Un’altra Italia in un’altra Europa
La crisi ha dato piena conferma ad analisi da tempo esistenti: l’Europa non è stata in grado di ricreare forme di potere federale capaci di promuovere e regolare lo sviluppo del continente. Nel libro “Un’altra Italia in un’altra Europa. Mercato e interesse nazionale” (a cura di Leonardo Paggi) una riflessione multidisciplinare sui 150 anni dell'Unità d'Italia alla luce della crisi europea. Per gentile concessione dell'editore Carocci pubblichiamo la prima parte dell'introduzione di Leonardo Paggi.
di Leonardo Paggi, fonte Micromega
Questo è un libro scritto da autori molto diversi tra loro per professione e per impostazione culturale, tuttavia uniti dall’idea che l’Italia sia entrata in una fase estremamente critica della sua lunga storia. È convinzione comune che la manomissione in atto di essenziali conquiste di benessere economico e di civiltà, fattori imprescindibili della coesione sociale, costituisca una seria minaccia non solo per lo stato di salute della nostra democrazia, ma per gli stessi livelli di sicurezza dell’unità nazionale. Sentiamo essere entrata in discussione non un’identità plurisecolare, che precede di gran lunga la formazione dello Stato unitario [1], ma le forme di un vivere civile conquistate con la democrazia repubblicana. Ci sentiamo sospinti verso un passato che credevamo chiuso per sempre. La recente riscoperta del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani di Giacomo Leopardi, di cui è ampia traccia anche in queste pagine, è tutt’altro che casuale. In quelle analisi lucide e spietate di due secoli fa sull’asfissia e sulla frammentazione della società italiana è dato ritrovare un’immagine congrua della regressione che pervade oggi la vita del paese.
L’Italia sulla quale ci siamo piegati è quella degli ultimi trent’anni, che non è il prodotto, come molti amano pensare, dello smarrimento artificiosamente creato da monopoli televisivi, ma il risultato di una profonda metamorfosi economica, culturale e politica che ha riportato in superficie antiche fragilità e debolezze della nostra storia nazionale. L’epicentro del mutamento sta tuttavia ben oltre i confini nazionali. L’Italia che ha saputo cogliere le grandi occasioni di crescita che si presentarono sulla scena internazionale tra XIX e XX secolo e ancor più quelle offertesi dopo la Seconda guerra mondiale paga sempre più duramente gli sconvolgimenti provocati dalla globalizzazione trascinata dai mercati finanziari.
I dati economici sono inequivocabili. L’andamento del PIL è affetto, quantomeno nell’ultimo decennio, da una stagnazione ininterrotta. L’innovazione tecnologica, la ricerca e l’istruzione, l’efficienza delle istituzioni, ossia gli indicatori fondamentali della produttività di un paese, sono in picchiata. L’ammontare del debito pubblico ci espone agli assalti sempre più frequenti della speculazione. Ma c’è forse qualcosa di più grave, relativo all’immagine che il paese riesce a dare a sé stesso e agli altri attraverso la qualità della sua classe intellettuale e politica. L’Italia di Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, di Pier Paolo Pasolini e Italo Calvino, di Luchino Visconti e Federico Fellini, ossia l’Italia che trovò nella catastrofe della Seconda guerra mondiale le ragioni di un suo grande riscatto creativo, è ormai consegnata a un tempo irrimediabilmente concluso. Rispetto a questo pur non lontano passato si è determinata una frattura profonda.
È altresì convinzione comune agli autori del volume che questa emergenza è seriamente aggravata dalla presenza di una classe politica che ha perso ogni consapevolezza del rapporto tra passato e presente e che vive immersa in una sorta di eterno ritorno dell’eguale, agìta passivamente dal succedersi meccanico delle congiunture. Questa scissione da ogni forma di sapere storico-critico è parte di una più generale separazione della politica, secondo un modulo presente, con variazioni nazionali, in tutta l’area dei paesi occidentali. Negli anni Novanta il sociologo francese Pierre Bourdieu è tornato più volte a sottolineare l’espropriazione della politica che il «campo politico» tende a esercitare in primo luogo ai danni delle forze intellettuali di una comunità nazionale. L’universo politico «si basa su una esclusione, su una espropriazione». Per questo «più il campo politico si costituisce, più si rende autonomo, più si professionalizza, più i professionisti tendono a guardare i profani con una sorta di commiserazione. L’idea di fondo è che solo i politici possono parlare di politica […]. A loro spetta parlare di politica. La politica appartiene a loro» [2]. Il dato già rilevato all’inizio del secolo scorso dai teorici del politico (Weber, Michels, Mosca) si estremizza nel contesto della comunicazione di massa. La spettacolarizzazione del conflitto politico nel mezzo televisivo approfondisce la separazione tra rappresentanti e rappresentati incrementando l’“effetto di chiusura” [3] del campo. Gli autori di questo volume intendono reagire a questa espropriazione e presumono suggerire quanto meno il sommario di una possibile ricognizione sullo stato effettivo del paese, mobilitando e accostando discipline diverse: dalla storia all’economia politica, al diritto, alla letteratura. La scommessa è che la diversità dei linguaggi non produca cacofonia. Le quattro parti in cui è articolato il volume, per cui rimandiamo all’Indice, intendono scandire un percorso di analisi dello stato del paese, al quale ci atterremo anche in queste considerazioni introduttive.
La crisi del debito esplosa nel corso dell’estate 2011, quando il volume era già definito, e in pieno svolgimento mentre scriviamo, costituisce un evento che non è possibile ignorare in queste osservazioni introduttive. Viene confermata l’importanza dell’impostazione analitica che accomuna i contributi raccolti nella Parte prima, dedicata al rapporto Italia/Europa. È il ragionamento economico mainstream, che legittima nella teoria il ruolo dei mercati, a trovarsi in crescenti difficoltà. Gli ultimi tre mesi hanno tuttavia messo definitivamente in luce anche qualcosa di nuovo che appartiene al mondo della storia, prima che a quello della teoria.
La crisi dell’unità nazionale, analizzata diffusamente nel volume come portato dello sviluppo interno, è stata riproposta come fenomeno indotto dall’esterno. L’incapacità dell’Europa di adottare adeguate misure di risposta alla crisi dell’euro sta esasperando le nostre debolezze strutturali. Contemporaneamente ha acquistato piena visibilità il ruolo decisivo che la Germania esercita su tutto il processo di unificazione europea con il suo peso economico, ma anche, in misura non minore, con le sue scelte politiche. Sono stati i mercati a dare il colpo di grazia alla finzione giuridica di una Europa come società di eguali, tutti con eguale diritto di voto e di veto. La crisi in corso sta ampiamente dimostrando che da ora in poi sarà impossibile parlare di Europa senza parlare contestualmente di Germania.
Il modo in cui la stampa tedesca registra e interviene nel dibattito politico sul futuro dell’euro ci è parso, per questo, un punto di riferimento obbligato anche per una riflessione non estemporanea sulla fase che sta attraversando il progetto europeo.
1
C’è un facile europeismo di maniera che impedisce spesso di vedere come una parte assai importante dei nostri problemi nasca dalla nostra appartenenza all’Europa di Maastricht. Morto da tempo il sogno federalista del Manifesto di Ventotene, è in piena salute l’Europa dei patti di stabilità, ossia un potere sovranazionale che proprio in virtù della sua natura “tecnica” esercita un crescente condizionamento sulle nostre opzioni possibili. Su questo strano condizionamento politico che nasce dall’assenza di politica vale la pena riflettere.
Bourdieu, scomparso nel 2003, non ha potuto registrare come “l’effetto di chiusura” vada di pari passo con una crescente impotenza del “campo”. Il fenomeno si è manifestato in modo parossistico la scorsa estate con l’esplosione simultanea della crisi americana ed europea del debito. «Der Feind im Haus», recitava nell’incalzare degli eventi il titolo di un editoriale del settimanale tedesco “Die Zeit”, sottolineando come il deficit di direzione politica venuto alla luce del sole in quelle settimane con l’impotenza del presidente americano, da un lato, e la passività della BCE dinanzi alle ondate speculative, dall’altro, dovesse essere considerato più pericoloso di qualsiasi andamento economico negativo. Il nemico in casa: con la fine della guerra fredda la politica perde nell’Occidente la sua forza coesiva per frantumarsi nella molteplicità degli interessi particolari [4].
La tesi, importante, necessita tuttavia di una integrazione. È stata proprio la politica che a partire dagli anni Ottanta ha cominciato a costruire tenacemente la propria “insostenibile leggerezza” con una legislazione che sulle due sponde dell’Atlantico toglieva ogni vincolo alla circolazione dei capitali, incoraggiava un’attività sempre più apertamente speculativa delle banche, con la formazione di una rete inestricabile di dipendenze reciproche tra i sistemi bancari dei diversi paesi, nonché la produzione di una massa crescente di strumenti finanziari derivati, sempre più complessi e sempre meno tracciabili.
La totale autonomia in cui si muovono i mercati finanziari, la cui attività ha raggiunto oggi, secondo alcune stime, un volume superiore di circa dieci volte al PIL mondiale, esclude in via di principio qualsiasi possibilità di governo. Ma di una nuova Bretton Woods i correnti assetti geopolitici non fanno intravedere possibilità alcuna. La realtà più prosaica è quella di un indebolimento progressivo del dollaro di cui non riesce ad avvantaggiarsi l’euro [5], che è un altro modo assai significativo in cui si esprime la crisi di direzione politica che investe l’insieme del mondo occidentale [6].
Dentro questo quadro generale peraltro noto, a noi interessa sottolineare che con la crisi del debito apertasi nel maggio del 2010 a partire dall’insolvenza della Grecia tutto il processo di costruzione europea dopo Maastricht è entrato in un vicolo cieco.
Il primo scopo dell’Unione monetaria europea era proteggere i paesi dell’area dell’euro dalle turbolenze speculative dei mercati valutari con l’obiettivo di costruire una moneta forte in grado di fronteggiare le crisi finanziarie. Il risultato è stato catastrofico. Se è vero che non siamo davanti a increspature della congiuntura ma alla «più grave crisi finanziaria dopo la Grande depressione e la sola, dopo la Seconda guerra mondiale, di portata globale» [7], allora la sopravvivenza stessa dell’euro è in discussione qualora non si realizzino innovazioni significative nelle strutture di governo dell’UE. Intervenendo nel pieno della crisi del debito Jean-Paul Fitoussi ha sostenuto che l’incapacità decisionale dell’Europa deve essere considerata la ragione vera degli attacchi speculativi all’euro: «I mercati non speculano attualmente sui fondamentali dell’Italia e degli altri paesi, ma sulla incapacità dell’Europa di elaborare una politica comune di crescita economica» [8].
La crisi ha suonato piena conferma di analisi da tempo esistenti. L’Europa si trova oggi in mezzo a un guado in cui sono a rischio i risultati di mezzo secolo di storia: dopo aver messo in crisi aspetti sostanziali delle antiche sovranità nazionali non si sono ricreate in sostituzione nuove forme di potere federale capaci di promuovere e regolare lo sviluppo del continente. La moneta unica senza Stato ha privato i singoli Stati nazionali di due forme essenziali di intervento pubblico: la determinazione del livello e della composizione della spesa pubblica e la scelta delle forme più idonee di imposizione fiscale [9]. A fronte di tutto ciò una BCE che in netto contrasto con il profilo politico della FED si limita a fare il cane da guardia dell’inflazione.
Come si è arrivati all’assurdità di togliere agli Stati nazionali qualsiasi possibilità di reazione ai mercati sulla base di una propria politica economica senza la compensazione di un potere federale? Bisogna rievocare il clima euforico in cui nasce Maastricht, contrassegnato dalla moltiplicazione esponenziale di un capitalismo finanziario che rimette in auge un credo liberale dato per morto e sepolto. Il crollo del sistema sovietico autorizza a parlare non solo di “fine della storia”, ma anche di fine del ciclo economico ipotizzando di fatto l’esistenza di un ininterrotto sviluppo lineare. È una sorta di nuova teodicea leibniziana in virtù della quale tutto ciò che esiste è il migliore dei mondi possibili [10]. In effetti, fino alla prima metà degli anni Duemila, nonostante il ricorso periodico di crisi in Asia e America Latina, il capitalismo finanziario svolge una funzione essenzialmente keynesiana fungendo da protagonista di primo piano della crescita della domanda. Nel corso degli anni Novanta il capitalismo finanziario si butta sulla new economy mettendosi al servizio di una grande rivoluzione tecnologica che dà ali all’economia americana. Successivamente è la volta dell’immobiliare. Che, con il senno del poi, si parli oggi di “bolla” non toglie nulla al fatto che i paesi della periferia del capitalismo europeo, rimasti tagliati fuori dai take off industriali della fine del XIX secolo, realizzano in virtù dell’investimento finanziario tassi annui di sviluppo che arrivano al 10%. E quanto peso non ha avuto la bolla sulla stessa crescita dell’economia americana?
La funzione keynesiana è tuttavia solo la faccia “buona” del capitalismo finanziario. La sua capacità di creare domanda è infatti tutta mediata dalla espansione del debito sia pubblico sia privato [11]. Per questo l’alternanza con la funzione deflattiva che prende corpo con la fuga dal rischio è prima o poi inevitabile. I mercati finanziari sono strutturalmente instabili, anche se gli attori economici sono sempre disposti a pensare che «questa volta è diverso»:
Il fattore chiave – più importante di qualsiasi altro che dà origine alla sindrome “questa volta è diverso” – è probabilmente il mancato riconoscimento della precarietà e della natura incostante della fiducia, specialmente nei casi in cui debbano essere continuamente rinnovati debiti a breve termine per importi considerevoli. Sembra che stati, banche o imprese molto indebitati possano andare avanti tranquillamente per un lungo periodo: poi, a un certo punto, improvvisamente, la fiducia crolla, i finanziatori spariscono e sopravviene la crisi [12].
Nel settembre del 2008 la crisi investe le banche, nel giugno-luglio del 2011 è la volta degli Stati e ci sono molte buone ragioni per credere che si stia avvicinando il turno delle imprese. Il meccanismo è sempre lo stesso. Il profitto finanziario, che precedentemente ha cooperato con il profitto industriale, improvvisamente se ne dissocia: dopo essere stato fattore moltiplicativo della domanda la finanza chiede misure punitive dell’economia reale, che a questo punto potrebbe essere difesa solo da una, purtroppo ormai inesistente, politica forte.
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