mercoledì 30 novembre 2011

Il nuovo business è dare medicine ai sani


Il nuovo business è dare medicine ai sani
E le case farmaceutiche fanno affari d’oro E' il marketing del disease mongering: non serve vendere più medicine ai soliti malati, ma basta sensibilizzare la gente a nuovi consumi nel nome di una presunta attenzione alla salute. La vicenda rivelata da un'inchiesta di "E", il mensile di Emergency Il settore del farmaco scoppia di salute, e il mensile E, edito da Emergency, mette in fila i numeri per scoprire quanto vale “Il business dei sani”, come titola la copertina del numero in edicola. Un business da primato, che nemmeno la crisi planetaria ha scalfito. “Il giro d’affari delle aziende farmaceutiche nel mondo ha superato nel 2010 i 610 miliardi di euro, fatturato a cui quelle italiane contribuiscono con una quota di circa 25 miliardi – spiega l’inchiesta di Roberta Villa -. La spesa media pro capite di ogni italiano per le medicine è di oltre 300 euro l’anno, ma non è tutto qui, perché il settore dei farmaci concorre per meno del 15 per cento all’intero comparto economico che ruota attorno alla salute. E questo mercato del benessere, dai confini sempre più sfumati, rappresenta ormai il 10 per cento dei consumi in Europa e il 15 per cento negli Stati Uniti“.

Peccato per le conseguenze collaterali, che hanno nomi difficilotti ma spiegazioni assai semplici. Il “disease mongering” non è un morbo contagioso, ma la prassi di marketing che negli ultimi anni ha consentito al comparto di far volare utili e nuovi brand: come spiega Gianfranco Domenighetti, docente di Comunicazione ed economia sanitaria presso l’Università della Svizzera italiana, l’importante non è riuscire a vendere più medicine ai soliti malati, ma sensibilizzare la gente a nuovi consumi nel nome di una presunta attenzione alla salute.

Come? Semplice, basta “gonfiare l’importanza di una malattia o, se occorre, inventarsela di sana pianta” dice Domenighetti invitando l’utente medio a meditare sull’utilità di screening massivi e campagne di prevenzione sempre più frequenti. Perché, a dire il vero, le malattie restano più o meno le stesse e “solo il 2, 4 per cento dei farmaci immessi sul mercato dal 1981 al 2008 rappresenta un vero importante progresso terapeutico, mentre l’80 per cento non sono che copie dell’esistente, a eccezione del prezzo, che di regola è triplicato” chiosa l’economista svizzero.

Ma davvero l’industria riesce a condizionare la domanda di farmaci fino al punto di danneggiare il reale interesse del consumatore/paziente? Risponde Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano: “Questa idea di curare i sani è solo l’ultimo atto di una strategia che inizialmente è partita allargando artificialmente la platea dei malati. Non è un caso che i valori-soglia considerati un tempo normali per la glicemia, il colesterolo o la pressione arteriosa siano stati progressivamente abbassati: per ognuno di questi aggiustamenti, è cresciuto a dismisura il numero di persone cui prescrivere medicinali”. E se la prossima volta che leggerete sul giornale un mega inserto sulla salute dove si parla di doloretti alla schiena, tenete a mente questa battuta rapida ma efficace: “La fibromialgia, per esempio, è una ‘nuova’ malattia che sembra fatta apposta allo scopo di vendere analgesici”. Parola di Garattini.

Oltretutto, c’è da ragionare sulla relatività del concetto salute e sulla forza dei modelli culturali capaci di espandersi a suon di investimenti miliardari. Gli Stati Uniti, si sa, sono la patria dell’extra large e anche in ambito farmaceutico stanno facendo scuola alla vecchia Europa. Negli Usa una persona su quattro prende ogni giorno la pillola per tenere a bada la pressione e i medicinali contro gli stati ansiosi sono ormai alla portata dei bambini di quattro anni. Donne isteriche? Uomini disoccupati? Adolescenti inquieti? Tutti in fila per la terapia, magari venduta via internet con sconti favolosi, giusto per invogliare il cliente. In Italia, storicamente, la classe medica ha posto un freno all’invadenza del business, ma i tempi magri e l’inesorabile tendenza al supporto fast – meglio buttar giù un antidolorifico al volo piuttosto che impegnare tempo e denaro in cure tradizionali cui la sanità pubblica non può più far fronte – fanno pensare a un futuro ancor più florido per i commercianti del benessere. “Per questo abbiamo deciso di occuparcene – spiega Maso Notarianni, vicedirettore di E -. Noi siamo la testata di Emergency, e tutti si aspettano notizie sulle attività nei vari luoghi del mondo dove opera l’organizzazione. In realtà il mondo è un affare complicato, dove tutto si correla. I soldi, la ricchezza, la democrazia, i diritti umani. Anche in Italia, nella sanità privata o in quella pubblica, c’è chi pensa solo al profitto. Secondo noi la salute è un’altra cosa, il rispetto per l’essere umano è la priorità: in un ospedale sperduto tra la guerra o nella clinica degli orrori a Milano cambia poco”.

da Il Fatto Quotidiano del 29 novembre 2011

"Allarme banche, non c'è più liquidità così l'Italia rischia il fallimento"


L'INTERVISTA
"Allarme banche, non c'è più liquidità
così l'Italia rischia il fallimento"
Parla il presidente della Consob Vegas. "Bisogna cambiare la missione della Banca centrale europea. Va risolta la disparità con la Fed che, ad esempio, può stampare moneta mentre la Bce non può farlo"
di MASSIMO GIANNINI, DA "rEPUBBLICA"
Giuseppe Vegas
"IN ITALIA c'è un allarme banche. Non circola più denaro. Il rischio principale è che si diffonda il credit crunch. Rispetto a questo scenario, il fallimento di qualche banca diventa addirittura un rischio secondario. Se l'illiquidità del sistema porta al blocco dell'economia, allora non fallisce un singolo operatore, ma fallisce l'Italia". Giuseppe Vegas, presidente della Consob, lancia un monito e chiama a raccolta governo, Bce e Banca d'Italia: "Bisogna agire, o sarà troppo tardi".

Presidente Vegas, dunque ha ragione Alessandro Penati, che su "Repubblica" parla di una vera e propria "questione bancaria"?
"Sulle banche italiane c'è un problema, che non può non preoccuparci tutti. Il nostro sistema creditizio, tra i suoi asset, ha titoli di Stato italiani per 160 miliardi, e titoli di Stato degli altri 'Pigs' per 3 miliardi. A fronte di questo, le nostre banche hanno titoli "tossici" (essenzialmente mutui subprime) per una quota pari al 6,8% del patrimonio di vigilanza, contro una media europea del 65,3%. Ora, secondo le nuove norme di valutazione degli asset stabilite dall'Eba, siamo al paradosso: i titoli di Stato in portafoglio vengono considerati 'tossici' per le banche italiane, peggio di quanto non lo siano i "subprime"per le banche straniere".

Toccava al governo italiano intervenire, nei mesi scorsi. Perché non l'ha fatto?
"Non sta a me rispondere. Io so solo che i criteri stabiliti dall'Eba sono oggettivamente discutibili. Ci stiamo confrontando con la Banca d'Italia, per sollecitare un intervento e per indurre un ripensamento, anche nell'Esma. Ma non è facile. Il pericolo è che vada definitivamente in tilt il circuito finanza-economia reale. In base ai criteri Eba, le banche devono rafforzare il patrimonio e ricapitalizzare. Per farlo hanno due strade: o vanno sul mercato a cercare soldi, o vendono asset. In entrambi i casi, il sentiero è strettissimo: vendere asset vuol dire ridimensionare comunque l'operatività. Ma trovare capitali sul mercato, adesso, è ancora più difficile: vuol dire limitare il circolante, rinunciare alla leva, ridurre i prestiti, e dunque strozzare il credito. E qui c'è il possibile corto-circuito: che effetto ha tutto questo su un Paese che ha bisogno come il pane della crescita?".

Un effetto devastante, che stiamo già vedendo. Ma come pensate di far cambiare all'Eba i suoi criteri? E come si fa a evitare la recessione nel 2012, già prevista dall'Fmi?
"Questi sono i nodi da sciogliere. Sui criteri Eba il Sistema-Paese deve battersi, a tutti i livelli: non si può avere un approccio khomeinista alla contabilità, che è un mezzo e non un fine, essendo il vero fine il benessere dei cittadini. Quanto alla recessione, l'Italia deve far bene i "compiti a casa", come ha detto giustamente Monti. Questo vuol dire risanamento dei conti, tirando il freno a mano alla spesa pubblica. E poi sostegno allo sviluppo".

La dimensione della crisi non è solo italiana. Lei, da regolatore nazionale, che giudizio dà del ruolo della Bce? Fa abbastanza per fronteggiare l'emergenza?
"Finora, con le regole esistenti, ha fatto quello che ha potuto. Ma è evidente che l'acquisto dei titoli di Stato dei Paesi periferici, sul solo mercato secondario, non basta più. Così come non basta più l'approccio puramente anti-inflazionistico della politica monetaria: capisco che i tedeschi abbiano lo scheletro di Weimer nell'armadio, ma adesso serve un salto di qualità".

Sta dicendo che Draghi deve trasformare la Bce in un prestatore di ultima istanza, stampando moneta senza limiti?
"Sto dicendo che anche su questi temi serve un approccio nuovo, e adeguato alla fase. C'è a monte un problema di sovranità politica e di coordinamento delle politiche fiscali nazionali. Ma c'è anche un problema di Trattati e di Statuti da rivedere. La Fed e la Banca d'Inghilterra stampano moneta. La Bce non può farlo. Questa disparità va risolta. Allora, o cambiamo il ruolo della Bce, oppure dobbiamo accettare il rischio che l'euro salti, e ogni Paese torni alla sua valuta nazionale".

È un'ipotesi realistica, secondo lei? C'è addirittura chi ipotizza un piano segreto dei governi, per un change-over dall'euro alle vecchie valute nazionali a cavallo di Capodanno...
"Non credo alle voci. Ma certo il rischio che la moneta unica non regga, in queste condizioni, esiste. Sarebbe un disastro, ideale e materiale. Sta a Draghi evitarlo, insieme a Merkel, Sarkozy e adesso anche Monti, che fa giustamente da terzo incomodo nel direttorio franco-tedesco".

In questi mesi la Consob ha cercato di arginare la speculazione, tra il divieto di vendite allo scoperto e i limiti agli scambi ad altissima velocità. Tutto inutile: da luglio la Borsa ha perso il 32,1%, e i titoli bancari il 45,6%.
"Noi ci siamo posti l'obiettivo di fondo di non far disconnettere il link tra risparmio e economia reale. La speculazione fa parte del gioco. Ma oggettivamente alcune cose non funzionano. E su queste abbiamo cercato di intervenire. Le vendite allo scoperto sono un tema controverso. Ma una cosa è sicura: aumentano la volatilità del sistema, e hanno una funzione sempre pro-ciclica. Per questo, dal primo dicembre estenderemo la norma: per tutte le categorie di titoli, le vendite allo scoperto dovranno avere almeno il prestito dei titoli sottostanti, e oltre una certa soglia dovranno essere denunciate all'Autorità".

Non è un modo per chiudere la falla di una diga con un dito?
"Non penso che siano norme salvifiche, ma segnalano un'attenzione del regolatore. La stessa cosa vale per l'High Frequency Trading, cioè gli scambi di titoli ad altissima velocità attraverso gli algoritmi. Un algoritmo può essere impazzito o hackerato. Un mercato non può essere condizionato troppo da queste variabili incontrollate: per questo abbiamo chiesto a Borsa Italiana di far pagare almeno un "fee", quando si lancia un ordine oltre un certo importo, e poi non lo si esegue. Anche qui, siamo ai piccoli correttivi, che non risolvono il problema, però nemmeno lo ignorano. Ed è la stessa cosa che potrei dire per il controllo sui Cds cosiddetti "nudi", cioè quelli che si comprano senza il possesso dei titoli di Stato sottostanti. Nella nuova Mifid saranno vietati: ci vorrà tempo, ma è già un passo avanti".

Un altro nervo scoperto è la difesa dell'italianità delle aziende. Stiamo per perdere anche il "bastione" della golden share. Anche su questo avete provato qualche intervento, ma è stato tutto inutile: basta vedere il caso Parmalat.
"Proprio il caso Parmalat è un paradigma del dramma italiano: nessun "campione nazionale" si è fatto avanti. Questo è il nostro vero punto debole. L'intera Borsa italiana capitalizza poco più di Microsoft e Apple messi insieme. Siamo esposti allo shopping straniero. E ora rischiamo anche di più, senza la "golden share". Diciamolo chiaro: sul piano giuridico e normativo, non abbiamo più strumenti per difenderci".

Quindi? Come si evita che l'Italia, già depauperata del suo tessuto industriale, diventi un gigantesco outlet?
"Fa sorridere dirlo adesso, ma l'unica soluzione è allargare il mercato azionario, far entrare in Borsa nuovi operatori e nuovi imprenditori".

Intanto obbligherete almeno Edf a lanciare l'Opa su Edison?
"Stiamo esaminando il quesito. Non abbiamo ancora maturato una scelta: abbiamo un mese di tempo".

Risposta un po' "democristiana". E su Finmeccanica cosa avete in serbo? Possibile che possa accadere uno scandalo simile, e che nessuno possa intervenire?
"C'è un'inchiesta penale in corso. I nostri poteri sono limitati, e riguardano solo il collegio sindacale. Anche in questo caso, stiamo valutando".

Presidente Vegas, voi valutate pure. Ma qui il pericolo è che tra un mese sul mercato non rimanga più niente.
"Noi faremo la nostra parte. Ma certo, per il prossimo futuro, in Italia e in Europa, la responsabilità è nelle mani della politica. Ho fiducia in Monti".
m.giannini@repubblica.it
(30 novembre 2011)

Una discussione a Carta aperta


POTERI ISTITUZIONALI E COSTITUZIONE
Una discussione a Carta aperta
Qual è il grado di salute della seconda parte della nostra Costituzione, riguardante l'organizzazione dei poteri pubblici? Sono ancora le sue regole capaci di soddisfare esigenze minime di buon governo assicurando efficacia e trasparenza? E in quale misura tali regole sono realmente applicate? Quanto accade da anni sotto i nostri occhi impone di porci queste domande. Un Paese serio discute dei propri problemi senza falsi pudori o ritegni di sorta. E naturalmente - anche se è noto quanto in Italia sia difficile affrontare certi argomenti senza venire immediatamente sospettati di chissà quali secondi fini - dei problemi seri come questi discute seriamente, sottraendoli all'eventuale strumentalizzazione politica.

È più che evidente che in generale tutta l'impalcatura dei poteri disegnata dalla Carta del 1948, tutto l'insieme del regime parlamentare puro lì immaginato (che, lo ricordo, non ha corrispettivo in nessun altro grande Paese dell'Europa occidentale), appare bisognoso di una decisa revisione. Non fosse altro perché, in specie a causa della presenza dei partiti, il ruolo delle Camere e dei parlamentari come centro e motore unico della formazione dei governi e della decisione politica ha subito nei fatti un radicale ridimensionamento.

Ma è in particolare sul ruolo e sui poteri del presidente della Repubblica e del presidente del Consiglio che mi sembra divenuto ormai improcrastinabile avviare una riflessione: non essendoci bisogno di sottolineare come è specialmente su queste due figure che si è andato sempre più focalizzando il cuore istituzionale del processo politico. Ed essendo altresì indiscutibile - al di là di ogni personale simpatia e del vario giudizio che si può dare su coloro che negli anni hanno ricoperto questi ruoli - che è a proposito di ciò che riguarda le prerogative e il modo del loro esercizio da parte delle figure di cui sopra, che si è verificato lo scostamento forse più significativo rispetto al quadro delineato dalla Costituzione. O forse, ancora di più, rispetto alle intenzioni dei suoi autori.

In linea generale, infatti, si può dire che mentre è andato crescendo di molto, e in una direzione schiettamente politica, il ruolo del presidente della Repubblica, viceversa si sono palesati in misura altrettanto forte i gravi limiti oggettivi (a cominciare per esempio dal suo potere nei confronti dei singoli ministri) che incontra l'azione del presidente del Consiglio, pur se è ad esso che nel nostro ordinamento spetta di «dirigere la politica generale del governo e ne è responsabile». Specie nel caso del presidente della Repubblica, poi, i fatti hanno dimostrato, a me sembra in modo chiarissimo, quanto il numero e la sostanziale indeterminatezza di molti dei suoi poteri possano dar luogo a una troppo larga varietà di interpretazioni circa il suo ruolo. Da un'interpretazione minimalista e per così dire notarile, a una invece assai penetrante e per così dire interventista, dotata di una fortissima capacità d'impatto e di condizionamento sull'orientamento politico del Paese. Con l'ovvia conseguenza di uno stato di tensione tra le due cariche, reso più acuto dalla diversa origine prima della loro legittimazione.

Certo, si può ben a ragione osservare che inevitabilmente la concreta esistenza delle costituzioni produce degli scostamenti di fatto dalle loro norme scritte; e che in certa misura è anche opportuno che ciò avvenga, non essendo possibile racchiudere la vita reale delle persone e delle istituzioni nella cadaverica rigidità di un testo. Ci sono però scostamenti e scostamenti dalla lettera della norma: si tratta di misurarne quantità e qualità. Se gli scostamenti sono numerosi, ripetuti e significativi - come io credo che siano nel caso nostro - allora bisogna scegliere. O fare come se nulla fosse, chiudere gli occhi e lasciare che la prassi si svincoli a suo piacere dalle regole (con tutti i pericoli che ciò comporta: a cominciare dal fatto che in questo modo «non si sa dove si può andare a finire»), o invece riflettere sui mutamenti intervenuti e decidere di cambiare le regole.

L'opinione pubblica italiana - pur di fronte a un problema di tale importanza per la nostra vita pubblica - non sembra aver scelto, viceversa, né una strada né l'altra. Bensì quella per lei tristemente abituale del dividersi secondo le linee dell'appartenenza politica e basta. Da un lato, cioè, quelli che non vogliono vedere il problema e dietro ogni accenno ad esso, dietro ogni invito a meditare sulle eventuali inadeguatezze della nostra Costituzione, immaginano chissà quali imminenti attentati ad essa; e dall'altro lato quelli che invece vedono già all'opera da tempo violazioni della Costituzione scientemente perseguite a loro danno da chi pure ne dovrebbe essere il custode. Fuor di metafora: da un lato i simpatizzanti del centro-sinistra, dall'altro quelli della destra. Sperare che finalmente si ponga fine al clima da stadio, e ci si metta a ragionare dando inizio a una discussione vera, degna di questo nome, è allo stato attuale una di quelle speranze che è obbligatorio avere. Anche se in questo Paese sono proprio queste speranze che a forza di essere deluse conducono spesso alla disperazione.

di Ernesto Galli della Loggia, dal "Corriere"
30 novembre 2011 |

Per aprire una fase nuova , oltre l'anomia dei mercati Ricostruire fiducia tra gli Stati


Per aprire una fase nuova , oltre l'anomia dei mercati
Ricostruire fiducia tra gli Stati
C'è un’unica via d’uscita da questa crisi che richiede l’approfondimento del rapporto tra macroeconomia e beni relazionali: sostituire all’anomia dei mercati finanziari relazioni fiduciarie tra Stati. Nel medioevo l’economia era costruita su relazioni di sfruttamento tra signori e servi della gleba. La nascita della moderne economie di mercato rappresenta un passo avanti fondamentale nell’emancipazione, liberando i sottoposti al potere dei padroni da quell’unica relazione gerarchica. Grazie al mercato diventa possibile mettere a frutto la propria abilità e professionalità perché quell’unico rapporto si frammenta in una molteplicità di relazioni anonime con potenziali acquirenti del prodotto che premiano qualità e capacità di fare. Un corpo sempre più ampio di risultati in economia sperimentale ci dimostra però che la relazione frammentata e anonima dei mercati è a bassissimo contenuto morale. Un operatore finanziario vive la realtà ovattata di percentuali e grafici che scorrono sul proprio schermo e non ha nessuna percezione forte degli effetti della propria scelta di puntare al ribasso sul fallimento di un Paese. Quando guidiamo la macchina e vediamo pedoni attraversare, rallentiamo e diamo strada avendo ben chiare le conseguenze dei nostri gesti; davanti a un terminale, possiamo fare azioni potenzialmente negative senza avere nessuna contezza di ciò che sta accadendo. Riduzioni anche minime di distanza sociale generano comportamenti molto più attenti al bene altrui. I risultati empirici della teoria dei giochi documentano ampiamente che il solo fatto di ricevere un emotikon (una faccina sorridente o una di disapprovazione via sms), dunque, una forma assolutamente debole di contatto sociale, dalla controparte con cui sto giocando riduce in modo significativo i comportamenti opportunistici aumentando fiducia, cooperazione e reciprocità. Passando dal laboratorio alla realtà, alcune nuove sperimentazioni economiche di particolare valore dimostrano che forme di tutoraggio, partnership, creazione di reti e promozione di inclusione consentono di creare relazioni ricche che superano l’anomia delle relazioni anonime dei mercati generando sia effetti positivi sulla soddisfazione di vita dei partecipanti che risultati significativamente migliori in termini di produttività e creazione di valore economico.

Le relazioni non vanno "santificate". Gli economisti hanno lavorato molto sulle loro ambiguità e potenziali degenerazioni rilevando i rischi di familismo amorale o di organizzazioni che promuovono gli interessi dei loro associati a scapito di terzi. Inoltre, come ben noto, la controparte beneficiata dalla benevolenza del proprio partner può approfittarsene dando luogo al ben noto fenomeno dell’azzardo morale. La moderna evoluzione dei mercati finanziari ci pone però davanti all’urgenza di applicare al campo della macroeconomia e delle relazioni tra Stati questi nuovi risultati scientifici di economia sperimentale. La crisi del debito di oggi può infatti soltanto essere risolta passando dalle relazioni anomiche dei mercati a relazioni fiduciarie tra Stati. Non esiste una soglia assoluta di insostenibilità del debito ma soltanto soglie relative, ovvero condizionali al grado di fiducia degli investitori. Il Giappone con un debito attorno al 200 percento in massima parte nelle mani dei cittadini giapponesi non sta vivendo nessuna crisi finanziaria. I Paesi dell’Ue con debiti di molto inferiori sì. L’unica via d’uscita in un momento di crisi come questo è togliere il debito dai mercati. Di fatto è quello che fa il Fmi quando concede linee di finanziamento a tassi diversi da quelli elevatissimi che si determinano sui mercati in tempi di crisi, ed è quello che molti chiedono oggi alla Bce e alla Germania. Il problema è che la Germania non ha fiducia nei Paesi periferici e comportamenti come quelli della Grecia in passato non hanno fatto nulla per alimentare tale fiducia. L’unica via d’uscita, lo ripetiamo, è costruire nuove relazioni di fiducia. Il pilastro fondamentale è quello di regole molto severe sui saldi di bilancio (lasciando libertà sul raggiungimento di tali saldi) per ogni Paese, con sanzioni semiautomatiche in caso di violazione. Questo pilastro è fondamentale per superare le diffidenze ed evitare gli ostacoli alla costruzione di fiducia generati dal timore di comportamenti opportunistici della controparte. Una volta costruita tale fiducia, però, bisogna immediatamente incassarne i dividendi creando titoli di debito europei e trasformando la Banca centrale europea in prestatore di ultima istanza. Non esistono altre vie d’uscita dalla crisi che non passino attraverso il progresso fondamentale delle relazioni tra Stati, innestando relazioni fiduciarie ricche in grado di fare di meglio dell’anomia dei mercati. Dopo il superamento delle relazioni feudali e il passaggio alle relazioni di mercato è arrivato il momento di razionalizzare il passaggio a una terza fase più ricca, quella delle relazioni fiduciarie che si innestano sull’infrastruttura di mercato.


Leonardo Becchetti, da "Avvenire"

bimbi afflitti del Web


  bimbi afflitti del Web
C'è un nuovo modo di far soldi con i bambini: adesso basta riprenderli in un video a costo zero con un telefonino e postarlo su YouTube, sperando di essere fortunati. Nel momento in cui diventa virale – termine tecnico che indica la diffusione incontrollata per "contagio", ossia passaparola e link correlati – ci penseranno gli amministratori di Google, di cui YouTube è parte, al primo contatto. Con una cortese email verrà richiesta l’adesione per far passare banner di pubblicità sotto il video, condividendone i profitti: per alcuni genitori, nei casi più eclatanti, si può arrivare a migliaia di dollari, se non addirittura a centinaia di migliaia. La star del momento sul Web è Lily, una bambina americana di sei anni che il giorno del suo compleanno ha ricevuto assieme a uno zainetto rosa confetto contenente un pigiama (per una notte fuori!) e dolcetti vari (per il viaggio...), la comunicazione della partenza seduta stante per Disneyland. La sua reazione, al limite dell’isterico, con un pianto fragoroso e prolungato (di gioia?), è stata ripresa, prontamente caricata su YouTube e vista, a oggi, da più di 5 milioni di persone.

I media americani affermano che Disney, che non poteva lasciarsi scappare un promo così ghiotto, pare stia firmando un contratto per poter usare liberamente le immagini per le sue pubblicità tv. In più, ogni volta che qualcuno clicca selezionando quel filmato la mamma della piccola Lily riceve soldi nel suo portafoglio. Al momento, però, il top di questi video è «David torna a casa dal dentista», che ha già fruttato al padre più di 100mila dollari. Vi troviamo il povero David, reduce probabilmente da qualche forma di anestesia, che sul sedile posteriore della macchina sta sperimentando una visione alterata della realtà. Il bimbo di sette anni afferma di vedere quattro occhi sulla faccia del papà e chiede se durerà per sempre, suscitando l’ilarità del genitore-regista-cameraman.

Fa tenerezza, se non compassione, questo bimbo con la bocca piena di punti e stordito da una sostanza chimica che gli snatura la percezione delle cose, anche perché lui ne è visibilmente infastidito, e un pochino spaventato. Eppure, di fronte a questa testolina ciondolante con gli occhi che faticano a stare aperti, il padre che fa? Riprende. E si diverte, compiacendosi.

Ciò che colpisce, di questa moda, non è tanto o solo la monetizzazione delle esperienze dei bambini: questa infatti è la conseguenza di un atto che precede. Colpisce che ci siano padri e madri per cui la realtà dei propri figli diventa un dato da registrare e dare in pasto alle platee. C’è un orgoglio disturbato nella posizione che considera il bambino un puro prodotto da esibire, tanto più carino e tenero quanto più piccolo o in difficoltà.

Limitarsi a filmare la realtà non coincide affatto col viverla: significa piuttosto ridurla, depotenziarla, nell’illusione di una sua amplificazione mediatica. Un bambino uscito da una procedura chirurgica chiede e merita di essere abbracciato e confortato, accolto nella condizione di difficoltà e tranquillizzato sulla sua temporaneità. Non di essere trasformato in uno show, e a tradimento, pure.

È un’infanzia afflitta quella che casca così nella rete per volontà dei grandi, dove la violenza è sottile, melliflua, fatta di risolini tanto ignoranti quanto colpevoli. Ignoranti della dignità del bambino ridotto a macchietta, e colpevoli nel passaggio all’atto di un esibizionismo scriteriato e forse avido. I bambini sono uno spettacolo, non fanno spettacolo. La gioia per il regalo di Lily e il disorientamento di David avevano già tutti gli spettatori che in quel momento importavano; non chiedevano di diventare virali nel Web, attendevano solo un segno di riconoscimento e di simpatia. Qualcosa di più umano che diventare inconsapevoli protagonisti di un reality.

Luigi Ballerini, da "Avvenire"

La "Gioconda nordica" salvi l'euro


di ENZO BETTIZA, dalla stampa

Il Financial Times concede al vascello dell’euro alla deriva non più d’una decina di giorni prima di affondare. Ne sapremo qualcosa, per il meglio o il peggio, entro nove giorni, allorché a Bruxelles si riunirà il vertice dei capi di Stato e di governo per discutere, secondo il presidente dell’Ue Van Rompuy, il progetto di «una vera e propria road map» di salvataggio della moneta comune.

Il timore diffuso è che Angela Merkel non cerchi, anche in questa occasione, d’imprimere alla mappa una strategia conforme agli interessi nazionali tedeschi o ai suoi personalissimi calcoli elettorali.

Sinora infatti nella sala macchine dell’Eurozona, coi motori fermi, si è sentito solo il rimbombo dei veti della cancelliera, il cui pugno di ferro emerge sempre più scoperto fuori dal guanto di velluto. Il repertorio è noto. No durissimi alla Grecia disprezzata; mezzi no all’Italia prima incalzata, poi blandita con l’arrivo di Monti, infine apparentemente promossa con la partecipazione, assieme alla Germania e alla Francia, al progetto di una «unione della stabilità» che non si sa bene come funzionerà; assoluti no al lancio nella burrasca di salvagenti d’emergenza, chiamati eurobond. E soprattutto no ad un intervento autonomo e risolutivo, sulle operazioni di salvataggio, della Banca centrale europea che dà invece l’impressione di agire come una semifiliale della vetocratica Bundesbank tedesca.

Ma chi è, in fondo in fondo, da dove spunta, dove si è plasmata, con quali ideali o ambizioni è cresciuta Angela Dorothea Kasner (Merkel è nome preso dal primo marito) che veniva dal freddo e che, dopo la caduta del Muro, era conosciuta solo da pochi notabili dei partiti cristiani Cdu e Csu che ne determineranno la fulminea ascesa ai vertici della Germania riunificata? Quando nel 2005 diventa il primo cancelliere donna della storia tedesca, «Der Spiegel» la presenta al pubblico occidentale come una massaia conservatrice, di tradizione luterana, dal «sorriso enigmatico di una Gioconda nordica». Ma alle spalle della cancelliera cinquantenne, se non «la vita degli altri» in senso deleterio e cinematografico, c’era stata la vita di un’altra Angela, un’altra persona, la quale mai avrebbe potuto immaginare di essere destinata - lei, partorita quasi per caso in un oscuro villaggio della Ddr - a rappresentare un giorno sulla scena mondiale ottanta milioni di tedeschi riuniti.

Suo padre, il pastore protestante Horst Kasner, detto da qualcuno «il prete rosso», si spostava spesso tra le due Germanie intrattenendo buoni rapporti, in quella comunista, sia con gli antichi insediamenti evangelici che con le nuove autorità ulbrichtiane. La penuria di pastori spingeva prelati volenterosi alle missioni nell’Est; ma non sempre la cosa veniva vista di buon occhio da Ovest, anche perché l’epoca era già segnata dalle fughe in direzione opposta, verso la Repubblica federale, di milioni e milioni di tedeschi orientali. Angela Kasner era nata in quell’epoca e aveva continuato a vivere «di là» senza troppe inquietudini ideologiche o bovaristiche, sempre in tranquilla o apparente pace con tutti. Con se stessa, con la religione del padre, con lealtà neutrale nei confronti del regime, perfino con le organizzazioni giovanili comuniste di cui, pur cristiana osservante, fece per qualche tempo parte attiva. Da noi si usava una volta il termine «cattocomunista»; forse, per la giovane Angela, scaltra, attenta, duplice, sfuggente, si sarebbe potuto adoperare con dovuta cautela quello di «luterocomunista». Imparò alla perfezione il russo, ammirando in particolare la superzarina, Caterina la Grande, nata come lei in Germania orientale. Studiò con profitto fisica all’università di Lipsia e, più tardi, operò anche all’Istituto per la chimica fisica dell’Accademia delle scienze di Berlino Est. Insomma, una studiosa capace, integrata nel sistema, alla quale mai sarebbe venuto in mente di rompere le righe e rischiare il salto del Muro per raggiungere la libertà nel settore occidentale dell’ex capitale. Non a caso dice di se stessa: «Ho bisogno di tempi lunghi e cerco quanto più possibile di riflettere prima di agire».

Aspettò che il comunismo e il Muro cadessero, o implodessero da soli, prima di tuffarsi con un piccolo ma influente movimento, «Risveglio democratico», nell’arena politica di una Germania in parte sconvolta e in gran parte esaltata dall’imminente riunificazione nazionale. Fu in quel clima di cambi della guardia, di fusioni monetarie, di processi volatili, di assoluzioni facili, d’embrassons-nous, che l’aspirante scienziata Kasner si mutò d’un colpo nell’aspirante cancelliera Merkel e compì, nel giro di quindici anni, la più inattesa e straordinaria carriera politica del Duemila. Si potrebbe evocare lo scatto metamorfico di una folgore fredda. Porta il suo movimento dell’Est ad allearsi e fondersi nella Cdu, entra nelle grazie di Helmut Kohl, che presiede lo storico partito democristiano e già prepara il cambio del marco orientale e la riunificazione; dopodiché passerà indifferente sopra il cadavere politico di Kohl, celebrato dal mondo intero, ma travolto da uno scandalo finanziario. Dirà senza batter ciglio: «E’ ora che se ne vada». E’ lei, das Mädchen, «la ragazza», come bonariamente o ipocritamente la chiamano seguaci e rivali all’interno della Cdu, che non intende andarsene più via; è lei, non più ostacolata dalla mole protettiva e dai meriti storici di Kohl, che si accinge alla conquista di due cancellierati uno dopo l’altro, coalizzandosi prima con i socialdemocratici e in seguito alleandosi da posizioni di forza con i liberali; è lei, già esperta di chimica, che adesso comincia a trattare come «molecole» problemi e personaggi coinvolti nel gioco politico.

A questo punto si sarà forse capito con che razza di animale politico imprevedibile, inafferrabile, caparbio, avranno a che fare il 9 dicembre soprattutto quei capi di governo più interessati a salvare dal naufragio l’euro e l’Europa comunitaria in quanto tale. Kohl, l’ultimo dei cancellieri europeisti di cui Adenauer fu il primo, un Kohl pressoché dimenticato, sulla sedia a rotelle, col fantasma di una moglie suicida dietro le spalle, si è già preso una rivincita attaccando l’ex pupilla scavalcatrice sul giornale «Der Tagesspiegel»: «La cancelliera, con la sua linea molto pericolosa nei confronti dell’euro, sta distruggendo la mia Europa». Voleva dire l’Europa occidentale dei renani, cattolica dei bavaresi, vicina a uomini di frontiera come l’alsaziano Schuman o il trentino De Gasperi; un’Europa che probabilmente non ha mai ispirato, ma piuttosto ingessato, le mosse di una protestante, una puntigliosa nordica, una quasi prussiana, cresciuta in scuole d’impianto scientifico e manicheo, culturalmente sensibile ai mondi e agli idiomi slavi. Kohl ha poi smentito di averlo detto, ma si sa che le smentite, in sede di giornalismo politico, equivalgono spesso a una riconferma rafforzata. Vedremo a giorni, nella capitale virtuale dell’Ue, se Angela Merkel si comporterà allo stesso modo con cui, ancora bambina o quasi, affrontava le prove di nuoto ai margini della piscina. Una sua biografa ufficiale, Margaret Heckel, scrive che la piccola scolara poteva passare un’intera lezione accovacciata e immota sul trampolino. Solo quando le giungeva dalla palestra lo squillo finale del campanello, riusciva a trovare il coraggio di fare il salto nell’acqua.

Tanti oggi sperano che la zarina dell’Unione, che sulla scrivania tiene un ritratto settecentesco di Caterina la Grande, trovi il coraggio di tuffarsi in extremis fra i marosi per trarre in salvo l’euro. Basterebbe, per esempio, che cessasse di opporsi a quello che i politici più responsabili e gli osservatori più acuti chiedono da tempo: concedere alla Banca di Francoforte il ruolo di prestatore di ultima istanza ai Paesi indebitati. Anche in termini fonetici quel drammatico ruolo può evocare l’ultima bombola d’ossigeno in una stanza di rianimazione: basta talora il ritardo di un minuto secondo, uno solo, a spegnere il rantolo del malato grave e farlo morire.

Il vento cambia per la Casta


30/11/2011
di MARCELLO SORGI, dalla stampa

Diciamo la verità, ci vuole un certo coraggio a tagliare i vitalizi dei parlamentari proprio alla vigilia di una riforma sulle pensioni che gli stessi deputati e senatori dovranno votare di qui a poco.
Ma d’altra parte non c’era via d’uscita: era impossibile ridimensionare le pensioni dei lavoratori comuni salvando i privilegi degli onorevoli, specie in tempi di polemiche quotidiane sulla «Casta» e di delegazioni vocianti nella piazza di Montecitorio.

Elsa Fornero, la ministra del welfare che è anche una delle maggiori esperte del sistema della previdenza, non ha dovuto faticare molto per convincere i presidenti delle Camere. Fini e Schifani, immaginando quel che il governo stava per chiedere, hanno preferito anticipare ed evitare i soliti giochini per cui i tagli dei privilegi riguardavano sempre i parlamentari di futura nomina, che poi, quando arrivava il loro turno, trovavano il modo di spostarli ancora in avanti. Così, ciò che fino a pochi mesi fa sarebbe stato impensabile, o salutato come un’ingerenza nell’autonomia delle Camere da parte dell’esecutivo, ieri incredibilmente è avvenuto. In perfetto stile Monti e in modo ineluttabile, com’è appunto nelle caratteristiche della nuova stagione del governo tecnico.

Qualche mugugno ci sarà per forza, tra i 250 e passa onorevoli con una sola legislatura alle spalle (a cominciare dall’ex presidente della Camera Pivetti) che dovranno aspettare di avere sessantacinque anni per intascare il vitalizio. Ma ormai è deciso: il sistema contributivo, con cui di qui a poco le pensioni di tutti saranno calcolate solo sulla base dei contributi effettivamente versati durante l’intera vita lavorativa, scatterà da subito anche per i parlamentari.

E non è neppure la sola novità del giorno. Dopo la nomina e il giuramento dei sottosegretari, l’accelerata sulle pensioni segna infatti l’inizio del lavoro a pieno ritmo del governo (fin qui accusato di essersi mosso con eccessiva lentezza). Subito dopo, entro lunedì 5 dicembre, seguiranno altre misure anticrisi, che si preannunciano anche più dure di quanto trapelato fin qui. Tornato già ieri stesso in missione a Bruxelles, Monti in sede europea s’è trovato di fronte a un quadro che via via si sta presentando, se possibile,più duro del previsto.

Il commissarioRehn, in pratica il ministro dell’economia della Ue, ha insistito di nuovo, oltre che sulle pensioni, sulla necessità di stimolare la crescita, gelata dalle previsioni di recessione dell’Italia nel 2012, con norme su licenziamenti e ipotesi di gabbie salariali: provvedimenti che, al solo sentirne i titoli, solleveranno reazioni notevoli dei sindacati e non saranno accolti favorevolmente da una partedel centrosinistra.

Anche Berlusconi, nel confermare il suo appoggio al governo, di cui ha lodato le prime mosse, ha voluto ricordare a Monti che l’impegno del centrodestra a sostegno della maggioranza non prevede né patrimoniali né riforme elettorali, che non fanno parte del programma concordato. Insomma, seppure infiacchita, continua la resistenza dei partiti. Di fronte alla quale, Monti, se non vuole indebolirsi, ha solo una possibilità: tirare diritto per la sua strada.


martedì 29 novembre 2011

I DATI ISTAT DI OTTOBRE : Divario prezzi - stipendi, è record


ECONOMIA
29/11/2011 - I DATI ISTAT DI OTTOBRE
Divario prezzi - stipendi, è record

Le retribuzioni salgono dell'1,7%, l'inflazione cresce del 3,4%
ROMA
Chi è lavoratore dipendente se n'era già accorto da solo, guardando quanto resta da spendere a fine mese, e adesso è arrivata la conferma dai dati Istat. Ad ottobre è ulteriormente salita la forbice tra l’aumento delle retribuzioni contrattuali orarie (+1,7%) e il livello di inflazione (+3,4%), toccando una differenza pari a 1,7 punti percentuali. Si tratta del divario più alto almeno dal 1997.

Il precedente record era a 1,3 punti percentuali. È quanto risulta dal confronto dei dati Istat.

Nella media del periodo gennaio-ottobre 2011 l'indice delle retribuzioni contrattuali è cresciuto dell'1,8% rispetto al corrispondente periodo dell'anno precedente.  Alla fine di ottobre, i contratti collettivi nazionali di lavoro in vigore per la parte economica corrispondono al 66,9% degli occupati dipendenti e al 61,7% del monte retributivo osservato.

Con riferimento ai principali macrosettori, a ottobre le retribuzioni orarie contrattuali registrano un incremento tendenziale dell'1,9% per i dipendenti del settore privato e dello 0,6% per quelli della pubblica amministrazione.

I settori che a ottobre presentano gli incrementi maggiori rispetto allo stesso mese dell'anno precedente sono: militari-difesa (+3,7%), forze dell'ordine (+3,5%), gomma, plastica e lavorazioni minerali non metalliferi e attivita' dei vigili del fuoco (per entrambi +3,1%). Si registrano, invece, variazioni nulle per ministeri, scuola, regioni e autonomie locali e servizio sanitario nazionale.
 Sempre nel mese di ottobre, nessun accordo in attesa di rinnovo, tra quelli monitorati dall'indagine, prosegue l'Istat, e' stato siglato. Alla fine di ottobre la quota dei dipendenti in attesa di rinnovo e' del 33,1% nel totale dell'economia e del 12,9% nel settore privato. L'attesa del rinnovo per i lavoratori con il contratto scaduto e', in media, di 22,4 mesi nel totale e di 23,4 mesi nell'insieme dei settori privati.

l'addio ai compagni: "Ho deciso di morire"


IL PERSONAGGIO
Il suicidio assistito di Lucio Magri
l'addio ai compagni: "Ho deciso di morire"
Il fondatore del Manifesto morto in Svizzera ha deciso tutto con lucidità; dalla fine alla sepoltura vicino alla sua Mara. Gli amici hanno tentato di dissuaderlo ma lui era depresso per la morte della moglie
Lucio Magri con Paolo Bufalini ed Enrico Berlinguer
di SIMONETTA FIORI, da repubblica

E ALLA FINE la telefonata è arrivata. Sì, tutto finito. Ora si rientra in Italia. Alle pompe funebri aveva provveduto lo stesso Lucio Magri, poco prima di partire per la Svizzera. Era il suo ultimo viaggio, così voleva che fosse. Non ce la faceva a morire da solo, così il suo amico medico l'avrebbe aiutato. Là il suicidio assistito è una pratica lecita, anche se poi bisogna vedere nei dettagli, se ci sono proprio le condizioni. Ma ora che importa? Che volete sapere? Non fate troppi pettegolezzi, l'aveva già detto qualcun altro ma in questi casi non conta l'originalità.

S'era raccomandato con i suoi amici più cari, quelli d'una vita, i compagni del Manifesto. Non voglio funerali, per carità, tutte quelle inutili commemorazioni. Necrologi manco a parlarne. Luciana si occuperà della gestione editoriale dei miei scritti. Per gli amici e compagni lascio una lettera, ma dovete leggerla quando sarà tutto finito. Sì, ora è finito. La notizia può essere resa pubblica. Lucio Magri, fondatore del Manifesto, protagonista della sinistra eretica, è morto in Svizzera all'età di 79 anni. Morto per sua volontà, perché vivere gli era diventato intollerabile.
 A casa di Lucio Magri, in attesa della telefonata decisiva. È tutto in ordine, in piazza del Grillo, nel cuore della Roma papalina e misteriosa, a due passi dalla magione dove morì Guttuso, pittore amatissimo ma anche avversario

sentimentale. Niente sembra fuori posto, il parquet chiaro, i divani bianchi, i libri sulla scrivania Impero, la collezione del Manifesto vicina a quella dei fascicoli di cucina, si sa che Lucio è un cuoco raffinato. Intorno al tavolo di legno chiaro siede la sua famiglia allargata, Famiano Crucianelli e Filippo Maone, amici sin dai tempi del Manifesto, Luciana Castellina, compagna di sentimenti e di politica per un quarto di secolo. No, Valentino non c'è, Valentino Parlato lo stiamo cercando, ma presto ci raggiungerà. In cucina Lalla, la cameriera sudamericana, prepara il Martini con cura, il bicchiere giusto, quello a cono, con la scorza di limone. Cosa stiamo aspettando? Che qualcuno telefoni, e ci dica che Lucio non c'è più.

Da questa casa Magri s'è mosso venerdì sera diretto in Svizzera, dal suo amico medico. Non è la prima volta, l'aveva già fatto una volta, forse due. Però era sempre tornato, non convinto fino in fondo. Ora però è diverso. Domenica mattina rassicura gli amici: "Ma no, non preoccupatevi, torno domani". La sera il tono cambia, si fa più affannato, indecifrabile, chissà. Il lunedì mattina appare sereno, lucido, determinato. Ha scelto, e dunque il più è fatto. Bisogna solo decidere, e poi basta chiudere gli occhi. L'ultima telefonata nel pomeriggio, verso le sedici. Poi il silenzio.

Una depressione vera, incurabile. Un lento scivolare nel buio provocato da un intreccio di ragioni, pubbliche e private. Sul fallimento politico - conclamato, evidentissimo - s'era innestato il dolore privato per la perdita di una moglie molto amata, Mara, che era il suo filtro con il mondo. "Lucio non sapeva usare il bancomat né il cellulare", racconta una giovane amica. Mara che oggi sorride dalle tante fotografie sugli scaffali, vestita color ciclamino nel giorno delle nozze. Un vuoto che Magri riempie in questi anni con le ricerche per il suo ultimo libro, una possibile storia del Pci che certo non a caso titola Il sarto di Ulm, il sarto di Brecht che si sfracella a terra perché non sa volare. Ucciso da un'ambizione troppo grande, così almeno appare ai suoi contemporanei. Anche Magri voleva volare, voleva cambiare il mondo, e il mondo degli ultimi anni gli appariva un'insopportabile smentita della sua utopia, il segno intollerabile di un fallimento, la constatazione amarissima della separazione tra sé e la realtà. Così le ali ha deciso di tagliarsele da sé, ma evitando agli amici lo spettacolo del sangue sul selciato.

Aspettando l'ultima telefonata, a casa Magri. Lalla, la cameriera peruviana, va a fare la spesa per il pranzo, vi fermate vero a colazione? E' affettuosa, Lalla, ha ricevuto tutte le ultime disposizioni dal padrone di casa. No, non ha bisogno di soldi per il pranzo, ci sono ancora quelli vecchi che lui le ha lasciato. È stata lei ad assistere Mara nei tre anni di agonia per il brutto tumore, e poi ha visto spegnersi lui, sempre più malinconico, quasi blindato in casa. Ogni tanto qualche amico, compagno della prima ora. Ma dai, reagisci, che fai, ti lasci andare proprio ora? Ora che esce l'edizione inglese del tuo libro? E poi quella argentina, e quella spagnola? Dai, ripensaci, c'è ancora da fare. Ma lui non era convinto. Non poteva fare più nulla. Lucido e razionale, fino alla fine. E poi s'era spenta la sua stella, così scrive anche nell'ultima lettera ai compagni.

Sembra tutto surreale, qui in piazza del Grillo, tra squilli di telefono e porte che si aprono. Arriva Valentino, invecchiato improvvisamente di dieci anni. Lo accolgono con calore. No, non sappiamo ancora niente. Aspettiamo. Ricordi privati e ricordi pubblici, lui grande giocatore di scacchi, lui grande sciatore, lui politico generoso che preparava i documenti e nascondeva la sua firma. Ma attenzione a come ne scrivete, non era un vanesio, non era un mondano. Dalle fotografie sui ripiani occhieggia lui, bellissimo e ancora giovane, un'espressione tra il malinconico e il maledetto. Dietro la foto più seducente, una dedica asciutta. "A Emma, il suo nonno". Neppure Emma, la bambina di sua figlia Jessica, è riuscito a fermarlo.

Poi la telefonata, quella che nessuno avrebbe voluto mai ricevere. Ora davvero è finita. Le pompe funebri andranno a prelevarlo in Svizzera, tutto era stato deciso nel dettaglio. L'ultimo viaggio, questo sì davvero l'ultimo, è verso Recanati, dove sarà seppellito vicino alla sua Mara, nella tomba che lui con cura aveva predisposto dopo la morte della moglie. Luciana Castellina s'appoggia allo stipite della porta, tramortita: "Non avrei mai immaginato che finisse così". Il tempo dell'attesa è concluso, comincia quello del dolore.
(29 novembre 2011)

"Subito misure da 11 miliardi" ecco il dossier europeo su Roma


RETROSCENA
"Subito misure da 11 miliardi"
ecco il dossier europeo su Roma
Il rapporto Rhen: pensioni bloccate se il Pil è negativo. I radditi più bassi esclusi dal congelamento degli assegni previdenziali. Richiesti interventi sui licenziamenti e la riforma del pubblico impiego

dal nostro inviato ALBERTO D'ARGENIO

BRUXELLES - Sedici pagine per dire che serve subito una manovra da almeno 11 miliardi di euro, per raccomandare di toccare le pensioni e l'articolo 18. E per ricordare che l'immobilismo del governo Berlusconi ha portato l'Italia a un passo dal baratro e per dare piena fiducia a Monti, la cui agenda di riforme appare ben più ambiziosa di quella faticosamente elaborata dal trio Berlusconi-Bossi-Tremonti. La firma in calce al documento è quella del commissario europeo agli Affari economici Olli Rehn. Che sull'Italia ha lavorato sodo, almeno dalla metà di ottobre quando l'Europa ha deciso di commissariare il Cavaliere e con lui il Paese. Da allora a Roma è arrivata la lettera con 39 domande a Tremonti, si sono ripetute le missioni di monitoraggio dei tecnici Ue, per finire con la visita dello stesso Rehn di venerdì scorso. Il frutto di questo lavoro è il documento riservato dal titolo "Addressing Italy's high-debt/low-growth challenge" - che Repubblica è in grado di anticipare - alla base del giudizio sull'Italia che questa sera sarà pronunciato dall'Eurogruppo.

Innanzitutto si spiega come le debolezze strutturali del Paese - il debito pubblico e la bassa crescita - "sono precedenti alla crisi globale, non partono da essa". Ma nonostante le sue debolezze, "a differenza di altri Paesi, l'Italia è entrata nella crisi con un alto tasso di risparmio e con un settore bancario robusto". Cos'è andato storto allora? Roma, certifica la Ue, ha perso la fiducia degli investitori per l'incapacità di fare le riforme strutturali evidenziata "negli ultimi dieci anni", quelli segnati dal Cavaliere, nonostante i ripetuti richiami della Ue e le condizioni economiche favorevoli.

Ora la percezione della nazione è cambiata, anche se il lavoro da fare per Monti è immane. "L'Italia deve affrontare rapidamente le sfide formidabili che ha di fronte, ma il nuovo governo ha il know-how" per farlo. E ancora, "nel formulare la sua agenda deve essere ambizioso e per invertire l'umore dei mercati le riforme chiave devono essere fatte subito". Ma alla Ue non sfugge che per ribaltare il Paese in pochi mesi serve l'appoggio dei partiti, delle parti sociali e dell'opinione pubblica. Ecco perché si consiglia al premier di "spiegare chiaramente e in modo convincente l'insostenibilità dei costi di un fallimento e i benefici per la società di un successo". Già, perché il rischio di default "può aumentare rapidamente in assenza di risposte adeguate" che è ancora possibile dare, visto che l'aumento degli spread sul breve periodo ha "un impatto limitato sul bilancio", ma "se restano persistenti aumentano il rischio" di crac con "ripercussioni" gravissime per tutta le moneta unica, che rischierebbe di sparire. Segue la parte tecnica. Sui conti pubblici Bruxelles conferma che il pareggio di bilancio nel 2013 "è un pre-requisito chiave per riguadagnare credibilità e migliorare le prospettive di crescita nel medio termine", per questo chiede subito una manovra da undici miliardi e per ora non prende in considerazione la richiesta di Monti di privilegiare le riforme per la crescita vista la peggior performance del Pil.

E non potrebbe fare altrimenti, lo stesso Professore chiede di farlo dopo un dibattito a livello europeo che valga per tutti che non è ancora partito. Ergo non si scappa ai numeri: Tremonti aveva promesso di chiudere il 2012 con un deficit dell'1,6% in modo da azzerarlo nel 2013, ma la crescita italiana è stata inferiore alle sue previsioni e quindi resta un buco dello 0,7% da coprire. Undici miliardi, appunto. E visto che l'Ocse prevede che nel 2012 le cose peggioreranno ancora, nei prossimi mesi si discuterà di nuovi interventi.

Rehn esamina nel dettaglio tutti gli aspetti della politica economica. In molti punti la pensa come Monti. Come quando chiede lotta all'evasione anche con l'abbassamento dei pagamenti in cash o con lo spostamento della tassazione dal reddito "ai consumi (Iva, ndr) e alle proprietà (Ici, ndr)". Sulle pensioni tra le altre cose chiede "la sospensione dell'indicizzazione automatica degli assegni all'indice dei prezzi, tranne che per gli assegni più bassi, in caso di crescita negativa". In generale sulla previdenza - così come su lavoro e concorrenza - giudica l'agenda Monti "più ambiziosa" di quella di Berlusconi. Ma sul lavoro, senza citarlo, entra nel dibattito sull'articolo 18: bisogna "eliminare le rigidità" "per esempio sostituendo l'attuale sistema di protezione attraverso il reintegro obbligatorio (in vigore per le aziende con più di 15 dipendenti) con il pagamento di un'indennità di liquidazione legata allo stipendio percepito". Sulla pubblica amministrazione, invece, l'Europa promuove il governo Berlusconi: "La riforma Brunetta va applicata integralmente". In generale le riforme approvate (poche) o promesse (molte) da Berlusconi sono la base da cui partire, ma non basta, servono interventi più ambiziosi e difficili "ridurre le vulnerabilità". E se quello su Berlusconi era un commissariamento ad personam, sull'Italia di Monti resta in piedi il monitoraggio deciso lo scorso ottobre: ecco perché Bruxelles al governo chiede un'agenda dettagliata di riforme con tempi di applicazione ancorati a una vera e propria road map.
(29 novembre 2011)
Fonte : Repubblica

Meglio decidere che concertare


L’EMERGENZA E LE VECCHIE ABITUDINI
Meglio decidere che concertare
Per dirla con lo slang giornalistico il governo Monti ha un solo colpo in canna. Vuoi per il peggioramento delle condizioni del contesto internazionale vuoi perché il tempo è una risorsa scarsa, l’esecutivo dei tecnici non può assolutamente sprecare la sua (vera) prima mossa. Deve assolutamente andare a segno. L’operazione non è delle più semplici, perché la politica ha lasciato marcire buona parte delle contraddizioni della società italiana senza avere il coraggio di affrontarle di petto negli anni della crescita. Basta leggere il contenuto delle decine di lettere aperte e di appelli che dalle categorie, e persino da singoli cittadini di buona volontà, sono stati indirizzati in forma pubblica al governo Monti. Da quei documenti viene fuori il ritratto di un Paese che vuole meritocrazia ma attende anche inclusione, che chiede di riprendere velocità ma si aspetta di veder ridotto il peso delle disuguaglianze. Attenzione però a illudersi, sommando tutte le domande di cambiamento si finisce per caricare sul nuovo esecutivo la palingenesi dell’Italia, la rimodulazione degli assetti socio-politici di un Paese che una volta era tra i membri del G7. Monti è un amministratore straordinario, non un taumaturgo.

Nell’ottica dell’unico colpo da sparare è da condividere la scelta del presidente del Consiglio di procedere con la tecnica del «pacchetto di provvedimenti» che dovrà avere al suo interno una stringente logica di ripartizione dei sacrifici tra le diverse platee. Nessuna di esse dovrà avere la sensazione di fungere da capro espiatorio. Un governo tecnico, del resto, ha dalla sua il vantaggio psicologico di non dover proteggere le proprie constituency elettorali e aggredire quelle dello schieramento avverso, non c’è dunque lobby che dovrebbe potersi vantare di avere un governo amico. Monti avrà operato con successo nella misura in cui si rivelerà alleato delle nuove generazioni e non degli industriali, dei banchieri, dei sindacati, dei professionisti, dei commercianti o dei taxisti.

La concertazione rappresenta un pezzo della storia recente d’Italia, in alcune e decisive circostanze (l’ingresso nell’euro, ad esempio) si è rivelata un acceleratore del cambiamento, in molte altre la giustificazione di un veto pregiudiziale. Non ci è dato sapere quanto peseranno le relazioni governo-parti sociali quando saremo usciti da quest’incubo, se e come avremo saputo innovare il modello dei corpi intermedi, in questi giorni però appare sempre più chiaro come la concertazione sia chiamata a fare un passo indietro. Così come ha fatto la politica, anch’essa dovrà operare una temporanea cessione di sovranità. La rappresentanza al tempo del rischio-default è dunque chiamata a una prova di maturità, se in passato la spesa pubblica extra budget è stato sovente il lubrificante della coesione sociale, la maniera più veloce per incassare applausi a destra e a manca, questa strada non è più percorribile. E le parti sociali sono chiamate oggi a elaborare un nuovo tipo di scambio, nel quale il dare è immediato e il ricevere è giocoforza differito nel tempo. La prova è difficile ma esistono gruppi dirigenti in grado di superarla. Dal canto suo il presidente Monti non abbia paura del dissenso e, se riesce, eviti di replicare i riti che hanno portato alla nomina dei sottosegretari.

di Dario Di Vico, dal corriere
29 novembre 2011 |

L'ultimo assalto


29/11/2011

L'ultimo assalto

di MARCELLO SORGI, dalla stampa

Due settimane fa, al momento della nascita del governo, concepito in tre giorni, nessuno avrebbe immaginato che ci sarebbe volute due settimane per smaltire il successivo e in qualche modo conseguente assalto alle poltrone.

Ma è inutile nasconderlo: la lunghissima gestazione dei sottosegretari, culminata ieri sera nel parto faticoso di una lista di tecnici senza sorprese eclatanti - a parte la scelta, che ha già generato polemiche, del politico democristiano Giampaolo D’Andrea per i rapporti con il Parlamento -, sta a significare che i problemi, per il professor Monti, non sono solo sul fronte esterno della crisi dell'euro e della crisi economica, ma anche su quello interno dei partiti.

Tenuti a bada nel blitz, operato dal Quirinale, con cui il governo tecnico dell’ex-commissario Ue era stato insediato all'inizio del mese al posto del dimissionario Berlusconi, i componenti semiclandestini della maggioranza tripartita di larghe intese su cui l'esecutivo si regge sono andati all'arrembaggio delle superstiti cariche di viceministri e sottosegretari con brame degne di miglior causa. Da questo punto di vista, una sommaria lettura della lista segnala un bilanciamento romano del governo nato con un baricentro più spostato verso il Nord. Ma anche una forte resistenza del presidente del consiglio, che è riuscito a imporre le sue scelte sugli incarichi-chiave, a cominciare da quello del viceministro all’Economia, Vittorio Grilli, già direttore generale del ministero, che per il nuovo incarico ha rinunciato al ricco stipendio che percepiva fino a ieri.

Detto delle prime polemiche levatesi sul nome di D'Andrea, che per chi lo conosce ha tutta l'esperienza e la moderazione dc per farvi fronte senza conseguenze, è facile prevedere che qualche mugugno, dopo quelli già sentiti sul “governo dei banchieri”, si alzerà per la nomina alle Infrastrutture di Mario Ciaccia, provenienteanche lui, come il ministro Passera, da Banca Intesa. Il resto della lista è composta da tecnici di vario livello e provenienza: alti funzionari come l’exsegretario generale del Senato Malaschini (Rapporti con il Parlamento), alti magistrati come il capo della Procura di Roma Ferrara o il neo ministro della Funzione pubblica Patroni Griffi (magistratura amministrativa), specialisti di problemi internazionali come Marta Dassù (ex-degli staff di D’Alema e Amato, proveniente da Aspen) o Staffan De Mistura (Onu). Meno bocconiani, insomma, e più tecnici di carriera, maturata anche come ufficiali di complemento di governi precedenti.

Così finalmente, dopo un record di lunghezza, s’è conclusala battaglia dei sottosegretari. E ammesso che valesse la pena fare una battaglia per questo (per giorni e giorni a Roma, negli ambienti politici e parapolitici non s’è sentito parlare d’altro, ed era frequente ascoltare da autocandidati aspiranti trombati la frase classica “ho preferito sottrarmi”), è caduto anche l'ultimo alibi per contrattare, rallentare, ostacolarel’azione del governo.

Non c’è dubbio: siamo in una situazione eccezionale, ed è logico che in queste prime settimane dell’imprevistastagione tecnica i politici abbiano faticato ad adattarsi alla novità che li spoglia in gran parte del potere e gli impone scelte ineluttabili. Ma al punto in cui siamo, dovrebbe esser chiaro che opporsi a un quadro come questo con i soliti metodi e le vecchie abitudini è del tutto inutile. E potrebbe pure rivelarsi controproducente.


lunedì 28 novembre 2011


POLITICA
27/11/2011 - IL CASO
Berlusconi già in campagna elettorale:
"Bene Alfano, io resto dietro le quinte"
Ma la Lega lo gela: "L'alleanza è finita"

L'ex premier riappare in pubblico al convegno Popolari Liberali Pdl
"Ora raddoppierò il mio impegno
Con Bossi il rapporto è solido".
Calderoli frena: "Non è più così"
VERONA
Silvio Berlusconi sceglie il palcoscenico della convention dei Popolari Liberali di Carlo Giovanardi come prima uscita dopo le dimissioni da premier e la nascita del governo Monti. E rilancia l’alleanza nazionale con Lega ricevendo però un "no" dal Carroccio. Roberto Calderoli risponde a stretto giro di posta al Cavaliere e lo gela chiarendo che questa intesa non «esiste più». Per il futuro - aggiunge - tutto dipenderà dalla posizione che il Pdl assumerà rispetto alle decisioni che prenderà il governo dei Professori.

Il Cavaliere (che al telefono manda i suoi saluti a Roma ad un convegno del partito delle piccole e medie imprese) arriva insieme con il segretario del partito Angelino Alfano, siede in prima fila con lui, ed è proprio l’ex Guardasigilli la prima persona che cita nel suo intervento: «Per il successo ed il futuro con lui siamo in ottime mani». Nella mente dell’ex capo del governo infatti è già aria di campagna elettorale. Un appuntamento per cui dichiara di «essere pronto a raddoppiare gli impegni». Testa bassa sul partito (l’ex Cavaliere nel suo intervento evita ogni riferimento al governo), parallelamente, pressing continuo per tenere salda l’intesa con Umberto Bossi: «L’alleanza con la Lega è solida», scandisce Berlusconi al termine di un pranzo con Alfano, Giovanardi e altri ospiti della kermesse, convinto che l’accordo con il Carroccio «non possa essere indebolito dal governo tecnico», che alle elezioni amministrative il Pdl sarà alleato con i lumbard.

La lealtà all’esecutivo guidato da Mario Monti non è in discussione ed è lo stesso Alfano a ribadirlo dal palco, chiarendo però come il governo tecnico rappresenti solo «il presente» e non «il progetto futuro» a cui lavora il Pdl. Un ragionamento che in privato Berlusconi non manca di ripetere: Abbiamo dato la fiducia al governo - osserva con i fedelissimi - a cui non poniamo limiti temporali, ma il nostro non è un sostegno a scatola chiusa. Vogliamo essere informati su quali sono i provvedimenti che Monti ha in cantiere. Ecco perché l’ex capo del governo non risparmia pesanti critiche all’ipotesi, su cui è al lavoro il Professore di abbassare la tracciabilità dei pagamenti da 2.500 euro (soglia fissata dal governo Berlusconi) a 300 euro: «Si tratta di una norma che ha insito il pericolo di uno Stato di polizia tributaria, il contrario di quello in cui noi vogliamo vivere».

A rincarare la dose ci pensa Angelino Alfano. Il segretario plaude alla lotta all’evasione fiscale ma non nasconde qualche perplessità: se ogni operazione «viene messa dentro un cervellone elettronico che registra e controlla, si combatte sì l’evasione ma si toglie ogni volta un grammo di libertà al cittadino». Quanto all’ipotesi di un piano di salvataggio per l’Italia messo a punto dal Fondo Monetario Internazionale, l’ex capo del governo si riserva di commentarlo una volta conosciuti i dettagli: «Francamente non lo conosco », precisa il Cavaliere, che non fa mancare il suo giudizio sulle proposte che il Fondo monetario gli fece nel corso del G20 a Cannes: «Abbiamo ritenuto non fosse adeguato e chiedemmo di valutare le misure che erano state concordate con Bruxelles». Le critiche al governo non saranno risparmiate, mette dunque in chiaro Berlusconi che a più di qualche dirigente del partito indica quale dev’essere la strada da seguire : Tenete conto che dal momento in cui non siamo più al governo siamo in campagna elettorale. Una "chiamata alle armi" arriva anche dal palco: «Abbiamo il dovere di combattere per la difesa della libertà», valore che a detta dell’ex premier è messo a rischio da una sinistra «comunista» che «non ha raggiunto una maturazione democratica».

L’invito dell'ex premier dunque è a non perdere tempo e ad organizzare il partito sul territorio: «Lavoriamo per diffonderci capillarmente in tutta Italia», dice Berlusconi che annuncia la creazione «di team elettorali in tutte le sezioni in modo da stabilire un contatto con tutti gli italiani».
Fonte : la stampa

 Il Cavaliere vuole evitare 
la leadership di Casini

Silvio Berlusconi ieri al convegno Popolari liberali Pdl
Rispolvera gli slogan
sul comunismo per parlare
a tutti i moderati
di AMEDEO LA MATTINA, dalla stampa
ROMA
Berlusconi non voleva andarci a Verona. Aveva già dato forfait sabato. Non aveva alcuna intenzione di intervenire al convegno dei Popolari Liberali di Giovanardi. Avrebbe preferito che parlasse solo il segretario del Pdl Alfano, per non oscurarlo. Ma alla fine si è fatto convincere per non dare un dispiacere al suo ex sottosegretario e anche cogliere l’occasione di una presa di distanze da una maggioranza politica indistinta. Non vuole confondersi innanzitutto con il Pd che ritorna a bollare come comunista, incapace di evolversi in senso socialdemocratico. Un’accusa che contiene dell’altro, non detto: un modo per mettere sottoscacco i centristi del Terzo polo, a cominciare dall’Udc di Casini che, abbattute le barriere tra centro, sinistra e destra, sta prendendo le misure delle future alleanze sul grado di sostegno al governo Monti. Esattamente ciò che il Cavaliere vuole evitare per non farsi relegare nel dimenticatoio e favorire una nuova Dc del Terzo Millennio in cui Alfano verrebbe inghiottito. Insieme a un bel pezzo di Pdl.

Ma la situazione finanziaria europea è su un crinale così pericoloso che dovrebbe sconsigliare riserve e tatticismi sull’azione di Monti. Invece Berlusconi ha dato l’impressione di voler aprire una lunga quanto prematura campagna elettorale. Ha toccato le corde di quella parte del suo partito che ha ancora il dente avvelenato per essere stata spinta fuori dai ministeri e si trova una Lega cannibale sulla schiena. Così il Cavaliere, non avendo una strategia ancora chiara e potendo solo ripetere che la colpa dello tsunami sull’euro non era sua, risfodera il vecchissimo cavallo di battaglia dei comunisti alle porte, del Pd mai diventato socialdemocratico.

Dal partito di Bersani nessuna risposta ufficiale. In via riservata i Democratici spiegano che le parole dell’ex premier sono quelle di un uomo sconfitto, che recita due parti in commedia. Si appresta a votare il pacchetto delle misure anti-crisi, sa che Monti durerà fino al 2013 perché provocare le elezioni anticipate sarebbe un disastro per lui, il ko definitivo. Deve però alzare la voce, distinguersi, evocare in maniera stanca vecchi repertori di una stagione sepolta. In questo modo, osservano a Largo del Nazareno, il Cavaliere pensa di tenere a bada chi nel suo partito lo spinge a elezioni in primavera. Ma c’è un’altra parte del Pdl, dai ciellini di Lupi e Formigoni a Scajola, Frattini ed ex Dc, che voglio andare avanti con Monti. E guardano all’Udc e al Terzo Polo come via d’uscita dal vecchio schema del centrodestra e dall’abbraccio con la Lega. Sono gli stessi che temono che Alfano non abbia le gambe per creare la riunificazione dei moderati sul modello Ppe.

Casini vorrebbe strappare il velo di ipocrisia che copre i rapporti tra le forze politiche che sostengono Monti. Fosse per lui i vertici della nuova maggioranza dovrebbero tenersi alla luce del sole, senza infilarsi nei sottopassaggi del Senato. L’ex presidente della Camera tuttavia non crede che Berlusconi stacchi la spina fintantoché i suoi interessi saranno salvaguardati. Del resto, è stato lo stesso Bossi a spiegare che l’ok del Cavaliere al nuovo governo è stato dettato dalla necessità di mettere a riparo le aziende Mediaset.

Ora il problema è tutto di Alfano. Quando i provvedimenti economici arriveranno in Parlamento dovrà tenere unito il suo partito. Se il Pdl si spaccherà, dovrà decidere da che parte buttarsi. Nel Pdl molti, da entrambe le fazioni, si chiedono se avrà birra nelle gambe per tenere la botta: o di rompere o di continuare a sostenere Monti, in ogni caso. Alfano va in quest’ultima direzione, su un terreno di responsabilità nazionale in cui può incontrare il Terzo Polo e costruire la nuova casa dei moderati. Più facile a dirsi che a farlo perché tutto passa attraverso il cerchio di fuoco della prova del governo Monti. Ancora una volta potrebbe essere Berlusconi a dire l’ultima parola e lo stesso Alfano è terrorizzato che possa essere Casini a prendersi la leadership del Ppe italiano.


Il welfare aziendale punta sulla famiglia
​Come un’onda anomala, la stagione dei nuovi integrativi aziendali sta mutando il panorama nazionale. Se il welfare pubblico sta infatti ritirandosi, ecco che per rimanere competitivi sui mercati globali le multinazionali dell’agroalimentare e il gigante dell’occhialeria Luxottica, apripista del welfare in busta paga nel 2009, hanno cambiato strada, puntando a migliorare la produttività e la qualità incentivando non con soldi, bensì con servizi, che hanno il vantaggio in certi casi di godere di agevolazioni fiscali. Insomma, con i sindacati ci si accorda per un corrispettivo in servizi a operai e impiegati una volta raggiunti determinati obiettivi e in cambio di una certa flessibilità.

Accordi a conflitti zero, tutte le parti sociali ci stanno, anche se la prudenza è d’obbligo. I nuovi integrativi firmati da sei mesi a questa parte lo confermano. Big come Kraft, Colussi, Barilla e Nestlè hanno introdotto sette giorni retribuiti di congedi di paternità, telelavoro o part time "sociale" per chi ha figli affetti da gravi patologie e il contributo alle rette aziendali dei nidi. Da Agordo, nel bellunese, il modello resta l’integrativo di Luxottica, la multinazionale dell’occhiale, L’idea prende forma nel 2008.

«La diminuzione del potere d’acquisto delle famiglie – racconta Nicola Pelà, direttore delle risorse umane, manager di scuola Olivetti – non era più compensabile solo attraverso i tradizionali interventi sulle retribuzioni monetarie fisse o variabili, dovendo sostenere un cuneo fiscale pari al 46,5% del costo del lavoro. Nel febbraio del 2009 abbiamo proposto al sindacato di gestire congiuntamente un programma che remunerasse con beni e servizi una volta raggiunti obiettivi concordati di produzione». Oggi siamo al secondo contratto, siglato il 17 ottobre, che sarà applicato a 8.000 persone e che, in cambio di una più spiccata gestione individuale della presenza attraverso straordinari e flessibilità legata alla stagionalità e ai cicli produttivi, fa scattare bonus di welfare pro famiglia. Ad esempio una "banca ore" con la quale i lavoratori che prevedano una maternità entro 3 anni potranno conferire straordinari o giorni di ferie da usare dopo la nascita del bambino.

O permessi per i neopapà sino a 5 giorni lavorativi interamente retribuiti e soprattutto il "job sharing familiare". In sostanza il dipendente può condividere il lavoro con il coniuge disoccupato o in cassa integrazione e con il figlio prossimo alla conclusione degli studi o che ha terminato gli studi. Il figlio o il coniuge inoccupato può sostituirlo se il dipendente è malato. Ultima novità, un parametro "sostenibile" che prevede un premio legato alla riduzione dei costi della "bolletta energetica", dei rifiuti e dei materiali di consumo degli uffici. Pelà spiega così l’attenzione dell’azienda al welfare per la famiglia: «In questo momento di crisi è l’istituzione che regge il tessuto sociale ed è quella che ci differenzia dall’Europa». Altro laboratorio di innovazione è Milano. La Sea, ad esempio, oltre 5mila dipendenti, azienda controllata dal comune che gestisce Linate e Malpensa, ha già una lunga tradizione di assistenza e prevenzione sanitaria per i dipendenti, iniziative per i figli, servizi sociali, dedicate alla conciliazione tra vita lavorativa e familiare come orario flessibile e permessi compreso il "part-time mamma".

Anche nel rinnovo dell’integrativo dello scorso 6 ottobre oltre ai parametri monetari ci sono servizi alla persona. Interessante l’innovazione illustrata dal Chief corporate officer Luciano Carbone, delegato alla responsabilità sociale dell’azienda. «Sea – spiega Carbone – ha utilizzato una società di sondaggi per chiedere ai dipendenti quali bisogni esprimessero. È emerso il tradizionale interesse per le spese sanitarie e per la conciliazione dei tempi di lavoro con quelli della famiglia. Ma non più solo da parte delle madri per i figli, emerge il bisogno di chi deve curare anche i genitori anziani». Infine c’è una quota di dipendenti che chiede all’azienda aiuto per affrontare problemi personali come la dipendenza dal gioco. Altra novità è il movimento di piccole e medie imprese. La regione Lombardia ha chiuso al 15 ottobre un bando che finanzia a fondo perduto progetti di welfare per le aziende con meno di 250 dipendenti.

E l’Unione degli industriali di Como ha siglato lo scorso aprile con le parti sociali un patto territoriale dello sviluppo che prevede il lancio di progetti di welfare negli integrativi aziendali coinvolgendo migliaia di famiglie. «Le idee sono molte – sostiene il presidente dell’unione, Mario Giudici – ad esempio calibrare i nidi aziendali che sono costosi. Per sostenersi, alcuni stipulano accordi con altre aziende, altri si sono convenzionati con i comuni. Un punto fermo sarà rilevare sempre i bisogni autentici dei lavoratori, per evitare iniziative inutili. Le aziende insieme possono poi agevolare a costo zero i risparmi sui consumi dei dipendenti ad esempio attraverso carte spesa con le catene di supermercati». Un’esperienza analoga è stata presentata a inizio novembre da Confindustria della provincia di Treviso.

Restano tuttavia problemi da affrontare, ad esempio va accorciato il divario tra piccole e grandi imprese per non creare un "welfare divide" con evidenti discriminazioni sui territori. «A mano a mano che lo stato sociale si ritira – conclude al riguardo Nicola Pelà – aziende e sindacati hanno una grande opportunità di trovare assieme le risposte per migliorare i redditi delle famiglie. Le imprese che operano in uno stesso distretto possono mettersi assieme e, in collaborazione con la grande risorsa del non profit, fornire ai cittadini i servizi che la pubblica amministrazione non riesce più a garantire». Ma questa è un’altra prova che l’Italia produttiva, senza troppi clamori, si sta attrezzando per passare la lunga notte.

di Paolo Lambruschi, da Avvenire

LA LINEA DURA DELLA MERKEL
Prigionieri europei del dogma tedesco
Non vado alla ricerca di attenuanti per la lentezza e la riluttanza con cui la Germania ha affrontato sin dall'inizio la crisi dell'euro. Ma dobbiamo almeno cercare di comprendere perché esista ormai una questione tedesca.

Dai primi decenni dell'Ottocento la Germania è una prodigiosa accumulazione di energie morali e materiali: un grande pensiero filosofico e storico, una galoppante rivoluzione industriale, una impressionante serie di scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche, una straordinaria fioritura di talenti artistici nella letteratura, nella musica, nel teatro, nel cinema e nelle arti visive. Nel 1914 il Paese ha impiegato questa ricchezza per un «assalto al potere mondiale» (come fu definito dallo storico Fritz Fischer) che si è concluso con una umiliante sconfitta. Negli anni Trenta, dopo il fallimento della Repubblica di Weimar, ha cercato di raggiungere lo stesso obiettivo con nuovi mezzi, nuove strategie, una micidiale overdose di nazionalismo razziale. E il fallimento è stato ancora più catastrofico di quello del 1918.

Il terzo atto della storia tedesca comincia alla fine degli anni Quaranta. Il Paese analizza le ragioni della sconfitta, rinuncia al sogno del potere mondiale, s'impegna a espellere dal suo corpo sociale i virus dell'arroganza razziale, chiede perdono alle sue vittime e investe tutte le sue energie in un progetto economico fondato sulla necessità di evitare gli errori del passato: l'arroganza guglielmina, la fragilità economica della Repubblica di Weimar, la follia hitleriana. La conquista della grandezza economica e il trionfo del marco sono esattamente l'opposto dei progetti precedenti. Sono obiettivi di pace, non di guerra. Ma vengono perseguiti con gli stessi metodi del passato: coesione e disciplina sociale, rispetto delle regole, rigore intellettuale e soprattutto una programmazione accurata, diligente, inflessibile. Niente protegge il popolo tedesco dalle sue ricorrenti angosce romantiche quanto il sentimento di agire per realizzare un progetto minuziosamente concepito e preparato.

Ma anche nel terzo atto, come nei due precedenti, questa virtù nasconde un rischio. Una Germania priva di certezze diventa inquieta e nervosa, se non addirittura nevrotica. Correggere il programma lungo la strada per tenere conto di eventi imprevisti è quindi molto più difficile per i tedeschi di quanto non sia per i loro maggiori partner europei. È accaduto durante le due grandi guerre mondiali e sta accadendo purtroppo anche durante la guerra dell'euro. I predecessori di Gerhard Schröder e Angela Merkel sarebbero forse riusciti a modificare il piano in funzione della realtà. Ma i vecchi cancellieri, da Konrad Adenauer a Helmut Kohl, erano convinti che al loro Paese occorresse, insieme al successo economico, una forte integrazione europea.

Per Merkel, come per Schröder, l'Europa è una eredità a cui non è né intellettualmente né sentimentalmente legata. Questo non significa che non abbia capito la gravità della crisi. Dopo la sua resistenza iniziale, il cancelliere ha cercato di spiegare ai suoi concittadini che il salvataggio dei Paesi a rischio è un obbligo a cui la Germania, nel suo stesso interesse, non può sottrarsi. Ma non ha mai osato mettere in discussione gli assiomi che fanno parte del dogma economico tedesco, dal ruolo della Banca centrale europea agli eurobond. Lo farà, prima o dopo, ma rischia di farlo troppo tardi. Forse Mario Monti può spiegarglielo meglio di quanto non possa e sappia fare Nicolas Sarkozy.

di Sergio Romano, dal corriere

28/11/2011

I rischi per l'Europa sono reali




di KURT VOLKER*dalla stampa

Cosa c’è di sbagliato in questa immagine?

Mentre l’Europa cerca di fronteggiare la crisi più grande «dalla Seconda Guerra mondiale», il premier Mario Monti, la cancelliera Angela Merkel e il presidente Nicolas Sarkozy si sono incontrati il 24 novembre, a Strasburgo, per dibattere su quali azioni intraprendere concretamente per salvare l’Eurozona.

Oggi, il presidente Obama incontrerà il presidente Herman van Rompuy, il presidente José Manuel Barroso e l’alto rappresentante Catherine Ashton a Washington, per discutere della cooperazione tra Stati Uniti e Unione Europea.

La prima riunione potrebbe avere importanti conseguenze per il futuro dell’Europa, ma anche per quello degli Stati Uniti e dell’economia globale. Una nuova recessione in Europa comporterebbe un rallentamento delle esportazioni cinesi verso l’Europa stessa: diminuirebbe così la crescita economica in Cina, il che rischierebbe di causare una doppia recessione negli Stati Uniti. Nella peggiore delle ipotesi, un vero e proprio collasso dell’Eurozona avrebbe ripercussioni ancora più grandi. Gli Stati Uniti hanno un interesse acquisito nel successo di questa prima riunione.

È invece improbabile che la seconda riunione, alla quale gli Stati Uniti veramente partecipano, abbia risultati di grande rilevanza.

La disparità tra queste due riunioni la dice lunga. Non solo l’Unione Europea appare sempre più incapace di affrontare le enormi sfide al suo interno: è per di più priva di quelle strutture adatte a gestire, a livello di leadership, l’economia globale.

Il resto del mondo si è riservato un ruolo da spettatore e guarda l’Europa da lontano. Questa distanza dilania la fiducia degli esterni per quanto riguarda l’investimento in euro-titoli, facendo impennare i tassi d’interesse mentre precipitano i rating, e rendendo la crisi sempre più ardua da risolvere.

È ancora più importante constatare come le strutture disfunzionali dell’Ue, quali la demografia in declino, le economie rigide e le crisi costanti, nascondono i molti punti di forza dell’Europa.

L’Europa rimane uno dei più grandi e ricchi protagonisti della scena economica globale. Con più di mezzo miliardo di abitanti e un Pil tra i più alti del mondo, il suo contributo al mantenimento della pace e allo sviluppo mondiale è indiscutibile. Politicamente, l’Europa è un caposaldo per quanto riguarda l’affermazione dei valori democratici e di un ordinamento economico internazionale di tipo liberista.

Come ha dimostrato il mio collega Dan Hamilton, nel suo rapporto annuale The Transatlantic Economy 2011, quella fra gli Stati Uniti e l’Unione Europea rimane la più grande relazione economica del mondo. Il commercio tra Usa e Ue genera 15 milioni di posti di lavoro tra le due sponde dell’Atlantico. Tra il 2000 e il 2010, gli Stati Uniti hanno investito in Olanda nove volte più di quanto hanno investito in Cina. Gli investimenti statunitensi in India equivalgono, nello stesso periodo, solo al 60% del totale investito in Norvegia.

Gli Stati Uniti collaborano con i Paesi europei, attraverso la Nato e con l’Ue, per affrontare le sfide provenienti dall’Afghanistan, dall’Iran, dalla Libia e dal Kosovo, e i problemi internazionali come la pirateria e il terrorismo. Allo stesso tempo, i rischi che minacciano l’Europa sono reali. Oltre alla crisi economica, l’Unione Europea confina con zone calde del Grande Medio Oriente, con una Russia autoritaria decisa a ripristinare una propria sfera d’influenza, con una dittatura in Bielorussia e con numerosi conflitti etnici congelati, e mai risolti, nei Balcani.

Con un partner di tale importanza, e con interessi così vasti in gioco, si potrebbe benissimo immaginare il presidente Obama pronunciarsi così sulle relazioni tra Stati Uniti ed Europa: «In quanto Presidente, ho preso una decisione deliberata e strategica: gli Stati Uniti giocheranno un ruolo maggiore, e di lungo termine, nel dar forma a questa regione e al suo futuro in stretta collaborazione con i nostri Alleati e amici. Il nostro obiettivo è la sicurezza, che è il fondamento della pace e della prosperità. Noi sosteniamo un ordinamento internazionale in cui siano rispettati i diritti e le responsabilità di tutte le nazioni e di tutti i popoli. In cui sia garantita l’osservanza delle leggi e delle norme internazionali. Dove non siano ostacolati il commercio e la libera navigazione. In cui le potenze emergenti contribuiscano alla sicurezza della regione, e dove le discordie siano risolte in modo pacifico. Ora, pianificando le azioni e le spese future, intendiamo allocare le risorse necessarie al fine di mantenere una forte presenza militare in questa regione. Preserveremo la capacità unica di proiettare la nostra potenza e la nostra forza, per agire come deterrente contro quanti si oppongano alla pace. Manterremo i nostri impegni, continuando a rispettare i trattati che ci legano ai nostri alleati. E rafforzeremo in continuazione le nostre capacità di far fronte ai bisogni del XXI secolo. Nel lungo termine, sono i nostri interessi a chiederci una presenza costante nella regione. Gli Stati Uniti sono qui e rimarranno qui».

Questa strategia e questa visione impressionante, tuttavia, non erano dirette all’Europa, ma all’Asia. Quando tutto ciò che si vede dell’Europa sono le sue debolezze, non sorprende che gli Stati Uniti parlino di una «svolta» verso l’Asia, e di una corrispondente diminuzione della propria presenza in Europa. Sta proprio qui la sfida più grande, sia per gli Stati Uniti sia per l’Europa. L’Asia è giovane e sta crescendo, ma l’Europa è sempre grande, e importante. Invece di «voltarsi», gli Stati Uniti dovrebbero sviluppare una strategia globale che integri un’attenzione tanto per l’Europa, quanto per l’Asia e per altre parti del globo. In Asia, gli Stati Uniti hanno un progetto ambizioso che mira ad aumentare la loro presenza militare, accrescendo l’interoperabilità con Alleati e partner ed evitando la possibilità di aggressioni, ma che intende anche velocizzare la realizzazione di una zona Trans-Pacifica di interscambio commerciale, sostenendo un ordinamento economico internazionale di tipo liberista.

Questo definisce esattamente il tipo di approccio che gli Stati Uniti dovrebbero avere anche nei confronti dell’Europa - una piattaforma di convergenza per lavorare assieme agli Alleati, contrastare le minacce e promuovere processi di pace, alimentando così prosperità e valori condivisi. Dovremmo lavorare intensamente al fine realizzare una zona comune di scambi commerciali tra le due sponde dell’Atlantico. Tuttavia, le disfunzionalità proprie dell’Europa, combinate con il fascino quasi magnetico dei tassi di crescita nei Paesi asiatici, hanno raffreddato entrambe le sponde dell’Atlantico rispetto da una visione simile.

È troppo tardi per affrontare questi problemi a Washington, nel meeting tra il presidente Obama e i rappresentanti europei van Rompuy, Barroso e Ashton. Ma non è troppo tardi perché il Presidente degli Stati Uniti, assieme a leader europei come Merkel, Sarkozy, Cameron, Monti - e con i capi delle istituzioni dell’Ue - possa iniziare a delineare una strategia e una visione ambiziosa per il futuro.

* Kurt Volker è stato ambasciatore degli Stati Uniti alla Nato. È senior fellow e managing director del Centro per le Relazioni Transatlantiche della Sais della Johns Hopkins University. Traduzione di Merope Ippiotis

domenica 27 novembre 2011


IL COMMENTO
Due Mario italiani per salvare l'euro
di EUGENIO SCALFARI, da Repubblica
La crisi dei debiti sovrani dell'Europa - di tutta l'Europa, Germania compresa - ha provocato una reazione in Inghilterra e in Usa: le banche di quei due Paesi hanno dichiarato che si stanno preparando alla scomparsa dell'euro dal sistema monetario mondiale. Non è certo un aiuto a resistere, quella dichiarazione, e non è comunque un utile campanello d'allarme, ma piuttosto una campana a martello, di quelle che si suonavano un tempo quando un intero paese andava a fuoco e la popolazione accorreva con le pompe e i secchi d'acqua per spegnere l'incendio.

Ma qui ed oggi non c'è una popolazione da chiamare a raccolta, né bastano i pompieri nazionali a sostenere la moneta europea anche se il loro contributo è necessario. Qui ed oggi c'è un solo soggetto che può impedire una frana generale ed è la Banca centrale europea guidata da Mario Draghi. Mario Monti è il pompiere nazionale ed il suo contributo è necessario ma insufficiente. Salvare l'Europa spetta a Draghi; che la Germania sia d'accordo oppure no, nessuno può impedirglielo perché la Bce è indipendente dai governi purché resti nei limiti previsti dal suo statuto il quale gli pone il divieto di finanziare i governi ma non di finanziare il sistema bancario europeo a rischio di insolvibilità.

Draghi conosce perfettamente questo suo diritto-dovere d'intervenire per evitare il cosiddetto "credit-crunch", cioè il passaggio dall'illiquidità all'insolvibilità. Probabilmente avrà bisogno d'un paio di settimane per mettere a punto un intervento di così ampie dimensioni; dovrà contattare le principali banche di credito commerciale dei 17 Paesi dell'eurozona e anche quelle inglesi e americane perché ormai tra le grandi banche e i grandi fondi d'investimento del risparmio esiste un intreccio intricatissimo di flussi e di reciproci impieghi. Due settimane, ancorché sotto l'infuriare della tempesta sui mercati, sono sopportabili; andare oltre diventerebbe una scommessa andata male, non una battaglia ma una guerra perduta.

Le dimensioni di un salvataggio del genere ammontano almeno a 1.000 miliardi di euro e forse anche di più, ma sbagliano quanti pensano che basti l'annuncio e la garanzia da parte della Bce per ottenere il risultato senza bisogno di scomodare la cassa. Non è così. Il sistema bancario europeo è già in condizioni di scarsa liquidità e un semplice annuncio non basterebbe. La cassa è indispensabile, la Bce dovrà stampare moneta e iniettarla nel sistema bancario perché è questa la preziosa acqua necessaria per estinguere l'incendio. Non la darà ai governi ma alle banche e non già per una settimana ma per due o tre anni, con un duplice obiettivo: assicurarne la solvibilità e rendere possibile il finanziamento delle imprese affinché contrastino la recessione incombente. E qui entrano in scena i pompieri nazionali, cioè i governi, ciascuno responsabile del proprio debito sovrano e della crescita del proprio prodotto interno.
* * *
Il governo italiano è in primissima linea perché, come hanno detto la Merkel e Sarkozy dopo l'incontro di Strasburgo con Mario Monti, gli interventi che il nostro neo-premier ha in programma sembrano a loro perfettamente in linea con le necessità e perché - come hanno aggiunto - se dovesse diventare insolvibile il debito italiano salterebbe l'euro e con esso l'intera costruzione europea.

Monti deve realizzare due obiettivi: il rigore e la crescita e semmai ci fosse da stabilire un prima e un dopo, la crescita verrebbe prima e non dopo. C'è un terzo obiettivo che Monti si propone ed è l'equità che in realtà rappresenta il giusto equilibrio tra crescita e rigore. L'equità si realizza infatti attraverso l'equilibrio tra quei due termini, attraverso la coesione sociale e attraverso lo sforzo di evitare la recessione e la deflazione. Questi sono i compiti di Monti e del suo governo. Il loro fucile ha due soli colpi in canna: crescita e rigore. La prima si ottiene sostenendo il potere d'acquisto delle fasce sociali medio-basse e diminuendo il carico fiscale delle imprese. Il secondo tagliando la spesa improduttiva, i privilegi e le disuguaglianze. In concreto: riformando le pensioni, equiparando le condizioni di lavoro tra precari e lavoratori a tempo indeterminato, destinando i risparmi così realizzati alla fondazione del nuovo "welfare" destinato a tutelare i giovani e a instaurare un patto generazionale a loro favore.

Il governo ha ormai in avanzata preparazione la riforma pensionistica e quella del lavoro, attingerà risorse immediate dall'Iva e dall'Ici (che è di per sé un'imposta patrimoniale) nonché dalla vendita dei beni pubblici. Rilancerà i lavori pubblici con un pacchetto che vede insieme il ministero di Passera e quello di Barca (Infrastrutture e Coesione territoriale). Due colpi in canna. Ha preso tempo fino al 5 dicembre, una dilazione che coincide con quella di cui ha bisogno Draghi. Neanche a Monti bastano gli annunci, anche lui deve muovere la cassa e non può sbagliare. Dieci giorni sono sopportabili, il di più sarebbe del Maligno e quindi va escluso.
Intanto siano nominati domani i vice-ministri e i sottosegretari affinché il Parlamento possa lavorare. Qui la dilazione non è permessa.
* * *

I debiti sovrani hanno un calendario di aste da tempo stabilito. Quello italiano prevede nel 2012 emissione di titoli in gran parte pluriennali per 270 miliardi. Quello degli altri Stati dell'eurozona ne prevede altri 800, metà dei quali emessi dalla Germania. Nel complesso sarà un anno terribile che si inaugura con un'asta italiana di 40 miliardi nella prima decade di febbraio. Draghi, quand'era ancora in via Nazionale, aveva consigliato Tremonti nel 2010 di anticipare le aste ma il consiglio non fu seguito, erano ancora i tempi nei quali il governo di allora negava la crisi o sosteneva che comunque ne saremmo usciti prima e meglio degli altri. Adesso Cicchitto e La Russa si sbracciano a dimostrare che il loro governo non ha nulla a che fare con quella che Giuliano Ferrara chiama Lady Spread. Ma Lady Spread è stata svegliata proprio da quel governo e dalla sua micidiale immobilità. Tre anni d'immobilità, di cui paghiamo adesso il durissimo scotto.
Se Draghi e Monti faranno quel che debbono entro la coincidente scadenza, anche l'anno terribile potrà essere padroneggiato. Ma per quanto riguarda l'Italia, noi abbiamo una scadenza tra pochi giorni, modesta per tempi normali ma assai scabrosa per l'oggi: un'asta di 5 miliardi di titoli pluriennali.

Si potrebbe cancellarla e rinviarla perché il Tesoro può farne a meno, ma sarebbe un pessimo segnale per i mercati. Il rimedio, se si vuole, c'è: la Banca d'Italia, imitando la Bundesbank, potrebbe prendere in parcheggio i titoli in scadenza e collocarli gradualmente sul mercato secondario. Le banche, una volta che la Bce avesse varato il suo programma di prestiti, sottoscriverebbero senza problemi quel ricollocamento come dovranno fare per una buon parte delle aste successive. Questo è il solo modo per trasmettere gli effetti della politica monetaria a sostegno dei debiti sovrani, in attesa che i Trattati siano riveduti, il fisco diventi appannaggio dell'Europa e gli Eurobond siano accettati anche dalla Merkel. Allora intoneremo il "Magnificat" e ne saranno contenti anche i cattolici di Todi e del governo dei tecnici.
* * *
 Questa storia del governo dei tecnici continua ad esser vissuta malamente da una parte notevole dell'opinione pubblica, anche da quella vastissima (75 per cento) che appoggia Monti riconoscendo l'esistenza di ragioni di urgenza e di emergenza. Nel mio articolo di domenica scorsa avevo ricordato tre illustri precedenti per collocare l'attuale governo in un contesto storico: i 15 anni di governo della Destra storica (1861-1876), i due anni del governo Fanfani delle "convergenze parallele" (1960-62), la proposta di Bruno Visentini d'un governo istituzionale come soluzione permanente prevista dalla Costituzione (1980).

Dedico la conclusione di quest'articolo al tema sollevato da Visentini, per renderne più chiari i lineamenti e la sua attualità.
1. I governi sono tutti politici se avvengono nel quadro della democrazia parlamentare poiché la loro esistenza e la loro permanenza dipendono dalla fiducia che il Parlamento gli accorda o gli ritira.
2. Il governo istituzionale cui pensava Visentini prevedeva che i partiti non fossero agenzie di collocamento dei loro dirigenti e clienti, ma organi di generale indirizzo politico e di raccolta del consenso popolare sulla base d'una loro visione del bene comune.
3. La legge elettorale doveva (dovrebbe) offrire lo "spazio pubblico elettorale" ai candidati dei partiti o di qualsivoglia associazione o individuo che volesse cimentarsi. Il Parlamento uscito dalle elezioni esprime una sua maggioranza che risponde agli elettori così come ne risponde la minoranza di opposizione.
4. La formazione del governo spetta al presidente della Repubblica il quale, a termini della Costituzione, "nomina il presidente del Consiglio e, su sua proposta, i ministri". Il governo così nominato deve ottenere entro pochi giorni la fiducia del Parlamento.
Il risultato di questo "combinato disposto" consiste nel fatto che nella formazione del governo il capo dello Stato tiene necessariamente conto della maggioranza parlamentare dalla quale l'esistenza del governo dipende, ma lo nomina senza trattarne la composizione con le segreterie e i gruppi parlamentari dei partiti.

Questo è lo schema del governo istituzionale e costituzionale. Chi non capisce che esso non confisca affatto la democrazia e non umilia affatto il Parlamento, al quale anzi affida piena centralità svincolandolo anche dalla sudditanza ai voleri del "premier" (com'è accaduto nell'appena trascorso decennio berlusconiano) e potenziando il suo diritto-dovere di controllare il governo e la pubblica amministrazione; chi non capisce queste lapalissiane verità è in palese malafede oppure mi permetto di dire che è un perfetto imbecille.

(27 novembre 2011)

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LE DIFFICOLTÀ DEL NUOVO ESECUTIVO
L'immagine che non c'è

I governi tecnici non esistono. E dunque anche il governo Monti è, come tutti i governi, un governo politico. Ma a giudicare da questi primi giorni sembra che il primo a doversene convincere sia, paradossalmente, il governo stesso. Il quale, se crede nel senso della propria esistenza, deve al più presto, invece, porsi un obiettivo: acquisire - visto che un'identità politica di partenza gli manca - un'immagine politica. Per due ragioni importanti. Innanzi tutto perché solo così esso cesserà di apparire una diretta emanazione della volontà del presidente della Repubblica, si emanciperà dalla sua tutela. E poi perché solo acquisendo una propria immagine politica esso può sperare di resistere al più che probabile assedio dei partiti. I quali per il momento lo appoggiano, è vero, ma intenzionati presumibilmente a consentirgli di sparare al massimo un colpo o due, per poi disfarsene o comunque neutralizzarlo. Ciò che però non sarebbe certo un vantaggio per il Paese. È vero infatti che in una democrazia parlamentare un governo nato al di fuori del circuito politico-partitico costituisce un'evidente anomalia. Ma visto che ormai c'è, conviene lasciargli il tempo e la possibilità di fare ciò che esso è chiamato, e riesce, a fare.

Per il governo Monti acquisire un'immagine politica significa riuscire innanzi tutto a stabilire una comunicazione efficace con gli italiani. Al consenso in certo modo solo formale strappato ai partiti esso deve aggiungere un consenso d'opinione: che allo stato potenziale esiste di certo in notevole misura, ma che ha bisogno di essere motivato e strutturato adeguatamente. La crisi economica è stata decisiva per accreditare la necessità di un cambio alla guida del Paese. Ma ora che questo è avvenuto, il governo deve mostrarsi capace di parlare all'opinione pubblica, di convincerla della necessità dei sacrifici che l'aspettano. E deve farlo nel modo in cui la politica richiede che tali cose vadano fatte. Cioè in modo non notarile, in modo non «tecnico». Sia pure alla loro maniera, con il loro stile, il governo, il presidente del Consiglio, i ministri devono incominciare a parlare al Paese la lingua, tutta politica, dei sacrifici, sì, ma anche degli alti propositi, della speranza, delle emozioni: a un Paese che oggi sembra più che disposto a prestare ascolto a un discorso pubblico fondato sui valori della coesione e dell'equità sociali, della sobrietà dei comportamenti, della buona amministrazione, cioè sui contenuti che Monti si è proposto di dare alla sua azione di governo.

C'è poi un ambito specifico che sembra fatto apposta per la costruzione di un'immagine politica del governo. È quello della politica europea. L'Ue quale l'abbiamo conosciuta negli ultimi quindici anni è ormai virtualmente morta. L'unica cosa rimasta sulle sue rovine è il tentativo di direttorio franco-tedesco. Ciò che però non solo è del tutto contrario al nostro interesse nazionale, ma è quasi certamente destinato a suscitare l'opposizione anche di un certo numero di altri Paesi. Ebbene, perché l'Italia non potrebbe cercare di essere un punto di coagulo di tale opposizione, facendosi iniziatrice di una revisione profonda della costruzione europea? Perché non potrebbe assumersi il compito di avanzare una serie di proposte volte a sostituire ai mandarini di Bruxelles e alla Duma di Strasburgo un'Europa finalmente politica, dotata di effettivi poteri, sanzionati democraticamente dai popoli del continente?
Oggi più che mai, insomma, l'Italia e con lei l'Occidente hanno bisogno di idee, di valori, di progetti: hanno bisogno di politica.

Ernesto Galli della Loggia, dal corriere