IL CONFRONTO
Da Mattei a Cuccia, l'élite che non si misurava in busta paga
La «regola aurea» di Adriano Olivetti: a nessuno più di 10 volte il salario minimo
Senza dubbio i piani del governo inglese o la legge che ha ora in cantiere la Commissione europea sui tetti alle maxi-retribuzioni dei manager resteranno ben lontani per propositi e risultati dalla regola morale di Adriano Olivetti: «Nessun dirigente, neanche il più alto, deve guadagnare più di dieci volte l'ammontare del salario minino». Ma si sa, accanto alla fabbrica dell'imprenditore-utopista c'erano la più grande biblioteca privata del Piemonte e una scuola materna che figurava nelle più importanti riviste di architettura del mondo.
Nel post crac Lehman, quando gli Stati di tutto il mondo si prodigavano per salvare le banche con i soldi dei contribuenti, è tornato di attualità anche il tema della disparità fra le retribuzioni dei manager e quelle degli impiegati o operai e si è cominciato a parlare di leggi, tetti, «moral suasion» delle authority per porre un freno a eccessi che hanno trovato terreno particolarmente fertile nel turbocapitalismo finanziario degli anni Novanta, ma che nascono prima: in Italia il rapporto fra i compensi degli alti dirigenti e dei dipendenti medi, pari nel 1980 a 45 a uno, già nel Duemila era «esploso» raggiungendo la quota di 500 a uno. E negli anni successivi le distanze sono aumentate in modo siderale.
Un trionfo dell'élite manageriale che non ha confronti con il passato. Quando almeno una parte della classe dirigente sembrava condividere, per necessità o virtù, se non proprio la regola aurea di Adriano Olivetti, un principio di moderazione che vedeva prevalere servizio e responsabilità. Certo, può far sorridere la frase di Antonio Maccanico sul rapporto fra il fondatore di Mediobanca Enrico Cuccia e il denaro: «Per lui era solo un mezzo». Detto di un banchiere può sembrare una battuta. Ma basta ricordare un episodio per capire il senso vero delle parole: la retribuzione di Cuccia era allineata a quelle che l'Iri decideva per le Bin, le banche d'interesse nazionale. Quando Lucio Rondelli di Unicredit va a Roma per «negoziare» un aumento e torna a Milano con un buon risultato, Francesco Cingano (allora Comit) e Cuccia si auto-tagliano l'incremento del 20%. Difficile ricostruire quanto percepisse Cuccia, perché allora non c'erano obblighi di comunicare le retribuzioni «apicali», ma nel 1999, un anno prima della sua morte, il banchiere aveva dichiarato al fisco 350 milioni di lire, metà dei quali in virtù della carica di presidente onorario di Mediobanca. Solo che lui, uno degli uomini più potenti d'Italia, che si recava in vacanza sulla A112 della figlia, quel compenso non ha mai voluto incassarlo. E il suo Delfino, Vincenzo Maranghi, nel 1998, primo anno in cui l'istituto ha reso noti i compensi osservando le nuove regole Consob, percepiva 81 milioni come consigliere e 1,4 miliardi (sempre di lire) come direttore generale. Per allineare Mediobanca alle «richieste» degli analisti internazionali, ha introdotto le stock option nel 2001, distribuendole peraltro a tutti i dipendenti, ma per sé non le ha mai volute perché, come Cuccia, non le condivideva. E il 7 aprile 2003, quando lascia Mediobanca per espressa richiesta di alcuni azionisti, dice: «Non voglio un euro in più di quanto mi spetta. La liquidazione e basta. Nemmeno l'indennità di licenziamento». Nessun paracadute o premio alla carriera: esce di scena con la liquidazione e 1,6 milioni per le ferie arretrate.
Non sono note nemmeno le retribuzioni del mitico Raffaele Mattioli per lungo tempo a capo della Comit. Però un indizio sulle loro dimensioni, tutt'altro che modeste ma probabilmente non paragonabili a quelle oggi da «frenare» per legge, lo si può ricavare da un calepino nel quale il banchiere umanista annotava i libri di antiquariato che «non poteva permettersi» di acquistare.
E che dire di Enrico Mattei? Come ha riferito lo storico dell'economia Giulio Sapelli, il numero uno dell'Eni che sfida le Sette Sorelle aveva disposto che il suo stipendio da supermanager venisse versato al monastero delle Clarisse di Matelica, cittadina nella quale la sua famiglia si era trasferita pochi anni dopo la sua nascita. La ragione? Conflitto d'interessi, visto la originaria comproprietà con il fratello di una piccola azienda chimica.
Sergio Bocconi, dal corriere del 25 Gennaio2012
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