0/12/2011
di MARCELLO SORGI, dalla stampa
Un punto si può considerare finalmente chiarito dopo la conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio: il governo Monti sarà pure «tecnico» per definizione, ma «politico», anzi eminentemente politico, è il lavoro che sta facendo. Questo non vuol dire che Monti o qualcuno dei suoi ministri nutra ambizioni particolari nel prossimo futuro, né che intenda candidarsi, al Quirinale (il premier) o ad altro. Ma l’ipocrisia che ha accompagnato fin qui le prime settimane di attività dei tecnici s’è finalmente dissolta ieri nel lungo ping-pong tra il senatore-professore e i giornalisti che lo interrogavano.
Monti è stato bene attento a evitare qualsiasi presunzione legata ai risultati di queste prime settimane di impegno e all’approvazione in tempi record del decreto «salva-Italia». Ma allo stesso modo, evitando giri di parole, ha spiegato chiaramente perché la distinzione tra «tecnica» e «politica», a proposito della natura dell’esecutivo, sia ormai da considerarsi fuori luogo, così come la contrapposizione tra partiti e governo che qualche volta ha scavato in Parlamento una specie di fossato tra il «noi» dei politici e il «voi» dei tecnici.
La ragione di questa operazione-verità, che il presidente del Consiglio non a caso ha voluto compiere davanti a giornali, tv e stampa straniera, è presto detta: Monti realisticamente si ritiene al centro di uno stato di necessità in cui una politica (attenzione: tutta la politica, non solo Berlusconi) giunta al capolinea, e non più in grado in alcun modo di prendere le decisioni necessarie per il bene del Paese, ha dovuto rassegnarsi all’emergenza dei tecnici. Ma d’altra parte è consapevole che il governo, per svolgere la sua opera di risanamento, deve trovare con i partiti e con la politica il massimo di intesa possibile.
Detta in altre parole, come l’avrebbe definita Andreotti, o un altro dei presidenti del Consiglio classici della Prima Repubblica, è una riscoperta della mediazione, strumento principe di una politica rivalutata e riproposta come arte del possibile, cancellata da anni di contrapposizioni frontali e bipolarismo muscolare. O, se si preferisce, è un rilancio della normalità della stessa politica, in cui il governo, soprattutto per quel che è nella sua responsabilità, propone, i partiti riflettono e fanno le loro controproposte, in Parlamento si discute e in tempi ragionevoli si arriva a una decisione.
Cosa tocchi fare all’Italia è ormai chiaro, e dove fosse arrivato il Paese prima di affrontare la «cura Monti» altrettanto. Come possa e debba essere praticata la terapia è ovviamente oggetto di dibattito: si tratta di salvare e non di ammazzare l’ammalato, che versa in condizioni gravi, i margini di intervento, tutti lo sanno, sono ridotti, e il tempo a disposizione è poco, anche se Monti ha dato appuntamento a fine 2012 per un’altra conferenza stampa, riconfermando implicitamente l’orizzonte del 2013, già delineato in Parlamento in occasione della fiducia.
Per questo, già pago della quantità di cose che deve realizzare, il governo si guarderà bene dall’intervenire in materie come la legge elettorale o le riforme istituzionali, solo per fare due esempi, che non rientrano nel suo programma e nell’elenco delle sue urgenze. Ma sbaglierebbero i partiti a non approfittare dell’occasione di questa tregua per affrontare questioni importanti come queste.
Alla fine, l’unica domanda che è rimasta in sospeso è se davvero, come molti politici continuano a pensare, questa del governo tecnico debba essere considerata una parentesi, e fino a che punto, in attesa del ritorno al passato, oppure no. Monti sicuramente aveva una risposta anche in questo caso, ma non ne ha parlato. Perché nessuno gliel’ha chiesto. E soprattutto perché certe verità sono difficili da dire.
di MARCELLO SORGI, dalla stampa
Un punto si può considerare finalmente chiarito dopo la conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio: il governo Monti sarà pure «tecnico» per definizione, ma «politico», anzi eminentemente politico, è il lavoro che sta facendo. Questo non vuol dire che Monti o qualcuno dei suoi ministri nutra ambizioni particolari nel prossimo futuro, né che intenda candidarsi, al Quirinale (il premier) o ad altro. Ma l’ipocrisia che ha accompagnato fin qui le prime settimane di attività dei tecnici s’è finalmente dissolta ieri nel lungo ping-pong tra il senatore-professore e i giornalisti che lo interrogavano.
Monti è stato bene attento a evitare qualsiasi presunzione legata ai risultati di queste prime settimane di impegno e all’approvazione in tempi record del decreto «salva-Italia». Ma allo stesso modo, evitando giri di parole, ha spiegato chiaramente perché la distinzione tra «tecnica» e «politica», a proposito della natura dell’esecutivo, sia ormai da considerarsi fuori luogo, così come la contrapposizione tra partiti e governo che qualche volta ha scavato in Parlamento una specie di fossato tra il «noi» dei politici e il «voi» dei tecnici.
La ragione di questa operazione-verità, che il presidente del Consiglio non a caso ha voluto compiere davanti a giornali, tv e stampa straniera, è presto detta: Monti realisticamente si ritiene al centro di uno stato di necessità in cui una politica (attenzione: tutta la politica, non solo Berlusconi) giunta al capolinea, e non più in grado in alcun modo di prendere le decisioni necessarie per il bene del Paese, ha dovuto rassegnarsi all’emergenza dei tecnici. Ma d’altra parte è consapevole che il governo, per svolgere la sua opera di risanamento, deve trovare con i partiti e con la politica il massimo di intesa possibile.
Detta in altre parole, come l’avrebbe definita Andreotti, o un altro dei presidenti del Consiglio classici della Prima Repubblica, è una riscoperta della mediazione, strumento principe di una politica rivalutata e riproposta come arte del possibile, cancellata da anni di contrapposizioni frontali e bipolarismo muscolare. O, se si preferisce, è un rilancio della normalità della stessa politica, in cui il governo, soprattutto per quel che è nella sua responsabilità, propone, i partiti riflettono e fanno le loro controproposte, in Parlamento si discute e in tempi ragionevoli si arriva a una decisione.
Cosa tocchi fare all’Italia è ormai chiaro, e dove fosse arrivato il Paese prima di affrontare la «cura Monti» altrettanto. Come possa e debba essere praticata la terapia è ovviamente oggetto di dibattito: si tratta di salvare e non di ammazzare l’ammalato, che versa in condizioni gravi, i margini di intervento, tutti lo sanno, sono ridotti, e il tempo a disposizione è poco, anche se Monti ha dato appuntamento a fine 2012 per un’altra conferenza stampa, riconfermando implicitamente l’orizzonte del 2013, già delineato in Parlamento in occasione della fiducia.
Per questo, già pago della quantità di cose che deve realizzare, il governo si guarderà bene dall’intervenire in materie come la legge elettorale o le riforme istituzionali, solo per fare due esempi, che non rientrano nel suo programma e nell’elenco delle sue urgenze. Ma sbaglierebbero i partiti a non approfittare dell’occasione di questa tregua per affrontare questioni importanti come queste.
Alla fine, l’unica domanda che è rimasta in sospeso è se davvero, come molti politici continuano a pensare, questa del governo tecnico debba essere considerata una parentesi, e fino a che punto, in attesa del ritorno al passato, oppure no. Monti sicuramente aveva una risposta anche in questo caso, ma non ne ha parlato. Perché nessuno gliel’ha chiesto. E soprattutto perché certe verità sono difficili da dire.
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