge Cirielli, approvata nel 2005, ha rivoluzionato disciplina e durata della prescrizione, prevedendo, soprattutto con riferimento a reati che destavano particolare «preoccupazione» nel mondo della politica, significative abbreviazioni dei tempi necessari a prescrivere (ad esempio, nella corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio da quindici anni si è scesi a sette anni e mezzo, nella corruzione in atti giudiziari da quindici anni si è scesi a dieci anni).

Accorciare la durata della prescrizione può anche costituire un obiettivo apprezzabile: purché si assicuri, con riforme appropriate dei codici e dell’organizzazione giudiziaria, che i tempi necessari a celebrare i processi si accorcino parallelamente. Se si abbrevia la prescrizione senza assicurare (con le menzionate riforme) che i processi si accorcino, la conseguenza sarà, invece, nefasta: migliaia di reati si prescriveranno per impossibilità di portare a compimento in tempo utile i dibattimenti.

E’ ciò che è accaduto, appunto, con la legge Cirielli, che rompendo (volutamente) l’equilibrio prima esistente fra la durata della prescrizione e quella dei processi, ha prodotto l’estinzione di migliaia di reati. Fra di essi, anche l’estinzione della corruzione in atti giudiziari contestata a Berlusconi (con la vecchia legge tale reato si sarebbe prescritto in quindici anni e non in dieci, e si sarebbe pertanto sicuramente concluso con una sentenza di merito di condanna o di assoluzione).

Ma ad interferire sul processo Mills non è stata soltanto la legge Cirielli. Sono stati, anche, il lodo Alfano e la legge sul legittimo impedimento. Con il lodo Alfano (22 luglio 2008) il Parlamento ha previsto la «sospensione» dei processi penali a carico delle più alte cariche dello Stato. Entrato in vigore il lodo, la posizione di Berlusconi è stata, ovviamente, stralciata dal processo ed esso è proseguito a carico del solo avvocato inglese. Poiché la Corte Costituzionale ha, successivamente, dichiarato il lodo illegittimo (7 ottobre 2009), il processo a carico di Berlusconi ha potuto in ogni caso, ed a dispetto di coloro che avevano votato la legge, ripartire abbastanza tempestivamente (dicembre 2009).

A questo punto il Parlamento è intervenuto nuovamente, approvando una legge che prevedeva un regime particolarmente «vantaggioso» di legittimo impedimento del presidente del Consiglio, che gli consentiva di dichiarare la ragione della richiesta di rinvio delle udienze senza possibilità di sindacato da parte del giudice. Anche questa legge è stata giudicata (in parte) illegittima dalla Corte Costituzionale (13 gennaio 2011; è poi stata abrogata con il referendum del 12 e 23 giugno 2011). Ma nel frattempo ha consentito a Berlusconi di ottenere rinvii utili a rallentare ancora una volta il dibattimento.

La prescrizione del reato di corruzione contestato a Berlusconi non può, dunque, essere addebitata ad una cattiva gestione processuale. I giudici, anzi, sembrano avere fatto ogni sforzo per cercare di riassumere il processo appena possibile ogni volta in cui esso s’inceppava a causa delle sospensioni e dei rinvii imposti dalle leggi. E quando gli ostacoli giuridici si sono allentati, hanno comunque cercato d’imprimergli un ritmo il più veloce possibile.

E’ sicuramente dovuta, invece, alla legge Cirielli ed alla sua infausta alterazione del giusto equilibrio che deve intercorrere fra durata della prescrizione e tempo necessario per celebrare i processi complessi. A quando finalmente, a livello di governo, una seria riflessione sulla prescrizione, in grado di rimuovere l’intollerabile situazione in cui è costretta, oggi, la giustizia penale?

sabato 25 febbraio 2012

Ogni riferimento a fatti e persone, è da ritenersi del tutto casuale


DIZIONARIO DI DIRITTO
05/03/2010 -
Assoluzione e prescrizione
di GERMANO PALMIERI, dalla stampa
L’assoluzione

   L’assoluzione è uno dei possibili epiloghi del processo penale e consiste nel liberare l’imputato dall’imputazione formulata nei suoi confronti; la qual cosa, però, non esclude che l’imputato possa essere assoggettato, ricorrendone i presupposti, a una o più misure di sicurezza.
   In particolare (art. 530 del codice di procedura penale), il giudice pronuncia sentenza di assoluzione nei seguenti casi:
- se il fatto non sussiste;
- se l’imputato non lo ha commesso;
- se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato;
- se il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per un’altra ragione;
- se manca, o è insufficiente, o è contraddittoria la prova che il fatto sussista, che l’imputato lo abbia commesso, che il fatto costituisca reato o che il reato sia stato commesso da persona imputabile;
- se vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione (per esempio legittima difesa, esercizio di un diritto, stato di necessità) o di una causa personale di non punibilità, o vi è il dubbio sull’esistenza delle stesse.
Presupposto comune ai suddetti casi è che si è celebrato un processo, al termine del quale il giudice ha emesso una sentenza che non ha ritenuto l’imputato colpevole.

La prescrizione
   La prescrizione può riguardare sia la pena che il reato.  Si ha prescrizione della pena (artt. 172 e 173 del codice penale) quando l’esecuzione della pena non ha inizio entro un certo termine dalla pronuncia della sentenza di condanna, termine variabile a seconda del tipo di pena. In particolare, la reclusione si estingue con il decorso di un periodo di tempo pari al doppio della pena inflitta (in ogni caso non superiore a 30 e non inferiore a 10 anni), la multa si estingue in 10 anni, arresto e ammenda in 5 anni. Particolari disposizioni regolano, per esempio, i reati puniti sia con pena detentiva che con pena pecuniaria, il concorso di reati e i casi di reati commessi da persone recidive o da delinquenti abituali, professionali o per tendenza. La prescrizione della pena impedisce che questa possa essere eseguita.
    Quanto alla prescrizione del reato (art. 157 e segg. c.p.), essa estingue il reato (ossia lo fa venir meno per il diritto)  decorso il periodo di tempo stabilito dalla legge senza che sia intervenuta sentenza di condanna o taluno degli altri provvedimenti indicati dalla stessa legge: per es. decreto di condanna, ordinanza di rinvio a giudizio. In particolare,  la prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale (ossia stabilita dalla legge) e comunque un tempo non inferiore a 6 anni se si tratta di delitto (inteso il termine non come sininimo di omicidio ma come reato punito con la reclusione e/o con la multa) e a 4 anni se si tratta di contravvenzione (ossia di reato punito con l’arresto e/o con l’ammenda), ancorché puniti con la sola pena pecuniaria. Questi termini sono raddoppiati per alcuni reati: per es. omicidio colposo commesso con violazione delle nome sulla circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. Particolari disposizioni regolano la fissazione del termine di prescrizione dei reati puniti, alternativamente o congiuntamente, con pena detentiva e con pena pecuniaria, e di quelli commessi in presenza  di talune circostanze aggravanti. La prescrizione del reato, alla quale l’imputato può comunque rinunciare, non estingue i reati per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo.


Attacco al PIL

di Aldo Femia , Angelo Marano

È bene mettere in discussione il Pil, come misura di benessere, ma ancora più importante è perseguire un modello alternativo di sviluppo, non fondato sul consumo e la mercificazione, votato alla riconversione ecologica e alla difesa dei beni comuni e ancorato al senso del limite
La denuncia dell’inadeguatezza del Pil e dell'urgenza di una revisione delle sue modalità di misurazione pervade ormai la discussione dei movimenti. Tuttavia, l’enorme impegno di analisi tecnica ed elaborazione profuso rischia di alimentare l’illusione che, una volta modificata la misura, cambieranno con essa le priorità della società. Illusione, perché senza l’elaborazione e il perseguimento di un modello alternativo di sviluppo, non fondato sul consumo e la mercificazione, l’azione demistificatoria sul Pil non potrà che rivelarsi velleitaria.
Fissiamo innanzitutto un punto di partenza. Il Pil e la sua dinamica sono per definizione inadatti a rappresentare lo stato di benessere, o di felicità, o di sostenibilità della comunità nazionale e dei suoi modi di vivere. Gli specialisti ne hanno tradizionalmente colto molti specifici elementi di inadeguatezza, ma non sono mai arrivati a metterlo in discussione quale misura di benessere, al più integrandolo con indicatori relativi alla sostenibilità o al progresso sociale. Bene ha fatto, dunque, la società civile a mettere in discussione il Pil, mostrandone in maniera incontrovertibile incongruenze e substrato ideologico, altrimenti saremmo ancora all’anno zero. Se si può ammettere, seguendo l’insegnamento di Giorgio Fuà, che, fino ad un certo punto, la crescita del Pil pro-capite si è accompagnata ad un aumento della speranza di vita e ad una riduzione della mortalità infantile, oggi alla crescita del Pil non dovrebbe essere riconosciuta cittadinanza né valenza normativa (neppure in negativo!) in qualsivoglia programma progressista. Un tale programma, infatti, non può che prevedere una profonda riconversione ecologica, de-mercificazione, difesa dei beni comuni, sobrietà negli stili di vita e senso del limite: tutte cose la cui relazione con il Pil è molto problematica.
Ciò premesso, è necessario rifuggire da schematismi del tipo: il Pil non rappresenta il benessere, quindi va cambiato. Perché in quel quindi si annidano una premessa sbagliata e un salto logico. La premessa sbagliata è che sia possibile, modificando il calcolo del Pil, ottenere un nuovo indicatore sintetico, capace, però, di rappresentare il benessere; ciò richiederebbe di stabilire rapporti di scambio tra valori di natura affatto diversa, economici e non, dichiarando implicitamente che tutto è scambiabile e nulla è indisponibile (neppure i beni comuni!). Se è importantissimo supportare con strumenti di misura appropriati il perseguimento di obiettivi di giustizia sociale e sostenibilità, è molto più promettente, da questo punto di vista, un approccio basato non su una, bensì su più misure, separate e specifiche, per ciascuno degli obiettivi, purché in numero comunque contenuto. In effetti, la statistica ufficiale già offre parecchio al riguardo, più di quanto generalmente non si sappia, anche se molto è ancora da fare.
Il salto logico sta nella convinzione, spesso inconscia, che, poiché la società si regola sul Pil, anche i suoi obiettivi possano essere modificati cambiando il Pil. Ma, quand’anche si pervenisse ad una definizione del Pil soddisfacente, è improbabile che giornalisti, economisti, imprenditori, sindacalisti e politici continuerebbero a guardare al Pil (modificato) come al faro del progresso, come fatto finora. Più probabilmente, essi si affiderebbero ad un altro metro, funzionale, com’era il vecchio Pil, all'obiettivo della crescita dei valori monetari prodotti, senza mutare la sostanza del loro giudizio e della loro azione. La crescita consumistica è infatti condizione di sopravvivenza del sistema capitalistico e, se non si è in grado di concepirne e progettarne un altro, sempre ad essa si torna.
Facciamo due esempi. Per quanto riguarda il sindacato, il cui sacrosanto obiettivo primario è la difesa dell'occupazione, la coazione “crescitista” è l'esito naturale della rinuncia all'obiettivo della riduzione del tempo di lavoro. Per il centro-sinistra, la stessa ossessione è l’esito naturale dell’aver abbandonato, pure piuttosto precipitosamente, la critica al mercato per farsene invece principale, e spesso acritico, interprete, come notava qualche anno fa Roberto Schiattarella su “Democrazia e Diritto”. D’altra parte, in un capitalismo sempre più finanziario, dove monta l'enfasi su indici di borsa, rating, spread (da ultimo, incredibilmente, identificato dal governo come bussola per la riforma del mercato del lavoro) e col definitivo prevalere a livello comunitario del parametro deficit pubblico su tutto il resto, si ha quasi un moto di rimpianto per il vecchio Pil.
Di fatto, se il Pil riflette qualcosa che è effettivamente fondamentale nella società borghese e nel modo di produzione capitalistico, questo non può essere modificato cambiando la sovrastruttura ideologico-statistica, ma solo cambiando i meccanismi sottostanti. In tal senso, abbiamo paura che si finisca per concentrare troppa energia mentale nell'inseguire una rivoluzione statistica, nel costruire alchimie numeriche capaci di misurare e sintetizzare il nostro disagio esistenziale in questo mondo sempre più precario, piuttosto che concepire e costruire la transizione a un mondo migliore. Certo, dare corpo, parola e visibilità al disagio è fondamentale, parlare di come si misura un mondo migliore è un'autocoscienza importante; ma ha senso se poi si va oltre, si passa all'azione. Il pericolo è, oggi, che la proliferazione di strumenti “fai da te” generi, cannibalizzando sempre la stessa informazione, più rumore che altro. Duplicare il lavoro di una commissione che già è insediata presso il CNEL, e che ha il limite istituzionale di poter pensare a misurare il mondo, ma non a trasformarlo, rischia di non essere la strada più promettente per movimenti che hanno la vocazione a cambiare il mondo, e del misurarlo dovrebbero sì occuparsi, ma solo come atto propedeutico. Il rischio è che, in assenza di una precisa idea di alternativa e una determinata azione per realizzarla, si finisca per abboccare all'amo ideologico di chi è disposto pure a cambiare la misura, ma solo perché ormai non strettamente funzionale alle dinamiche ed esigenze del sistema produttivo di riferimento. Invero, come leggere altrimenti la mossa geniale di Sarkozy di istituire la commissione Stiglitz e l’emergenza, nei tre anni successivi, di un’Europa che ormai lascia pure cadere il Pil, per guardare a tutt’altri indicatori?
In conclusione, il nemico è la mercificazione della vita e dell'ambiente naturale, una mercificazione di cui il Pil e la sua crescita ci parlano piuttosto chiaramente e che non sarebbe evitata da una sua mera ridefinizione. L’azione sul Pil deve necessariamente accompagnarsi alla trasformazione in proposta e azione politica di una rivoluzione concettuale che ponga al centro del discorso gli stili di vita, i beni comuni, la parità effettiva delle opportunità, la qualità e distribuzione dei frutti generati dal processo socio-economico, l'accesso dignitoso ed equo ad essi, l’abbattimento dei costi sociali ed ambientali della loro creazione, la socializzazione delle decisioni, la riconversione ecologica e, non da ultimo, le forme (pacifiche!) di resistenza e di attacco.
 fonte: www.sbilanciamoci.info

Una diversità virtuosa


Una diversità virtuosa




di MARIO DEAGLIO, dalla stampa

E’ mai possibile che a dicembre, ossia sotto le feste, nella stagione dei regali e dei cenoni, gli italiani abbiano speso, per gli acquisti nei negozi e nei supermercati meno di quel che avevano speso a novembre? Senza esitazione, l’Istat risponde di sì: rispetto al dicembre del 2010 è una vera e propria Caporetto, con il 3,7 per cento in meno per gli acquisti di beni non alimentari e l’1,7 per cento in meno per gli acquisti alimentari. La curva delle vendite del commercio al dettaglio degli ultimi due anni fa male agli occhi, con un lieve scivolamento dal dicembre 2009 al febbraio 2011 divenuto sempre più rapido a partire dal marzo dell’anno passato. I consumi hanno reagito molto peggio nel 2011 che nel 2008-09, quando la crisi finanziaria aveva cominciato a colpire duramente l’economia reale. In giugno siamo scesi sotto il livello di consumi del 2005 (quando i residenti in Italia erano due milioni e mezzo in meno); ora siamo scesi al livello del luglio 2004.

E non si tratta certo di una «decrescita felice» auspicata da chi è contrario al consumismo ma di una contrazione che avviene in un clima di durezza e di crescente incertezza.

Un’indagine del Cermes, il Centro di Ricerca su Marketing e Servizi dell’Università Bocconi, mostra chiaramente che questa caduta dei consumi si sta accompagnando a un forte mutamento qualitativo, che invece non si era verificato, per lo meno con questa ampiezza, nella contrazione dei consumi di tre anni fa. Il modello tradizionale del consumismo sembra tramontato: il consumatore «bamboccione», stregato dalla pubblicità, ha perso il suo sorriso un po’ assente, si è fatto, duro, attento, determinato a vender cara la propria pelle, ossia a centellinare i centesimi, invece di spendere allegramente gli euro. Forse si sta realizzando ora in Italia un mutamento di comportamenti consumistici parallelo a quello che si è verificato negli Stati Uniti a partire da 4-5 anni fa.

Tale comportamento sembra articolarsi in due diverse strategie di consumo. La prima consiste nel trasferire all’interno delle pareti domestiche attività il cui prodotto veniva in precedenza acquistato all’esterno. Una buona colazione mattutina sostituisce sempre più frequentemente il «salto al bar» nella pausa caffè; si può prendere il caffè a casa, magari con le nuove macchinette a cialde, con le quali una tazzina costa più cara di quella della caffettiera normale ma assai meno di quella dei bar; e sono sempre più frequenti i casi di coloro che hanno ricominciato a fare il pane in casa invece di comprarlo.

La seconda strategia consiste nell’adeguare la spesa alle (ridotte) risorse finanziarie che si intendono dedicare ai consumi, non solo per necessità ma qualche volta anche per scelta. Gli ipermercati diventano luoghi di tentazione invece che luoghi di soddisfazione dei bisogni; meglio quindi acquisti piccoli e frequenti, adatti ai soldi effettivamente in tasca, che la «gita» ai templi del consumo dalla quale si esce con il portabagagli strapieno di prodotti, una parte dei quali senza saper veramente perché. Le offerte «prendi tre, paghi due» non sono allettanti quando si ha necessità di un solo prodotto; le confezioni piccole sono preferite a quelle grandi anche se durano meno perché alleggeriscono meno il portafoglio. E naturalmente, bando agli sprechi: gli italiani stanno (ri)imparando a non buttar via nulla.

Gli italiani non sembrano resistere con tagli «orizzontali» che toccano ogni tipo di prodotti, ma reagiscono, modellando i consumi sul reddito. Sembra così di intravedere un comportamento «attivo», quasi un riappropriarsi di facoltà di scelta, di decisioni che per vari decenni gli italiani, come i cittadini degli altri Paesi ricchi, avevano delegato di fatto ai pubblicitari. Il termine «frugalità», reintrodotto nel vocabolario americano quattro anni fa per indicare un atteggiamento responsabile rispetto ai beni, ha forse trovato la sua strada anche in Italia. Tale atteggiamento sembra far capolino anche nelle scelte lavorative, con casi recenti, da seguire con attenzione, di ritorno degli italiani verso occupazioni e mestieri fino a pochissimo tempo fa «snobbati» e lasciati agli immigrati.

L’Italia che uscirà dalla crisi - che ha probabilmente toccato il picco a gennaio e febbraio, anche per motivi meteorologici, con il freddo che limitava l’offerta degli alimentari freschi e teneva i consumatori lontani dai luoghi dell’acquisto - sarà probabilmente diversa, più responsabile, più reattiva dell’Italia che vi è entrata, quasi senza accorgersene e dopo averne negato a lungo l’esistenza. Potrà sembrare una piccola cosa, ma è proprio su questa diversità di atteggiamento che occorre costruire, se questo Paese vuole avere un futuro.
mario.deaglio@unito.it

venerdì 24 febbraio 2012

Monti è forte, ma con i deboli


Monti è forte, ma con i deboli
Ha fatto regali alle banche. Ha promesso un'equità che non si è vista. Ha colpito solo le lobby minori. E non ha toccato i conflitti d'interessi né dei suoi ministri né di Berlusconi. Analisi dei primi 100 giorni dell'esecutivo.

di Marco Travaglio, da l'Espresso

Monti aveva promesso rigore, equità e trasparenza. Al momento s'è visto solo il primo. E solo a danno dei ceti più deboli. Anche tra le lobby, hanno pagato le più sfigate, mentre le più potenti - banche, assicurazioni, petrolieri, costruttori, tycoon televisivi (uno, il solito) - l'hanno fatta franca.

L'asta per le frequenze tv, per esempio, è sempre congelata, a tutto vantaggio di Mediaset: il ministro Passera ha solo annullato il beauty contest che le assegnava gratis, ma poi s'è affrettato a ingaggiare l'ex ministro Romani che l'aveva inventato come suo rappresentante in Afghanistan (sic). Ottima la scelta montiana di dare mano libera all'Agenzia delle Entrate per i blitz antievasori. Ma nel governo siedono tre ex banchieri - Passera, Ciaccia, Fornero - che vengono da Intesa-San Paolo e un quarto - Gnudi - che arriva da Unicredit: i due maggiori istituti italiani, che hanno appena dovuto pagare al fisco rispettivamente 270 e 200 milioni di tasse evase. Possibile che i quattro ministri-banchieri che all'epoca le dirigevano non ne sapessero nulla? Non basta dimettersi da banchieri e diventare ministri per troncare il conflitto d'interessi "sentimentale" col mestiere precedente. Sarà un caso, ma il Salva-Italia ha fatto molti regali alle banche coi sacrosanti divieti sui contanti e le liberalizzazioni del Cresci-Italia alle banche non han fatto neppure il solletico.

E siamo alla trasparenza. Quella di Monti è fuori discussione (anche se dà dello "statista" a Berlusconi). Ma non quella di alcuni membri del suo governo, che infatti hanno atteso fino all'ultimo dei 90 giorni promessi per rendere pubblici i loro redditi. Passera si vanta di aver venduto le sue azioni di Intesa (9 milioni di euro): il minimo. Ma non rivela a chi e a che prezzo. E nulla dice della sua buonuscita dalla banca: se, Dio non voglia, fosse legata alle future performance di Intesa, ogni scelta del governo in materia creditizia sarebbe viziata da conflitto d'interessi. Idem per Mario Ciaccia, ex ad di Banca Infrastrutture Innovazione Sviluppo (Biis, sempre Intesa), che ieri finanziava le grandi opere e ora da viceministro delle Infrastrutture le deve deliberare e sorvegliare: notizie di sue eventuali azioni e della sua liquidazione? Elsa Fornero era nel Consiglio di sorveglianza di Intesa: ha per caso delle azioni? Basta un sì o un no.

Anche il sottosegretario alle Infrastrutture Guido Improta dovrebbe spiegare i 95 immobili di cui risulta titolare: è un rutelliano della fu Margherita e da quelle parti il tema casa è piuttosto delicato. Il ministro dell'Ambiente Corrado Clini s'è dimesso con due mesi di ritardo da presidente di Science Park a Trieste: urgono dettagli. Il sottosegretario alla Difesa è il larussiano Filippo Milone, braccio destro di Ligresti, già condannato per Tangentopoli, segnalato ancora di recente ai vertici delle società ligrestiane Quintogest e Sviluppo Centro: siccome il suo ministero deve vendere le caserme in disuso, sarebbe interessante sapere se ha reciso il cordone ombelicale col pregiudicato don Salvatore. Il ministro Patroni Griffi, quello che paga le case al prezzo di box auto, aveva arbitrati in corso, ma si era impegnato a rinunciarvi: l'ha poi fatto?

Il viceministro Michel Martone, il figlio di papà che chiama "sfigato" chi non lo è, era consulente del ministro Brunetta: lo è per caso di altre pubbliche amministrazioni? Andrea Zoppini, sottosegretario alla Giustizia, ha un arbitrato sul Tav e, secondo "Panorama", non solo quello: che aspetta Monti a spiegargli che non può? A proposito di Giustizia, la ministra Paola Severino è un potenziale conflitto d'interessi ambulante. Fino all'altroieri era l'avvocato dei maggiori gruppi imprenditoriali e finanziari del Paese e di alcuni big della finanza: come Geronzi e Caltagirone, condannati in primo grado rispettivamente per bancarotta (Cirio) e insider trading (Unipol-Bnl). La sua prima mossa è stata mandare ai domiciliari i condannati per gli ultimi 18 mesi di pena, con la scusa delle carceri sovraffollate: forse era più elegante escludere dalla svuota-carceri i reati finanziari, tantopiù che la loro incidenza sul sovraffollamento è zero.

Per un premier che sogna addirittura di "cambiare il modo di vivere degli italiani", cambiare quello dei suoi ministri sarebbe un buon inizio.

(24 febbraio 2012)

Noi brava gente? Non è sempre vero


di VLADIMIRO ZAGREBELSKY, dalla stampa

L’Italia non pratica e anzi vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. L’Italia assicura asilo ai profughi secondo le regole internazionali. Italiani brava gente.

La sentenza che i diciassette giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno ieri all’unanimità emesso, ci dice che non è sempre vero e che qualche volta c’è scarto tra la realtà e la diffusa convinzione di esser noi all’avanguardia delle nazioni civili. Occasione quindi di riflessione e reazione, per far sì che quello scarto non ci sia mai più.

I fatti oggetto della sentenza vennero all’epoca molto pubblicizzati. Canali televisivi influenti ne dettero compiaciuta notizia, come di un’occasione in cui il governo aveva dimostrato la sua efficienza nel difendere i confini dall’invasione di migranti illegali. Invece di continuare a ricevere stranieri sulle nostre spiagge, per poi dover iniziare la difficile e spesso impossibile pratica dell’espulsione, semplicemente erano state inviate navi militari a intercettare in alto mare e a riportare indietro, in Libia, gli indesiderati barconi ed il loro carico umano. Semplice, economico e pratico, «poche storie!». Come ricordò il ministro dell’Interno in Senato si trattava di applicare l’accordo firmato nel 2009, sotto la tenda di Gheddafi. In quell’anno furono eseguite nove operazioni simili e centinaia di migranti furono respinti in quel modo. L’accordo italo-libico è poi stato sospeso nel 2011 nel corso della recente rivoluzione libica.

La Corte europea ha giudicato sul ricorso di undici somali e tredici eritrei respinti in Libia con quelle modalità. Essi hanno sostenuto che l’Italia li aveva esposti al rischio di trattamenti inumani da parte delle autorità libiche e di quelle del Paese di origine, se fossero stati colà riportati, e che l’Italia aveva eseguito una «espulsione collettiva», proibita dalle convenzioni internazionali e in particolare dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Le modalità poi del respingimento avevano impedito ai ricorrenti di ottenere il controllo giudiziario della loro posizione. Una serie di autorevoli organismi internazionali è intervenuta davanti alla Corte, in appoggio ai ricorrenti. Tra questi gli uffici dell’Alto Commissario ai Rifugiati e dell’Alto Commissario ai diritti umani delle Nazioni Unite.

La Corte ha innanzitutto dichiarato che i ricorrenti erano stati imbarcati a bordo delle navi italiane e che quindi, secondo la legge internazionale e italiana, si erano venuti a trovare nella giurisdizione dello Stato italiano: sotto il controllo continuo ed esclusivo, di diritto e di fatto, delle autorità italiane, tenute ad osservare le disposizioni della Convenzione europea. La Corte ha affermato che le autorità italiane avevano consegnato i ricorrenti a quelle libiche nella piena consapevolezza del trattamento che rischiavano. Come accertato da organizzazioni internazionali serie ed affidabili come Amnesty International e Human Rights Watch e come anche confermato dal Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa, i migranti respinti in Libia erano messi in detenzione in condizioni inumane, anche con casi di tortura. E lo stesso rischio vi sarebbe stato se e quanto dalla Libia i ricorrenti fossero stati riportati in Somalia o Eritrea, dove esisteva una pratica di detenzione e tortura dei cittadini che avevano tentato di lasciare il Paese.

La Corte ha quindi affermato che l’Italia aveva violato il divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti. Si tratta di un divieto assoluto, che non riguarda solo il comportamento diretto delle autorità statali, ma anche quello indiretto del trasferimento ad altro Stato ove quelle pratiche hanno luogo. Non solo quindi il divieto di torturare, ma anche quello di non trasferire la persona in uno Stato ove sarà esposto al rischio di tortura o trattamento inumano. Lo stesso meccanismo della protezione anche indiretta opera quando l’espulsione o l’estradizione è verso uno Stato che pratica la pena di morte.

La violazione di cui l’Italia è stata ritenuta responsabile è tra le più gravi. Colpisce che essa si riferisca ad azioni che gli equipaggi delle navi militari sono stati obbligati a compiere, dopo che in altre circostanze quello stesso personale militare si era guadagnato l’ammirazione per l’opera efficace e rischiosa compiuta, secondo la legge del mare, per soccorrere battelli in difficoltà, scortarli a terra e salvarne da morte gli occupanti. Per questa loro attività quegli equipaggi erano stati elogiati dal Commissario di diritti umani del Consiglio d’Europa.

La Corte europea ha anche ritenuto che l’Italia abbia commesso una violazione del divieto di «espulsione collettiva», di espulsione cioè in blocco, senza esame della situazione individuale di ciascuna persona. Senza identificazione e accertamento dei motivi che inducono la persona alla fuga dal suo Paese, non si può accertare se l’espulsione crei pericolo per la vita o l’incolumità della persona o di persecuzione politica o religiosa o altro. Il diritto al rifugio che un migrante può avere non è assicurato quando, com’è avvenuto, non si accerti la condizione personale di ciascuno. La pratica della riconsegna collettiva alla Libia di tutti i migranti raccolti in mare, ha evidentemente impedito ogni esame individuale e, a maggior ragione, il ricorso a un giudice.

La sentenza è definitiva. I principi affermati - non nuovi nella giurisprudenza della Corte europea - valgono per l’Italia come per tutti i quarantasette Paesi del Consiglio d’Europa. Ed anche, val la pena di ricordare, per i Paesi membri dell’Unione Europea quando definiscono la politica e le iniziative comunitarie di contrasto e gestione dell’immigrazione irregolare. Ma intanto e innanzitutto il governo italiano (il nuovo governo) deve dare esecuzione alla sentenza, non solo indennizzando i ricorrenti, ma anche cessando pratiche come quelle che la Corte ha condannato ed assicurando a tutti coloro che in qualunque modo, anche irregolare o illegale, vengono a trovarsi nella giurisdizione italiana, il pieno ed eguale godimento dei diritti fondamentali. Diritti che non appartengono ai soli cittadini, ma sono propri di tutte le persone umane.


giovedì 23 febbraio 2012

10 domande a Monti e Fornero


Precarietà, dal comitato “il nostro tempo è adesso” 
10 domande a Monti e Fornero

Diciannove ventenni oggi inviano una lettera aperta al Presidente Monti e al Ministro Fornero pubblicata nella prima pagina del Corsera per denunciare la "bambagia delle tutele" in cui vivono i nostri padri. Forse non hanno precisato che si riferivano ai loro padri, perchè i nostri padri e le nostre madri sono i licenziati e i cassintegrati delle aziende che scappano all'estero, sono le lavoratrici e i lavoratori che vedono diminuire i loro stipendi e rincarare il costo della vita, sono i disoccupati che hanno perso il lavoro e non ne trovano più, sono gli operai che dopo quarant'anni in catena di montaggio non possono ancora andare in pensione.

Le precarie e i precari del nostro tempo è adesso, la rete di realtà giovanili che hanno promosso la manifestazione del 9 aprile scorso, rifiutano questa continua stucchevole strumentalizzazione: sappiamo bene che i veri garantiti vanno cercati altrove, tra i privilegi di chi specula, di chi campa di rendita e possiede grandi patrimoni, siano essi padri o figli.
Piuttosto che sostenere il Governo Monti nella perseverante convinzione di dover togliere ancora diritti e tutele, chiediamo al Governo coerenza.

Il comitato il nostro tempo è adesso ha scritto un decalogo di proposte molto precise, elaborate da chi la precarietà la vive davvero, e le ha recentemente portate sotto al Ministero del Lavoro organizzando una manifestazione. Attendiamo ancora dal Governo una risposta ed è per questo che rivolgiamo al presidente Monti e al Ministro Fornero le nostre dieci domande, affinchè la precarietà non sia più un oggetto di speculazione, ma un tema su cui agire concretamente per ridare diritti e dignità al nostro lavoro.

1. Il governo ha intenzione di ridurre le forme contrattuali e combattere i contratti truffa che nascondono lavoro subordinato (stage, cocopro, finte partite iva, associazioni in partecipazione, lavoro a chiamata), affermando il principio che a un lavoro stabile deve corrispondere un contratto stabile?

2. Il governo ha intenzione di far valere il principio costituzionale dell’equo compenso, collegando i livelli minimi delle retribuzioni ai contratti nazionali per tutti e obbligando a pagare di più chi è strutturalmente discontinuo?

3. Il governo pensa di trovare le risorse per estendere realmente gli ammortizzatori sociali e garantire a tutti la continuità di reddito?

4. Il governo ha un piano per far uscire i giovani dalla prigione dell’immobilità sociale, combattere l’inoccupazione e la disoccupazione, magari garantendo un reddito minimo a queste figure in chiave di attivazione?

5. Il governo si pone il problema del futuro previdenziale dei giovani, che si costruisce solo aumentando i compensi e quindi i contributi versati dei datori per tutti i lavoratori?

6. Il governo si pone il tema che la precarietà esclude i giovani dalla rappresentanza e quindi li rende ricattabili a ogni livello?

7. Il governo ha intenzione di estendere a tutti/e il diritto alla maternità e alla paternità?

8. Il governo ha intenzione di estendere l’indennità di malattia prevista per i subordinati anche ai precari?

9. Il governo si pone il problema dell’impossibilità di continuare a formarsi e aggiornarsi per la gran parte dei precari?

10. Il governo ha intenzione di intervenire sull’emergenza casa per i giovani (vicina o lontano da quella di mamma e papà, ma una ci serve)?

Il nostro tempo è adesso
www.ilnostrotempoeadesso.it

Cari colleghi di gioventù, io non vi conosco


Cari colleghi di gioventù, io non vi conosco
di Matteo Pucciarelli, da Micromega

Antonio, Annalaura, Matteo, Piero, Matteo, Francesca, Ilaria, Timoteo, Luca, Flavio, Giulio, Riccardo, Amedeo, Filippo, Francesco, Nicolò, Luigi, Ester e Maria,

chissà se invece di sparare sui vostri padri avreste puntato il dito contro il 20% della popolazione italiana che detiene l'80% della ricchezza del Paese il Corriere della Sera avrebbe pubblicato la vostra accorata lettera. A parte questo, prima di immaginare il futuro bisognerebbe un attimo conoscere il passato. Perché sennò si finisce con lo scrivere un mare di baggianate che - quelle davvero - hanno un sapore ideologico.

È una splendida trovata scrivere che le vostre idee «non trovano spazio nello scontro ideologico in atto». Una frase ad effetto che cela due possibilità: o vi state facendo strumentalizzare, oppure mentite sapendo di mentire, perché le vostre idee sono le stesse di chi da circa 30 anni detta l'agenda della politica mondiale. Non siete originali. Vi state accodando, ultimi della lista, al pensiero dominante.

«Siamo colposamente sospesi tra il vuoto di aspettative ed il miraggio di sicurezze, senza possibilità di metterci in gioco con le stesse garanzie che i nostri padri e i nostri nonni si vedono attribuite»: i miei e i vostri padri, i miei e i vostri nonni, le cose non se le sono viste attribuite per gentile concessione dello Spirito Santo o del tecnico di turno. Sono state il risultato di un progressivo processo di conquiste partito alla fine dell'Ottocento e culminato negli anni '70.
Io e voi siamo stati abituati così, a vederci le cose "attribuite", ed è vero: i nostri compleanni erano così pieni di regali che non facevamo neanche in tempo a desiderarli tutti. Ma c'è stata un'epoca passata fatta invece di negazioni e quindi di lotte furiose per dei diritti che oggi consideriamo il "minimo sindacale".

«Nel sistema economico in cui operiamo, è richiesta la capacità di essere competitivi e dinamici: non abbiamo scritto noi le regole del gioco ma siamo tenuti a rispettarle per vincere la sfida della crescita», scrivete. Ed è una frase di una tristezza infinita. Perché non sapete neanche immaginare la possibilità di un cambiamento della società. Che siccome le regole sono state scritte, bisogna soprassedere. Una frase di questo genere pronunciata in Germania nel 1940 - tanto per dire - sarebbe considerata oggi un atto di codardia. «Non abbiamo scritto noi le regole del gioco ma siamo tenuti a rispettarle»: quanto poco coraggio, quanta poca fantasia. Giovani nati vecchi. Senza guizzi, senza speranze, senza sogni. Senza pensare che magari è un sistema economico iniquo a tagliarci fuori. Che se prevale sempre e solo un discorso «competitivo e dinamico» gli ultimi, quelli nati senza la vostra pregevole intelligenza, restano indietro. Quelli nati senza i vostri molteplici strumenti, restano indietro. E degli ultimi, di loro, chi si occuperà? Stiamo tornando alla legge del più forte, alla sopraffazione dell'altro, e neanche ve ne rendete conto. Oppure lo sapete, e vi sta bene così. Perché partite in vantaggio.

«Spostare la bilancia del futuro dal privilegio al merito è l'impegno con cui vorremmo si cimentassero in questo momento le istituzioni patrie». Già, quella parola: privilegio. Privilegio di non essere licenziati perché si sta antipatici al datore di lavoro. Diritto? No, privilegio. Voi lo chiamate così. Discriminate da soli il vostro, il nostro, obiettivo: godere di un diritto. E se lo chiamate "privilegio" fate davvero un atto ideologico. Eccolo il caro vecchio latifondismo: i forti da una parte, i deboli a subire dall'altra.

«Oggi imprenditore e lavoratore si muovono nella stessa direzione e condividono i medesimi obiettivi, entrambi vogliono il bene dell'azienda». Che bella immagine di un paese permeato dalla pace sociale. Andate a dirlo agli operai della Fiat di Termini Imerese. O a quelli di Pomigliano colpevoli di essere iscritti alla Fiom. A quelli della Fincantieri. A quelli della Sigma Tau. A quelli della Omsa. E così via, all'infinito. Quante volte la passione del lavoratore per il proprio mestiere è stata umiliata da chi ha messo avanti la sola logica del profitto, che ha escluso più e più volte quella del buonsenso. Fare finta di non sapere è un altro atto ideologico.

Scrivere come voi fate che «i nostri padri oggi vivono nella bambagia delle tutele grazie ad un dispetto generazionale» è un insulto. A voi stessi soprattutto. Perché i miei, di padri, nella bambagia non hanno mai vissuto. I vostri forse sì. Ed essere tutelati non è mai una bambagia. È semmai il grado di civiltà raggiunto in un Paese. E poi, quanta ignoranza, colleghi di gioventù: le «mille garanzie che le generazioni che ci hanno preceduti si sono arbitrariamente assegnate» sono costate migliaia di ore di sciopero; morti in piazza, da Reggio Emilia a Battipaglia. Lottare costa. Ma a volte funziona. Il vostro grado di lotta qual è? Scrivere una lettera al Corriere della Sera chiedendo meno tutele per gli altri?

Quando parlate di «egoismo dei protetti» e «ingordigia dei privilegiati» forse vi riferite ai vostri padri. Davvero sono così? Egoisti e ingordi? I miei padri non sono mai stati tali. I vostri, forse. Non i miei. Hanno lavorato e lavorano da una vita. Uno stipendio, un mutuo, figli da crescere con assegni familiari ridicoli, spesa una volta a settimana per risparmiare, sacrifici sempre, per necessità e come esempio. Ci mancava solo la spada di Damocle di un imminente licenziamento se mio padre si fosse permesso di contestare una procedura di lavoro. Non sparate sul mucchio. Fate i nomi di egoisti e ingordi. Se li avete. E se ne avete il coraggio.

«Scommettiamo senza indugio nella flessibilità», bravi. I 26 contratti flessibili della legge Biagi non vi bastano? Non siete ancora sazi?

«Le sigle politiche che hanno guidato il Paese negli ultimi decenni, anche per via di un ossequio screanzato verso la propria base elettorale, hanno totalmente escluso il tema del lavoro dall'agenda di governo»: ma da quanti anni non leggete i giornali? Riforma Treu, 1996, centrosinistra. Riforma Biagi, 2003, centrodestra. Ogni volta condite da erosioni dei diritti, mascherandole per "riforme". Ogni volta penalizzando proprio voi, proprio me. Non vi basta ancora?

Sapete come si sconfigge «l'attuale regime di apartheid occupazionale fra protetti e non protetti»? Allargando le protezioni a tutti. Non togliendole agli altri. Non bisogna studiare alla Luiss o alla Bocconi per capirlo. C'è solo una cosa peggiore dei cattivi padri che vi hanno cresciuto. I cattivi figli che ne seguono le orme. È per questo che non vi conosco.

Sviluppo, dai taxi alle farmacie l'asse governo-partiti frena le liberalizzazioni


Sviluppo, dai taxi alle farmacie
l'asse governo-partiti frena le liberalizzazioni
Molti degli emendamenti dei relatori e dei senatori vengono incontro al costante pressing delle lobby. Sui temi forti si rischia il dietrofront completo. Le nuove licenze dei tassisti tornano in capo ai sindaci. L'Ici per la Chiesa non si farà subito ma con un emendamento


IL DOSSIER
di VALENTINA CONTE, da Repubblica

LIBERALIZZAZIONI a rischio. Il testo del decreto Cresci-Italia, sommerso da migliaia di emendamenti in commissione Industria del Senato, prosegue il suo faticoso percorso tra le pressioni delle lobby e la complicata quadra politica. La versione che arriverà il Aula mercoledì prossimo per il voto - blindata in un maxi emendamento su cui il governo potrebbe porre la fiducia - rischia di essere migliorata solo in parte. Sui temi forti, si teme un dietrofront completo. Come per i taxi: la decisione su eventuali nuove licenze da mettere a bando torna in capo ai sindaci, così come l'extraterritorialità del servizio. Sulle farmacie crescono le resistenze per le nuove aperture, così i malumori su tariffe e preventivi dei professionisti. Intanto alcuni capitoli - Srl dei giovani e tribunale delle imprese (sul punto, ieri la presidente di Confindustria Marcegaglia ha incontrato il ministro della Giustizia) - sembrano privi di copertura finanziaria. Per quanto riguarda l'Ici delle onlus, le nuove norme che dovrebbero estendere il pagamento dell'imposta anche agli immobili della Chiesa usati a fini commerciali, seppur in modo non esclusivo, con tutta probabilità non saranno inserite nel decreto sulle semplificazioni fiscali che il Consiglio dei ministri dovrebbe approvare venerdì prossimo. Ma verrebbero affidate ad un emendamento ad hoc perché siano condivise anche dal Parlamento, nel successivo iter di conversione del decreto.

Trasporti
Indietro tutta sul capitolo "taxi". A decidere eventuali nuove licenze saranno Comuni e Regioni "nell'ambito delle loro competenze". Saltano doppia licenza, licenze part-time, taxi stagionali. L'Autorità dei trasporti, che avrebbe dovuto "adeguare i livelli di offerta" e aumentare le licenze "sentiti i sindaci", viene limitata ad esprimere "un parere obbligatorio, non vincolante", a "monitorare e verificare" il servizio, le tariffe, la qualità, le esigenze delle città, fornendo una semplice analisi costi-benefici in base alla quale i sindaci possono adeguare il numero delle auto, bandendo concorsi straordinari. Qualora non lo facessero senza valide motivazioni, l'Autorità ricorrerà al Tar. Confermato il taxi ad uso collettivo e il servizio fuori città ma solo in base ad accordi sottoscritti dal sindaco con i Comuni interessati. Maggiore libertà nel fissare le tariffe, a partire da quelle predeterminate dal Comune. Sarà possibile usare la stessa vettura per più turni. L'Autorità dei trasporti avrà una dotazione di 5 milioni per il 2012, potrà erogare sanzioni amministrative e partire prima, entro il 31 maggio, senza interim con l'Authority per l'energia.

Class action
Rafforzata la class action e definite multe corpose contro le clausole vessatorie a danno dei consumatori. "L'azione di classe ha per oggetto l'accertamento della responsabilità e la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni in favore degli utenti consumatori", definisce nero su bianco l'emendamento approvato. Il professionista o imprenditore che inserisce clausole vessatorie nei contratti e che poi, una volta scoperto, non si attiene alle disposizioni dell'Antitrust sarà multato: tra i 2 e i 20 mila euro per chi non rispetta le decisioni, da 4 a 40 mila euro per chi fornisce informazioni o documentazioni non veritiere, da 5 a 50 mila euro per chi non pubblica online e non diffonde i provvedimenti che certificano la vessatorietà.

Banche
Il capitolo banche, tra i più scarni e meno liberalizzati dal Cresci-Italia, è ritoccato solo in minima parte. Le banche potranno continuare a condizionare il mutuo o il credito al consumo (novità dell'ultima ora) alla sottoscrizione di una polizza sulla vita. Se lo fanno, hanno però l'obbligo di accettare la polizza scelta dal cliente, tra quella reperita da lui stesso sul mercato e la doppia opzione presentata dalla banca (di compagnie a lei non riconducibili). La banca non potrà poi vincolare mutuo e apertura di conto corrente. L'obbligo sarà considerato una pratica commerciale scorretta, come quello di sottoscrivere una polizza erogata dalla stessa banca. Sarà infine gratuito il conto aperto per accreditare la pensione fino ai 1.500 euro.

Farmacie
Ancora non sciolto lo spinoso nodo delle farmacie. Se ne è discusso a lungo, ieri notte in commissione Industria. Ma la quadra politica non è stata ancora trovata. Lo scoglio maggiore riguarda le nuove aperture (se ne prevedono 5 mila in più con un ampliamento del 25% della pianta organica), considerate dannose dalla categoria. Il Pdl punta ad abbassare il quorum del decreto (una nuova farmacia ogni 3 mila abitanti) ad una ogni 3.800, in linea con quanto auspicato da Federfarma che sul punto fa notare che il quorum reale è una a 2.200, considerati i nuovi punti che, grazie al decreto, sorgeranno in stazioni, aeroporti, autostrade. I consumatori temono una retromarcia, su questo punto e sulla liberalizzazione dei farmaci di fascia C.

Imprese
tribunali delle imprese e Srl ad un euro per gli under 35. Entrambi i capitoli rimangono per ora sospesi. Gli emendamenti dei relatori sono stati accantonati, in attesa di un parere della commissione Bilancio sull'effettiva copertura delle norme. La proposta è di portare da 12 a 20 i tribunali (uno in ogni capoluogo, tranne la Valle d'Aosta), a cui verrebbero sottratti almeno due competenze (class action e appalti pubblici). Mentre si pensa a un passaggio gratuito dal notaio per la Srl (ora ne è esentato, con rischi infiltrazioni) e il vincolo di destinazione del 25% dei ricavi annuali ad aumento del capitale. In entrambi i casi, il problema sono i soldi. Le misure costano: più giudici e bolli per la registrazione della Società (6-700 euro).

Rete gas
Discussione ancora aperta sulla separazione tra Eni e Snam. Il governo punterebbe ad uno scorporo totale (ora Eni possiede il 52% di Snam), di reti, stoccaggio e rigassificatore di Panigaglia. Almeno secondo quanto riferito ieri dal sottosegretario allo Sviluppo economico Claudio De Vincenti, dopo una giornata di confusione e smentite con voci di un possibile freno dell'esecutivo sugli stoccaggi. Sui tempi, alcuni emendamenti (molti a firma Pd) chiedono un'accelerazione. Altre posizioni convergono su un orizzonte più lungo. De Vincenti ha confermato la tabella di marcia prevista nel decreto: sei mesi per il decreto del presidente del Consiglio che fissi le modalità della procedura. "Due anni è il tempo giusto per arrivare alla dismissione", ha però frenato la senatrice Vicari (Pdl), relatrice del provvedimento. Per quanto riguarda la quota residuale di Eni in Snam, quella prevista dal Cresci-Italia è il 20%, ma una direttiva europea consentirebbe di scendere al 5% sul modello Enel-Terna. "Siamo pronti a fare riferimento alla direttiva europea", ha aperto De Vincenti.

Assicurazioni
Molte novità in tema di Rc auto. A partire dalla stretta sulle frodi alle assicurazioni e sui risarcimenti facili ai furbetti del "colpo di frusta". Misure inserite con tutta evidenza per calmierare le tariffe dell'Rc auto, tenute alte proprio dai frequenti raggiri, dicono le compagnie. E dunque i danni di lievi entità causati da incidenti stradali non saranno più rimborsati, a meno che non siano certificati da esami medici obiettivi. Chi simula il danno - fisico e all'auto - rischierà il carcere da 1 a 5 anni (oggi è da 6 mesi a 4 anni). Circolare senza Rc auto sarà ancora più rischioso: il nominativo passa alla polizia e al prefetto, se non si paga entro 15 giorni dall'inserimento dell'elenco di veicoli non coperti. Nascono due nuove banche dati, accanto a quella dei sinistri presso l'Isvap: l'anagrafe testimoni e quella danneggiati. Tra le buone notizie, il certificato di rischio sarà inviato solo online (più veloce). Cancellato il taglio del 30% della somma risarcita, se l'auto è riparata da officine di fiducia (non convenzionate con le compagnie). Pagare il pieno con la carta, di credito o debito, sarà gratuito per benzinaio e cliente, fino a 100 euro.
(23 febbraio 2012)

RAPPORTO TRA TASSE E SERVIZI IN ITALIA


RAPPORTO TRA TASSE E SERVIZI IN ITALIA
Intervista a Mario Miscali - 22 febbraio 2012
da cadoinpiedi.it

Nel nostro Paese c'è una congruenza tra l'alto livello di tassazione e la qualità dei servizi pubblici erogati? Il profilo della tassazione consente uno sviluppo sano delle imprese e la crescita dell'economia? Monti ha una visione o agisce da "ragioniere"? Ecco le risposte...




In Italia il livello della tassazione è molto elevato e le imposte devono essere corrisposte in anticipo. Le sembra che nel nostro Paese ci sia una congruenza tra l'alto livello di tassazione e la qualità dei servizi pubblici erogati (come ad esempio avviene in Nord Europa) oppure no?

"Direi che un conto è il sistema fiscale, un conto sono i servizi. L'attuale nostro sistema fiscale può essere oggetto di critiche per quanto riguarda la sua adeguatezza e la sua coerenza, visto anche il rapporto che esiste con i sistemi fiscali degli altri Paesi. Un discorso a parte merita invece il tema dell'efficienza dei servizi, che attiene alla macchina statale, alla macchina regionale e alla macchina comunale. Sono due temi che vanno letti separatamente, perché non si può, a mio avviso, legare sistema fiscale ed efficienza dei servizi. Se c'è, ed è vero, un alto livello di tassazione e c'è la necessità di un miglioramento della qualità dei servizi pubblici erogati, questo attiene più all'efficienza, all'adeguatezza, alle modalità con le quali sono utilizzate le risorse ai fini della spesa pubblica. Il ragionamento sul sistema fiscale, oltre alla questione relativa al costo dei servizi essenziali, ha anche un tema di fondo, che è contribuire alla redistribuzione delle risorse per correggere le diseguaglianze relative. Sono due temi che secondo me non è corretto leggere come se fossero tra loro coerenti e simmetrici, perché le esigenze di un sistema fiscale adeguato, certamente devono rispondere al livello della qualità dei servizi, però ci sono delle variabili che sono quelle dell'organizzazione globale del sistema."

Il profilo della tassazione in Italia consente uno sviluppo sano dell'imprenditoria e la crescita del Paese?

"Il nostro attuale sistema fiscale deve necessariamente tenere presente una serie di fenomeni anche di carattere internazionale. In questo momento si sta discutendo di accordi tra i vari paesi europei con la Svizzera per porre un argine al problema dell'evasione. Lo sviluppo sano dell'imprenditoria e la crescita del Paese presuppongono ovviamente che le risorse rimangano nel nostro paese. Nel momento in cui, a fronte del riconoscimento dei princìpi di libera circolazione dei capitali e delle persone, i capitali possono liberamente circolare, è saltato il contenuto stesso della sovranità tributaria, cioè il legame di carattere territoriale. Il territorio non riesce più, com' era una volta con le norme valutarie, a trattenere i capitali, e questo pone una serie di problemi di tassazione legati alla competizione internazionale da tempo in essere tra gli Stati che sono più attrattivi dei capitali, perché dotati di migliori sistemi di tassazione.
Sovranità tributaria, globalizzazione, riconoscimento di libertà di circolazione, hanno creato delle condizioni diverse nelle quali occorre disciplinare il rapporto tra il contribuente e lo Stato. Lo sviluppo sano dell'imprenditoria e la crescita del paese presuppongono che tutte le risorse presenti nel paese, raccolte con l'imposizione fiscale, siano effettivamente a disposizione e vengano impiegate per far fronte alle esigenze di carattere pubblicistico. Questo però comporta un ripensamento dei rapporti fondamentali tra lo Stato e il cittadino e di categorie tradizionali come quella della sovranità: la sovranità dello Stato ormai è fortemente in crisi, sia perché, ad esempio per il debito pubblico (come stiamo vedendo nel caso della Grecia) essa dipende da scelte assunte a livello comunitario, sia perché la sovranità tributaria è appunto condizionata dalla globalizzazione e da questi riconoscimenti di libertà.
Bisogna costruire un nuovo patto fiscale tra cittadino e Stato, che tenga conto dell'attuale situazione nazionale e internazionale. Questo ripensamento dovrà determinare una risistemazione globale del sistema fiscale, che deve passare attraverso l'istituzione di nuove forme di imposizione tributaria e il riaggiustamento delle attuali imposte."

A suo avviso, Monti ha una visione chiara delle cose o agisce solo da "ragioniere"? E' la figura giusta per il Paese in questo momento?

"Secondo me il Presidente del Consiglio sta agendo molto bene, perché ha chiaro un concetto importante sul fronte della fiscalità, cioè che la ricchezza è un valore, e coloro che producono ricchezza devono essere comunque salvaguardati. Un sistema fiscale deve essere fondato sul riconoscimento di questo concetto: occorre produrre ricchezza e chi produce ricchezza è virtuoso; poi, la ricchezza deve essere redistribuita per correggere le diseguaglianze relative.
Se però guardiamo alla situazione attuale, è evidente che, prima ancora di pensare a ricostruire le fondamenta di un rapporto fiscale più equo, più giusto e più adeguato ai tempi, è prioritario far fronte all'emergenza, ai costi derivanti dall'enorme debito pubblico italiano. In questo momento bisogna mettere in ordine le cose, non si può certamente pensare di fare voli pindarici.
Monti sta cercando di dare una buona immagine del nostro paese, raccogliere per quanto possibile risorse da destinare in primo luogo a tappare le falle.
Poi, certamente, bisogna pensare a un sistema fiscale più moderno, più adeguato, a un nuovo patto fiscale tra Stato e cittadino che tenga conto di una serie di elementi: la crisi della sovranità tributaria, anche a livello internazionale, l'esigenza di ridistribuire le risorse per correggere le disuguaglianze. In questa prospettiva, l'eticità della contribuzione tributaria diventa un elemento chiave. Monti è certamente la persona giusta in questo momento per il nostro paese. E' l'unico che possa metterci nella condizione di modificare le regole del gioco in modo più moderno."

La crisi del "Manifesto"


Edicola, abbonamenti, sottoscrizioni, pubblicità, fondi dell'editoria. Facciamo i conti con i numeri della nostra crisi e spieghiamo perché siamo giunti alla liquidazione coatta amministrativa
A quarant'anni dalla nascita, il quotidiano il manifesto e il collettivo che ne è stato la vita giungono a una resa dei conti che ne mette in gioco l'esistenza. Hanno percorso una strada inventata di sana pianta, insieme a migliaia di cittadini di questo paese e del mondo. Hanno parlato per decenni alla politica italiana. Hanno dialogato costantemente con gli intellettuali e i lavoratori, gli studenti e gli artisti, il movimento sindacale e i partiti. Sono stati – piccoli e poveri – protagonisti di campagne appassionate e di grandi mobilitazioni. Hanno costruito un senso originale dell'informazione e della politica e sono stati scuola per molti – oggi autorevoli e famosi – di politica, di giornalismo e di umanità.
Li hanno finanziati i lettori e una legge ormai in disgrazia, nel tempo della mercificazione dell'informazione. Il modello – un senso della politica e della cultura, espresso da un'azienda giornalistica senza padroni né riferimenti politici strutturati, nella forma di una cooperativa di produzione e lavoro, con retribuzioni basse ed egualitarie e sobrietà dei prodotti – sembra non reggere più alla prova del tempo e delle mode, delle necessità economiche e finanziarie di oggi, nel collassare di alcuni principi elementari della democrazia e della Costituzione. Così, il manifesto arriva esausto alla vigilia di una stagione importante e terribile per l'Italia e l'Europa. È un peccato, un dolore per chi l'ha fatto e per chi l'ha considerato il suo giornale, comprato e sostenuto. È con la coscienza di aver giocato, in perenne convinzione e povertà, una partita lunga e importante, dando vita a un marchio autorevole e amato, che diamo conto di una situazione economica e finanziaria della Cooperativa che è diventata insostenibile. Molti lettori ci chiedono spiegazioni in merito alle condizioni economiche dell'impresa che hanno condotto, alla fine, all'avvio della liquidazione della Cooperativa. Tutto è già chiaro nei bilanci, pubblici e pubblicati. Il bilancio del manifesto è una cosa semplice da capire. Facciamo riferimento al periodo 2006/2010.
La Cooperativa vive soprattutto di vendite in edicola e di abbonamenti, che coprono tra il 54% e il 58% dei ricavi totali. È una caratteristica non banale. Infatti, nei piccoli giornali e nei giornali politici in particolare, la raccolta pubblicitaria, che è – o dovrebbe essere per tutti – la seconda voce più importante dei ricavi, incontra limiti "strutturali". Nel caso del manifesto il risultato è intorno all'11% dei ricavi totali, e non è un risultato disprezzabile. Nei grandi gruppi editoriali le percentuali sono incomparabilmente più elevate: i processi di concentrazione della raccolta nel settore dell'informazione a stampa fanno piazza pulita del poco lasciato libero dalle televisioni. Il sostegno dei lettori – che è filosoficamente assimilato da sempre ai ricavi tipici dell'impresa manifesto – copre tra l'1% e il 9 % dei ricavi, anche con risultati eclatanti in anni recenti (1,6 milioni nel 2006, 1,2 milioni nel 2008, quasi un milione tra i due numeri a 50 euro del 2008 e 2009). Infine, i contributi editoria coprono tra il 23,4% e il 27,4% dei ricavi: una voce decisiva, oggi non rimpiazzabile.
Tutti i ricavi hanno subito, nel giro degli ultimi anni, riduzioni importanti (complessivamente -33% dal 2006 al 2010, altrettanto significativa la riduzione del 2011 rispetto al 2010), per effetto di fenomeni generali di settore, o specifici del comparto dei giornali non profit, o, infine, generati nelle vicende recenti della storia politica, nostra e del Paese. Parliamo quindi, nell'ordine, di riduzione generalizzata delle copie vendute e della raccolta pubblicitaria; di anni di battaglie per la riforma di una legge massacrata dalle furbizie nazionali e di prospettiva incerta, beffati infine da due successivi governi con i drastici tagli di cui tutti sapete. Infine, delle vicende della sinistra italiana e del sindacato, dell'appassionata vicinanza e dell'appartenenza di questo giornale ai movimenti e, ahinoi, della perdita di presa nell'opinione pubblica e dell'incapacità del manifesto di emergere nel conformismo generale.
Le copie vendute in edicola scendono costantemente da otto anni a questa parte (negli ultimi due la situazione è stata aggravata anche dal taglio dei servizi postali che hanno ridotto al lumicino la distribuzione in Sicilia e Sardegna) e i ricavi da vendite in edicola e abbonamenti sono calati di oltre il 20%, mentre la pubblicità si è ridotta del 6,8% (-17% la riduzione media dei quotidiani): la pubblicità è cresciuta fino al 2008, in controtendenza rispetto al mercato, per poi diminuire a ritmi del 22% e del 7%. Nei primi nove mesi del 2011 è ulteriormente calata del 24% rispetto allo stesso periodo del 2010. Dei contributi editoria si dirà tra poco. Dal 2006 siamo impegnati in un'azione di ristrutturazione aziendale, nel tentativo di far fronte a condizioni di settore rese sempre più difficili dalla crisi delle vendite dei quotidiani e della raccolta pubblicitaria, che si sono tradotte per il manifesto in una costante riduzione dei ricavi. Ogni voce di costo è stata contenuta o ridotta. Nel periodo 2006-2010 i costi totali sono stati ridotti di circa 3,8 milioni di euro, quasi un quarto del valore di partenza. Partendo da 115 dipendenti al 31/12/2005, anche grazie al ricorso a due successivi periodi di cassa integrazione (il primo nel 2006-2008, il secondo avviato a settembre 2010 e tutt'ora in corso) e ai prepensionamenti accordati, il costo del lavoro dipendente è sceso di circa 1,1 milioni di euro, quasi il 26% del valore di partenza, e l'organico si è ridotto di molto, da 107 a 83 nel biennio 2006-2008, fino alle 74 unità di oggi (52 giornalisti e 22 poligrafici a febbraio 2011). Di queste, 28 unità (19 giornalisti e 9 poligrafici) sono in cassa integrazione, a rotazione. Quindi il giornale ha perduto 41 dipendenti dal 2005 e attualmente lavora con 46 dipendenti. A breve andranno in prepensionamento, altri tre giornalisti e un poligrafico, portando l'organico complessivo a 70 unità. Nello stesso periodo anche gli oneri finanziari sono stati più che dimezzati (da poco meno di un milione di euro l'anno del 2006 ai 450.000 circa del 2010). Tuttavia, alla fine del 2010 gli innegabili risultati di questo sforzo risultavano ancora insufficienti a riportare l'azienda in condizioni di redditività coerenti con la possibilità di onorare i debiti accumulati. E, soprattutto, apparivano in larga parte vanificati dalle aspettative di riduzione dei contributi erogati all'editoria dallo Stato in base alla Legge 250/90. Aspettative poi tradotte in tagli superiori alle nostre già severe previsioni.
Il manifesto ha percepito 3.745.345 di contributi diretti all'editoria per l'esercizio 2009, pari al 27,4% dei ricavi totali di quell'anno. Alla fine del 2010, prendendo atto degli esiti sfavorevoli di una sofferta vicenda legislativa – che ha condotto al declassamento dello status dei contributi editoria da «diritto soggettivo» a «interesse legittimo», oltre che alla riduzione degli stanziamenti – gli amministratori hanno appostato in bilancio solo il 90% dei contributi calcolati a norma di legge. Contestualmente hanno progettato un piano triennale (2011-2013) di ristrutturazione aziendale (estensione della cassa integrazione, ulteriori riduzioni di organico, ulteriori riduzioni dei costi, potenziamento del web e del relativo business), finalizzato a costruire condizioni, alla fine del triennio, compatibili con un minore apporto dei contributi editoria – che nel piano sono stati appostati solo per il 60% del valore precedente – e con una loro larga destinazione al pagamento dei debiti pregressi.
Questo piano, fedelmente rispettato sul fronte dei costi, ha incontrato però difficoltà realizzative nell'approfondirsi della crisi degli investimenti pubblicitari destinati al settore, nella difficoltà di invertire il trend negativo delle vendite in edicola e, soprattutto, nella drastica riduzione dei contributi editoria, che – nonostante l'integrazione auspicata dal Presidente Napolitano e introdotta con il ddl stabilità (10 novembre 2011) – risultano a oggi coperti per non più del 30% del fabbisogno prevedibile per l'esercizio editoriale 2011, e per una percentuale ancora inferiore nei i due esercizi successivi. Traducendo in cifre, i contributi che nel 2009 ammontavano a 3,7 milioni di euro, nel 2010 sono stati contabilizzati per 3,4 milioni di euro, sono stati appostati nel budget di previsione 2011 per 2,3 milioni di euro e risultano a oggi ridotti a 1,1 milioni di euro. Va peraltro sottolineato che questo stato di cose (stanziamenti ridotti e contributi riconosciuti alle testate solo proporzionalmente all'effettiva disponibilità al momento dell'erogazione) impedisce una prosecuzione dei rapporti con il sistema bancario secondo linee ormai consolidate e, anzi, praticamente azzera ogni possibilità di ricorso al credito, a partire proprio dal credito revolving, fino a oggi incentrato sull'anticipazione finanziaria di contributi editoria certi. Anche perché ancor oggi non sappiamo quanto (e quando) riceveremo per il 2011. La crisi di liquidità diventa in tal modo insanabile.
Gli effetti di quanto fin qui descritto, sul fronte dei ricavi, dei costi e dei contributi editoria, comportano perdite prima delle imposte estremamente significative. Con riferimento al consuntivo economico dei primi nove mesi del 2011 (il solo di cui abbiamo dati abbastanza certi), se immaginiamo che i fondi destinati ai contributi diretti editoria coprano solo il 60% del fabbisogno, allora la perdita è pesante e si attesta intorno a 1,3 milioni di euro. Con poco più del 30% di contributi la perdita diventa insostenibile (oltre i due milioni di euro). In queste condizioni, e non potendo prevedere miglioramenti significativi a breve termine del contesto legislativo e di mercato, la Cooperativa non appare più in grado di far fronte ai propri impegni: mancano nell'immediato le risorse necessarie a proseguire anche un cammino intrapreso su un sentiero di rigorosa sobrietà e di ristrutturazione aziendale. La situazione patrimoniale ed economica mostra chiaramente che, nonostante i risparmi, il patrimonio netto è destinato a esaurirsi rapidamente mentre i debiti (retribuzioni e previdenza dei soci-lavoratori, debiti fiscali comprensivi di cartelle esattoriali, scadenze bancarie) appaiono, per dimensione e scadenze, definitivamente sproporzionati rispetto alle dimensioni, attuali e prevedibili a medio termine, dell'attività della Cooperativa.
È questa situazione che ci ha portato (per evitare il peggio di una liquidazione volontaria incontrollata) alla Liquidazione coatta amministrativa che tra pochi giorni entrerà nella sua fase operativa con l'arrivo di una Commissione – nominata dal Ministero dello sviluppo economico – che ci sostituirà nella gestione della Cooperativa, essendo questo che leggete l'ultimo atto di questo consiglio d'amministrazione.
Valentino Parlato per il Cda del Manifesto