di WALTER PASSEERINI,dalla Stampa
Si sa quanto Mario Monti sia «sgombro da pregiudizi ideologici» e sia incline all’approfondimento come freno al decisionismo, ma il suo «orientamento a superare il simbolismo» del valore legale dei titoli di studio e della laurea nulla ha potuto, per ora.
L’avvio di un dibattito pubblico rischia però, se lasciato agli schieramenti politici, di finire nella tagliola della non-discussione ideologica e non può essere lasciato né nelle mani dei «dilettanti» né in quelle dei «professionisti», dei soli professori. Del resto persino Luigi Einaudi ci aveva provato, ma nemmeno lui era riuscito se non ad essere ricordato per quegli inutili tentativi. Tre sono le condizioni per un dibattito efficace. La prima è la presenza obbligata di un sistema di valutazione e di comparazione (benchmarking) sulle singole «fabbriche delle lauree». E questo è difficile in un Paese che sfugge alle classifiche e a un sistema trasparente di premi e punizioni, ostacolato da tutte le consorterie.
Senza una valutazione indipendente e degli standard sugli atenei e sui corsi di laurea non vi può essere valutazione e quindi merito. La seconda condizione è la dispersione universitaria avvenuta nella complicità e nel silenzio in questi ultimi dieci-quindici anni. Le università di provincia, di città e di sottoscala sono cresciute a dismisura, sulla spinta della proliferazione dei corsi di laurea, triennali e magistrali, che sono ancora oltre cinquemila. Senza un disboscamento selettivo e una dislocazione funzionale di didattica e ricerca (obbligatoria per chi si chiama università e non vuole essere una semplice scuoletta più o meno professionale), abolire il titolo legale è pura velleità.
La terza condizione è data dal mercato, nel bene e nel male. Nel bene, perché già oggi le imprese più attente non si fanno gabbare da roboanti titoli di laurea ottenuti, anche prima dei 28 anni, in modeste officine del sapere; nel male, perché nelle politiche di student branding si possono compiere veri misfatti, come quello di dare prestigio e attrattività a dei puri marchi, privi di sostanza e ricchi di immagine, o a pseudocriteri di produttività, basati sulla complicità tra corpo insegnante e corpo studentesco. Serve un dibattito alto sul ruolo e sul valore del sapere, in un Paese che sembra prediligere il successo dei furbi, anche se ignoranti, alla responsabilità dei competenti.
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