sabato 31 dicembre 2011

Finalmente un leader di livello europeo


Finalmente un leader
di livello europeo
di EUGENIO SCALFARI,da repubblica
Monti non è un tecnico e non è un economista. Mario Monti è un finissimo uomo politico e ne abbiamo avuto la prova, anzi la conferma, dalla conferenza stampa di giovedì scorso. È durata più di due ore. Ha fatto un discorso introduttivo di un quarto d'ora e poi, per più di un'ora e mezzo, ha risposto a 31 domande assai pepate dei giornalisti. Forse alla fine era un po' stanco ma non si vedeva, l'adrenalina lo sosteneva come fosse uscito in quel momento da un benefico riposo.

Durante la conferenza stampa, tra tanti argomenti toccati e approfonditi, ha fatto l'elogio della politica ricordando che è l'attività più nobile dello spirito umano perché si occupa del bene comune nostro e dei nostri figli e nipoti.
"Gli uomini politici possono essere all'altezza del compito oppure scadenti e corrotti, anteponendo il bene proprio alla prosperità degli altri. Il nostro sforzo  -  ha detto  -  è quello di favorire il miglioramento del personale politico operando con efficacia per recuperare il valore di quell'attività".

Era molto tempo che non assistevamo ad un incontro di quel livello.
Competenza, padronanza degli argomenti, ironia e autoironia, furbizia tattica e sapiente strategia.
Personaggi di quella taglia se ne vedono pochi in giro in Italia e anche in Europa. A me che ne ho conosciuto parecchi sono venuti in mente Vanoni e Andreatta, La Malfa e Visentini, Schmidt e Jean Monnet.

Esponeva i dati della situazione economica, le strettezze della finanza, le difficoltà di elaborare un programma di sviluppo senza abbandonare il rigore, tenendo insieme un'eterogenea maggioranza parlamentare e negoziando con le parti sociali sul patto generazionale senza il quale è impossibile realizzare la crescita e l'equità. Alla fine ha riassunto l'obiettivo che il suo governo si propone di realizzare indicando i tre valori che vi presiedono: libertà, giustizia, solidarietà. Sono i valori sui quali è nata l'Europa moderna e le bandiere tricolori della Grande Rivoluzione ne furono e ne sono il simbolo rappresentativo.
Quella conferenza stampa è stata il battesimo di un leader di prima grandezza e ne siamo usciti rassicurati e grati.

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Le critiche non sono mancate. Si voleva che desse conto dell'articolato dei provvedimenti destinati allo sviluppo che saranno pronti entro il 20 gennaio, seguiti da ulteriori interventi in febbraio e in aprile. Si volevano indicazioni sul livello ottimale dello "spread" che si trova ancora al suo picco. Le "lobbies" che ancora padroneggiano ampi settori del Pdl e della Lega sono decise a limitare l'entità delle liberalizzazioni. Di Pietro è arrivato a rimproverarlo di non avere la bacchetta magica come ci si aspettava.
Ma chi si aspettava i miracoli? C'è ancora gente così stolta e così intrisa di demagogia da pronunciare frasi così insensate? C'è ancora gente che rimpiange i tempi in cui imperavano le cricche berlusconiane? Gli italiani hanno scarsa memoria storica, ma non fino a questo punto. La politica seria non fa miracoli e non è un circo equestre dove si esibiscono acrobati, orsi che fanno l'inchino e maghi che mangiano il fuoco. La politica è senso di responsabilità, realismo, diagnosi dei malanni e attento dosaggio dei rimedi.
Al circo ci vanno i bambini e recitano i pagliacci che li fanno ridere con le loro smorfie e la faccia infarinata.

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Non vi aspettate che la crescita sia a costo zero, lasciate a Giulio Tremonti queste baggianate con le quali ci ha portato al punto in cui siamo. E non vi aspettate che le misure di sviluppo indicate da Monti siano sufficienti se non saranno accompagnate da un'adeguata politica economica europea.
Lo sviluppo presuppone investimenti, gli investimenti presuppongono un aumento della domanda, quell'aumento presuppone un maggior potere d'acquisto. Questa sequenza di cause e di effetti che interferiscono tra loro presuppongono fiducia, cambiamento delle aspettative, mobilitazione di risorse ed equità nella distribuzione dei sacrifici e dei benefici.
Il governo ha messo al primo posto della sua agenda la lotta all'evasione indicando gli strumenti dei quali dispone. Ha sottolineato la necessità di far crescere la produttività e con essa i salari. Per ottenere l'aumento dei salari netti bisogna ridurre il divario tra costo del lavoro e busta paga. Quindi bisogna fiscalizzare i contributi riducendo massicciamente le imposte sulle imprese, il cuneo fiscale o comunque lo si chiami.

Ma sull'aumento di produttività va aggiunto che il problema va molto al di là del costo del lavoro: ci vogliono forti innovazioni sia nei processi produttivi e sia - soprattutto - dei prodotti. Su questo secondo punto l'industria e i servizi del terziario di qualità lasciano molto a desiderare. Quando si discute della produttività sembra quasi che il tema non riguardi gli imprenditori ma i sindacati operai. Marchionne è l'esempio eloquente di quest'errore di prospettiva. Se l'imprenditoria italiana non specializzerà la sua ricerca sull'innovazione del prodotto, recuperare adeguati livelli di produttività resterà una chimera.
Non a caso su questo punto Monti ha messo l'accento. Il "piccolo è bello" ha fatto il suo tempo perché il "piccolo" non è in grado di fare ricerca. Il piccolo non è bello affatto e va energicamente incoraggiato a crescere anche se finora su questo punto si è fatto pochissimo.

Quanto alla mobilitazione delle risorse per accrescere il potere d'acquisto dei consumatori, il recupero dell'evasione è certamente fondamentale ma i risultati avranno bisogno di tempo. È esatto constatare che fino a quando quella lotta non avrà prodotto i suoi frutti continueranno a pagare "i soliti noti". Ma se bisognava salvarsi dal baratro con una manovra preparata in due settimane, chi avrebbe dovuto pagare se non i suddetti "noti"? Si poteva aspettare un anno o ancora di più? I movimenti di protesta, le opposizioni senza argomenti, non rispondono a questa domanda sui tempi, quando gli attuali "ignoti" saranno finalmente scovati, l'aumento delle entrate bisognerà destinarlo a ridurre le imposte sui soliti noti, questa è l'equità che il governo si propone e ci propone.

Nel frattempo però anche la crescita richiede una partenza rapida. L'obiettivo più a portata è il taglio delle esenzioni e delle regalie fatte a suo tempo a molte categorie di impresa che non danno alcun particolare contributo d'innovazione e di crescita. La cosiddetta "spending review" prevede una mappatura che solo questo governo ha cominciato ad avviare ma che chiederà anch'essa tempo, salvo alcuni casi macroscopici che gli esperti conoscono bene. Questi sprechi  -  perché di veri e propri sprechi si tratta  -  vanno colpiti subito, la cifra che si può recuperare prevede almeno 10 miliardi immediati. Non si tratta di tasse ma di spese da tagliare. Entro aprile quest'obiettivo può essere realizzato ma lo sgravio sul potere d'acquisto dei consumatori può essere disposto subito finanziandolo con quell'esenzione dal deficit degli effetti della congiuntura che Monti ha già chiesto a Bruxelles e che auspichiamo sia definitivamente riconosciuta negli incontri europei di fine gennaio.

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Molti si chiedono quali risultati abbia dato l'imponente erogazione di liquidità (500 miliardi) che la settimana scorsa Draghi ha effettuato. Monti non ha fatto alcun cenno in proposito perché la Bce ha finanziato il sistema bancario e non i debiti sovrani degli Stati europei, visto che il suo statuto non glielo consente. Ma è ovvio che il governo conosce i possibili e fondamentali effetti di quella manovra per il collocamento dei titoli di Stato per cifre imponenti da febbraio ad aprile e oltre.

Le banche finora non hanno utilizzato la liquidità proveniente dalla Bce. In piccola parte sono intervenute alle aste dei giorni scorsi soprattutto sui Bot a tre e sei mesi e, in misura ancor più limitata, sui quinquennali e decennali emessi giovedì scorso. In parte hanno ricomprato obbligazioni proprie sul mercato secondario, ma il grosso della liquidità è fermo nei depositi della Bce. In attesa di che cosa?
Due sono i motivi di questa prevista gradualità. Il primo riguarda le decisioni europee di fine gennaio, il secondo la letargia della clientela sia per quanto riguarda l'attivo sia il passivo delle banche. C'è stata nei mesi scorsi una diminuzione cospicua dei depositi e una altrettanto cospicua diminuzione della richiesta di nuovi prestiti, in parte come effetto della recessione e in parte a causa della perdurante sfiducia nella capacità dell'Europa di governare la crisi. Meno depositi, meno prestiti, preferenza per investimenti a breve, cautela su quelli a lungo termine.

Le previsioni della Bce sono moderatamente ottimistiche.
Prevedono che in febbraio le banche europee saranno presenti attivamente alle aste in Italia, Spagna, Francia, Germania. Faranno profitti con la differenza tra i tassi delle aste e quello dell'1 per cento che gli è costato l'approvvigionamento. Quei profitti andranno a rinforzare i loro capitali e la loro presenza alle aste avrà il risultato di far scendere i rendimenti sui titoli pubblici, sempre che questo circuito virtuoso si realizzi.

Per quanto riguarda lo "spread" se questi percorsi si metteranno in moto diminuirà anch'esso anche se i picchi attuali dipendono in parte dal minor rendimento dei "Bund" tedeschi, quotati attorno all'1.80 anziché, come pochi giorni fa, al di sopra del 2. La Germania dovrebbe accrescere i consumi interni e le spese pubbliche per equilibrare l'economia propria e quella europea, ma ancora non ci sono segnali in questa direzione.

Infine una parola sul tasso di cambio euro-dollaro. Molti commentatori vedono la svalutazione dell'euro, che recentemente oscilla attorno a 1.30 con tendenza a ulteriore ribasso, come una sciagura. Ma non è affatto una sciagura. Appena un anno e mezzo fa l'euro era a livello di 1.18 sul dollaro e questa quotazione favorì le esportazioni. In tempo di recessione, un leggero aumento dell'inflazione e una discesa del cambio estero non sono sciagure ma eventi positivi e come tali andrebbero valutati.

Post scriptum: Mario Monti ha escluso tassativamente sue candidature politiche alle future elezioni e ha escluso anche  -  e giustamente  -  una sua candidatura al Quirinale perché quella posizione non prevede e non sopporta candidature. Le domande su questi propositi politici di Monti ed eventualmente dei suoi attuali ministri erano inutili poiché le risposte erano prevedibili ed ovvie.
Resta il fatto che alle prossime elezioni tutto sarà diverso da prima; pensare che si ripetano le procedure d'un tempo e che si torni a confrontarsi sullo stesso campo da gioco è pura illusione. Questo governo è stato un'innovazione per il fatto stesso di esistere e di esser nato con queste modalità peraltro perfettamente costituzionali. Questa innovazione non è una rondine pellegrina ma un decisivo aggiornamento della democrazia parlamentare. Questo è un evento positivo con il quale la dolorosa e sofferta emergenza ci compensa.
(31 dicembre 2011)

Come ragiona la mente dei mercati


31/12/2011

Come ragiona la mente dei mercati

di LUCA RICOLFI,dalla stampa

Anche ieri, come ormai succede da diverse settimane, i mercati hanno mostrato di non aver fiducia nell’Italia. Per prestare denaro a lungo termine al nostro Stato pretendono 5 punti percentuali di interesse in più (il famigerato spread) che per prestarlo alla Germania, e quasi 2 punti in più che per prestarlo alla Spagna. Ancora pochi mesi fa il nostro spread con la Germania era inferiore a 2 punti, e i mercati preferivano prestare soldi all’Italia piuttosto che alla Spagna.

E’ comprensibile che il governo e i suoi sostenitori cerchino di convincerci che lo spread non è poi così importante, che la situazione non va drammatizzata, che se dopo l’insediamento di Monti e la nuova manovra le cose non sono migliorate (anzi sono peggiorate) la colpa non è dell’Italia ma delle autorità europee.

Pier Ferdinando Casini, ad esempio, ha dato la colpa alla Banca Centrale Europea, che ultimamente ha fortemente ridotto gli acquisti dei nostri titoli di Stato. Il presidente del Consiglio, per parte sua, ha chiamato in causa soprattutto il Consiglio Europeo dell’8-9 dicembre, colpevole di aver immesso troppo pochi quattrini nel fondo salva-Stati, e ha anch’egli menzionato la riduzione degli interventi della Bce a sostegno dei nostri titoli. Da più parti si continua a ripetere che la sfiducia dei mercati nell’Italia non ha riscontro nei fondamentali dell’economia, che sono molto migliori di quanto lo spread suggerirebbe.
So di avventurarmi su un terreno scivoloso, perché non ci sono abbastanza dati per valutare la plausibilità delle varie interpretazioni di quel che sta succedendo, ma vorrei egualmente porre alcune domande.

Domanda numero 1. Perché la sostituzione di Berlusconi con Monti, nonostante l’indubbia maggiore credibilità internazionale di quest’ultimo, si è accompagnata ad un aumento dello spread anziché a una sua diminuzione? Perché non si è realizzata la profezia delle opposizioni secondo cui la «discontinuità» politica rappresentata dalla rimozione di Berlusconi avrebbe ristabilito un po’ di fiducia sui mercati?
Certo si può dire che la credenza delle opposizioni era ingenua o strumentale, e che aveva perfettamente ragione Barack Obama quando diceva che i problemi dell’Italia non sarebbero certo svaniti d’incanto con la caduta di Berlusconi. E tuttavia un problema resta: perché le cose vanno peggio ora, visto che Monti è indubbiamente percepito da tutti i soggetti che contano (mercati e autorità europee) come più capace di Berlusconi di mantenere gli impegni presi?

Domanda numero 2. Se la ragione per cui il nostro spread non scende è davvero la riluttanza delle autorità europee a irrobustire il fondo salva-Stati, perché lo spread della Spagna oscilla senza una netta tendenza all’aumento o alla diminuzione, mentre il nostro mostra una chiara tendenza all’aumento? Perché fino a pochi mesi fa il nostro spread era migliore di quello spagnolo e ora è peggiore? Basta l’allentamento del sostegno della Bce a spiegare la svolta a nostro sfavore?

Domanda numero 3. Perché la situazione relativa di Italia e Spagna si è deteriorata drammaticamente nelle ultime quattro settimane, che hanno visto il nostro spread rispetto alla Spagna passare da 66 punti base a 174? Come mai questo deterioramento si è prodotto nel momento meno logico, ossia proprio quando, finalmente, un governo autorevole e nuovo di zecca varava una manovra di grande portata? Basta il comportamento delle banche spagnole, più manovrabili dal governo centrale, a spiegare la tenuta dei titoli di Stato iberici? O è il fatto di avere un’intera legislatura di fronte ad avvantaggiare il premier spagnolo, mentre il nostro presidente del Consiglio non sa se e quando i partiti che lo sostengono gli staccheranno la spina?

Non conosco la risposta a queste domande, ma un’ipotesi l’avrei. Più che un’ipotesi è un dubbio, o un tarlo. Detto nel modo più crudo, il tarlo è questo: non sarà che, ci piaccia o no, nei momenti di crisi la mente dei mercati funziona molto diversamente da come se la immaginano politici ed autorità europee?

Per essere più precisi. Non sarà che i mercati danno poca importanza all’entità degli aggiustamenti di bilancio (i saldi della manovra) e molta importanza alla sua composizione? Non sarà che, nella seconda metà di novembre, in Spagna e in Italia sono avvenuti due cambiamenti che i mercati giudicano in modo opposto?

In Spagna c’è stato un cambio di governo, da sinistra a destra, che promette di aggiustare il bilancio prevalentemente dal lato della spesa, alleggerendo vincoli e pressione fiscale sulle imprese. In Italia c’è stato un cambio di governo da destra a «non-destra» che, nonostante il contesto in cui operano le nostre imprese sia molto più sfavorevole di quello spagnolo, ha già dimostrato di puntare il grosso delle sue carte sull’aumento delle tasse (come succedeva con il precedente governo). E’ vero che la manovra Monti prevede sgravi fiscali sulle imprese per 2,5 miliardi, ma tali sgravi sono annullati dalle molte misure che aumentano i costi di produzione di lavoratori autonomi e imprese, come la maggiorazione delle aliquote contributive, le nuove imposte sugli immobili, gli aumenti del costo dell’energia.

Forse, se i mercati hanno punito l’Italia non è nonostante la manovra di Monti, ma - in un certo senso - a causa di essa. La credibilità di Monti, la sua serietà, il suo coraggio, non sono bastati per la semplice ragione che i mercati hanno colto l’impianto recessivo della manovra, nonché il carattere tuttora evanescente della cosiddetta «fase 2», quella che dovrebbe rilanciare la crescita. Spiace doverlo constatare, ma in fatto di crescita i mercati paiono credere poco agli annunci dei governi, e abbastanza alle previsioni dei grandi organismi internazionali, tipo Ocse o Fondo Monetario Internazionale.

E tali previsioni parlano chiaro: per la Spagna la crescita attesa del Pil nel 2011 è stabile a +0,8 e quella del 2012 resta positiva (+0,5). Per l’Italia la previsione 2011 è già stata ridotta di mezzo punto (da +1,1 a +0,6), mentre per il 2012 si prevede una contrazione del Pil, pari a -0,5 secondo l’Ocse e addirittura a -1,6 secondo il Centro Studi Confindustria.
Che sia per questo, perché hanno capito che in Italia - chiunque governi - la crescita è solo uno slogan, che i mercati continuano a non fidarsi di noi?

venerdì 30 dicembre 2011

Così si può vincere la lotta all’evasione


Così si può vincere la lotta all’evasione

‘Inefficienza programmata’ e ‘impunità garantita’: questi i due pilastri sui quali si fonda il nostro sistema tributario. E infatti ogni anno mancano all’appello fra i 120 e i 160 miliardi di imposte. Ma basterebbero poche e incisive riforme – detrazione totale delle spese, pubblicità dei redditi, obbligo di dichiarazione di qualsiasi conto bancario, inasprimento delle pene – e per gli evasori la pacchia finirebbe.

di Bruno Tinti, da MicroMega 7/2011

C’è gente che, quando si accorge di un problema, si mette alla scrivania, studia ed elabora soluzioni; poi le prova e, se non vanno bene, ne elabora altre fino a quando il problema è risolto. Poi ce n’è altra che, quando c’è un problema, continua come niente fosse e spera che si risolva da solo; oppure, ed è il caso della classe politica italiana, si guarda bene dal risolverlo perché la soluzione comporta misure non gradite ai cittadini con conseguente perdita di consenso. Lo stile di questo tipo di uomo politico è quello del noto principio del fiammifero acceso: lo si passa a un altro il più in fretta possibile per evitare di bruciarsi le dita. Naturalmente alla fine qualcuno si trova in mano il fiammifero pressoché consumato; e qualcosa deve fare per forza.

Ecco, in Italia siamo a questo punto. Dopo anni di aumento del debito pubblico, di corruzione dilagante e conseguente spreco di danaro, di politica fiscale pensata per favorire gli evasori e guadagnarne il consenso elettorale, i soldi sono finiti: siamo pieni di debiti e nessuno ci vuole fare ancora credito. E la classe dirigente del paese si deve sbattere per non dichiarare bancarotta. Ma non fino al punto di bruciarsi le dita; questo no, sia mai che perdiamo le elezioni! Così le misure proposte sono un misto di fantasia e ipocrisia: un po’ di buone idee circondate da recinti; e poi faccia feroce nei confronti di chi danno elettorale non lo può fare: lavoratori dipendenti e pensionati.

Ma, a questo come ci siamo arrivati? E siamo ancora in tempo a fare qualcosa?
Come ci siamo arrivati è presto detto: abbiamo costruito un sistema tributario inefficiente e fondato su princìpi iniqui.
E dire che la regola ispiratrice ce l’avevamo: l’articolo 53 della Costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». Che è assolutamente chiaro ma, per dirla proprio senza equivoci, significa che chi più ha più deve dare. Fin dall’inizio si è pensato che il modo per realizzare questo principio fosse quello delle aliquote di imposta: più si guadagna più cresce la percentuale del proprio reddito che si deve consegnare al fisco. In questo modo la misura proporzionale del prelievo fiscale non è uguale per tutti: se su un reddito modesto (15 mila euro all’anno) si paga il 23 per cento (3.450 euro), su uno elevato (150 mila euro all’anno) si paga 16 volte tanto, il 38 per cento (57.670 euro). Non che sia un sistema sbagliato, solo che può funzionare solo in un mondo ideale; il che significa dove non ci siano persone disoneste. Perché è ovvio che, se uno dichiara meno di quello che guadagna, paga meno imposte sfruttando, in senso inverso, il criterio della progressività: meno dichiara, minore è l’aliquota di imposta.
Il problema dunque non è solo immaginare come assicurare l’equa determinazione della «capacità contributiva», per dirla con la Costituzione; è come non farsi prendere in giro. E qui siamo drammaticamente carenti.

Il sistema tributario italiano si fonda su centinaia di leggi emanate nell’arco di oltre 50 anni. I volumi che le raccolgono sono costituiti da circa mille pagine. Nessuno, che non sia un professionista, è in grado di gestire questo farraginoso e complicatissimo sistema. Inoltre la sua stessa complessità permette scappatoie ed elusioni. Un sistema di questo tipo è in grado di funzionare con accettabile rapidità ed efficienza solo nelle situazioni più elementari: reddito da lavoro dipendente e pensioni. Quando si tratta di redditi da lavoro autonomo, da capitale, da impresa, le possibilità di contestazione e di successivo contenzioso aumentano in proporzione alla rilevanza del reddito. Il tempo necessario per arrivare al momento in cui il contribuente è stretto all’angolo e costretto a pagare il dovuto si misura in anni, anche 10, anche 15. Ma raramente l’amministrazione finanziaria riesce a concludere il contenzioso a suo favore: nella maggioranza dei casi il contribuente riesce a pagare meno, assai meno o anche nulla. Questa situazione cagiona un circolo vizioso. La pochezza del gettito induce l’amministrazione a richieste esagerate. I contribuenti hanno buon gioco nell’opporsi e, naturalmente, trovano una sorta di giustificazione morale all’evasione. Il contenzioso aumenta. I recuperi di imposta sono sempre più aleatori e più lontani nel tempo.

Ma tutto ciò non è ancora nulla. Perché, in realtà, l’amministrazione finanziaria semplicemente non è in grado di controllare l’attendibilità delle dichiarazioni dei redditi. Ne consegue che il contenzioso, inefficiente e improduttivo che sia, nemmeno inizia perché gli accertamenti sono pochissimi. La media nazionale delle dichiarazioni oggetto di controllo è pari al 10 per cento. Per valutare in maniera adeguata questo dato, il sistema migliore è quello di riflettere sul suo contrario: il 90 per cento delle dichiarazioni dei redditi non sono controllate. Il contribuente può dichiarare quello che vuole confidando in una praticamente certa impunità. Insomma, è come giocare al Lotto o al Totocalcio con il 90 per cento di probabilità di vincere: una vera pacchia.

E poi ci sono 5 anni di tempo per controllare le dichiarazioni. Se il fisco non controlla, entro il 2015, quelle presentate nel 2010, i giochi sono chiusi, chi ha avuto ha avuto eccetera. Il fisco interpreta questo termine nel senso: «Ah, bene ci sono ancora 5 anni»; poi gli anni passano e ce ne sono «ancora» 4, 3, 2. Risultato: attualmente quella piccola quantità di accertamenti che si fanno inizia comunque nel quarto anno dopo la presentazione della dichiarazione. Con un altro risultato: se anche si scopre un evasore, le annualità precedenti sono salve; il tesoretto messo da parte con l’evasione non glielo tocca più nessuno.

Naturalmente, a godere di questa situazione di favore sono quelli che hanno la concreta possibilità di dichiarare il falso; vale a dire tutti, eccezion fatta per i lavoratori dipendenti e per i pensionati la cui dichiarazione, quando c’è, è vincolata dalle trattenute alla fonte che vengono effettuate dal datore di lavoro in busta paga. Insomma, l’inefficienza del sistema si scarica su queste due categorie di cittadini; tutti gli «altri» evadono alla grande.
Siccome gli «altri» si scocciano moltissimo di questa patente di evasori e negano che tutto ciò sia vero (le associazioni di categoria sono attivissime nel garantire l’assoluta onestà tributaria dei loro aderenti e, giacché ci sono, l’iniquità della pressione fiscale che grava su di loro), l’unica cosa da fare è metterli di fronte all’evidenza; che, in realtà e secondo quanto finora sperimentato, nemmeno è sufficiente poiché, a questo punto, scatta l’ultima difesa: «E va bene, sarà anche vero che i miei colleghi evadono; ma io no, io pago fino all’ultima lira». E, siccome questa palla la raccontano tutti, la sua falsità non merita ulteriori commenti. Ma torniamo ai dati.

Prima di tutto, si tratta di dati provenienti dal ministero delle Finanze; non sono stati elaborati da associazioni di consumatori, sindacati o altri enti interessati ad addossare agli «altri» la responsabilità della massiccia evasione tributaria che affama il nostro paese. Dati ufficiali e indiscutibili.
Sono anche dati semplici, di immediata comprensione; cifre: nessuna elucubrazione, opinione, teoria, teorema eccetera; dati prelevati, semplicemente, dalle dichiarazioni dei redditi. Sono dati aggiornati, gli ultimi disponibili. Sono stati ricavati dalle dichiarazioni presentate nel 2010; quelle del 2011 ancora non ci sono. E si riferiscono quindi ai redditi del 2009. Drammaticamente attuali.

Numero dei contribuenti italiani (anno 2009)
Lavoratori dipendenti 20.870.919
Pensionati 15.292.361
Totale (pari all’88%) 36.163.280
Altri (pari al 12%) 5.359.777
TOTALE 41.523.057

Chi c’è nella categoria pudicamente denominata «altri»? Non è difficile: se non sono lavoratori dipendenti; e se non sono pensionati; non possono che essere lavoratori autonomi, imprenditori, professionisti, artigiani, commercianti. Insomma il cosiddetto «popolo dell’iva».
Così adesso sappiamo chi sono quelli che pagano le imposte: per l’88 per cento gente a cui gliele prendono alla fonte; nessuna possibilità di mentire, di dichiarare meno, di evadere. E, per il 12 per cento, gente che dichiara il reddito che vuole; tanto, si sa, gli «altri» lo sanno, nel 90 per cento dei casi non li controllerà nessuno. E comunque quanto evaso negli anni precedenti ormai è salvo.
Ma quanto pagano lo sfortunato 88 per cento e il restante 12 per cento (gli «altri»)? Anche questo si sa con precisione.

Gettito fiscale (anno 2010) (in mln di euro)
Lavoratori dipendenti 89.500
Pensionati 47.700
Totale (pari al 93%) 137.200
Altri (pari al 7%) 9.200
TOTALE 146.400

Così adesso sappiamo che strade, scuole, ospedali e insomma tutto quello che lo Stato fornisce quotidianamente ai cittadini è pagato, per il 93 per cento, da lavoratori dipendenti (pubblici e privati) e pensionati. E che gli «altri» ne usufruiscono a sbafo.
Fino a qui, matematica. Adesso un dato stimato; però sempre proveniente dal ministero delle Finanze. L’evasione fiscale sarebbe pari a 120-160 miliardi di euro all’anno. Io non lo so come fanno a calcolare questo dato; però non ho motivi per contestarlo. Dunque prendiamolo per buono. E valutiamolo alla luce di altri dati certi, sempre forniti dal ministero delle Finanze.

Redditi medi annui dichiarati da alcune categorie al lordo delle imposte (anno 2008; in euro)
Avvocati 49.100
Dentisti 45.100
Ingegneri 37.400
Architetti 26.300
Consulenti fiscali 24.000
Albergatori 21.000
Psicologi 17.100
Ristoratori e bar 16.400
Gioiellieri e orologiai 15.800
Meccanici 15.400
Tassisti 13.600
Parrucchieri e barbieri 10.400

Cifre ridicole, che si commentano da sole. E che spiegano perché ogni anno lo Stato non incassa da 120 a 160 miliardi di imposte. Se 5 milioni di «altri» fanno, ciascuno (in media), un «nero» di 40 mila euro (che è una stima molto ottimistica), abbiamo un’evasione di 100 miliardi. Perché lo Stato non è mai andato a prenderseli?
Non è difficile da capire: perché 5-6 milioni di persone non voterebbero mai per una maggioranza che, dopo 50 anni di pacchia, gli dice che la festa è finita. E 5-6 milioni di voti significano governo od opposizione. Così si spiegano non solo i «buchi» del sistema che abbiamo già visto ma anche quelli che, spinti dalla «crisi», i nostri attuali padroni avevano pensato di chiudere e che poi non hanno chiuso. Come si dice, valga il vero.

Manovra 2011, versioni preparatorie: «Recupereremo un sacco di soldi dalla lotta all’evasione. Quindi nuove armi, non ci scapperà nessuno. Per prima cosa: obbligo di indicare in dichiarazione qualsiasi rapporto bancario di cui si abbia la disponibilità». Questa era davvero l’atomica, l’arma di distruzione di massa degli evasori. Perché «qualsiasi» rapporto bancario significava non solo i conti italiani (quelli, con un po’ di spirito di iniziativa, il fisco se li poteva trovare da solo); ma anche conti, cassette di sicurezza, depositi valute e titoli, ovunque detenuti, anche alle Cayman o nel Liechtenstein. E «disponibilità» significava che dovevano essere dichiarati anche i rapporti intestati alla vecchia zia, alla segretaria, all’amante, insomma ai soliti prestanome dell’evasore. Nessuno avrebbe potuto evadere una lira; oppure avrebbe dovuto mentire, non dichiarare. Ma, a questo punto, una buona quantità di prigione a pane e acqua avrebbe scoraggiato chiunque; anche perché non sarebbe stato un processo difficile, lungo, dall’esito incerto. «Ho scoperto che hai un conto alle Mauritius; non lo hai dichiarato, ci rivediamo tra 10 anni»; cosa di più semplice? E chi ci avrebbe provato? Nessuno. Appunto, troppo efficace. Nella manovra finanziaria definitiva non se ne è parlato più.

Altra iniziativa tanto intelligente quanto banale: la pubblicità dei redditi. Attenzione: dei redditi, non delle dichiarazioni dei redditi. Niente violazione della privacy. Nessuno avrebbe saputo che detraevo ingenti somme per cure mediche dovute al fatto che mi ero beccato l’Aids; e nemmeno che pagavo cospicui alimenti alla moglie da cui ero separato sicché tutti avrebbero saputo che la signora con cui andavo a fare la spesa era «illegittima». Redditi: cifra complessiva di quanto si guadagna in un anno. Naturalmente gli evasori organizzati e no si sono subito strappati i capelli: «Si vuole incitare alla delazione, vergogna». Sì, vergogna, davvero. Perché va bene «denunciare» un ladro di macchine, un immigrato clandestino, uno che vende cd taroccati; ma «denunciare» un evasore, uno che ruba alla collettività migliaia, decine di migliaia di euro, quello no, non sta bene; quella è «delazione». Un mondo di spie, dominato dalla Stasi, anche questo mi è toccato sentire. Sarebbe stato meglio chiedersi: «Serve? Porrà un freno all’evasione?». Ma nessuno ha posto il problema. Ovviamente. Perché uno che dichiara 15 mila euro all’anno al lordo delle imposte e gira in Ferrari, abita in una villa di lusso e passa le vacanze su uno yacht da 2 milioni di euro è sicuro che lo beccano; qualcuno un po’ incazzato (c’è una dotta disputa tra i filosofi: il sentimento prevalente negli umani è l’amore o l’invidia?) presto o tardi lo trova; e la denuncia (non la delazione), adeguatamente motivata, parte. E il fisco, invece che affidasi agli studi di settore, avrebbe potuto fare accertamenti mirati. Avrebbe potuto, appunto. Perché nella versione definitiva della manovra anche di questo non c’è più traccia.

Finiamola con il «sistema tributario». Fumo negli occhi, inefficienza programmata, impunità garantita.
Che sono le caratteristiche dell’altro pilastro di un efficiente ed equo prelievo fiscale: il sistema penale-tributario. La prigione per chi evade le imposte e vive a sbafo: manda il figlio all’asilo comunale rubando il posto ad altre famiglie, gode di cure mediche che non ha pagato, di scuole cui non ha contribuito, di strade, di polizia, di trasporti, di tante altre cose che non gli toccano perché non ha versato una quota proporzionale del suo reddito per mantenerle. Anche questo secondo sistema è finto: semplice apparenza, grida manzoniane, non succede nulla di concreto.

Per cominciare, tutti i reati tributari si prescrivono in 7 anni e mezzo, che decorrono dalla data della presentazione delle dichiarazioni Irpef (o Irpeg) e Iva. Ma, come si è detto, il Fisco le esamina (quelle che esamina) al quarto anno; e, se ci sono reati, manda la sua segnalazione alla procura della Repubblica. E, a questo punto, c’è la bellezza di 3 anni e mezzo per fare le indagini, processo in tribunale, processo in appello e Cassazione. Tutto si prescrive già in tribunale; quando va bene in appello. Quindi l’evasore in prigione non ci finisce mai: come il suo illustre maestro, Berlusconi, colpevole ma prescritto.
Poi ci sono le soglie di punibilità. È un meccanismo per il quale, se l’evasione non supera un certo livello, non è reato; niente prigione. Fino all’ultima finanziaria queste soglie erano pari a 77 mila euro per la frode fiscale (il caso più grave) e 103 mila euro per la dichiarazione infedele (il caso meno grave). 77 mila e 103 mila euro di imposta: vuol dire che i redditi non dichiarati erano più del doppio. La nostra legge penale tributaria prevedeva dunque che chi non dichiarava da 150 mila a 240 mila euro di reddito non era perseguibile; non era un delinquente, se la vedesse con il fisco ma niente prigione. Capito perché lavoratori dipendenti e pensionati erano un po’ incazzati e, se avessero conosciuto i redditi di queste brave persone, le avrebbero denunciate subito? Scoccia un po’ sapere che c’è qualcuno che non dichiara un reddito superiore di 5 o 6 volte a quello che guadagni tu e nemmeno va in galera. Adesso con la manovra 2011, le soglie sono state abbassate: 33 mila euro (di imposta, reddito non dichiarato 75 mila euro) per la frode fiscale e 50 mila euro (sempre di imposta, reddito non dichiarato 120 mila euro) per la dichiarazione infedele. Della serie: maneggiare con cura, fragile, non esageriamo, anche gli evasori sono figli di Dio.

E, alla fine (veramente no, ma questo è un articolo, non un libro) c’è la chicca: una dichiarazione dei redditi falsa non è semplicemente una dichiarazione dei redditi falsa; no, c’è quella grave (frode fiscale) e quella meno grave (dichiarazione infedele); per la prima si può arrestare e intercettare, per la seconda no; la prima è punita fino a 6 anni con un minimo di 1 anno e 6 mesi, la seconda da 1 a 3 anni; per la frode si può anche andare in prigione davvero, per la dichiarazione infedele c’è sempre la sospensione condizionale o almeno l’affidamento in prova al servizio sociale. E allora, in cosa si differenziano queste due dichiarazioni false? In niente: la frode c’è quando si usano fatture false (dichiaro costi che non ho mai avuto; ho guadagnato 1.000 ma ho speso 500 – falso; reddito 500); la dichiarazione infedele c’è quando uso una contabilità falsa (ho guadagnato 1.000 ma annoto solo 500, niente scontrini, fatture, ricevute; reddito 500). Non cambia niente; uno si inventa costi finti; l’altro nasconde incassi: risultato finale identico. Allora perché? Semplice: perché il secondo reato, la dichiarazione infedele, è quello tipico degli «altri», del popolo dell’iva. Che non fattura, non emette scontrini, non fa parcelle; che fa, in una parola, il «nero». E vorremo mica mandare in prigione gli «altri»? E poi questi non ci votano più. E sono tra i 5 e i 6 milioni. Ma che, scherziamo? Sì, va bene, il reato c’è (se si superano le soglie di punibilità); ma di prigione non se ne parla.

Così l’evasore dorme tra due guanciali: il sistema tributario non lo preoccupa; e quello penale-tributario nemmeno. Se proprio gli va male (ma ci sono sempre i condoni, gli scudi, gli indulti; uno ogni tre anni fino ad ora) paga quello che avrebbe dovuto pagare per un anno, maggiorato di sanzioni tributarie e parcelle (salate) per commercialisti e avvocati. Ma il suo tesoretto «guadagnato» negli anni passati è a posto; e poi lui è pronto a ricominciare.

Se ne esce? No, ma forse sì; se questa classe politica sparisce dalla faccia della terra; e se i cittadini italiani recuperano il senso dello Stato. E, se sì, come? Con progetti nuovi, riforme radicali, non va salvato niente. Un futuro che deve avere le sue basi nel passato: nella Costituzione, nell’articolo 53. «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». Sembra semplice, vero? Ma è violato ogni anno da sessant’anni.

Che cosa si intende per «capacità contributiva»? Quello che si guadagna? Il reddito? Guadagno 5 mila euro al mese e devo pagarci le imposte; con qualche deduzione, qualche detrazione, ma, alla fine, pago le imposte su quello che guadagno. E il mio collega, quello che guadagna come me, paga la stessa imposta; con qualche detrazione o qualche deduzione in più o in meno; ma, sostanzialmente la stessa. Ed è qui che sta la violazione costituzionale, l’ingiustizia inaccettabile; e anche la causa prima dell’evasione fiscale. Perché il mio collega vive da solo, deve comprare cibo e medicinali, pagare il riscaldamento e altre esigenze primarie per lui solo. Ma io sono sposato, ho due figli e un’anziana mamma a carico; e debbo comprare le stesse cose per 5 persone. E, alla fine del mese, il mio collega ha messo forse dei soldi da parte o si è comprato una macchina nuova; e io probabilmente ho fatto debiti e, comunque, non ho più un euro. Ma, più o meno, paghiamo la stessa imposta. E questo è ingiusto. Perché il reddito non è la stessa cosa della capacità contributiva. Il dovere di contribuire comincia quando il cittadino ha adempiuto al dovere di vivere, lui e i suoi familiari; quando ha mandato a scuola i figli, quando ha curato i suoi genitori, quando ha mangiato e si è riscaldato. In altre parole, pagherà le imposte su quello che gli resta dopo aver provveduto ai bisogni primari. Eccola la capacità contributiva. Niente a che fare con il reddito, come si vede.

Naturalmente c’è il problema di non farsi prendere in giro: cosa di più facile che raccontare al fisco, che tanto non controlla, di aver speso 1.000 euro per la casa, altre 1.000 per il cibo e chissà quanto per medicine e scuole eccetera? Come si fa ad essere sicuri che i cittadini non mentano? Non è difficile, basta metterli uno contro l’altro, creare un conflitto di interessi, rendere ognuno il controllore dell’altro. Proviamo con un esempio. Debbo rifare il bagno, chiamo l’idraulico. Alla fine: «3.000 euro; ma se paga in contanti 2.400». Tutti pagano in contanti; perché non dovrebbero? L’iva non la scaricano e la spesa non la detraggono. Risparmiano 600 euro e lo Stato vada in malora. L’idraulico, poi, nemmeno dichiarerà quello che ha ricevuto e non ci pagherà le imposte. Una pacchia per tutti. Ma, se potessi detrarre dal mio reddito i 3 mila euro, le cose sarebbero diverse. «Mi dispiace ma per me significa detrazione di imposta, risparmierò esattamente quello che lei vuole guadagnare. In realtà il suo guadagno lei lo farebbe a mie spese. Non se ne parla, voglio la fattura». Ecco come si fa. Si chiama «detrazione totale». Quello che spendo lo detraggo, non ci pagherò le imposte. Certo, lo devo documentare. E quindi mi farò rilasciare dagli altri, quelli che mi vendono beni o servizi, regolare documento, parcella, ricevuta, fattura, scontrino che sia. E loro non potranno fare «nero» e pagheranno su tutto quello che incassano; anche loro, naturalmente, dopo aver detratto le spese per i bisogni primari.

Questo il principio; poi bisogna attuarlo bene. Identificare i beni e servizi primari: certo non posso pretendere di detrarre la spesa sostenuta per l’acquisto di una Porsche. Garantirsi contro la documentazione falsa: non è azzardato supporre che contribuenti abituati a decenni di evasione si dedicheranno con entusiasmo a costruire fatture e scontrini fasulli; e qui si dovrà ricorrere a una buona organizzazione informatica. Prevedere una repressione penale severissima per chi abusa del sistema. Ma si può fare. Anzi è già stato fatto. In molti paesi si fa così: negli Stati Uniti, in Nuova Zelanda, in Australia, in Cile. E funziona.

Certo, ci va ancora una cosa; e qui siamo in difficoltà. Ci va la riprovazione sociale per l’evasore fiscale. Negli Stati Uniti la ragione per la quale si mette in prigione chi evade le imposte è: «Hanno mentito al popolo americano». E, a parte la galera, negli Usa l’evasore perde lo status sociale: lo cacciano dal Country Club; la moglie non è più invitata alle gare di torta alla frutta; e gli amici non vanno più nel suo giardino il sabato per il barbecue. Nel nostro paese ci si preoccupa per la «delazione» dell’evasione fiscale; e si continua a votare per un presidente del Consiglio che ha dichiarato: «Certo che avevo 64 società offshore; mi servivano per non pagare le tasse». La vedo dura.

(30 dicembre 2011)

Le carte restano coperte


di Stefano Folli, dal sole 24 ore

Monti dimostra di aver appreso l'arte di occupare il centro della scena senza snaturare se stesso. Si può dire che il presidente del Consiglio è molto attento a curare questa immagine di persona severa e competente, misurata nelle parole, persino «banale» (parole sue). Non è un caso, naturalmente: Monti lavora dal primo giorno del mandato a consolidare il cerchio della fiducia e ad apparire in ogni circostanza un uomo affidabile. Ben sapendo che la fiducia è il tassello fondamentale della credibilità, il maggior patrimonio di cui il premier dispone. In Italia e in Europa.

I critici dicono che la conferenza stampa è stata una mezza delusione perché non ne sono uscite misure concrete o particolari novità. Si è avuta conferma di obiettivi in parte già conosciuti: il programma delle liberalizzazioni, lo stimolo alla concorrenza, la flessibilità del mercato del lavoro (senza innescare, beninteso, «tensioni sociali»). Tuttavia è chiaro che proprio questa è la cifra di Monti: il governo non perde tempo, anzi tende a correre più della media dei governi «politici», ma nemmeno si crogiola in annunci mediatici destinati a drogare i mercati per un giorno o due e poi magari a produrre delusioni e cadute repentine.
Questo aspetto spiega forse perchè il presidente del Consiglio si è tenuto alla larga dalle ipotesi di interventi straordinari sul debito pubblico. Ha fatto capire che non è il momento di parlarne; il che non esclude, è ovvio, che stia studiando la questione. Ma evidentemente ne parlerà a tempo debito, se e quando sarà indispensabile. Nel complesso Monti procede con cautela, incurante di chi lo ritiene poco coraggioso e attento piuttosto a non mettere un piede in fallo. Ieri è sembrato rivolgersi soprattutto a tre interlocutori.
In primo luogo, all'opinione pubblica. Gli italiani, benchè schiacciati sotto il peso delle tasse, continuano a guardare al professore milanese con rispetto e soggezione. Sottinteso: meglio essere governati da lui, magari con durezza, che da forze politiche screditate. Qualcosa di simile accadde nel 1981-82 con Spadolini a Palazzo Chigi. Monti gode di una finestra di opportunità che non si chiuderà tanto presto, perché nessuno - a parte i malumori - è oggi in grado di rovesciarlo. Le alternative non ci sono e la pubblica opinione resta la migliore alleata del premier «tecnico». Purché la carta della credibilità non sia intaccata.
Il secondo interlocutore è l'Europa. O meglio, la Germania. Monti si è definito «il più tedesco degli economisti» e ha molto giocato con questa definizione. Essere affidabile agli occhi della Merkel, cancellandone i pregiudizi anti-italiani, rappresenta in effetti un elemento cruciale. Permette all'Italia di negoziare con Berlino, di battere metaforici pugni sul tavolo dell'Unione. «Anche i tedeschi devono conquistarsi la nostra stima» ha detto a un certo punto. È un nodo di fondo: solo convincendo la Germania a riprendere la via dell'integrazione europea si potranno affrontare alla radice i problemi della moneta. E solo un governo italiano credibile potrà farsi valere.
Terzo. Rispetto formale verso i politici e il Parlamento. Il premier bada a non apparire arrogante con i partiti. È prudente e cortese soprattutto nei confronti di Berlusconi, sforzandosi di accentuare gli elementi di continuità con il governo di centrodestra (ben sapendo che l'esecutivo «tecnico» ne rappresenta in realtà l'antitesi). Cita l'«ottimismo» dell'uomo di Arcore e ne riceve in cambio un ringraziamento. Come un rompighiaccio che naviga nella banchisa, Monti sa di doversi aprire la rotta giorno per giorno. Anche per questo indica alle forze politiche un lavoro parallelo sulle riforme da svolgere in Parlamento. Quelle istituzionali e la legge elettorale. Un impegno più che sufficiente per arrivare al 2013.

Nullatenenti in Porsche e commercianti in jet


Nullatenenti in Porsche e commercianti in jet

Il “bestiario” 2011 dell’evasione fiscale Dall'universitario esentato dalla retta, ma sempre a bordo di un'auto di lusso, allo chef milionario con ristorante senza licenza. Dallo scultore del toro di Wall Street al campione di ciclismo alla pornostar. Fino ai soliti notiDove vada la finanza globale, a quanto pare, nessuno lo sa. Dove corra il suo simbolo, invece, è finalmente chiaro: fugge dal Fisco italiano a gambe levate. Il celebre toro di bronzo di Wall Street da 3,2 tonnellate è stato scolpito da un siciliano di Vittoria, Arturo Di Modica, che ha un contenzioso col fisco per 5 milioni di redditi mai dichiarati, a dispetto di una residenza (ufficialmente) negli States. E’ uno dei casi clamorosi di evasione balzati agli onori delle cronache nel 2011, l’anno in cui l’Italia ha smesso di sorridere sui furbetti del fisco e ha iniziato a capire che gli evasori d’Italia – piccoli e grandi che siano – non sono più un male endemico, ma un lusso che il Paese non si può più permettere: costano almeno 150 miliardi di euro l’anno, il 18 per cento del Pil.

Le norme sulla privacy bancaria del governo Monti (forse) daranno un’ulteriore arma nelle mani della Guardia di Finanza e dell’Agenzia delle Entrate per combattere il fenomeno e stanare nuovi campioni dello sport nazionale. Nel frattempo, chi è rimasto fermo a Valentino Rossi & co troverà ottimi spunti per aggiornare il file grazie al 2011, anno straordinario di italiche evasioni. Che non può prescindere da Silvio Berlusconi, il quale da capo del governo invocava il carcere per gli evasori oltre i 3 milioni di euro e da contribuente ha cercato di evitare le accuse di frode fiscale per 16 (milioni). Non stupisce allora che tra i governati, anche quest’anno, si sia registrato un campionario eccellente di evasori seriali, smaccati nell’impunità al limite dell’immaginabile.

Tra i seriali organizzati del 2011 hanno tenuto banco per mesi le ‘liste’ di clienti di contabili e commercialisti scoperti quasi per caso dai militari delle Fiamme Gialle. Storie di curatori di beni molto solerti nel dirottare le ricchezze verso paradisi fiscali e filiali svizzere, la ‘lista Pessina‘ e la ‘lista Falciani‘. La prima è relativa ai clienti di un avvocato svizzero che tra i 500 clienti e presunti evasori annovera anche la cantante Marcella Bella cui è stata contestata un’evasione fiscale da 2,5 milioni. La seconda, scoperta a ottobre, ha ben 7mila nominativi e ha portato all’accertamento di redditi non dichiarati per 570 milioni di euro e un’Iva evasa di 2,6. Ma più di tutto sorprende il campionario dei capitani coraggiosi dell’evasione, di quelli che per proprio conto e quasi per caso si sono dimenticati di essere ricchi sfondati. Se da dicembre si risale l’anno e si passano al setaccio le cronache, viene fuori davvero di tutto, uno spaccato sconvolgente del fenomeno con tutte le declinazioni possibili, le categorie professionali, economiche, umane. Roba da farci un dizionario, anzi, un “bestiario” come si usava nel basso Medioevo. Ci sono i campioni come Davide Rebellin, accusato di avere una residenza fittizia nel Principato di Monaco utile a distrarre dal Fisco 2,5 milioni e i campioncini del calcio, pagati in nero a 15mila euro al mese. Ci sono amministratori e politici di qualsiasi livello di governo. E ancora industriali, professionisti, ristoratori di fama internazionale e perfino pornostar. Un’evasione generalizzata e senza senza età. Ci sono gli anziani con l’hobby dell’aereo di lusso che non atterra mai sul 730 e gli studenti universitari che chiedevano rette diminuite per fasce di reddito da fame ma all’ateneo andavano in Porsche.

COSI’ FAN TUTTI: IL BESTIARIO DEGLI EVASORI 2011

L’ultimo caso eccellente del 2011 (forse) è quello del mediatore finanziario di 44 anni radiato dalla Banca d’Italia eppure attivissimo. Per il fisco era nullatenente, ma nella vita girava con Porsche (due a disposizione) e moto sportive e viveva tra una tenuta di lusso con piscina, palestra e spa a Ragusa e un super appartamento nel centro di Milano da 50mila euro l’anno di affitto. Optional, un motoscafo Ferretti 72 da un milione di euro con annesso personale di bordo, tutto ovviamente intestato a società di comodo. E’ stato pizzicato tre giorni prima di Natale dalla Guardia di finanza di Monza con la quale ora ha una pendenza da 2 milioni di euro. Tanto avrebbe eluso e tanto avrebbe portato in Svizzera attraverso complesse operazioni finanziarie alla luce nel del sole, nel senso che simulavano investimenti nel settore delle energie rinnovabili che non sono mai esistite.

Nella top ten delle evasioni eclatanti ancora spicca la vicenda della coppia di 65enni di Verona che dichiarava poco più di un pacchetto di sigarette ma nascondeva una fortuna da 200 milioni di euro. Mica soldi sudati, come rivendicano gli imprenditori-evasori, quelli che per lenire la colpa la buttano in politica. Quei soldi sono frutto della vendita di un terreno grande come 200 campi da calcio sul litorale tre Eraclea e Jesolo divenuto improvvisamente edificabile. I frutti dorati della terra sono stati quindi le plusvalenze della vendita, opportunamente occultate al fisco attraverso il meccanismo delle scatole societarie. L’ultima portava il tesoro in caldi paradisi fiscali. Dagli accertamenti, è risultato che l’uomo era evasore totale del 1997 al 2008 mentre nel 2009 e 2010 aveva dichiarato 4 e 5 euro. Un pacchetto di sigarette, appunto.

In realtà, dietro alla vicenda c’è un piccolo romanzo di formazione criminale, che vede un ex commerciante di bestiame, Giovanni Montresor, diventare un possidente, tenutario e facoltoso imprenditore tra terreni, centri commerciali e hotel di lusso sul litorale. Sarebbe stato il primo contribuente del Comune di Bussolengo se non avesse avuto il vizietto di occultare le sue ricchezze al fisco. Del resto, da quanto si è appreso, avrebbe mondato il peccato per altre vie, provvedendo in proprio a restaurare il tetto della chiesa del Cristo Risorto. Un benefattore, insomma. E come lui devono essere tanti se il Nord-Est detiene il primato nazionale del recupero dell’evasione che la Cgia di Mestre segnala in 232 milioni in dieci anni su una base di 350 evasori fiscali. Insomma non sarà un caso se proprio nel Vicentino, ad Arzignano, si è arrivati a proporre un “monumento all’evasore” davanti al Duomo con tanto di imprenditore incatenato dal Fisco persecutore (ci ha messo una pezza la Questura vietandolo).

STUDENTI E PENSIONATI: L’EVASIONE SENZA ETA’

L’età dell’evasione non ha età. A ottobre un 71enne di Bassano del Grappa che fino al giorno prima risultava povero in canna è risultato felice possessore di un aereo di lusso. Si era pensato a un colpo di testa, una passione senile, ma le indagini hanno accertato che il velivolo era solo uno dei 16 ultraleggeri in dotazione che facevano parte di un giro di contrabbando di aeromobili, tra San Marino e Fidenza, che coinvolgeva 31 persone.

Non che i “giovani” siano da meno. Come quello studente dell’Università di Padova così povero da ottenere l’esenzione dalle rette universitarie, ma non abbastanza da rinunciare alla Porsche per andare a lezione. A denunciarlo agli 007 del fisco sono stati proprio i compagni di corso, forse irritati da quell’evasione fatta sulle spalle di chi di soldi per studiare non ne ha davvero. A Treviso un ventenne senza neppure la dichiarazione dei redditi è risultato evasore totale per 6 milioni di euro. Emetteva fatture false.

Poi ci sono insospettabili campioni nazionali, meno famosi dei calciatori ma in qualche modo ambasciatori del made in Italy che nel mondo esportano vizi nostrani e italiche virtù. Sul New York Times si può ancora leggere una recensione a cinque stelle del ristorante “Laguna da Toni” di Torcello, un locale caratteristico della laguna veneta ricavato in un capanno di pescatori e felicemente frequentato da clienti di tutto il mondo. Mentre i giornalisti americani davano giustamente notizia dei manicaretti del titolare 66enne trevigiano, la Dgf di Mestre ne portava altre: il locale impalmato sulle colonne più celebri dell’informazione americana era completamente al nero, compresa la cuoca. Non aveva neppure le licenze. Particolare che avrebbe permesso al ristoratore di mettere da parte mezzo milione di euro senza fare i conti col Fisco.

Chiude la girandola la pornostar Jessica Rizzo che insieme al marito Marco Toto e ad altri (l’ex presidente del Pescara calcio e dirigente dell’Under 21, Vincenzo Marinelli, la consigliera provinciale dell’Idv Antonella Allegrino, che si autosospese dal partito, e il consulente tributario pescarese, Luca Del Federico) avrebbe messo in piedi un’evasione per 16 milioni di euro di capitali occultati tramite il sistema dei trust all’estero.
Fonte : il fatto quotidiano

Monti e il sistema da rilanciare


Monti e il sistema da rilanciare
In cerca di equilibrio tra necessità e virtù
Evasivo no, ma un po’ reticente sì. A chi ha seguito la conferenza stampa del presidente del Consiglio, Mario Monti è apparso così. Nel tradizionale appuntamento di fine anno, infatti, il 'non detto' ha superato di gran lunga il 'detto', nonostante la maratona da 2 ore e mezza.

Il premier non si è sottratto, anzi ha risposto a 31 domande, un piccolo record. Ha spiegato, ha mostrato grafici e riportato analisi. Ancora una volta però più da professore che da leader di governo. Tanto che, a rileggere gli appunti sul taccuino, a riannodare con la memoria le parole, si può constatare che annunci veri e propri non ne sono venuti. I contenuti del tanto atteso pacchetto 'Cresci Italia' restano ancora a livello di titolo. Si faranno le liberalizzazioni, non solo per farmaci e taxi, ma cos’altro riguarderanno, e come, non è stato specificato. Si procederà poi, più o meno in parallelo, con la riforma del mercato del lavoro. Tre le linee guida: superare il dualismo tra garantiti e no, diversa regolazione dei contratti e ammortizzatori che favoriscano la riallocazione di chi ha perso il posto. Il piano operativo, però, sembra ancora da predisporre ed è poi da sottoporre a un complicato confronto con le parti sociali. E ancora, la riforma del catasto «si farà, ma serve tempo»; un’intesa con la Svizzera sulla tassazione dei capitali fuoriusciti è «un’ipotesi che si sta analizzando» e per la riduzione dello stock di debito «non si può escludere nulla». Non una parola, invece, sulla riforma del fisco (e quella collegata dell’assistenza) che a noi al contrario appare una delle chiavi di volta del cambiamento.

In questa scelta di non scoprire le carte, di mantenere un 'profilo basso', pesano probabilmente diversi fattori. Anzitutto i timori per i rischi corsi – «Eravamo sull’orlo del precipizio... gli avvoltoi erano pronti a mangiarci» – dei quali non tutti evidentemente hanno piena coscienza e che non si possono considerare scongiurati per sempre. Poi, soprattutto, la natura decisamente particolare di questo governo: formato da tecnici ma che non può far affidamento, come i precedenti esecutivi Amato e Ciampi, su un patto concertativo con le parti sociali. Ed è invece allo stesso tempo supportato e sopportato da una grosse koalition nostrana, da forze politiche eterogenee che non 'stanno insieme' per scelta, ma si sono trovate a dover convivere per evitare che la casa comune bruciasse. A partire dal Pdl, tutt’altro che disposto a dismettere i panni dell’'azionista di maggioranza' in Parlamento, per finire al Pd che sulle questioni del lavoro deve già mediare posizioni e sensibilità assai differenziate al proprio interno. Ciò che il presidente del Consiglio, da economista esperto, è costretto ad applicare è allora in particolare la 'teoria dei giochi', alla ricerca di una sorta di 'equilibrio di Nash', quello per il quale nessun giocatore, nessuna forza politica ha interesse a cambiare strategia e rompere appunto l’equilibrio raggiunto. Paradossalmente, ma non troppo, Monti dovrà condurre le riforme più ostiche e provare a riattivare la crescita economica senza però assumersene troppo il merito. Quanto più si avvicinerà all’obiettivo, infatti, tanto più sarà a rischio, perché quanto più la sua immagine si rafforza nei risultati tanto più diventa debole sul piano politico.

Non per caso, ieri Monti ha negato qualsiasi interesse sia per il Quirinale sia per eventuali offerte di candidature politiche.

Nelle parole del premier l’idea di futuro per il Paese appare chiara: è il disegno di una società aperta e liberale. Capace, rimodellando il proprio sistema di welfare, di conservare e valorizzare il meglio del modello sociale europeo. Che ritrova nel merito e nella competitività, nella coesione e nell’equità, le ragioni intrinseche per ritornare a crescere, per restare almeno fra le prime 7-8 potenze mondiali. Ma soprattutto per essere fra quelle nazioni che ancora hanno qualcosa da dire e da esibire con autorevolezza al resto d’Europa e del mondo. Ed è proprio qui l’unico punto di equilibrio possibile: l’interesse del Paese, il bene comune degli italiani.

di Francesco Riccardi, da Avvenire

Una debole luce in fondo al tunnel


Una debole luce in fondo al tunnel
Vorremmo tanto poter dire che l’atteso segnale di inversione di tendenza è già arrivato, purtroppo non è così. Negli ultimi giorni il Tesoro ha pagato rendimenti più bassi per collocare i suoi titoli ma la novità è stata il frutto di un’intelligente operazione di tesoreria delle banche (alla spagnola) e non di un cambio di giudizio dei mercati. La verità è che siamo al centro dell’attenzione mondiale e non per le virtù che pure possediamo, bensì perché l’economia globale ci guarda per sapere se sarà scongiurata o meno la catastrofe dei debiti sovrani. Una tale considerazione basterebbe da sola a motivarci ad adottare comportamenti razionali ma vale la pena ricordare come in gioco ci siano le conquiste civili di cui andiamo fieri: il nostro welfare, lo stile di vita italiano, la forza delle nostre comunità.

Ha fatto bene, dunque, nella tradizionale conferenza stampa di fine anno il presidente del Consiglio a citare il severo articolo che nei giorni scorsi ci ha dedicato il Washington Post e a richiamarci alla responsabilità che abbiamo nei confronti dell’opinione pubblica mondiale. Dobbiamo convincerli di esser cambiati, dobbiamo modificare i pregiudizi che mercati e governi hanno su di noi. Per farlo l’esecutivo di Roma ha ingaggiato una lotta contro il tempo e di questo ieri ha parlato Mario Monti. Chi si aspettava fuochi d’artificio non conosce il professore ed è rimasto sicuramente deluso, certo è che un rito che si protrae per 2 ore e 40 minuti sembra fatto apposta per diluire l’attenzione e stancare i protagonisti. Nell’epoca della comunicazione veloce non sarebbe male innovare i format della triangolazione politica-stampa- cittadini. Ma al netto della formula, dall’appuntamento di ieri alcune informazioni sono emerse. La prima/più importante è che gennaio sarà il mese delle riforme e il timing delle scelte che opereremo su liberalizzazioni e mercato del lavoro sarà scandito dagli appuntamenti già calendarizzati in sede Ue.

Tocca ai partiti e alle forze sociali, messi di fronte all’agenda Monti, decidere cosa fare. «Lavoreremo per tutti dispiacendo un po’ a ciascuno» ha promesso il premier e c’è da prenderlo come un impegno. Nella «fase uno» non è andata del tutto così. Stavolta il governo non dovrà dare l’impressione di essere forte con i deboli e debole con i forti, potrà agire per deregolare taxi e farmacie ma dovrà anche rivedere, ad esempio, i meccanismi che causano l’energia più cara d’Europa. Di fronte a una simmetria di comportamenti sarà più arduo per l’una o l’altra categoria chiamarsi fuori dal processo di risanamento dell’economia nazionale. Nella conferenza stampa il premier ha anche dichiarato di non escludere il varo di un fondo per tagliare lo stock del debito e ha fornito una ghiotta anticipazione. L’avanzo primario strutturale è arrivato al 5%, performance che ci riporta ai migliori risultati della seconda parte degli anni 90. Certo che produrre un avanzo primario del 5% pagando tassi sul debito del 2-3% sarebbe una manna, farlo dovendo sborsare il 7% annulla ogni beneficio. E dimostra quanto sia urgente cambiare la percezione che hanno di noi i mercati per uscire dal tunnel ed evitare di continuare a pagare tassi da «usura globale».

Dario Di Vico, dal corriere
30 dicembre 2011

I fuochi sul cammino del governo


30/12/2011

di MARIO DEAGLIO, dalla stampa

Molti italiani saranno rimasti sbalorditi alla vista di un presidente del Consiglio che si esprime con grafici; altri avranno trovato, tutto sommato, grigia un’esposizione in cui volutamente non si sono toccate corde emotive ma si è enunciata una lunga serie di fatti e di intenzioni. I telespettatori non erano preparati a una lezione in diretta, a un tipo insolito di comunicazione politica e continuano a restare spaesati di fronte a una griglia di provvedimenti che incide su moltissimi aspetti della società italiana.

Per superare lo sbalordimento occorre probabilmente mettersi nei panni del Professor Monti, nella condizione, incredibile per l’italiano medio, di un presidente del Consiglio che dichiara di non avere alcuna particolare ambizione politica e di trovarsi in una posizione da superchirurgo incaricato di tagliare e ricucire là dove è risultato impossibile, a chi ne aveva il mandato politico, di fare altrettanto.

Agli occhi di un osservatore esterno, la manovra del presidente del Consiglio si svolge tra due fuochi. Il primo è rappresentato dalla crisi del debito pubblico italiano sui mercati finanziari internazionali. La sua gravità non viene normalmente colta dal normale cittadino ma è difficile esagerarla: senza alcuna particolare «colpa» dell’Italia, i mercati hanno bruscamente cambiato opinione, negli ultimi mesi, sulla gravità dei debiti sovrani. La condizione debitoria italiana (1,2 euro di debiti per ogni euro di produzione annuale) prima ampiamente tollerata per la dimostrata capacità italiana di mantenere sostanzialmente stabile il debito stesso, è diventata insostenibile nel giro di pochi mesi: nessuno vuol più acquistare, senza un consistente premio per il rischio, i titoli del debito pubblico italiani e molti scommettono sull’incapacità italiana di restituire il debito.

L’Italia si è trovata in condizioni di grande debolezza di fronte a imposizioni estremamente dure e qualcuno potrebbe osservare che le cifre complessive della manovra assomigliano alle imposizioni di un trattato di pace dopo una guerra persa; altri obietteranno che l’Italia sta pagando per tutti, in quanto la manovra italiana ha evitato che il ciclone monetario si scaricasse sui sistemi bancari di altri Paesi, meno solidi di quanto appaia. Il fatto è che l’affermazione del presidente del Consiglio circa l’impossibilità di pagare le tredicesime, se non si fosse accettata una rapidissima manovra, non è retorica. Senza il suo frettoloso viaggio a Bruxelles e la definizione di un programma radicale di rientro dal deficit, si sarebbe dovuto ricorrere ad altri tagli oppure ad altri inasprimenti fiscali almeno equivalenti a quelli messi in atto e per i quali la classe politica riteneva di non avere il mandato.

Oltre a questo fuoco internazionale, il Professor Monti se la deve vedere con un secondo fuoco che cova, in maniera preoccupante all’interno del Paese, dove si moltiplicano i segnali di crescenti diseguaglianze economiche e di disgregazione sociale. Ieri una raffica di comunicati dell’Istat ha segnalato che il livello di fiducia delle imprese si è fortemente abbassato: la scarsità di liquidità del sistema bancario corre il rischio di portare a estese rotture del normale tessuto economico-commerciale. Sempre secondo l'Istat, un quarto della popolazione - con punte molto maggiori nel Mezzogiorno - si trova in condizioni di povertà o di rischio di povertà, con difficoltà a pagare le bollette, l’affitto o il mutuo.

Poco importa che i totali degli indigenti mostrino variazioni minime negli ultimi due anni: con il persistere di una situazione così grave e così diffusa, che toglie dignità alle persone colpite, la trasformazione delle persone stesse da «indigenti» a «indignate» può essere un passo molto breve: sono ormai numerosi i casi, in Paesi ricchi e meno ricchi, di situazioni di rivolta, o, in ogni caso, di rifiuto dell’ordine esistente. All’altro estremo dello spettro sociale crescono invece incoscienti manifestazioni di arroganza, come quella del riccone che scende in elicottero sulla spiaggia per portare la mamma al ristorante. Per non parlare della Regione Sicilia che continua a garantire pingui indennità ai consiglieri regionali e ad assumere personale senza averne i mezzi.

La logica vorrebbe che si portasse via reddito ai ricconi arroganti e lo si ridistribuisse a chi è vicino alla povertà. Si tratta però di un’operazione molto difficile perché il reddito dei ricchi è spesso ben al riparo, in Italia e all’estero. Per quanto i meccanismi messi in atto per stanare gli evasori facciano registrare un discreto successo, il risultato è, come minimo, incerto e soprattutto richiede tempo.

Muoversi tra il fuoco dei mercati internazionali e quello dell’instabilità interna è, al tempo stesso, arduo e impopolare. Richiede, tra l’altro, che lo stupore di chi vede un presidente del Consiglio che illustra un grafico invece di fare della retorica si trasformi in un allargamento di vedute; che gli italiani si stacchino almeno un po’ da una visione egoistica che riferisce tutto a sé e alla propria famiglia nel massimo disinteresse per la dimensione pubblica; che escano da quello che Francesco Guicciardini, nella prima metà del Cinquecento, chiamava il loro «particulare». Allora miopia ed egoismo fecero scomparire molto rapidamente quasi tutti gli Stati italiani dalla mappa dei Paesi avanzati ed ebbe inizio una stagnazione dei redditi e un arretramento economico e civile durato tre secoli. C’è da augurarsi che questa volta vada meglio.

La riscoperta della mediazione

0/12/2011

di MARCELLO SORGI, dalla stampa

Un punto si può considerare finalmente chiarito dopo la conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio: il governo Monti sarà pure «tecnico» per definizione, ma «politico», anzi eminentemente politico, è il lavoro che sta facendo. Questo non vuol dire che Monti o qualcuno dei suoi ministri nutra ambizioni particolari nel prossimo futuro, né che intenda candidarsi, al Quirinale (il premier) o ad altro. Ma l’ipocrisia che ha accompagnato fin qui le prime settimane di attività dei tecnici s’è finalmente dissolta ieri nel lungo ping-pong tra il senatore-professore e i giornalisti che lo interrogavano.

Monti è stato bene attento a evitare qualsiasi presunzione legata ai risultati di queste prime settimane di impegno e all’approvazione in tempi record del decreto «salva-Italia». Ma allo stesso modo, evitando giri di parole, ha spiegato chiaramente perché la distinzione tra «tecnica» e «politica», a proposito della natura dell’esecutivo, sia ormai da considerarsi fuori luogo, così come la contrapposizione tra partiti e governo che qualche volta ha scavato in Parlamento una specie di fossato tra il «noi» dei politici e il «voi» dei tecnici.

La ragione di questa operazione-verità, che il presidente del Consiglio non a caso ha voluto compiere davanti a giornali, tv e stampa straniera, è presto detta: Monti realisticamente si ritiene al centro di uno stato di necessità in cui una politica (attenzione: tutta la politica, non solo Berlusconi) giunta al capolinea, e non più in grado in alcun modo di prendere le decisioni necessarie per il bene del Paese, ha dovuto rassegnarsi all’emergenza dei tecnici. Ma d’altra parte è consapevole che il governo, per svolgere la sua opera di risanamento, deve trovare con i partiti e con la politica il massimo di intesa possibile.

Detta in altre parole, come l’avrebbe definita Andreotti, o un altro dei presidenti del Consiglio classici della Prima Repubblica, è una riscoperta della mediazione, strumento principe di una politica rivalutata e riproposta come arte del possibile, cancellata da anni di contrapposizioni frontali e bipolarismo muscolare. O, se si preferisce, è un rilancio della normalità della stessa politica, in cui il governo, soprattutto per quel che è nella sua responsabilità, propone, i partiti riflettono e fanno le loro controproposte, in Parlamento si discute e in tempi ragionevoli si arriva a una decisione.

Cosa tocchi fare all’Italia è ormai chiaro, e dove fosse arrivato il Paese prima di affrontare la «cura Monti» altrettanto. Come possa e debba essere praticata la terapia è ovviamente oggetto di dibattito: si tratta di salvare e non di ammazzare l’ammalato, che versa in condizioni gravi, i margini di intervento, tutti lo sanno, sono ridotti, e il tempo a disposizione è poco, anche se Monti ha dato appuntamento a fine 2012 per un’altra conferenza stampa, riconfermando implicitamente l’orizzonte del 2013, già delineato in Parlamento in occasione della fiducia.

Per questo, già pago della quantità di cose che deve realizzare, il governo si guarderà bene dall’intervenire in materie come la legge elettorale o le riforme istituzionali, solo per fare due esempi, che non rientrano nel suo programma e nell’elenco delle sue urgenze. Ma sbaglierebbero i partiti a non approfittare dell’occasione di questa tregua per affrontare questioni importanti come queste.

Alla fine, l’unica domanda che è rimasta in sospeso è se davvero, come molti politici continuano a pensare, questa del governo tecnico debba essere considerata una parentesi, e fino a che punto, in attesa del ritorno al passato, oppure no. Monti sicuramente aveva una risposta anche in questo caso, ma non ne ha parlato. Perché nessuno gliel’ha chiesto. E soprattutto perché certe verità sono difficili da dire.


giovedì 29 dicembre 2011


Contratto unico sì, licenziamenti facili no

di Luciano Gallino, da Repubblica, 29 dicembre 2011

Nella discussione sullo stato del mercato del lavoro circolano da anni varie proposte di un contratto unico a tempo indeterminato per le nuove assunzioni di lavoratori alle dipendenze. Proverò a spiegare perché l'idea di un contratto unico, presa a sé, è una buona idea. Che però diventa pessima quando la proposta sia corredata da dispositivi i quali, in sintesi, rendono più facili i licenziamenti. La discussione tra le parti sociali e il governo potrebbe fare qualche passo avanti se si riuscisse a concentrare l'attenzione sul meglio delle proposte in parola, lasciando da parte il peggio.

1. In Italia il problema dell'occupazione è ormai drammatico. Si riassume in due cifre: 3,5 milioni di disoccupati, e 2,5 milioni di precari con contratti di breve durata dal rinnovo incerto, mal pagati anche perché di rado lavorano per dodici mesi filati, privi di effettive tutele sindacali, e un futuro previdenziale da fame. Inoltre stanno invecchiando: il 60 per cento supera i trent'anni e oltre il 20 ha passato i quaranta (dati Ires-Cgil). Sebbene siano due facce dello stesso problema occupazionale, le soluzioni prefigurabili per ciascuna sono differenti. La disoccupazione avrebbe bisogno di interventi diretti, i quali richiedono un discorso a parte. Qui toccherò solo i modi in cui si potrebbe dare un'occupazione stabile ai lavoratori precari.

2. L'introduzione di un contratto unico da lavoratore dipendente per i nuovi assunti potrebbe condurre a stabilizzare una grossa quota di precari in un tempo relativamente breve. I contratti atipici hanno in prevalenza una durata compresa tra i sei mesi e un anno. Giacché non si potrebbero rinnovare se non in forma di assunzione alle dipendenze, tolti i pochi di cui si possa dimostrare che il contratto di collaborazione o la partita Iva corrispondono davvero a un lavoro autonomo, nel volgere di un paio d'anni il loro numero sarebbe ridotto di molto: si può ipotizzare di almeno un milione. Il nuovo contratto avrebbe pure il vantaggio di non richiedere la cancellazione della legge 30/2003, che sarebbe per più motivi complicata, né del suo decreto attuativo numero 276 dello stesso anno, pur con i suoi devastanti dispositivi. Essi andrebbero gradualmente ad esaurimento.

3. C'è un'obiezione ovvia a un contratto unico non corredato da licenziamenti facili: se non possono fruire della prospettiva di questi le imprese non assumeranno nessun precario. La risposta non può che essere duplice. In primo luogo il contratto unico cum licenziamento facile avrebbe, in realtà, l'effetto di trasferire in blocco la precarietà dagli attuali lavori atipici ai titolari del nuovo contratto. In secondo luogo le proposte in oggetto prevedono che l'introduzione di quest'ultimo abbia comunque un costo, ad esempio in forma di assicurazione contro la disoccupazione. Invece di questa si potrebbe pensare a forme di incentivo, mirate e temporanee, per le imprese che assumono con il nuovo contratto, privato però della coda che agevola i licenziamenti. Vediamo i due punti nell'ordine.

4. I fautori del contratto unico con libertà di licenziamento incorporata guardano in genere al modello Danimarca. Il guaio è che dalla flessicurezza alla danese, il famoso “triangolo d'oro” costituito da massima libertà di licenziare, elevati sussidi di disoccupazione e politiche attive del lavoro, c'è poco da imparare. Il suo vanto principale, il più basso tasso di disoccupazione d'Europa, si fonda su un dato fittizio. Infatti le statistiche danesi non includono tra i disoccupati i pre-pensionati, che in quel paese sono eccezionalmente numerosi, né coloro che sono privi di occupazione ma stanno seguendo un programma che rientra nelle suddette politiche. Ove si tenesse conto di tale disoccupazione nascosta, i disoccupati in Danimarca non sarebbero il 4,2 per cento (al 2010), ma superebbero di parecchio il 10 per cento.
È vero che chi perde un lavoro laggiù ne trova presto un altro. Oltre il 40 per cento entro un mese. Ma qui s'incontra un altro inconveniente del modello danese. Una larga libertà di licenziare combinata con un rapido ritorno al lavoro fa sì che il 30 per cento dei lavoratori danesi cambi posto di lavoro ogni anno. Questa sorta di migrazione interna è facilitata dalle ridotte dimensioni del paese: il posto trovato è spesso a poca distanza da quello perso. Qualora in Italia prendesse piede il modello danese, i lavoratori in transito annuale da un'azienda all'altra, su e giù per il paese, sarebbero circa sei milioni, circa tre volte più di oggi. Sarebbe interessante conoscere al riguardo l'opinione di imprenditori e direttori del personale.

5. La domanda chiave è: perché mai le imprese dovrebbero avere una maggior libertà di licenziare quale premio di consolazione per assumere i nuovi entranti con un contratto unico a tempo indeterminato? In caso di difficoltà economiche non c'è bisogno di cambiare niente: valgono le norme circa i licenziamenti collettivi, di cui le imprese hanno fatto ampio uso negli ultimi anni, cui si aggiungono i pre-pensionamenti obbligatori, i piani di mobilità ecc. Restano i licenziamenti individuali. Per avallare la necessità di facilitarli in un primo (lungo) periodo viene affermato da un lato che un'impresa ha bisogno di anni per valutare le capacità professionali di un neo-assunto; dall'altro, che dopo anni di investimenti in formazione un'impresa non ha più interesse a licenziare un lavoratore perché perderebbe il capitale così investito. Ambedue le asserzioni sono prive di fondamento. Negli ultimi anni le professioni che hanno registrato il maggior aumento tra gli occupati riguardano il personale non qualificato, gli addetti alle vendite e ai servizi alle famiglie, e gli impiegati esecutivi: tutti lavori che si imparano in pochi giorni. Quanto all'investimento in formazione, le ricerche dicono che in settori dove esso avrebbe la massima importanza, vedi il metalmeccanico, esso si concreta, e solo in poche aziende, in dieci-venti ore l'anno: poco per rappresentare un investimento che un datore di lavoro non può perdere.

6. Alla fine, delle due l'una: o si introduce il contratto unico insieme con i licenziamenti facili, e si può star certi che la precarietà si diffonde anche nelle aziende dove prima non c'era o era marginale perché il datore di lavoro, privato della possibilità di ricorrere ai contratti a progetto, alle finte partite Iva ecc. sostituisce quei contratti di breve durata con il licenziamento. Prima che scatti, dopo anni, il vincolo dell'articolo 18. Oppure si trovano i modi per indurre le imprese ad assumere con il contratto unico lavoratori e lavoratrici mano a mano che scadono i loro contratti precari. È possibile che ciò comporti un costo. Ma il tentativo di imitare la non imitabile flessicurezza alla danese, fatti i conti, presumibilmente costerebbe di più. Quanto ad occupare i disoccupati di oggi e di domani, la via dovrebbe essere diversa rispetto a quella volta a disboscare la giungla della precarietà. Un tema su cui bisognerà ritornare.

(29 dicembre 2011)

TROPPI EQUIVOCI SULLA CRESCITA


TROPPI EQUIVOCI SULLA CRESCITA
Non è un gioco a somma zero
È stato un anno di grande angoscia. Non solo perché abbiamo visto in faccia due potenziali apocalissi, ma anche perché sembrano in rotta di collisione l'una con l'altra. L'ha notato la scrittrice Sarah Dunant su Bbc News : ci è stato detto che lo sviluppo si deve fermare per salvare il pianeta, esausto dal suo sfruttamento; e ci è stato detto che solo lo sviluppo può salvare il nostro benessere, oberato dai debiti. La contraddizione è bruciante, e qualcuno ci perde la testa. I media che fino a ieri ospitavano moralistiche giaculatorie contro il consumismo, moderno oppio dei popoli, ora denunciano inorriditi il calo dello shopping natalizio e chiedono al governo di fare qualcosa. Tra lo tsunami in Giappone di marzo e quello nei mercati di ottobre, abbiamo visto in faccia il dilemma della crescita economica che accompagna fin dalla sua nascita l' homo capitalisticus.

Qualche luogo comune, intanto, è bene che crolli. Solo la crescita economica può migliorare la vita materiale degli esseri umani. Se guardiamo il mondo dalla Cina, per esempio, vedremo centinaia di milioni di uomini che in questi anni sono usciti dal medioevo dei loro villaggi, e hanno conquistato un lavoro e una speranza. Processo storico, e altamente positivo; che molto probabilmente ha però contribuito a causare migliaia di cassintegrati qui da noi, cosa tutt'altro che piacevole. È così che funziona il capitalismo: distrugge, per creare. Naturalmente il potere pubblico in Europa può e deve agire perché, distruggendo ciò che va distrutto, non si distrugga anche la vita delle persone. Ma pure per garantire l'equità sociale c'è bisogno di risorse economiche, e pure quelle vengono dalla crescita. Non c'è scampo: senza crescita, non vince nessuno e perdiamo tutti.

Invece, quanti sospetti intorno a questa parola, se perfino i metalmeccanici della Fiom hanno preso a manifestare contro lo sviluppo. L' Economist ha notato che, tecnologia a parte, le tre industrie di maggior successo degli ultimi cinquant'anni sono state la finanza, la farmaceutica e l'energia. Ma, guarda caso, tutte e tre sono estremamente impopolari, e vengono normalmente additate, dai film di Hollywood ai cortei no global , come la causa principale delle diseguaglianze, del cinismo e dell'inquinamento. Il fatto è che nella nostra cultura troppi ancora concepiscono la crescita come un gioco a somma zero, dove, se qualcuno ci guadagna, sicuramente c'è chi ci perde. E invece sono bastati due salti tecnologici come il computer e l' information technology a ribaltare il pessimismo che prese la classe colta dell'Occidente alla fine degli anni Settanta, quando anche allora sembrava che l'energia fosse in esaurimento, i mercati saturi, i consumatori esausti e lo sviluppo finito. Da allora, che cavalcata ha fatto il mondo! Così inebriante da spingere i più ottimisti a credere che il tempo dei cicli economici fosse definitivamente concluso e che «recessione» fosse una parola destinata a non essere mai più pronunciata. Troppa hybris , cioè troppa tracotanza verso il destino, e troppi debiti. E la recessione, ovviamente, è tornata. Purché sia chiaro che ogni crisi non è la fine: è anzi un'opportunità perché, come è scritto in un appello di Comunione e liberazione, chiama al cambiamento, frutto di una libertà in azione: e «la libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio» (Benedetto XVI, Lettera enciclica Spe Salvi , «nella speranza siamo stati salvati», dice San Paolo ai Romani).

Ai catastrofisti e ai teorici della decrescita andrebbe ricordata la scommessa che nel 1980 fecero l'economista Julian Simon e il biologo Paul Ehrlich. Quest'ultimo, assumendo un punto di vista malthusiano, predisse che a causa della crescita industriale e demografica nel corso dei dieci anni seguenti il prezzo di cinque metalli fondamentali non poteva che aumentare e diventare insostenibile. Perse la sua scommessa perché accadde esattamente il contrario. Oggi che è nato il bambino numero sette miliardi, c'è di nuovo chi scommette che con l'aumento dei prezzi dei beni alimentari e con il degrado crescente dell'ambiente non ce la faremo. È probabile, ma solo se smetteremo di crescere, di innovare, di inventare nuovi modi di produrre, nuovi prodotti, nuove risorse da sfruttare, magari rinnovabili. Il telefonino, che ai fustigatori del consumismo è apparso come una delle più futili infatuazioni dell'Occidente, ha consentito all'Africa di recuperare il suo divario di reti telefoniche fisse, rappresentando così un formidabile fattore di sviluppo, di comunicazione, di informazione.

Vale lo stesso per la finanza, buona se ci presta i soldi per pagare stipendi e pensioni ogni volta che ci servono, ma cattiva se ogni tanto si permette di fare domande sulla loro restituzione. Fu in Italia che nacque il mestiere di prestare danaro, e fu in Italia che subito si scontrò con la condanna della Chiesa. Essa era basata sul principio che chi commercia in denaro commercia in tempo, il tempo intercorrente tra prestito e riscossione durante il quale matura l'interesse. E il tempo, per definizione, appartiene a Dio, come racconta una bella mostra a Firenze sul rapporto tra arte e denaro. Ma che appartenga al Creatore o al Mercato, è proprio il tempo la materia prima che serve disperatamente a noi italiani del 2012. Perché se tra dieci anni i nostri figli dovranno pagare gli interessi che stiamo sottoscrivendo oggi, state pur sicuri che avremo smesso di crescere.

di Antonio Polito,dal corriere
29 dicembre 2011 |

mercoledì 28 dicembre 2011

Il farmaco che combatte tutti i virus


28/12/2011 - MEDICINA
Il farmaco che combatte tutti i virus

Una immagine d'archivio di studenti giapponesi che usano le mascherine per difendersi dal virus dell'H1N1
Da una ricerca del Mit l'annuncio di "Draco": sarebbe in grado
di contrastare le infezioni virali, da quelle lievi come il raffreddore a quelle gravi  come Ebola o Aids
Quasi un secolo fa la scoperta della penicillina rivoluzionò il modo di curare le infezioni batteriche. Oggi un gruppo di ricercatori del Mit di Boston potrebbe avere trovato la cura per le infezioni virali, curando il raffreddore ma anche malattie molto più gravi, come l’Aids o l'Ebola.

Si tratterebbe del primo antivirale a largo spettro: a differenza degli antibiotici, gli antivirali sono pochi e molto specifici. I farmaci finora sperimentati colpiscono solo alcuni ceppi di virus, i quali mutano facilmente diventando resistenti alle cure. La nuova medicina, che si chiamerà «Draco», dovrà invece collaborare con i meccanismi di difesa già presenti nel corpo umano.

«I virus – ha spiegato Todd Rider, uno degli scienziati che hanno prodotto lo studio pubblicato su PLoS One – agiscono un po’ come l’Alien del film. Entrano in una cellula, si replicano al suo interno, e alla fine ne balzano fuori» . Quando si impadroniscono di una cellula, alcuni virus producono il cosiddetto Rna a doppio filamento, un acido che non viene prodotto dalle cellule sane. Ma il corpo umano possiede già delle difese antivirali naturali: produce infatti delle proteine che si legano all'Rna a doppio filamento impedendo al virus di replicarsi.

Il nuovo farmaco dovrebbe agire cercando le cellule che contengono l'Rna a doppio filamento, segno sicuro della presenza del virus: una volta trovato, dovrebbe ordinare alla cellula di autodistruggersi. La doppia arma, formata da quella naturale prodotta dall'organismo, insieme quella del farmaco, sarebbe perciò in grado di uccidere il virus. Rider assicura che il farmaco che non riscontra la presenza di Rna a doppio filamento viene espulso dal corpo senza alcun effetto collaterale.

Finora la nuova medicina sperimentata sui topi si è rivelata efficace contro 15 tipi di virus, tra cui quelli che causano la dengue febbrile emorragica e l'influenza H1N1, o suina, senza effetti tossici. «Il prossimo passo - spiega Rider - sarà verificare l'efficacia dell'antivirale su animali più grossi».
Fonte : la stampa

Scopre tradimento mezzo secolo dopo .Lascia la moglie dopo 77 anni insieme


CRONACHE
28/12/2011 -
Scopre tradimento mezzo secolo dopo
Lascia la moglie dopo 77 anni insieme

I due hanno deciso di porre fine al loro matrimonio dopo che lui, 99 anni, ha scoperto delle vecchie
lettere che lei, 96 anni, aveva scritto all'amante tempo prima
Due anziani coniugi - lui di 99 anni, lei di 96 - hanno deciso di porre fine al loro matrimonio a 77 anni dalle nozze, celebrate nel 1934: il ricorso per la separazione consensuale è già stato depositato al Tribunale di Roma e l’udienza presidenziale è stata fissata per il prossimo mese di marzo. «La crisi coniugale - ha raccontato  l’avvocatessa Anna Orecchioni, mostrando copia del ricorso per la separazione - ècominciata nel 2002, quando lui ha scoperto alcune lettere che la moglie aveva spedito oltre mezzo secolo fa ad un uomo con il quale aveva avuto una relazione».

Secondo quanto risulta dall’atto giudiziario e dal racconto del legale, i due coniugi - lui classe 1912, sardo; lei del 1915, napoletana - si conoscono negli anni Trenta, quando lui, giovane carabiniere, è mandato in servizio a Napoli. Le nozze sono celebrate nel capoluogo partenopeo il 25 luglio 1934. Ventuno anni più tardi la coppia - che oggi ha cinque figli, una decina di nipoti e un pronipote - si stabilisce definitivamente a Roma. La vita coniugale ha uno scossone nel 2002, quando il marito scopre in un cassetto di casa anche lettere che la moglie aveva scritto oltre mezzo secolo prima, in costanza di matrimonio, ad un uomo con il quale aveva avuto una relazione.

La reazione dell’ex carabiniere è rabbiosa: è il 2002 quando l’uomo si allontana dalla casa coniugale. Alcuni mesi dopo torna dalla moglie, ma nulla è più come prima: le liti sono sempre più frequenti, la distanza tra marito e moglie sempre più marcata. Alcune settimane fa i due coniugi hanno deciso di separarsi e il 16 dicembre i legali Anna Orecchioni, Marco Angelozzi e Giacinto Canzona hanno depositato il ricorso alla cancelleria del Tribunale di Roma. A marzo, prima di dichiarare la separazione consensuale, sarà compito del giudice compiere il tentativo di riconciliare i due coniugi.
Fonte : la stampa

NOVA SIRI - Fondi per la strada della Sulla, polemica tra Stigliano e Favale Pd e Pdl discutono sui meriti


NOVA SIRI - Fondi per la strada della Sulla, polemica tra Stigliano e Favale
Pd e Pdl discutono sui meriti


di Pierantonio Lutrelli


NOVA SIRI – Lo stanziamento di 876.500 euro per il rifacimento della strada provinciale Nova Siri-Madonna della Sulla, adottato lo scorso 22 dicembre dalla giunta provinciale di centrosinistra presieduta da Franco Stella è stato salutato con grande soddisfazione dalla segretaria del Partito democratico di Nova Siri, Filomena Bucello e dal capogruppo consiliare, Pasquale Favale. I due esponenti politici di punta del Pd novasirese anche in occasione dello stanziamento di risorse per il rifacimento di altre strade provinciali come la Nova Siri - Rotondella, non hanno fatto mistero della sinergia politica messa in atto per il raggiungimento dell'obiettivo chiedendo interventi celeri sia al presidente Stella che all’assessore alle Infrastrutture, Gianni Rondinone. D'altronde il Pd è rappresentato nella giunta provinciale con due assessori nonché sostiene il governo Stella con sette consiglieri provinciali. A tutto questo non ci sta il consigliere provinciale della minoranza di centrodestra, Antonio Stigliano del Pdl che rivendica al fine del risultato il suo personale interessamento. «In questi due anni e mezzo di mandato ho rivolto al presidente Stella e alla giunta provinciale - ha spiegato il vice capogruppo del Pdl alla Provincia - interrogazioni, sollecitazioni e richieste insistenti, che in passato hanno permesso la realizzazione di interventi per assicurare la momentanea transitabilità, e che nel prossimo imminente futuro dovrebbero definitivamente garantire la costruzione di una strada moderna e sicura, tanto importante per la popolazione di Nova Siri, che nessuna amministrazione provinciale è mai riuscita a realizzare. Voglio, inoltre, rassicurare i miei concittadini che continuerò a seguire il programmato intervento affinché possa trovare la copertura finanziaria e la definitiva cantierizzazione. Con soddisfazione posso affermare che si avvia a realizzazione quello che è stato un mio preciso impegno assunto in campagna elettorale, al quale ne seguiranno altri nel breve termine. Invito i dirigenti locali del PD a smettere di millantare crediti e a ripiegarsi concretamente sulle questioni e sui problemi, piuttosto che su feste e manifestazioni fantasmagoriche, cosicché anch’essi possano dare qualche contributo vero alla comunità novasirese, come fa umilmente e sommessamente il sottoscritto dalla difficile posizione di consigliere di opposizione». Secca la replica di Bucello e Favale : «Se Stigliano vuole prendersi i meriti del centrosinistra, benvenuto nel centrosinistra. Non mi pare che i nostri senatori ai tempi del governo Berlusconi si prendessero i meriti per le iniziative, seppur quasi inesistenti sul nostro territorio».


(Da Il Quotidiano della Basilicata)

Abolire la miseria


di Barbara Spinelli, da Repubblica, 28 dicembre 2011

Certe volte dimentichiamo che il pensiero di unirsi in una Federazione, nato come progetto non utopico ma concreto nell'ultima guerra in Europa, non ha come obiettivo la semplice tregua d'armi fra Stati che per secoli si sono combattuti seminando morte. È un progetto che va alle radici di quei nostri delitti collettivi che sono stati i totalitarismi, le guerre. Che scruta le ragioni per cui gli individui possono immiserirsi al punto di disperare, anelare a uno strabiliante Redentore terreno, immaginare la salvezza schiacciando i propri simili: i deboli, in genere. Dicono che i motivi che spinsero gli europei a unirsi, negli anni '50, sono svaniti perché il compito è assolto: la guerra è oggi tra loro impensabile. Questo spiegherebbe come mai non esistono più statisti eroici come Monnet, De Gasperi, Adenauer: uomini marchiati dalla guerra di trent'anni della prima metà del '900.

Chi parla in questo modo trascura quello sguardo scrutante che i fondatori gettarono sulla questione della miseria, e l'estrema sua attualità. Trascura, anche, quel che l'Europa unita ha tentato di fare, per creare non solo istituzioni politiche ma sociali, economiche. Dai delitti del '900 siamo usciti, nel '46, con un patto di mutua assistenza fra cittadini.

È detto Welfare perché prese forma in Inghilterra grazie al piano concepito durante la guerra, su mandato del governo, da William Beveridge, uno dei fondatori della Federal Union: lo Stato del Benessere (meglio sarebbe dire Bene-Vivere: il bene dell'Essere è cosa più scabrosa) dà sicurezza non aleatoria all'indigente, l'escluso, l'anziano, il paria. Per questo è una grave svista pensare che l'Europa abbia concluso la missione, e stia lì solo come arcigna guardiana dei conti in ordine. Esattamente come nel dopoguerra, sono richiesti Fondatori, Inventori: se la crisi odierna è una sorta di guerra, è urgente immaginare istituzioni durature perché i mali che stanno tornando (miseria, diseguaglianza) non trascinino ancora una volta le società in strapiombi di disperazione, risentimento, e quell'odio dell'altro che si disseta bramando capri espiatori (ieri gli ebrei, oggi gli immigrati e in prospettiva anche i vecchi che "muoiono così tardi").

Abolire la miseria: così s'intitolava lo splendido libro che l'economista Ernesto Rossi, autore con Altiero Spinelli e Eugenio Colorni del Manifesto di Ventotene, scrisse in carcere nel '42 e pubblicò nel '46: "Bisogna unire tutte le nostre forze per combattere la miseria per le stesse ragioni per le quali è stato necessario in passato combattere il vaiolo e la peste: perché non ne resti infetto tutto il corpo sociale". La sfida oggi è identica, e sono le pubbliche istituzioni nazionali e europee a doversi assumere il compito. Affidarlo a chiese o filantropi vuol dire regredire a tempi in cui solo la carità era il soccorso. In molti paesi arabi sono gli estremismi musulmani a occuparsi del Welfare, confessionalizzandolo. Non è davvero il modello da imitare: gli Stati europei si sono sostituiti alle chiese fin dal '200, creando istituzioni laiche aperte a tutti. Anche l'Europa unitaria investe su organismi comuni perché - sono parole di Jean Monnet - "gli uomini sono necessari al cambiamento, ma le istituzioni servono a farlo vivere". E aggiunge, citando il filosofo svizzero Amiel: "L'esperienza d'ogni uomo ricomincia sempre; solo le istituzioni diventano più sagge: accumulano l'esperienza collettiva e da quest'esperienza e saggezza, gli uomini sottomessi alle stesse regole vedranno cambiare non già la loro natura, ma trasformarsi gradualmente il loro comportamento". È laico anche questo: voler cambiare i comportamenti, non la natura dell'uomo.

È importante ricordare come nacque il Welfare, perché in Europa, Italia compresa, le campagne elettorali si svolgeranno su questi temi, e sul banco degli imputati ci sarà spesso la medicina stessa che dopo il '45 ci somministrammo sia per abolire le guerre, sia per abolire la miseria. Non è improbabile, ad esempio, che le destre italiane - non ancora emendate - tramutino l'Europa in bersaglio: da essa verrebbero quelle regole che ci impoveriscono e commissariandoci, ci umiliano. L'attacco al governo Monti, quando s'inasprirà, sfocerà in attacco all'Unione. È già chiaro negli slogan leghisti. Lo è nell'offensiva di Berlusconi contro le tasse: cioè contro il tributo che ciascuno (specie i ricchi) deve versare per preservare la pubblica salute.

Rifondare oggi l'Europa concentrandosi sulla lotta alla miseria significa capire perché l'Unione ci chiede certi comportamenti, e al tempo stesso inventare istituzioni aggiuntive che diano sicurezza all'esercito, in aumento, di disoccupati e precari. Significa comprendere che la battaglia al debito pubblico non è una mania né una mannaia: è il patto generazionale che l'Unione ci chiede di stringere, visto che gli Stati da soli non l'hanno fatto per timore delle urne. Il Trattato di Maastricht impone di non caricare le generazioni future di debiti contratti dalla presente generazione per procurarsi dei beni senza pagare le relative imposte, scrive Alfonso Iozzo, economista e federalista europeo, in un saggio sulla re-invenzione del Welfare ("Il Federalista", 1/2010).

Val la pena leggerlo, questo saggio, che poggia sulle solide basi di studi fatti da James Meade, Nobel dell'economia, sui modi di garantire redditi minimi di cittadinanza all'intera società. Il presupposto è estinguere il debito degli Stati, e trasformarlo in credito pubblico: in un patrimonio che lo Stato preveggente tiene per sé, dedicandolo non alle spese correnti ma al finanziamento del Welfare, questo bene non solo sminuito ma spesso inviso. Iozzo è convinto, come il liberal Meade, che la ricchezza delle nazioni o dell'Europa (il Pil) vada calcolata con nuovi metodi (Meade chiamava il suo Stato Agathopia, il Buon posto in cui vivere). Il criterio non è più la differenza fra quel che costano i beni prodotti e il reddito ricavato. È il patrimonio di cui dispone lo Stato, è la sua gestione: l'obiettivo è sapere se alle generazioni future verrà lasciato un capitale maggiore o minore di quello che noi abbiamo ricevuto dalle generazioni precedenti. Le leggi di Maastricht applicano tale metodo, prescrivendo come primo passo l'estinzione del debito pubblico.

Resta da compiere il secondo passo: la trasformazione del debito in un credito che protegga i cittadini in tempi di crisi. Non tutti hanno come patrimonio il petrolio norvegese, ma Oslo è un modello e ogni Stato ha l'acqua, l'aria, possibilmente nuove forme di energia: altrettanti beni pubblici consumati dall'individuo. Poiché petrolio e gas prima o poi finiranno, la Norvegia ha istituito con i ricavi energetici un Fondo pensione sottratto all'azzardo dei mercati. Solo il 4% del Fondo può essere annualmente usato per la spesa pubblica, lasciando ai cittadini un capitale a disposizione per il futuro, quando il patrimonio sarà esaurito (ogni norvegese è proprietario virtuale attraverso il Fondo di circa 100.000 euro, contro una quota del debito pubblico a carico di ogni italiano di 30.000 euro).

Avendo combattuto i debiti pubblici, l'Europa potrebbe escogitare iniziative simili, inducendo gli Stati a garantire nuova sicurezza sociale. Non solo; potrebbe far capire che nei costi vanno ormai incluse l'acqua sperperata, l'aria inquinata: beni non rinnovabili come il petrolio norvegese. Si parla molto di far ripartire la crescita. Ma essa non potrà esser quella di ieri, e questa verità va detta: perché i paesi industrializzati non correranno come Asia o Sudamerica; e perché la nostra crescita sarà d'avanguardia solo se ecologicamente sostenibile. Di qui l'importanza delle prossime elezioni: non solo quelle nazionali, ma quelle del Parlamento europeo nel 2014. Chi griderà contro le tasse e contro l'Europa troppo patrigna e severa promette un paese dei balocchi, dove è sempre domenica e sempre truffa. Meglio saperlo prima, che troppo tardi. Meglio ricominciare l'eroismo, di cui non cessa il bisogno.

(28 dicembre 2011)