mercoledì 27 aprile 2011

Il paradosso libico: sia la maggioranza che l'opposizione sono divise.

di Stefano Folli, dal sole 24 ore

La decisione italiana di partecipare alle azioni belliche anti-Gheddafi sollecita quattro riflessioni sul governo, la Lega, il Quirinale e l'opposizione. Sul primo punto, non c'è dubbio che il governo ha oscillato a lungo prima di abbracciare fino in fondo la linea dell'alleanza. All'inizio si è creduto di tutelare i nostri complessi interessi in Libia con una posizione defilata, addirittura ammiccante a Gheddafi.
Era il tempo in cui Berlusconi non voleva «disturbare» il colonnello. In seguito l'Italia si è sforzata con successo di sottrarre alla Francia la guida di fatto delle operazioni, riportandola sotto l'ombrello Nato. Più tardi ancora si è appreso che i nostri aerei non avrebbero preso parte ai bombardamenti, limitandosi a inibire con i sorvoli i radar avversari.
L'ambiguità era evidente. Si voleva credere a una mediazione che ci avrebbe visto protagonisti in caso di stallo. A tal fine era indispensabile tenere aperto un canale con i «gheddafiani», senza però indispettire la Nato e, anzi, consolidando i rapporti con gli insorti. Un equilibrismo degno di Houdini, corroborato da recenti affermazioni di Berlusconi: «Noi non bombarderemo la Libia perché siamo l'ex potenza coloniale. Non possiamo farlo». Argomento discutibile, ma serio e in un certo senso definitivo. Tanta determinazione è durata poco. Come era prevedibile, ha prevalso il realismo: la convinzione che i nostri interessi nella Libia del futuro si tutelano essendo ben integrati nella Nato. E dunque accettando le richieste di maggiore impegno che sono giunte pressanti dall'Alleanza, in particolare da Obama.
Secondo punto, la Lega. Bossi è sempre stato con coerenza ostile alla guerra. La sua posizione è ricalcata su quella di Berlino (neutralità assoluta). Con la differenza che la Lega è parte di un governo interventista. Il Carroccio non aprirà adesso la crisi di governo su Tripoli, ma è in grado di raccogliere il malcontento di una discreta fetta di elettorato, anche del Pdl. I bombardamenti sono impopolari e i leghisti ne faranno ricadere la responsabilità sul solo Berlusconi. C'è una frase di Bossi che non lascia dubbi: «È colpa sua se arriveranno i clandestini».
Veniamo al Quirinale. Napolitano è stato lineare. Fin dal primo minuto ha detto che l'Italia non poteva restare indifferente alle sofferenze delle popolazioni, quindi l'insurrezione andava aiutata. Ha sempre chiesto che l'Italia si muovesse nel solco della mozione Onu e d'intesa con gli alleati. Oggi il capo dello Stato appare come il vincitore della partita: ha definito una linea di politica estera e ha incoraggiato il governo a riconoscersi in essa. Non solo. Napolitano ha parlato ieri di «naturale sviluppo della scelta compiuta dal'Italia a metà marzo» e sulla quale si era registrato «un largo consenso in Parlamento». In termini politici significa che esiste una continuità nella posizione ufficiale e quindi non c'è bisogno di un altro voto delle Camere.
Quarto punto, l'opposizione. Il Pd critica il governo per i distinguo leghisti, ma non ha molta voglia di tornare in Parlamento. Se così fosse, la maggioranza avrebbe i suoi problemi, ma l'opposizione non sarebbe da meno: ieri Di Pietro ha attaccato Napolitano e la sinistra vendoliana è di sicuro contro i bombardamenti. Il Pd invece è tenuto a «coprire» il capo dello Stato. Sulla carta si arriverebbe al paradosso di una maggioranza in politica estera Pdl-Pd, con i due poli equamente spaccati. Anche per questo non dovrebbe esserci alcun voto. Ma sulla Libia l'opposizione resta divisa e impacciata.

Semplificare ma sul serio.

di Gianpaolo Galli, dal "sole 24 ore"

Il governo ha annunciato che proporrà misure concrete per il rilancio dell'economia. La notizia è che sembra che questa volta ci sia il consenso di tutti i protagonisti della politica economica. Il ministro Calderoli, in un'intervista alla Padania, ha detto che si tratterà di un «poderoso» piano di semplificazione, volto a dare «un altro duro colpo al centralismo della burocrazia, all'inerzia di regole fatte per bloccare e non lasciar vivere chi fa impresa e le famiglie» e ha sottolineato che riforme saranno «strutturali, perché durino e inneschino la ripresa».
Pochi giorni prima il ministro Giulio Tremonti aveva parlato di imprese soffocate dai troppi controlli e «di oppressione fiscale che bisogna interrompere». Il fuoco era stato aperto dal Presidente del Consiglio che, nel discorso di apertura della campagna elettorale a Milano, aveva usato parole veementi contro le vessazioni fiscali cui sono sottoposte le imprese.
I toni riecheggiano quelli della campagna di Silvio Berlusconi contro l'oppressione burocratica e fiscale. La natura e l'intensità del problema sono ben chiari al ministro dell'Economia, autore di un libro dal titolo significativo, «Lo Stato Criminogeno» del 1997.
Come si legge sul sito www.giuliotremonti.it, in quel libro, Tremonti si domanda: perché in Italia è diffusa la corruzione? Perché l'evasione fiscale è così alta? Da dove nasce, in una parola, la criminalità diffusa, il disprezzo della legge praticato come sport di massa?
La risposta è che se nessuno rispetta la legge è colpa della legge stessa. Se manca il senso dello Stato, la responsabilità deve ricadere sullo Stato. Tremonti descrive in questo modo il meccanismo infernale che regola la vita dello "Stato criminogeno", lo Stato che produce i crimini: «L'estensione dello Stato causa la proliferazione delle leggi; la proliferazione delle leggi causa la moltiplicazione degli illeciti, reali o potenziali; la moltiplicazione degli illeciti causa, infine, prima la diffusione e poi la banalizzazione dei crimini».
Molti sforzi sono stati fatti da questo Governo, su proposte dei Ministri Calderoli e Brunetta, nonché dai precedenti Governi per semplificare le leggi e migliorare la burocrazia e qualche risultato è stato ottenuto. Ma nel complesso è improbabile che la situazione sia migliore oggi che quindici o venti anni fa; certamente non lo è nelle classifiche internazionali stilate dalla Banca Mondiale e dall'Ocse.
In Italia le regole rimangono mal fatte, spesso contraddittorie, non conoscibili, mutevoli. Non si sa quando e a chi si applichino. Le direttive europee, ormai la principale fonte di regolazione economica, vengono attuate con un sovrappiù di complicazione rispetto agli altri Paesi. L'amministrazione non aiuta a risolvere i problemi e a districarsi fra le norme; anzi è essa stessa fonte di problemi, lungaggini, incertezza. In caso di contenzioso, ben pochi ormai ritengono utile fare affidamento su una giustizia troppo lenta. Questo stato di cose distorce il mercato e la concorrenza, scoraggia l'innovazione e la voglia di fare investimenti. È fra le principali cause di quella bassa crescita dell'economia italiana che tutti lamentiamo.
Prendiamo, fra le tante, la questione della ridotta dimensione delle imprese italiane. Una letteratura ormai assai ampia, promossa dalla Banca d'Italia, mostra che le imprese italiane sono piccole, non solo rispetto a quelle tedesche e francesi, ma anche rispetto, ad esempio, a quelle spagnole. E mette in relazione questa caratteristica con variabili cruciali per la crescita economica come la propensione all'internazionalizzazione o l'intensità dell'attività innovativa.
Ma perché le imprese italiane sono piccole? Un pezzo della risposta sta certamente in un'infrastruttura giuridica che scoraggia la crescita delle imprese. La ragione fondamentale è che tipicamente una piccola impresa ha un ridotto numero rapporti, contrattuali ed extracontrattuali, con soggetti che conosce e con cui instaura un rapporto di fiducia: fornitori, clienti, soci, lavoratori. Per molti versi, nella piccola impresa la fiducia sostituisce le regole. Un'impresa grande ha invece una miriade di rapporti impersonali e deve affidarsi ad un sistema di regole ben funzionante. Le regole e la qualità del loro enforcement sono dunque cruciali per la crescita delle imprese. Come lo sono per l'attrazione di investimenti diretti dall'estero, su cui l'Italia continua ad essere in fondo alle classifiche internazionali.
Si aggiunga un fatto non secondario: al crescere della dimensione e della visibilità dell'impresa cresce l'intensità e la frequenza dei controlli da parte delle più diverse autorità. Le imprese piccole sono oberate dal costo degli adempimenti burocratici, le grandi sono oberate dall'eccesso di controlli. Fare le regole e per farle rispettare in maniera equa sono funzioni essenziali di qualunque Stato. Ben venga dunque un decreto di semplificazione, ma ad esso deve seguire un'azione di governo pervicace, coerente, di lunga lena.

Ma l'emergenza rifiuti a Napoli, non era finita ?

traffico in tilt

Rifiuti, la rivolta delle signore «bene»:
rovesciano cassonetti e bloccano il Corso

Le donne di un quartiere borghese, esasperate, spargono
spazzatura tra viale del Pino e piazza Mazzini


NAPOLI - L'esasperazione dei cittadini si riversa in strada. Scoppia la protesta rifiuti al Corso Vittorio Emanuele di Napoli, una delle strade principali della metropoli, certamente tra le più estese. Un gruppo di donne, una decina, signore della Napoli bene, ha disseminato i rifiuti non raccolti negli ultimi giorni lungo la strada all’altezza del viale del Pino, a circa duecento metri da piazza Mazzini. Si tratta di madri di famiglia che la mattina accompagnano i figli a scuola facendo lo slalom tra le montagne di sacchetti. Questa forma di protesta si era verificata spesso nei quartieri meno centrali della città, ma quest'azione a Corso Vittorio Emanuele crea un'ulteriore frattura tra i cittadini e le istituzioni. Intanto i politici sono tutti impegnati nella campagna elettorale.
PROTESTA IN TUTTA LA CITTA' - La conseguenza è che il traffico è stato bloccato in quell'arteria centrale. Nei giorni scorsi iniziative analoghe si sono verificate in altre zone con l’effetto che poi sono state ripulite. Forse si tratta di un comportamento emulativo, vista la diffusione nei vari quartieri di Napoli. Forse si tratta dell'unico modo, disperato, per attirare l'attenzione di chi dovrebbe raccogliere.
Redazione online
26 aprile 2011

Tai chi per migliorare la qualità della vita in chi è malato di cuore.

La pratica dell’antica tecnica orientale per rendere migliore la vita dei pazienti affetti da insufficienza cardiaca

Movimenti lenti, ritmici, armoniosi… queste sono alcune delle caratteristiche che saltano immediatamente all’occhio di chi osserva una persona intenta a praticare il Tai Chi, l’antica arte orientale. Questa tecnica, già oggetto di numerosi studi, è stata considerata valida per migliorare il tono fisico e psichico, al pari di un’attività fisica combinata con quella meditativa.

Oggi, un nuovo studio pubblicato sull’Archives of Internal Medicine suggerisce che le persone che soffrono di insufficienza cardiaca cronica possono migliorare la qualità della loro vita proprio grazie alla pratica del Tai Chi.

I ricercatori statunitensi della Harvard Medical School hanno voluto studiare gli effetti del Tai Chi su 100 pazienti ospedalizzati e affetti da insufficienza cardiaca sistolica. I pazienti sono poi stati suddivisi a caso in due gruppi. Metà di questi hanno praticato con regolarità, e per dodici settimane, il Tai Chi. L’altra metà ha fatto parte di un gruppo che ha seguito solo una formazione teorica.

Al termine del periodo di studio, gli scienziati hanno potuto appurare come nel gruppo che ha praticato il Tai Chi, fosse migliorata la qualità della vita in generale. Allo stesso tempo, i partecipanti mostravano una maggiore confidenza e predisposizione nel praticare attività correlate agli esercizi proposti.

«In conclusione, gli esercizi di Tai Chi, un training che possiede una modalità multi-componente formativa mente-corpo che è sicura e ha buoni tassi di adesione, può fornire un valore aggiunto nel migliorare l'esercizio quotidiano, la qualità della vita, auto-efficacia e l'umore nei fragili,  debilitati pazienti con insufficienza cardiaca sistolica», concludono i ricercatori.
Fonte "la stampa "del 27Aprile 2011
L'ANALISI

Sull'imbroglio decida la consulta

di STEFANO RODOTÀ
Sia lode al presidente del Consiglio. Con la disinvoltura istituzionale che lo contraddistingue ha svelato le vere carte del governo sul nucleare, carte peraltro niente affatto coperte. La frode legislativa, già evidente, diviene ora conclamata. Berlusconi è stato chiaro. Un tema tanto importante come il nucleare non può essere affidato a cittadini "spaventati" da quanto è avvenuto in Giappone, che debbono "tranquillizzarsi". Meglio, dunque, non far votare un popolo emotivo, disinformato. Gli abbiamo scippato con uno stratagemma un referendum che avrebbe reso impossibile per anni il nucleare, e ora abbiamo le mani libere per tornare in pista già tra dodici mesi. Gabbati i cittadini, ma rassicurati gli imprenditori, poiché il presidente del Consiglio si è premurato di dire che i rapporti tra Enel e Electricité de France andranno comunque avanti.

Un governo e una maggioranza senza dignità accantonano uno dopo l'altro gli strumenti della democrazia, non hanno neppure il pudore della reticenza, teorizzano il silenzio dei cittadini. Ma si può davvero restare passivi davanti a questo gioco delle tre carte istituzionali? Il famigerato emendamento approvato dal Senato diceva chiaramente quale fosse l'obiettivo che si voleva perseguire. Le parole di Berlusconi confermano l'interpretazione dei tanti che avevano sottolineato come la formale abrogazione delle norme sulle centrali nucleari fosse un espediente, anzi un imbroglio, per far sì che la politica nuclearista potesse continuare
e per impedire che la partecipazione al voto di cittadini emotivi facesse raggiungere il quorum, consentendo così anche il successo del temutissimo referendum sul legittimo impedimento.

È bene ricordare i fatti. Quell'emendamento si presenta formalmente come una abrogazione delle norme oggetto del quesito referendario. Ma il primo e l'ultimo comma dicono il contrario. Si comincia con lo stabilire che il governo si riserva di tornare sulla questione, una volta acquisite "nuove evidenze scientifiche mediante il supporto dell'Agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza, tenendo conto dello sviluppo tecnologico e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione europea". E alla fine si dice che lo farà entro dodici mesi adottando una "Strategia energetica nazionale", per la quale furbescamente non si nomina, ma neppure si esclude, il ricorso al nucleare, di cui peraltro si parla esplicitamente all'inizio dell'emendamento. Il Parlamento ha trangugiato senza batter ciglio questa brodaglia, ennesimo esempio dell'incultura politica e istituzionale che ci circonda.
Una volta che il decreto nel quale è stato infilato l'emendamento sarà stato convertito in legge, la parola passerà all'Ufficio per il referendum della Corte di Cassazione, che ha il compito di accertare se la nuova legge va nella direzione voluta dai promotori. Se la sua valutazione è positiva, il referendum non si tiene. Nel caso contrario, il referendum è "trasferito" sulle nuove norme e si va al voto. Dopo la clamorosa confessione pubblica del presidente del Consiglio, è dichiarato l'obiettivo di impedire il rispetto della volontà dei promotori.

A questo punto, però, le cose si complicano assai. Che cosa accadrebbe, infatti, se la Cassazione, prendendo atto della frode ai danni dei cittadini, decidesse di far tenere il referendum facendo votare pro o contro l'abrogazione dell'emendamento-imbroglio? Se gli elettori votassero sì all'abrogazione, cancellerebbero certamente le norme con le quali il governo ha voluto riservarsi di riprendere la politica nucleare a proprio piacimento. Ma cancellerebbero pure la parte dell'emendamento che abroga le attuali norme sul nucleare. Queste tornerebbero in vigore, ridando al governo, da subito, il potere di procedere sulla strada della costruzione delle centrali nucleari.

Come uscire da questo pasticcio? Facciamo un passo indietro. Nel 1978 la Corte costituzionale dovette affrontare appunto il problema di norme che, abrogando le disposizioni alle quali si riferiva il referendum, non rispettavano la volontà dei promotori. La soluzione fu trovata dichiarando l'incostituzionalità della norma della legge sul referendum che non prevedeva questa eventualità, e prevedendo il trasferimento del referendum sulle nuove norme. Ma, di fronte all'imbroglio attuale, questa strada non è praticabile, poiché produrrebbe l'esito paradossale di un voto referendario che si ritorce ancora di più contro l'intenzione dei proponenti. La Cassazione, allora, potrebbe sollevare la nuova questione, investendone la Corte costituzionale che, come nel 1978, dovrebbe cercar di porre riparo all'ennesima torsione alla quale il governo attuale sottopone le istituzioni.

Una parola sul modo in cui Berlusconi considera i cittadini, ai quali sarebbe precluso il diritto di votare in situazioni di emotività, di sostanziale incompetenza. Già in occasione del referendum sulla legge sulla procreazione assistita, nel 2005, uno degli argomenti adoperati per indurre all'astensione fu quello che sottolineava la complessità tecnica di taluni quesiti, che avrebbe impedito ai cittadini di esprimere una valutazione adeguata. Tutti questi sono argomenti pericolosissimi dal punto di vista democratico, perché subordinano la possibilità di votare al giudizio che qualcuno esprime sulla competenza di ciascuno di noi e mettono così "sotto tutela" la stessa sovranità popolare. In questi casi la via non è quella del silenzio forzato, ma dell'informazione adeguata, quella che produce lo "scientific citizen", il "cittadino biologico", cioè persone dotate dei dati che le mettono in condizione di formarsi una opinione critica. È un caso che la Commissione di vigilanza della Rai non abbia ancora approvato il regolamento sulle trasmissioni per i referendum, precludendo ai cittadini proprio quell'accesso all'informazione che li riscatterebbe dall'emotività? 
Da Repubblica del 27 Aprile 2011

martedì 26 aprile 2011

In Russia si paga l'80 % , in Libia l'85%, in Italia solo il 4% .Queste sono le royalty per le estrazioni del petrolio.

IL CASO

Davanti alle coste siciliane
arrivano le trivelle dei petrolieri 

La Transunion comincerà a sondare i fondali tra qualche giorno. In estate potrebbero iniziare le trivellazioni a 13 miglia da Pantelleria. L'Italia chiede il 4 per cento di royalty contro l'85 per cento della Libia e l'80 della Russia 

di DARIO PRESTIGIACOMO e LORENZO TONDO 
La Transunion ha già annunciato ai comuni iblei che a fine aprile inizierà a sondare il fondale dello specchio d'acqua davanti a Pozzallo, a 27 chilometri dalla costa. L'Audax, invece, di sonde non ha più bisogno: in estate, si legge sul suo sito web, potrebbe cominciare a trivellare a 13 miglia da Pantelleria. Non molto lontano, nei dintorni delle Isole Egadi, anche la Northern Petroleum riscalda i motori delle sue piattaforme.

Sotto l'ombra dell'inferno libico e quella di un possibile blackout energetico, la primavera delle trivelle sul mar Mediterraneo - esorcizzata dal ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo che prometteva di difendere a spada tratta il Canale di Sicilia, costi quel che costi - è oramai alle porte.

Secondo i dati delle associazioni ambientaliste, sarebbero più di cento i permessi di ricerca di idrocarburi richiesti o vigenti nel Mediterraneo. Alcuni concessi a un tiro di schioppo da sabbie dorate e banchi corallini. Le piattaforme, che - secondo quanto riportato dai bollettini pubblicati sui siti delle compagnie petrolifere - potrebbero già entrare in azione tra poche settimane, confermano i timori manifestati negli ultimi mesi dagli ambientalisti: il decreto anti-trivella, firmato e fortemente voluto dal ministro Prestigiacomo, emanato lo scorso 26 agosto, non servirà a proteggere le acque del Mediterraneo.

La Northern Petroleum lo sa e lo scrive: "La legislazione italiana che vieta le trivellazioni off-shore entro le 12 miglia dalla costa - si legge nel comunicato - avrà un effetto irrilevante sugli assetti della compagnia". Così, in barba al no della Regione e a quello dei sindaci, la Northern fa sapere di poter estrarre dai suoi giacimenti ben 4 miliardi di barili che tradotti in quattrini significano 400 miliardi di euro nelle tasche dei petrolieri. Briciole o nulla per lo Stato italiano dove le royalty che le compagnie minerarie lasciano al territorio dove estraggono senza imporre franchigie arrivano a malapena al 4 per cento contro l'85 di Libia e Indonesia, l'80 di Russia e Norvegia, il 60 in Alaska, e il 50 per cento in Canada.

"Al di là dell'aspetto ecologico, per l'Italia le trivelle sono anche antieconomiche" spiega Mario Di Giovanna, portavoce di "Stoppa la Piattaforma". "Se ci adeguassimo agli standard delle royalty degli altri paesi, facendo i conti della serva, potremmo estinguere, solo con una minima parte del canale di Sicilia, il 25 per cento del debito pubblico italiano".

In Italia, la franchigia per le piattaforme off-shore è di circa 50.000 tonnellate di greggio l'anno, equivalenti a 300 mila barili di petrolio. Sotto questo tetto di estrazione, le società non sono tenute a pagare nemmeno l'esiguo 4 per cento di royalty. La piattaforma Gela 1, a 2 km dalle coste siciliane, dal 2002 al 2008 ha prodotto petrolio e gas sempre sotto la soglia di franchigia. La Prezioso e la Vega producono invece il doppio oltre il limite (circa 100/120 mila tonnellate), pagando la franchigia solo per la metà della loro produzione. Forti delle agevolazioni fiscali italiane, le società le decantano ai loro investitori. A pagina 7 del rapporto annuale della Cygam (società petrolifera con interessi nell'Adriatico) si parla del nostro paese come il "migliore per l'estrazione di petrolio off-shore", sottolineando la totale "assenza di restrizioni e limiti al rimpatrio dei profitti".

Intanto Atwood Eagle, la contestatissima trivella dell'Audax che dall'11 luglio scorso galleggiava a 13 miglia dalle coste di Pantelleria, dopo un temporaneo abbandono dell'area, tra qualche mese potrebbe riprendere i sondaggi, mentre Shell ha già detto di aspettarsi dal Canale di Sicilia 150mila barili al giorno. Qualche settimana fa la Transunion Petroleum Italia ha inviato ad alcuni comuni della zona iblea, tra cui Pozzallo, Modica e Ragusa, un'istanza di avvio della procedura di valutazione d'impatto ambientale relativa ad un'area con un'estensione di 697,4 km quadrati, situata nel Canale di Malta. Le autorità locali hanno tempo fino al 27 aprile per le dovute osservazioni.

Il decreto anti-petrolio potrebbe non salvare nemmeno il mare agrigentino, dove la Hunt Oil Company ha avanzato una richiesta di permesso a poche miglia dall'Isola Ferdinandea, una delle tante bocche vulcaniche di un massiccio complesso sottomarino: il regno di Empedocle, l'Etna marino, il gigante sommerso che fa ancora tremare i fondali.
Da Repubblica

Gli intellettuali e la Rete secondo Jürgen Habermas

di Benedetto Vecchi, da il manifesto, 7 aprile 2011

«La politica si sta liquefacendo nella comunicazione», afferma Jürgen Habermas in "Il ruolo dell'intellettuale e la causa dell'Europa" (Laterza), raccolta di saggi che ha come filo di Arianna il ruolo dell'intellettuale nelle società, mentre il suo cuore è nell'analisi della formazione dell'opinione pubblica e il rapporto di questa con la sfera politica. In sordina rimane invece l'Europa, progetto politico che ha subito talmente smacchi da rendere scettico il filosofo tedesco sulla possibilità di un suo rilancio in tempi brevi. Eppure sull'Europa Habermas è stato uno degli intellettuali che ha preso ripetutamente, e con passione, parola affinché il vecchio continente si dotasse di una costituzione dopo averla sottoposta a referendum per garantire una sua legittimità «popolare», diversamente da quanto era accaduto al trattato di Maastricht, sottoscritto dai governi e mai discusso dai governati.

La necessità di un soggetto politico chiamato Europa è infatti illustrata in due brevi saggi sull'assenza di una politica estera europea sulla guerra dell'Iraq e la crisi economica del 2007. La mancanza di una posizione comune su questi due argomenti ha reso l'Europa subalterna all'unilateralismo di George W. Bush. Ma, aspetto ben più importante, è che questo «vuoto politico» ha condotto il vecchio continente all'afasia, anche se non entusiasma la proposta di costituire un esercito europeo come esempio di protagonismo politico. Per quanto riguarda la crisi economica, la mancata costituzione europea ha alimentato quell'«egoismo nazionale» che Habermas vede complementare all'affermarsi di politiche economiche a favore del libero mercato che stanno facendo carta straccia dei diritti sociali di cittadinanza.

Il filosofo tedesco usa però un tono piano, dialogico. Nessuna invettiva, ma l'andamento di chi pensa che il dialogo tra persone informate apra le porte a un punto di vista condiviso e di chi punta a costruire un ordine del discorso basato attraverso l'individuazione delle compatibilità da rispettare affinché l'ordine politico e sociali non possa essere sovvertito. In fondo è questo il nucleo fondante della sua proposta di «politica deliberativa», forma di costruzione del consenso sui valori espressi dalla «carta» - la Costituzione, per essere chiari - che definisce il perimetro dell'azione statale, dei partiti e dei movimenti sociali, realtà potenzialmente antagoniste tra di loro e che hanno come «interfaccia» la sfera pubblica all'interno della quale tutti possono mettere a confronto le proprie posizioni.

Una rappresentazione dell'agire politico che deve necessariamente fare i conti con la pervasività dei media, tanto di quelli «tradizionali» (televisione, radio, carta stampata) che di quelli nuovi (Internet). Ed è su questo ospite inatteso che emerge la figura dell'intellettuale in quanto guardiano dell'ordine costituzionale. La sua presa di parola è legittimata ovviamente dalle sue conoscenze specialistiche, ma tuttavia si concentra anche su terreni estranei al suo «lavoro». In altri termini, pone con forza temi che sono già presenti nella discussione pubblica, ma mai assunti nella loro giusta rilevanza.

Siamo dunque lontani sia dalla figura platonica del filosofo che illumina la caverna dove sono condannati a vivere gli altri uomini e donne. Ma siamo altrettanto lontani dal maître à penser novecentesco o dal gramsciano intellettuale organico. Per Habermas l'intellettuale deve svolgere il suo ruolo di indirizzo proprio in una realtà segnata dai media, che rendono la discussione pubblica materia prima di un infotainment che impedisce la definizione propria di un terreno condiviso e di una politica deliberativa. E non è un caso che nei ritratti di intellettuali significati della fine del Novecento Habermas annoveri studiosi liberal come Richard Rorty o disincantati e ostili a una politica «radicale» come Jacques Derrida.

Lo schema proposto del rapporto tra opinione pubblica, agire politico e sfera statale risulta così alterato. L'opinione pubblica non è infatti costituita da uomini e donne informati, ma da un accumulo di informazioni precostituite da sondaggi tesi tuttavia a impedire la definizione di un terreno condiviso. L'agire politico è dunque investito dall'infotainment e rischia così di liquefarsi. La scelta suicida di molti partiti è cercare di rappresentare il simulacro di opinione pubblica prodotto dall'infotainment.

Che i sistemi politici e istituzionali del capitalismo contemporaneo siano in crisi è indubbio. Che il potere sociale, economico e politico dei media sia cresciuto fino al punto di sussumere la sfera pubblica è altrettanto vero. Ma Habermas non è convincente quando pensa che vada ristabilita quella ripartizione tra società civile, sfera pubblica e istituzioni statali indispensabile per una «politica deliberativa». E non è un caso che il filosofo tedesco individui nella Rete lo strumento affinché possa costituirsi una opinione pubblica indipendente non solo dal sovrano, ma anche dalle media corporation. La convinzione che attraverso Internet possa risorgere «un pubblico egualitario di scriventi e leggenti» e da essa prenda forma un'opinione pubblica riflessiva si base sulla rimozione del fatto che la Rete è un contesto dove convivono sia tendenze alla manipolazione delle informazioni che strategie economiche delle imprese, che forme di radicalismo sociale e politico.

Paradossalmente la Rete è l'immagine allo specchio della società, con i suoi conflitti e le strategie di controllo esercitate dal potere. Non quindi un antidoto al potere manipolatorio e parassitario dei media, ma esemplificazione dell'agire sociale in cui la politica deliberativa ha le stesse possibilità di successo che ha al di fuori dello schermo. Successo possibile solo intervengono quelle tecnologie del controllo sociale che disinnescano i motivi di quei conflitti che mettono in discussione l'ordine costituito. Il sentiero, accidentato e pieno di insidie, da percorrere è semmai un altro. Quello che rompa il monopolio della decisione politica detenuto dallo Stato. E che è costellato di punti di accesso alla Rete, affinché sia possibile trovare forme di coordinamento tra quelli che si sono incamminati nella stessa direzione. In fondo è quello che è accaduto nel Maghreb.
GIUSEPPE GIULIETTI – Referendum, mobilitiamoci contro lo scippo del governo
ggiuliettiDal 25 aprile al primo maggio, due date fondamentali per l’Italia che ancora crede nei valori costituzionali, sia un vero e proprio “referendum week”, una settimana piena di iniziative dedicate alla illustrazione e alla diffusione dei quesiti referendari.L’appello, tra gli altri, è stato lanciato da Liberainformazione, dalla Tavola della pace, dal Popolo viola, da Articolo 21, proprio per contrastare il tentativo di broglio in atto.
Il broglio politico è evidente, vogliono far saltare il referendum sul nucleare e sull’acqua perché hanno paura di perdere e ancor di più hanno paura che gli italiani dicano sì anche alla abrogazione del legittimo impedimento, travolgendo lo scudo immunitario del presidente imputato.
Altrimenti come si spiega che non abbiano chiesto alcun “approfondimento legislativo” anche su questo quesito?
Il broglio politico, tuttavia, è anche la premessa di un broglio mediatico. I referendum non sono stati abrogati e forse non lo saranno, ma molti si comportano come se l’appuntamento elettorale fosse già stato annullato e di conseguenza hanno dato ordine ai loro media di spegnere i riflettori.
La Commissione di Vigilanza sulla Rai non ha ancora definito il regolamento perchè la maggioranza fa ostruzionismo per ritardarne l’approvazione.
Le autorità di garanzia auspicano, ma non impongono i tempi compensativi.
Tutti si appellano all’incertezza sulla scadenza elettorale. Questa è la truffa, questa è la prova provata dell’imbroglio che il governo sta tentando, sfruttando anche le debolezze, le incertezze, di chi non ha mai appoggiato questi referendum e non ha voglia di impegnarsi in una battaglia dura, ma necessaria.
Quello che sta accadendo supera ormai i singoli quesiti, deve annullare qualsiasi perplessità, persino chi non ha firmato o addirittura era ed è intenzionato a votare no a questo o a quel quesito, ha ora il dovere etico ancor prima che politico di ribellarsi alla truffa, al maledetto imbroglio che punta, come ha scritto da par suo il professor Stefano Rodotà, a calpestare la Costituzione e la democrazia.
Spetta anche a noi spezzare la congiura del silenzio e svelare l’inganno. Possiamo farlo in tanti modi usando le piazze reali e virtuali, facendo circolare le utilissime pagine predisposte da MicroMega, scrivendo alle autorità di garanzia per sollecitare la loro azione, inviando appelli alla Corte di Cassazione per chiedere che venga rispettato il nostro diritto al voto, portando su tutte le piazze in occasione delle grandi manifestazioni del 25 aprile e del primo maggio il tema dei referendum e della democrazia violata, diffondendo ovunque il materiale  predisposto dai comitati referendari, chiedendo ai proprio amministratori locali di promuovere iniziative di informazione sulla prossima scadenza.
Nelle prossime ore, infine, di intesa con tute le altre associazioni, con il Popolo viola, con Libertà e Giustizia, ci recheremo davanti alle sedi dei grandi gruppi editoriali per chiedere che sia rispettata la legge e che sia data la parola ai comitati referendari che sono in questa fase “soggetti protetti costituzionalmente” in quanto loro e solo loro sono titolari dei quesiti in seguito alla raccolta di firme.
Ebbene, persino in queste ore, proprio i soggetti proponenti sono stati cancellati, tra loro e il ministro Romani il rapporto è di un secondo a cento, a dimostrazione che il broglio politico e quello mediatico sono strettamente congiunti, com’è ovvio che sia nel paese del conflitto di interessi. Il direttore generale Masi, con raro sprezzo del ridicolo, ha inviato una lettera ai conduttori Santoro, Floris, Annunziata perché “loro” non rispetterebbero la par condicio, perché avrebbero osato dare la parola proprio a quei soggetti politici e sociali che altrove sono stati invece randellati o oscurati.
Loro si comportano come se i referendum fossero già stati cancellati, a noi spetta il compito di contrastarli e di agire “come se” l’appuntamento elettorale referendario fosse programmato per domattina, anzi tanto per cominciare perché non cominciamo a chiedere a tutti i candidati sindaci cosa pensano dei referendum, della truffa in atto, e come voterà ciascuno di loro sui singoli quesiti?
Il 6 maggio si svolgerà lo sciopero generale della Cgil, sarà una grande giornata per rivendicare il rispetto della Costituzione e dei diritti fondamentali, tra questi spiccano il diritto ad informare ed essere informati premessa indispensabile perché esista il libero esercizio del voto. Siamo sicuri che il 6 maggio diventerà anche una grande giornata contro la censura e contro i bavagli che vorrebbero imporre alla pubblica opinione.
Giuseppe Giulietti
(25 aprile 2011)
Da Micromega

La crisi del PDL vista da Vincenzo Maida

IL PDL E' IMPLOSO ANCHE A POLICORO! Nota di Vincenzo Maida Dopo Matera, Melfi, Pisticci, il PDL è di fatto imploso anche a Policoro. E’ crollato insomma nei comuni più popolosi della Regione, dopo Potenza, e posizionati in quelle aree regionali, come Matera, la fascia jonica ed il melfese, dove vi è una economia più dinamica ed il voto è più “libero” dal controllo sociale ed elettorale del potere regionale. De Filippo e & possono dormire sonni tranquilli, con la classe dirigente che occupa postazioni di rilievo all’interno del PDL e nelle istituzioni per grazia ricevuta e che ha un solo ed unico obiettivo, quello di perpetuarsi fin che può, nessun cambiamento sarà mai possibile. I coordinatori regionali e provinciali, quelli comunali ed i parlamentari del PDL sono infatti tutti nominati. Le fibrillazioni attraversano anche il PD ma c’è almeno una parvenza di democrazia interna. L’ormai ex-sindaco di Pisticci ed ex-PDL Michele Leone in più di una occasione aveva sottolineato tale aspetto e la sua rottura con il PDL, dopo quella di Navazio, è stata anche in polemica con i vertici regionali e provinciali che non riescono a governare le situazioni locali perché non hanno la legittimazione dalla base. E’ probabile che anche Nicola Lopatriello entri come gli altri due in rotta di collisione con una dirigenza priva di qualsiasi vera legittimazione. Basti pensare che il responsabile provinciale dopo aver transitato, mi scuso se forse salto qualche passaggio, per l’ex-DC, il PPI, Forza Italia, Democrazia Europea, dove era approdato dopo essere stato sconfitto alle elezioni regionali del 2.000, si è ritrovato catapultato nel 2005 prima alla candidatura alla presidenza della regione, dove ha conseguito un magro risultato per la coalizione di centro-destra ma un’ ottima collocazione per se stesso in consiglio regionale, poi a coordinatore provinciale del PDL e quindi a senatore della repubblica. In questo è stato favorito anche dalla miopia politica di una parte della Destra montalbanese che dopo aver conquistato il centro della scena nella dinamica politica del centro-destra del metapontino, si è lacerata per inseguire obiettivi personali e non più di gruppo, facendo di fatto harakiri e consegnando ad altri lo scettro. A Matera il PDL dopo aver perso il comune di Matera per essere stato incapace a sostenere il dialogo con le liste civiche di Angelo Tosto e dopo aver fatto fuori in malo modo e all’ultimo momento, l’interessato aveva già affisso i manifesti elettorali, il consigliere regionale uscente Pasquale Dilorenzo dalla lista, ha conseguito nel capoluogo di provincia il minimo storico alle elezioni comunali. All’interno di questo partito leggero e spesso evanescente decidono tutto in tre o quattro persone ed i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Non solo non riesce a costruire un’alternativa progettuale seria, ma dà anche la sensazione che vi abbia rinunciato. Basti pensare alle recenti divisioni sulla linea politica da tenere in consiglio regionale. Sicuramente normalizzare la Basilicata nella logica dell’alternanza non è semplice, la macchina del consenso che il centro-sinistra riesce a mettere in piedi è poderosa, perché si nutre di un sistema di relazioni e di connivenze costruito in anni di gestione clientelare del potere, ma vi sarebbero anche ampi margini per tentare l’impresa se vi fosse un progetto serio e degli interpreti coerenti, legittimati dalla base e dal loro percorso politico e non dagli amici che contano. Il successo di Magdi Allam è stato un sensore eloquente, anche se ha esaurito la sua spinta con la conclusione della competizione elettorale per le regionali. In futuro, anche a seguito della crisi economica e del nascente federalismo fiscale, ancora tutto da verificare nelle ricadute che avrà sull’economia regionale, vi saranno meno opportunità e meno risorse per alimentare il circuito perverso del consenso, le condizioni oggettive sono favorevoli per una svolta ma servono idee e lo spettacolo che offre il centro-destra allontana anche ogni possibile alleanza con il cosiddetto terzo polo il cui profilo politico, nonostante che sia ancora tutto da definire, potrebbe alla lunga rivelarsi determinante. Ovviamente molte responsabilità sono da addebitare anche al livello complessivo della qualità degli amministratori locali, senza il filtro della selezione interna che la vita di partito assicurava, esso è enormemente sceso. Ed oggi troviamo molti componenti non solo delle amministrazioni locali, ma anche dei consigli provinciali e regionali che sono dilettanti allo sbaraglio, a loro non fa difetto un’ unica cosa: la presunzione. Dal blog di Frammartino

BANGLADESH
Yunus, cadono tutte le accuse contro «il banchiere dei poveri»
Il Nobel per la pace sospettato di aver distratto
fondi norvegesi per alimentare le banche del gruppo

NOTIZIE CORRELATE
Il sito dell'inventore del microcredito
La



Muhammad Yunus MILANO - Sono tutte cadute le accuse contro Muhammad Yunus, il premio Nobel per la pace sospettato di aver sottratto del denaro donato dalla Norvegia all'istituto di microcredito da lui fondato. Lo ha annunciato il ministro delle Finanze del Bangladesh.
IL CASO A dicembre, un documentario norvegese aveva accusato il premio Nobel di aver sottratto 96 milioni di dollari donati alla Grameen Bank, l'istituto fondato dallo stesso Yunus, per alimentare altre banche del gruppo. Yunus, cittadino del Bangladesh, era stato discolpato dalla Norvegia, ma il primi ministro del suo Paese, Sheikh Hasina, l'aveva accusato di «succhiare il sangue dei poveri» e il governo aveva così aperto un'inchiesta. La decisione del governo norvegese è stata «accettata» e considerata «definitiva» dal Bangladesh, ha dichiarato il ministro delle Finanze, A.M.A. Muhith, che ha spiegato che non è stata trovata alcuna prova di un'eventuale distrazione di fondi. La commissione non ha nemmeno trovato prove a supporto delle accuse secondo cui la Grameen Bank avrebbe fatto pagare tassi d'interesse eccessivi ai poveri, «i migliori tra tutti gli istituti di microcredito» ha aggiunto il ministro. La Grameen Bank, fondata nel 1983, conta microprestiti per 955 milioni di dollari complessivi a circa 8 milioni di poveri, in maggioranza donne. Yunus, 70 anni, chiamato in tutto il mondo «il banchiere dei poveri» è stato allontanato il 2 marzo dalla Grameen Bank su ordine della banca centrale del Bangladesh, per aver superato il limite di età (60 anni) per i dipendenti dell'azienda.

PROTESTE GLOBALI - L'estromissione di Yunus dalla Grameen ha provocato proteste in tutto il mondo. Secondo i sostenitori dell'economista la vicenda non sarebbe estranea alle tensioni di lunga data Yunus e il premier bengalese Sheikh Hasina. Per il Financial Times, l'ostilità del governo del Bangladesh nei confronti di Yunus sembra risalire appunto al 2007 : quando a seguito di un golpe militare il banchiere ventilò la creazione di un movimento politico pacifista.



L'economista bengalese a Davos IL MUSEO DELLA POVERTA' - Il sogno dell''inventore del microcredito è poter ridurre la miseria a materia di studio- «Relegheremo la povertà nei musei. Ce ne sarà uno in ogni Paese, ci porteremo i bambini in visita: resteranno orripilati scoprendo la condizione infame che così tanti essere umani hanno dovuto sopportare per così lungo tempo e condanneranno i loro progenitori che hanno permesso tutto ciò», scrive in «Un Mondo senza povertà» l'ultimo libro del professore bengalese che crede nella possibilità di poter curare il capitalismo malato con l'ec0nomia sociale .
Paola Pica

 Dal corriere

L CASO
Usa, nuove rivelazioni di Wikileaks
"A Guantanamo vecchi e ragazzini"
L'organizzazione di Julian Assange distribuisce ad alcuni giornali centinaia di documenti sul carcere Usa nell'isola di Cuba. Rivelazioni sul rifugio di Bin Laden. Un orologio segno di riconoscimento dei terroristi
ROMA - Fanno scalpore le nuove rivelazioni di Wikileaks 1. Stavolta i file consegnati dal sito di Julian Assange a Washington Post, Repubblica, l'Espresso ed ad altri giornali americani ed europei, riguardano la lotta al terrorismo, i detenuti di Guantanamo e i rifugi dei leader di al Qaeda, Osama bin Laden e il suo vice egiziano Ayman al Zawahiri, subito dopo gli attentati dell'11 settembre.

Guantanamo. Wikileaks rivela i file segreti degli oltre 700 detenuti rinchiusi dal 2002 ad oggi a Guantanamo, nel campo di prigionia istituito da George Bush e tutt'ora in funzione con almeno i 172 detenuti ancora rinchiusi. Nelle migliaia di pagine vi sono scritte verità di violazioni dei diritti umani già condannate e criticate in questi 10 anni. Si parla di detenuti trasportati nel campo di prigionia a Cuba in gabbie, imprigionati per anni senza alcuna formale incriminazioni, sulla base di prove quanto mai labili o estratte con maltrattamenti quando non con torture vere e proprie.

Dai file emerge infatti l'ossessione del Pentagono e della Cia dei tempi di George Bush nell'estrarre il massimo di informazioni dai fermati, anche con l'utilizzo di quei "metodi di interrogatorio" autorizzati dallo stesso presidente. E testimoniano come tra i detenuti vi sia stato un afgano di 89 anni, fermato e trasferito a Guantanamo per "numeri di telefono sospetti" trovati a casa sua. E un ragazzo di 14 anni trasferito solo per "la possibilità che conoscesse i leader talebani locali". Non solo. Secondo Assange gli Stati Uniti rinchiusero per anni soggetti innocui o poco pericolosi e scarcerarono 200 terroristi "ad alto rischio".

Bin Laden. Quattro giorni dopo gli attentati a New York e Washington, Bin Laden si recò in una guesthouse nella provincia di Kandahar e incitò i combattenti arabi riuniti a "difendere l'Afghanistan dagli invasori stranieri" e di "combattere in nome di Allah". Da allora Bin Laden e Zawahiri si spostarono in macchina da posto all'altro dell'Afghanistan e il leader terreorista delegò il controllo dell'organizzazione al Consiglio della Shura, forse nel timore di essere presto catturato o ucciso dalle forze Usa.  A un certo punto Bin Laden si rifugiò in una località segreta nei pressi di Kabul. Ma non così tanto segreta da impedire un flusso continuo di visitatori, tutti esponenti dell'organizzazione a cui ha dato ordini su come procedere lo scontro, facendo ritirare tutti i combattenti dai campi di addestramento e spostando le donne e i bambini in Pakistan. Nascosto, sì, ma ancora alla guida dei suoi uomini. Lo testimoniano i continui incontri con i fedelissimi. Il 25 novembre Bin Laden parlò ai leader e i combattenti, dicendo loro di "rimanere forti nell'impegno di combattere, obbedire ai leader, aiutare i talebani e di non commettere l'errore di andarsene senza aver concluso la battaglia".

L'orologio come segno di riconoscimento. Secondo l'intelligence americana che ha pilotato i trasferimenti di sospetti terroristi a Guantanamo, un orologio Casio, modello F-91W da cinque euro, poteva essere "il segno" di appartenenza ad al Qaeda. "Un terzo dei detenuti catturati con questo modello al polso avevano collegamenti con esplosivi, o perché avevano fatto corsi, o perché collegati a luoghi dove venivano costruite bombe o per aver avuto rapporti con persone identificate come esperti di esplosivi", si legge nel documento. Oltre 50 dossier su singoli detenuti del pacchetto Wikileaks su Guantanamo fanno riferimento al Casio.
(25 aprile 2011)
Da Repubblica

domenica 24 aprile 2011

Dentro l’economia del Noi

L’economia del Noi rimanda all’idea di una economia “diversa” costruita dal basso, incentrata sull’importanza delle relazioni fra le persone, sulla sostituzione della logica dello scambio con la logica del dono e sulla valorizzazione dei beni comuni: nel “viaggio” di Roberta Carlini le nuove “pratiche di giustizia” e il loro rapporto con le forme tradizionali della politica.

di Emilio Carnevali
«Questo più che un saggio è un viaggio in una parte della società italiana trascurata dalla rappresentazione prevalente dei media. La parte di chi cerca di costruire con le relazioni, laddove la crisi economica e quella politica sembrano avere spinto molti a resistere chiudendosi: in casa, in un gruppo identitario, nel proprio interesse». Così Roberta Carlini presenta il suo libro L’economia del noi. L’Italia che condivide (Laterza, pp.122, 12 euro), un “viaggio”, appunto, dentro quelle esperienze nate introno all’idea di una economia “diversa” costruita dal basso, incentrate sull’importanza delle relazioni fra le persone, sulla sostituzione della logica dello scambio con la logica del dono e sulla valorizzazione dei beni comuni. Esperienze come i gruppi di acquisto solidali, la “finanza etica”, il cohousing (pratiche partecipative nella progettazione di abitazioni che mettono in comune alcuni spazi e servizi), gli Hub per le imprese impegnate nell’innovazione sociale, le comunità per il software libero.

Ma l’esplorazione compiuta dall’autrice è molto più che una rassegna meramente descrittiva di una serie di “storie” e dei protagonisti che le animano. C’è dietro una riflessione politica nient’affatto banale sul rapporto fra il tradizionale approccio “sistemico” delle esperienze politiche novecentesche e le nuove “pratiche di giustizia” sedimentate sul mutamento epocale subito dal panorama sociale, politico e culturale negli ultimi decenni. Pratiche che hanno certamente subìto un’accelerazione con la fine del Secolo Breve e delle sue “grandi narrazioni” di emancipazione collettiva, ma che rimandano ad un dilemma politico-esistenziale già presente nei movimenti degli anni Sessanta e Settanta, costantemente oscillanti – per riprendere una efficace analisi di Nanni Balestrini e Primo Moroni (L’Orda d’Oro 1968-1977, Feltrinelli) – «tra volontà di opporsi e governare in modo diverso le trasformazioni in atto e la tendenziale “fuga” controculturale in una ideale società separata come forma di rifiuto collettivo»; in altre parole la frattura fra «l’area controculturale e quelle politica» del movimento.

Oggi quella frattura – si richiede al lettore un minimo di indulgenza sulla sovrapposizione delle medesime categorie analitiche a esperienze molto diverse fra loro per contesto storico e matrici culturali – è accresciuta da ulteriori dilemmi ed elementi di criticità riscontrabili all’interno delle “pratiche alternative”. In particolare vorremmo attirare l’attenzione su due elementi che ricorrono anche nella riflessione della Carlini:

- La possibilità che l’etica connessa a determinati stili di produzione o consumo sia un ulteriore strumento di “valorizzazione commerciale” per le produzioni e i consumi tradizionali: ad esempio la “linea etica” come prodotto personalizzato per una certa categoria di consumatori nei panieri di prodotti finanziari offerti dalle grande banche; l’utilizzo di finanziamenti a progetti e iniziative benefiche come fiore all’occhiello di un qualsiasi soggetto privato desideroso di un restyling d’immagine, ecc. Insomma la possibilità che il mercato catturi anche l’antimercato in virtù dell’appetibilità commerciale delle stesse pratiche “antimercatiste”.
- Il pericolo che molte “pratiche di giustizia” nate dal basso suppliscano ad un arretramento dello Stato, al venir meno di presìdi di welfare che dovrebbero essere richiesti dai cittadini come “diritti” dalle istituzioni pubbliche e non elargiti come “opere di bene” da pur meritevolissime organizzazioni impegnate nel sociale.

Roberta Carlini è ben consapevole di questi dilemmi, soprattutto con riferimento alla contrapposizione fra la «buona volontà cooperativa» che emerge dalle esperienze descritte e la possibilità che gli stessi beni e servizi dell’“economia del Noi” possano tradursi in un «progetto politico» in cui lo Stato si faccia garante della soddisfazione di certi bisogni, della produzione di certi “beni pubblici” su un piano di parità, universalità e uguaglianza di tutti i cittadini. «Chi scrive», precisa l’autrice, «viene da una formazione politica e culturale di questo tipo, e non pensa affatto che quest’idea alta della politica sia tramontata».

Il dilemma può essere risolto sottolineando gli aspetti complementari e non antitetici fra i due approcci: innanzitutto, visto che la realtà effettiva dell’Italia è oggi molto diversa dall’ideale del «progetto politico» universalista evocato, «il coinvolgimento delle comunità dal basso interessate e partecipi» può «far arrivare i servizi pubblici laddove adesso non arrivano, o non sono mai arrivati, e alzare la loro qualità sociale» (si pensi, con riferimento a quest’ultimo punto, ai recenti sviluppi della teoria economica sul rapporto fra Stato-Mercato-beni pubblici e sulla gestione collettiva dei beni comuni come quelli contenuti nella ricerca del premio Nobel per l’economia Eleanor Ostrom).

Inoltre «è presumibile che laddove c’è una comunità organizzata e attiva, ci si organizzerà e attiverà anche per alzare la voce nell’arena pubblica, e pretendere dallo Stato quello che lo Stato può e deve dare». Questo è lo spirito che anima molti dei protagonisti delle storie qui raccolte. Assai significativa è la frase con la quale don Alessandro Santoro della Comunità delle Piagge a Firenze risponde alle obiezioni mossegli dall’autrice: «Non suppliamo al sistema, noi lo denunciamo!».

Al di là di ogni riflessione di tipo teorico, da lettori possiamo aggiungere che è comunque molto salutare, in tempi in cui il nostro paese offre una rappresentazione pubblica di sé così involgarita e meschina, immergersi in mondi caratterizzati da una genuina spinta ideale, dall’idea di un progetto funzionale al miglioramento della propria vita e di quella degli altri. Una boccata di aria fresca nell’Italia del Bunga Bunga e degli Scilipoti.

Fonte: Micromega
Dal " Sole 24 ore"
problema della Settimana
Regolarizzazioni in edilizia

Condono, il Comune ha 10 anni per chiedere gli oneri concessori

Domanda

Anni fa ho presentato domanda di condono ai sensi della legge 47/85 (primo condono). A oggi non ho ancora ricevuto alcuna risposta dall'amministrazione comunale, ma solo domanda di integrazione documentale, alla quale ho regolarmente adempiuto. È possibile che si sia formato il silenzio-assenso sulla domanda, e può il Comune richiedermi il conguaglio dell'oblazione e il versamento degli oneri concessori? In alternativa, potrei presentare domanda di accertamento di conformità in sanatoria? E se volessi fare ulteriori interventi edilizi sull'immobile fino alla demolizione e ricostruzione, come dovrei comportarmi?
T.T. – BARI

Risposta

Il condono edilizio è una procedura a carattere straordinario con efficacia limitata nel tempo, che ha trovato la sua disciplina in tre leggi (47/85, 724/94, 326/2003). Pur essendo scaduti i termini per beneficiare di tale normativa (a parte gli immobili oggetto di procedure fallimentari, per i quali è possibile presentare domanda di sanatoria entro 120 giorni dall'atto di trasferimento dell'immobile), sono a oggi ancora aperte molte pratiche in attesa di definizione, accompagnate da numerose incertezze operative.
L'istruttoria
e l'assenza di risposta
Il condono edilizio è un provvedimento vincolato (Consiglio di Stato, sezione IV, 10 agosto 2007, n. 4396) che viene rilasciato dal Comune in presenza di tutte le condizioni previste dalla legge statale e da quella regionale di riferimento (rispetto della volumetria sanabile, rispetto del termine di realizzazione dell'abuso, assenza di cause di esclusione soggettive e oggettive eccetera) entro un termine perentorio, alla scadenza del quale il silenzio serbato dall'amministrazione equivale a titolo edilizio in sanatoria, fermo restando il possibile esercizio dei poteri di autotutela da parte dell'amministrazione, che potrebbe anche portare all'annullamento. Se, per fare un esempio "al limite", un fabbricato fosse stato costruito su una spiaggia, esso rimane abusivo al di là del silenzio per 24 mesi da parte del Comune, che quindi potrà sempre avviare la procedura per la demolizione.
In particolare, ai sensi dell'articolo 32, comma 37, della legge 326/03, il silenzio si forma sulle domande a proposito delle quali non sia stato adottato alcun provvedimento negativo e trascorsi 24 mesi (salvo il caso di immobili vincolati), a condizione, però, che siano stati integralmente corrisposti l'oblazione (al momento della domanda di condono) e, ove dovuto, il contributo concessorio, nonché siano state presentate la denuncia al catasto, quella ai fini Ici, quella per la tassa di smaltimento dei rifiuti solidi urbani e quella per l'occupazione di suolo pubblico, ove dovute. Se le domande presentate risultano carenti in qualche elemento il provvedimento tacito non si formerà, in quanto occorre assicurare ai Comuni 24 mesi per esaminare con completezza le pratiche (Tar Basilicata, sezione I, 27 dicembre 2002, n. 1030).
Una richiesta di documentazione ulteriore (specificatamente prevista dalla legge) da parte del Comune interromperà i termini di formazione del silenzio solo se tale documentazione risulti essenziale ai fini della corretta classificazione della domanda in sanatoria.
Gli adempimenti
da non mancare
Gli interessati sono tenuti a corrispondere, oltre al pagamento dell'oblazione, anche gli oneri concessori, ove dovuti. La pretesa del Comune soggiace a un regime giuridico differente per il termine di prescrizione. Relativamente all'oblazione, la giurisprudenza è conforme nel ritenere che la somma dovuta a conguaglio si prescriva nel termine di 36 mesi ai sensi dell'articolo 35 della legge 47/1985 (Consiglio Stato, sezione V, 19 aprile 2007 n. 1809, e 28 aprile 1999 n. 495). Sulla decorrenza del relativo termine, l'orientamento prevalente sembra essere quello che la ricollega al momento della presentazione dell'istanza in sanatoria (Tar Puglia, sezione III, del 10 febbraio 2009, n. 237; Consiglio di Stato, sezione V, 19 aprile 2007, n. 1809; Tar Veneto, sezione II, dell'8 maggio 2006, n. 1158; Consiglio di Stato, sezione V, del 28 aprile 1999, n. 495; Consiglio di Stato, sezione IV, del 31 ottobre 1997, n. 1246).
Quanto agli oneri concessori, l'orientamento della giurisprudenza è teso ad assoggettarli al termine ordinario di prescrizione decennale (Tar Puglia, sezione III, del 18 giugno 2010, n. 1507; Tar Calabria, sezione II, del 10 dicembre 2007, n.1976; Tar Campania, Napoli, sezione II, del 3 aprile 2004, n. 4167).
Per quanto riguarda la decorrenza del termine stesso, esistono due orientamenti contrapposti: chi sostiene che il termine decorra dalla data di presentazione della domanda di condono da parte dell'interessato (Consiglio di Stato, sezione V, del 7 giugno 1999 n.603); chi, invece, ritiene che decorra dal rilascio del titolo o dal compimento dei 24 mesi per la formazione del silenzio-assenso sulla domanda di concessione in sanatoria, in quanto il provvedimento di sanatoria viene ad esistenza dalla data di formazione del silenzio-assenso sulla relativa domanda o dalla data di comunicazione dell'esame favorevole della pratica relativa alla domanda di condono (Tar Lazio, sezione II, del 24 settembre 2002, n. 8012; Tar Lombardia, sezione II, del 21 marzo 2002, n. 1189).
Se nei termini previsti l'oblazione non è stata interamente corrisposta o è stata determinata in forma dolosamente inesatta, si applica la sanzione di cui all'articolo 40 della legge 47/85, con decadenza della domanda.
Diverso dovrebbe essere il caso in cui l'interessato versi in ritardo una rata. In questa circostanza si ritiene che non si debba parlare di omesso quanto di ritardato pagamento, e che si debba tenere conto di quanto disposto dalla legge 449/1997, la quale ha previsto, tra l'altro, l'applicazione dell'interesse legale annuo sulle somme dovute, da corrispondere entro 60 giorni dalla notifica da parte dei Comuni dell'obbligo di pagamento. Tale interpretazione è stata confermata dal Consiglio nazionale del notariato (studio 1998 del 24 marzo 1998).
La giurisprudenza amministrativa ha, infine, stabilito che – fino a quando l'amministrazione non si pronuncia sulla domanda di condono – il richiedente può modificare, sostituire o rinunciare alla richiesta, non prevedendo l'ordinamento alcuna norma impeditiva di tale potere (Tar Toscana, sezione III, del 21 dicembre 2004, n. 6520; Tar Lombardia, sezione II, del 18 dicembre 1987, n. 490).
Una volta esperita la formale rinuncia, ci si è chiesti se il privato abbia o meno diritto alla restituzione dell'oblazione versata alla presentazione dell'istanza di condono. A questo proposito, si evidenzia che con il rimborso dell'oblazione viene meno il presuupposto per l'estinzione dei reati edilizi. 

A cura di
Massimo GHILONI

18/04/2011

IL PUNTO

Permesso successivo
solo per i «difetti» formali

A differenza di quanto avviene per il condono, l'articolo 36 del Dpr 380/2001 (Testo unico edilizia) prevede che il permesso di costruire possa essere conseguito in sanatoria ogni qualvolta si sia in presenza di un abuso formale e non sostanziale, ossia quando l'opera – sebbene realizzata senza titolo o in difformità da esso – risulta comunque conforme alle prescrizioni urbanistiche.
Pertanto, il titolo abilitativo, pur non richiesto preventivamente, può essere ottenuto, a condizione che l'intervento risulti conforme sia alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione della costruzione sia al momento della presentazione della domanda di permesso in sanatoria (Consiglio di Stato, sezione IV, n. 1763/2010). Nella originaria formulazione dell'articolo 13 della legge 47/1985 vi era anche il riferimento al non contrasto con gli strumenti urbanistici adottati, per i quali permane comunque l'obbligo dell'applicazione delle misure di salvaguardia.
L'iter
La domanda per l'accertamento di conformità per opere eseguite senza permesso di costruire o in difformità può essere presentata sia dal responsabile dell'abuso sia dal proprietario "attuale". La presentazione dell'istanza deve perentoriamente avvenire prima che i provvedimenti repressivi dell'abuso contestato divengano definitivi. Al riguardo, si sottolinea che il sindaco, una volta accertato l'abuso, è tenuto a ingiungere la sanzione ripristinatoria indipendentemente dall'accertamento della conformità, che si configura, perciò, come un onere a carico dell'interessato che deve far valere il proprio diritto al conseguimento della sanatoria, ottenendo come conseguenza la sospensione dei provvedimenti repressivi in attesa della definizione dell'accertamento.
Il silenzio serbato per 60 giorni dall'amministrazione sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica ha in questo caso (contrariamente a quanto avviene per il condono) natura di atto tacito di rigetto, trattandosi di un provvedimento a carattere vincolato, privo di contenuti discrezionali (Tar Campania, Napoli, sezione V, n. 756/2008; Tar Lazio, Latina, n. 1106/2009; contra, Tar Molise, n. 1514/2010), avverso il quale si dovrà proporre ricorso al Tar. In caso di esito positivo dell'accertamento, invece, il provvedimento deve essere adeguatamente motivato e comporta la rinuncia – da parte dell'Amministrazione – a esercitare i poteri sanzionatori.
Anche se si fa riferimento al contributo di costruzione in misura doppia per commisurare la sanzione da corrispondere per l'abuso formale, la stessa viene qualificata come oblazione, per cui, oltre a venir sanato l'intervento dal punto di vista amministrativo, si estingue anche il reato penale.
La «via» giurisprudenziale
Non è stata affrontata nel Testo unico la cosiddetta sanatoria giurisprudenziale, istituto creato dai giudici amministrativi. In base a esso un immobile in contrasto con il piano urbanistico al momento della realizzazione, ma conforme al momento della rilevazione dell'assenza del titolo abilitativo, può conseguire il permesso in sanatoria, in quanto, qualora demolito, potrebbe essere legittimamente riedificato subito dopo.
Difatti, imporre per un intervento costruttivo, comunque attualmente "conforme" al piano, una duplice attività edilizia, demolitoria e poi riedificatoria, significherebbe ledere il principio di economicità dell'azione amministrativa, con la conseguenza, contrastante anche con il principio di proporzionalità, di un significativo aumento dell'impatto territoriale e ambientale (Consiglio di Stato, sezione VI, n. 2835/2009).
L'autodenuncia
Sostanzialmente analogo è il regime dell'accertamento di conformità in sanatoria per l'assenza di denuncia di inizio attività relativa agli interventi edilizi minori, disciplinata dall'articolo 37 del Testo unico. Viene esplicitamente prevista la possibilità di autodenuncia in corso d'opera, con conseguente applicazione della sanzione pecuniaria minima di 516 euro. Negli altri casi si applica una sanzione rapportata all'aumento di valore dell'immobile con una misura minima di 516 euro e una massima di 5.164 euro. Non si pone un problema di estinzione del reato penale, in quanto questo non è comunque ricollegabile alla mancanza della denuncia di inizio attività, nei casi in cui quest'ultima non sia sostitutiva del permesso di costruire.

Per una visione di sintesi si rinvia alla tabella allegata

I RIFERIMENTI NORMATIVI, LA GIURISPRUDENZA, LA PRASSI
I cronisti e l'autocensura 'democratica'
"La barzelletta di B? Decisione comune"

Dopo il derby, il premier si esibisce nella solita battuta sconcia ma subito dopo chiede di non scriverla I giornalisti, dopo avere controllato di essere in sintonia per coprirsi a vicenda, eseguono l'ordine

“Abbiamo votato. E' stata una decisione collegiale. Il presidente ci ha chiesto di non scrivere e noi ci siamo messi d'accordo per non farlo”. A parlare così è Pietro Guadagno del Corriere dello Sport, uno dei sette giornalisti che ha assistito alla storiellina volgare della segretaria (leggi l'articolo). Quella in cui B, per rispondere a una domanda sull'allenatore del Milan, giustifica così le sue amnesie: “Questa mattina – racconta il Cavaliere – stavo inseguendo la mia segretaria per farmela sul tavolo e mi ha detto: ‘Presidente, lo abbiamo fatto due ore fa’. Le ho detto: ‘Vedi, è la memoria che mi fa difetto’”. Una volta succedeva il contrario. I giornalisti lavoravano in pool per dare e non per occultare le notizie. “Ma oggi – spiega Guadagno – è una cosa automatica. Se uno mi chiede di non riportare la cazzata che dice, io non lo faccio. E' una questione di rapporti”. E così è stato. La notizia è rimasta nascosta per più di venti giorni: dal 2 aprile, serata di Milan-Inter. Fino a quando la redazione di Annozero è entrata in possesso del filmato e l'ha mandato in onda  di Beatrice Borromeo

LA STAMPA ESTERA: “ERA UNA NOTIZIA. TUTTO CIÒ CHE DICE UN PRESIDENTE VA SCRITTO”
PLAYBOY EDIZIONE TEDESCA: “BERLUSCONI VA A PUTTANE INVECE DI GOVERNARE”

Il tuo sorriso

Toglimi il pane, se vuoi,
toglimi l'aria, ma
non togliermi il tuo sorriso.

Non togliermi la rosa,
la lancia che sgrani,
l'acqua che d'improvviso
scoppia nella tua gioia,
la repentina onda
d'argento che ti nasce.

Dura è la mia lotta e torno
con gli occhi stanchi,
a volte, d'aver visto
la terra che non cambia,
ma entrando il tuo sorriso
sale al cielo cercandomi
ed apre per me tutte
le porte della vita.

Amore mio, nell'ora
più oscura sgrana
il tuo sorriso, e se d'improvviso
vedi che il mio sangue macchina
le pietre della strada,
ridi, perché il tuo riso
sarà per le mie mani
come una spada fresca.

Vicino al mare, d'autunno,
il tuo riso deve innalzare
la sua cascata di spuma,
e in primavera, amore,
voglio il tuo riso come
il fiore che attendevo,
il fiore azzurro, la rosa
della mia patria sonora.

Riditela della notte,
del giorno, delle strade
contorte dell'isola,
riditela di questo rozzo
ragazzo che ti ama,
ma quando apro gli occhi
e quando li richiudo,
quando i miei passi vanno,
quando tornano i miei passi,
negami il pane, l'aria,
la luce, la primavera,
ma il tuo sorriso mai,
perché io ne morrei.
-- Pablo Neruda

È vietato piangere senza imparare,
alzarti al mattino senza saper cosa fare,
aver paura dei ricordi
È vietato non sorridere ai problemi,
non lottare per ciò che vuoi,
abbandonare tutto per paura,
non far diventare i tuoi sogni realtà.
È vietato non dimostrare il tuo amore,
far pagare a qualcuno i tuoi debiti e il tuo malumore
È vietato abbandonare i tuoi amici
non tentare di capire ciò che avete vissuto insieme
chiamarli soltanto quando hai bisogno
È vietato non fare le cose per te stesso
non creder in Dio e fare il tuo destino
Aver paura della vita e dei suoi compromessi,
non vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo respiro
È vietato sentire la mancanza di qualcuno senza rallegrarsi,
dimenticare i suoi occhi e la sua risata
solo perché le vostre strade non si incrociano più
È vietato dimenticare il tuo passato e pagarlo con il tuo presente.
È vietato non tentare di capire le persone,
pensare che le loro vite valgano più della tua
non sapere che ognuno ha il suo cammino e la sua gioia
È vietato non creare la tua storia
smettere di ringraziare Dio per la tua vita,
non avere dei momenti per la gente
che ha bisogno di te,
non capire che ciò che ti da la vita
te la può anche togliere.
È vietato non cercare la tua felicità
non vivere la tua vita con un atteggiamento positivo
non pensare che potremmo essere migliori
non sentire che senza di te questo mondo non sarebbe uguale.
-- Pablo Neruda

sabato 23 aprile 2011


Se offrirai all'affamato il pane, se sazierai chi è digiuno, allora la tua luce brillerà tra le tenebre, la tua tenebra diverrà meriggio"
(Isaia 58,10)

«Questo è il digiuno che io voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi, spezzare ogni giogo..., dividere il pane con l’affamato, ospitare in casa i miserabili che sono senza tetto, vestire chi vedi nudo, non distogliere gli occhi da quelli della tua carne». È, questo, il cuore di un ampio brano del libro di Isaia (58,1-12) dedicato appunto al vero digiuno. L’astinenza dal cibo per finalità rituale e spirituale è un’antica prassi comune a tante religioni, compresa la cristiana e la musulmana. Anzi, come è noto, per l’islam il digiuno durante il mese di Ramadan è una delle cosiddette “cinque colonne” fondanti la stessa fede.

L’anima profonda di questo gesto, che lo rende molto diverso da una dieta salutista, è ben illustrato dai versetti che abbiamo citato in apertura (vv. 5-7) e dalmotto che abbiamo assunto per questa nostra riflessione sempre dal capitolo 58 di Isaia: si rinuncia al cibo per offrirlo all’affamato. Detto in altri termini, la privazione non è fine a sé stessa, ma diventa un segno di carità fraterna. Per questo, il digiuno materiale è un simbolo di una serie di atti di donazione, anche spirituale e sociale, da compiere: liberare dalle oppressioni, scegliere di costruire una società più giusta fondata non sull’interesse personale ma sull’amore, non ignorare le mani dei miseri che si tendono verso di noi, ricordandoci che anch’essi sono nostra “carne”, cioè creature umane come noi.

Ora, però, vorremmo suggerire un’analisi più accurata del frammento che abbiamo proposto secondo la traduzione solitamente usata dalle varie Bibbie. In realtà, nell’originale ebraico c’è un suggestivo gioco di parole che è costruito attorno a un unico vocabolo, nefesh, che contemporaneamente significa “anima, vita”, e “gola, desiderio, appetito”. Ecco come suona il testo originario: «Se offrirai all’affamato il tuo nefesh, se sazierai il nefesh della persona oppressa…». Come si vede, s’incontrano tra loro due “anime”, due “vite”, quella di chi dona e quella del povero. È ciò che deve innanzitutto compiersi nella vera solidarietà fraterna: è necessario instaurare un legame personale, dobbiamo sentire – come diceva prima il profeta – che siamo della “stessa carne”.

La vera carità «non si vanta, non è altezzosa, non manca di rispetto» (1Corinzi 13,4-5), non è un gesto compiuto dall’alto con la sottile soddisfazione di essere generosi nei confronti di un essere inferioremiserabile. È, invece, un essere spalla a spalla, è l’incontro di due “anime” che si abbracciano e si sostengono. Ma possiamo aggiungere un’altra notazione. Nefesh, dicevamo, è anche “gola, desiderio, appetito”. Ecco, nell’amore fraterno il mio respiro, la mia gola si mette in sintonia con quella del prossimo che soffre. Se ho fame, prima di gettarmi sul cibo e rimpinzarmi fino all’eccesso, devo sentire idealmente in me anche l’anelito dell’affamato e, così, evitare l’atto sprezzante del ricco gaudente che lascia solo le briciole al Lazzaro di turno, per stare alla celebre parabola di Gesù (Luca 16,19-31).

Solo così, nell’incontro tra le due “anime” e le due “gole” che si muovono all’unisono, diverremo luminosi, ossia partecipi dello splendore del Dio che è «luce» e che è «amore» (1Giovanni 1,5; 4,8.16). Ci ammonisce san Giacomo: «Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro: Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi! senza dare loro il necessario per il corpo, che giova?» (2,15-16).
Da "Famiglia cristiana"

Johan Cruyff - Goals in Ajax

I dieci gol più belli di Francesco Totti

I 10 gol più belli di Roberto Baggio

Romario "O Rei do Gol"

Best Goals in History of Football

Zinedine Zidane Goals

Marco van Basten - AC Milan goals (Part 1/3)

Ronaldinho show

Maradona the Best

I gol di maradona e le sue splendide giocate

Maradona balla la Pizzica salentina




Al golpe, al golpe
di Marco Brancati, da Repubblica

Le mosse del governo per evitare i referendum di giugno sono quanto di peggio un esecutivo possa fare, soprattutto quando si riempie la bocca della parola popolo ogni giorno. E fa bene l’opposizione a denunciare il volgare giochetto di palazzo che tanto somiglia, a questo punto, ad un reiterato abuso di potere.

Altrettanto opportuno, vista l’aria che tira, vigilare sulla qualità della nostra democrazia, sottoposta da Berlusconi e dal berlusconismo ad un avvilimento tattico quotidiano e ad uno stress strategico di lungo periodo.

Ma se è vero che questa è una battaglia tanto importante e tanto decisiva per il futuro del nostro paese, un po’ di lucidità non ci starebbe male. E l’Italia dei Valori, che a proposito dei referendum parla senza mezzi termini di “colpo di stato”, forse dovrebbe rifletterci sopra.

Proprio perché la democrazia in Italia rischia, e anche grosso, gridare al golpe quando il golpe non c’è non è solo una stupidaggine, ma è anche una strategia suicida. Se in Italia si dovesse arrivare ad una svolta autoritaria in senso proprio,  quali argomenti userebbe l’onorevole Belisario per farlo capire ai cittadini?

I dipietristi farebbero bene a rileggere Esopo. A forza di gridare al lupo, se il lupo arrivasse non saprebbero più come chiamarlo.

IL DOSSIER
Rincari e rubinetti chiusi
i rischi della privatizzazione
Viaggio nei Comuni dove nella gestione dell'acqua già c'è la presenza degli operatori privati
di ROBERTO MANIA

GUALDO Tadino si trova ai piedi dell'appennino umbro marchigiano. Da queste parti l'acqua un tempo non si pagava nemmeno perché c'è sempre stata in abbondanza. Pozzi dovunque. Qui c'è la sorgente di una nota acqua minerale. Ebbene qui - anche qui - l'acqua è diventata preziosa. E se dai tuoi rubinetti del terzo piano non sgorga perché ha poca pressione e non riesce a salire, beh, ti paghi i nuovi tubi. Seimila euro sono stati chiesti a un cittadino di Gualdo, che ora si è rivolto alle associazioni dei consumatori.

Avere l'acqua a casa non è più scontato. Anche questa è la privatizzazione del servizio. Privatizzazioni innanzitutto nelle logiche di gestione ancor prima che nelle proprietà. Nella Umbria Acque, per esempio, il socio privato, controlla il 42%. Ma - si è visto - non cambia nulla. Ha inciso, un po', per temperare l'inarrestabile ascesa delle tariffe: in dieci anni, dal 1998 al 2008 - riporta Antonio Massarutto nel suo "Privati dell'acqua", appena uscito per il Mulino - sono aumentate del 47%. E nel solo periodo 2005-2008 la spesa per il servizio idrico è cresciuta del 12%, circa il 4% in termini reali. Una famiglia di tre persone spende in media 293 euro all'anno per l'acqua. Di quella che si utilizza, perché tanta se ne va persa in una rete idrica che è un vero colabrodo. Circa il 37% dell'acqua immessa in rete non viene fatturata con punte fino al 70% in alcune aree del Mezzogiorno, lì dove la fornitura dell'acqua è anche un business per la mafia e le altre organizzazioni criminali.

In Calabria, per esempio. Dove quasi il 45% della popolazione riceve un servizio a dir poco scadente. E dove l'acqua, pur arrivando nelle case, viene chiusa dal gestore per morosità del Comune. È accaduto all'inizio di marzo a Cinquefrondi, settemila anime nella piana di Gioia Tauro: per due giorni niente acqua. Rubinetti chiusi. L'ha deciso la Sorical (società mista tra la Regione e i francesi della Veolia con il 46,5%) con la quale il Comune ha accumulato un debito di quasi un milione e 200 mila euro, pari a quattro anni di pagamenti arretrati. Dopo tre decreti ingiuntivi, la società ha ridotto del 25% l'acqua erogata al cliente moroso, sostenendo la piena legittimità di questa decisione. Il punto è che il paese si sviluppa in salita e, anche qui, il taglio ha fatto mancare la pressione nelle tubature. Dai rubinetti nemmeno una goccia d'acqua, il sindaco ha dovuto ordinare la chiusura delle scuole per due giorni. I cittadini, che pagano regolarmente le bollette, si sono infuriati. Ma l'andazzo è questo. Dice Maurizio Del Re, amministratore delegato della Sorical: "È una cosa che stiamo facendo ormai da un po' dove osserviamo che non solo il Comune non adempie al pagamento ma dall'altra parte richiede una quantità d'acqua abnorme". Insomma se non paghi ti staccano anche l'acqua, un tempo bene primario.

Accade al Sud ma anche al centro nord. Da quando l'acqua è un servizio privatizzato che ha trasformato i cittadini in clienti-consumatori. Senza che, però, ci sia un mercato, la concorrenza tra gli operatori, la possibilità di scegliere. Racconta Sandro Peruzzi, presidente della Federconsumatori dell'Umbria, che ormai, un po' dappertutto, quando devi spostare il contatore all'esterno della tua abitazione per consentirne la lettura al gestore, la ditta per eseguire i lavori "viene imposta" dalla società. E ti impongono anche i prezzi. "In genere il doppio di quel che servirebbe", chiosa Peruzzi.

Perché l'acqua dei privati costa sempre di più. A metà maggio è in arrivo la stangata per i cittadini-clienti dei 29 comuni campani nell'area sarnese-nolana-stabiese: incrementi sulla bolletta del 20%. C'è chi ha calcolato che da sei anni a questa parte gli aumenti delle tariffe siano stati nell'ordine del 300% senza che il servizio sia migliorato. Ne sanno qualcosa nella zona di Arezzo che per prima ha sperimentato la privatizzazione: tariffe all'insù di quasi il 57%. E sempre, al nord, al centro e al sud e nelle isole, ci sono i francesi - senza il clamore del caso-Parmalat - che hanno conquistato quote azionarie prestigiose: Suez, Veolia Water e Saur. Gruppi potenti che hanno "imposto" il modello d'oltralpe. Conclusione di Giuseppe Altamore in "Acqua spa" (Mondadori): "Il servizio idrico è ormai un'industria che produce utili i dividendi per grandi e piccoli azionisti. La metamorfosi da cittadino a cliente dei mercanti d'acqua è avvenuta". Pronto a restare a secco e anche in bolletta.
(ha collaborato raffaella cosentino)
(23 aprile 2011)
Da Repubblica