martedì 31 gennaio 2012

Bauman: io disabile in un mondo che esclude


LA RIFLESSIONE
Bauman: io disabile in un mondo che esclude

Normalità è il nome elaborato ideologicamente per significare maggioranza. Cos’altro può significare, «normale», se non il fatto di ricadere in una maggioranza statistica? E cos’altro significa «anormalità» se non l’appartenenza a una minoranza statistica? Parlo di maggioranze e minoranze perché l’idea di normalità presuppone che alcune unità di un totale complessivo non siano conformi alla «norma»; se il 100 per cento delle unità recassero gli stessi tratti distintivi, sarebbe difficile che emergesse l’idea di una «norma». Quindi l’idea di «norma» e «normalità» implica una dissimiglianza, una difformità: la suddivisione di un totale complessivo in una maggioranza e in una minoranza, in un «la maggior parte» e «alcuni». La «elaborazione ideologica» che ho menzionato si riferisce alla sovrapposizione del «si deve» sull’«è»: non soltanto le unità di un certo tipo sono in maggioranza, ma esse sono come «dovrebbero essere»; sono «giuste e appropriate»; al contrario, quelle che difettano dell’attributo in questione sono come «non dovrebbero essere» – «sbagliate e inappropriate». Il passaggio dalla «maggioranza statistica» (un’enunciazione di fatto) alla «normalità» (un giudizio di valutazione), e dalla «minoranza statistica» alla «anormalità», attribuisce una differenza di qualità alla differenza nei numeri: essere in minoranza significa anche essere inferiori. Si sovrappone una differenza di qualità sulla differenza numerica – e, se viene applicata alle interazioni umane, si riciclano le differenze della forza numerica nel fenomeno (sia in teoria, sia in pratica) della ineguaglianza sociale. La questione della «normalità versus anormalità» è la forma in cui la questione della «maggioranza versus minoranza» viene assorbita/addomesticata, e conseguentemente fissata, nella costruzione e nella preservazione dell’ordine sociale. Sospetto perciò che «disabilità» e «invalidità», i nomi affiliati (e in misura parzialmente maggiore, benché non interamente, «politicamente corretta») per «anormalità», quando si riferiscono al trattamento delle minoranze umane come inferiori, siano parte integrante della più vasta questione «maggioranza versus minoranza» – e quindi in definitiva un problema politico. Questo problema si focalizza sulla difesa dei diritti delle minoranze che i meccanismi democratici esistenti, basati come sono sull’incorporazione del fatto di essere una maggioranza nel diritto di assumere decisioni vincolanti per tutti, sembrano essere incapaci (e con ogni verosimiglianza non particolarmente desiderosi) di affrontare, gestire e risolvere definitivamente la questione.

Nella famosa storia di H.G. Wells «Nel Paese dei Ciechi» la questione viene posta ed esplorata acutamente: in una società di ciechi, un orbo sarebbe stato re, come credeva la persona che si avventurò nella vallata per fuggire dalla società di chi vedeva con entrambi gli occhi, in cui essere orbi veniva considerato un difetto avvilente? Se fosse stato davvero re in una società di ciechi, la tacita assunzione sottesa alla nostra società (che la superiorità dei vedenti sui ciechi è un verdetto della natura, piuttosto che una creazione socioculturale) sarebbe stata confermata, rinforzata, forse addirittura «provata». Ma ciò non avvenne. Lo straniero con un occhio solo non venne acclamato come un re da adorare e a cui obbedire, venne visto invece come un mostro da aborrire e scacciare! Nella «normalità» fatta nella valle su misura per i suoi abitanti che avevano avuto il destino di essere ciechi lui, l’orbo, era portatore di una minacciosa anormalità. Il che spiega che la normalità non viene vissuta come repellente e minacciosa a causa della sua intrinseca inferiorità, bensì per il fatto che contrasta l’ordine stabilito per aderire ai bisogni/costumi/aspettative dei «normali» – vale a dire, della maggioranza. Alla fin fine, discriminare ciò che è «anormale» (ovvero la condizione della minoranza) è un’attività posta in essere per difendere e preservare l’ordine, una creazione socioculturale.

Nella sua storia in due romanzi distinti, «Cecità» e «Saggio sulla lucidità», José Saramago ha sviluppato ulteriormente questo argomento. Nel primo romanzo, un’inesplicabile cecità affligge l’intera popolazione della città con l’unica eccezione di una donna, sulla quale gli orrori della nuova «norma» che sospende e invalida tutte le regole del vecchio ordine si focalizzano sulla minoranza di una persona eletta nelle menti terrificate della maggioranza cieca come una causa, forse la causa principale, del loro miserabile destino.  Nel secondo romanzo la città è totalmente guarita dalla peste della cecità, ma è afflitta da un disastro parimenti inesplicabile che si è abbattuto sull’ordine sociale: il rifiuto dell’elettorato di esprimere la propria preferenza, e quindi di mantenere vivo il presupposto stesso della democrazia, in modello attualmente vincolante di ordine. Tutte le forze della polizia segreta vengono così mobilitate per dare la caccia a, e neutralizzare, quell’unica donna che durante il flagello della cecità non aveva perduto la vista…
Anormali una volta, anormali per sempre; anormali rispetto a un singolo aspetto, anormali in tutto; e non una minaccia a un ordine specifico, bensì all’ordine in quanto tale. Alla fine, tutto ruota intorno all’ordine. I vari tipi di ordine sono tagliati su misura delle maggioranze, e così i pochi che nicchiano o si rifiutano apertamente di obbedire si ritrovano a essere una minoranza, agevole da sminuire come una «deviazione marginale» – e perciò facili da individuare, localizzare, disarmare e sopraffare. Selezionare, designare e isolare come una «frangia di anormalità» è il necessario fattore concomitante della costruzione dell’ordine e il costo inevitabile della sua perpetuazione. Questa è una verità molesta, dolorosa e sgradevole, e tuttavia è la verità. Il mondo abitato viene strutturato in modo da essere ospitale – conveniente e confortevole – per i suoi abitanti «normali»: le persone che costituiscono la maggioranza. Le automobili devono essere equipaggiate con luci e trombe che avvisino del loro arrivo – strumenti di nessuna utilità per i ciechi e i sordi. Le scale, che hanno il compito di facilitare l’ascesa verso i luoghi elevati, non sono di alcun aiuto per le persone relegate su sedie a rotelle. Io stesso, nella mia età avanzata, avendo ormai perso la maggior parte del mio udito, non posso più essere allertato dai telefoni o dal campanello di chi suoni alla mia porta.

Questi esempi si sono riferiti finora alle disabilità fisiche – che in una società solidale potrebbero essere sanati da trattamenti medici e, nel caso dell’assenza di una funzione fisiologica, mitigati da strumenti tecnologici capaci di «estendere» il corpo umano e/o fare le veci delle risorse fisiche mancanti. Non esistono però le sole disabilità fisiche, vi sono altre disabilità molto più diffuse, anche se in questi casi i loro poteri disabilitanti vengono spazzati sotto il tappeto, ipocritamente negati o altrimenti ignorati e dissimulati. Non sono problemi medici o tecnologici ma politici. Per esempio, gli handicap causati alle persone che non possiedono un’automobile cancellando, come «improduttivi» (e per ciò stesso di peso ai cittadini «normali» che pagano le tasse), molti percorsi degli autobus o chiudendo uffici postali o filiali bancarie «non remunerative». Vi sono, specialmente nella nostra società dei consumi, consumatori «squalificati», a corto di denaro, a cui non si fa credito, e a cui perciò si nega la possibilità di raggiungere gli standard di «normalità» stabiliti dal mercato e misurati dal numero di cose possedute e dagli atti d’acquisto. E, circostanza ancora più importante per il tema di cui ci stiamo occupando, vi sono grandi quantità di giovani fisicamente prestanti in età scolare, disabilitati nei loro tentativi di raggiungere gli standard posti dal mercato del lavoro dal fatto di essere nati e cresciuti in famiglie i cui guadagni sono sotto la media o in quartieri deprivati e trascurati… Famiglie che vivono in povertà (anche in questo caso una condizione misurata da standard di «normalità» che, posti in termini socioculturali, sono i fornitori più prolifici di studenti deboli o «ritardati»). In questi casi sarebbero necessari equivalenti politici degli strumenti medici o tecnologici usati per compensare le disabilità fisiche. Questi mezzi esistono senz’altro, ma la loro disponibilità o la loro assenza dipende sono in piccola parte dalle scuole e dagli insegnanti. L’ineguaglianza delle opportunità educative è qualcosa che soltanto le politiche statali possono affrontare e risolvere in modo netto e preciso. Finora, comunque, come abbiamo visto prima, le politiche statali sembrano più propense alla latitanza che a mettersi in gioco con serietà per risolvere questo enorme problema.

IL TESTO
Venti conversazioni in un’estate, tra internet e Leeds (città di residenta di Bauman). È nato così «Conversazioni sull’educazione» (pp. 146, euro 12), il volume Erickson in cui l’intellettuale di origine polacca dialoga con l’italiano Riccardo Mazzeo e del quale offriamo in questa pagina un saggio. A 86 anni il sociologo che ha coniato la definizione di «società liquida», si occupa delle giovani generazioni e del tema dell’educazione: qual è oggi il suo ruolo, se manca un’idea precisa di futuro, se i progetti a lungo termine sembrano ormai impossibili, se non esiste più un modello unico e condiviso di umanità? Bauman offre una prospettiva critica, ma anche di estrema apertura, per esempio ritenendo che l’inevitabile processo di meticciato culturale dovuto all’emigrazione di extracomunitari in Occidente sia «fonte di arricchimento e motore di creatività, per la civiltà europea così come per qualunque altra»; purché la coabitazione sia basata da ambedue le parti sul rispetto dei principi del "contratto sociale" europeo.

di Zygmunt Bauman, da Avvenire

2011, un anno record per furti, rapine e borseggi


I DATI
2011, un anno record
per furti, rapine e borseggi
Boom di assalti alle abitazioni: +28%. Reati contro il patrimonio aumentati del 15%. La quota degli stranieri irregolari denunciati in Italia per reati di droga ha raggiunto il 34,5% del totale. Tra il 2004 e il 2007 l'incremento era stato più graduale e legato agli scippi e ai borseggi
di FABIO TONACCI,da Repubblica


UN DILAGARE di rapine a mano armata negli appartamenti. E un esercito di scippatori e borseggiatori in strada a minacciare la sicurezza pubblica. La criminalità in Italia sta vivendo una svolta. Nel 2011, dopo anni di calo costante, c'è stata un'impennata a sorpresa dei reati contro il patrimonio, aumentati del 15 per cento rispetto al 2010.

Per le rapine nelle abitazioni è un vero quanto allarmante boom: sono cresciute del 28 per cento in pochi mesi. Un'inversione di tendenza che spiazza i sociologi e preoccupa tutte le forze di polizia. A documentarlo sono i dati riservati che le prefetture di tutta Italia stanno inviando al Dipartimento di pubblica sicurezza del Viminale, e che Repubblica è in grado di anticipare.

I furti in appartamento sono cresciuti nell'ultimo anno del 15 per cento, così come le rapine e i borseggi. Gli omicidi sono  "stabili": 610 casi nel 2011. Aumenta invece il peso degli stranieri nella contabilità criminale. La percentuale degli immigrati senza permesso di soggiorno nel totale delle denunce per reati legati alla droga è arrivata a 34.5 per cento. Un record, non è mai stata così alta.

Sono numeri ricavati dalle denunce presentate a Carabinieri, Polizia e Guardia di Finanza. Sono provvisori, perché ancora non tutti gli uffici hanno provveduto a inviare le statistiche. Ma chi li sta raccogliendo prevede che quelli definitivi sulle rapine e i furti saranno corretti al rialzo, intorno al 18-19 per cento. Abbastanza per parlare di emergenza sicurezza.

Emergenza che i recenti casi di cronaca nera avevano fatto solo intuire. Per esempio il duplice omicidio a scopo di rapina del commerciante cinese e della figlioletta di pochi mesi, avvenuto a Roma qualche settimana fa. O lo scippo con aggressione di sei giorni fa in centro a Milano, di cui è stata vittima una imprenditrice che girava in bicicletta. Episodi che hanno fatto rumore, ripresi da tutti i telegiornali.

Ma è sfogliando le cronache locali che si ha la percezione della paura e del disagio vissuto da chi vive lontano dall'attenzione delle telecamere, negli angoli meno esposti della provincia italiana. Rapine in villa, aggressioni ai proprietari, il crimine che entra in casa e terrorizza. E poi scippi e borseggi subiti in pieno giorno, furti con scasso. Cioè le varie forme in cui si declina il reato predatorio contro la ricchezza.

Un incremento come quello del 2011 non si verificava dal triennio 2004-2007, ma allora la fase espansiva era stata più graduale. A determinare quell'impennata avevano contribuito solo una parte di reati: i borseggi, i furti di automobili e nei negozi. Quelli commessi in appartamento e gli scippi in realtà erano in costante diminuzione.

Nel 2009, come si legge nell'ultimo Rapporto sulla Criminalità e la sicurezza in Italia, le denunce di furto erano 2500 ogni 100 mila abitanti. Lo stesso trend per le rapine, in netta flessione negli ultimi venti anni, eccezion fatta per il picco del 2007 (90 casi ogni 100 mila abitanti, 18 volte di più rispetto al 1970). Dopo quell'anno nero, erano crollate e sembravano destinate a diminuire.

I sociologi sono i primi ad essere sorpresi dall'impennata del 2011. Una prima spiegazione la azzarda il sociologo Marzio Barbagli in questa pagina. Sarebbe colpa della crisi economica, entrata negli ultimi dodici mesi nella fase più aggressiva, con licenziamenti in aumento e sempre più giovani tenuti ai margini del mercato del lavoro.

Un periodo in cui, politicamente, si sono sovrapposte la fase decadente dell'ultimo governo Berlusconi e l'ingresso del tecnico Mario Monti. E nel quale si assiste all'oggettiva difficoltà delle forze dell'ordine, che da mesi denunciano carenza di mezzi e strutture. Anche per questo la crisi ha dispiegato i suoi effetti più oscuri e criminali.
(31 gennaio 2012)

Riduzione degli stipendi parlamentari .Potrebbe sembrare una bella sforbiciata, ma non lo è!!!


IL COMMENTO
Un passo timido aspettando tagli veri
Da anni nei cassetti proposte per adeguarsi ai modelli europei

Potrebbe sembrare una bella sforbiciata, ma nulla in confronto alla vera questione: la mancanza di trasparenza nel finanziamento dei partiti. Per non parlare dei costi abnormi delle strutture e degli apparati. Tanto tuonò che alla fine piovve. Resta soltanto da vedere se si tratta di un acquazzone oppure di una spruzzatina. E soprattutto se i parlamentari non hanno già aperto l'ombrello.
Certo, l'adozione del sistema contributivo per il calcolo dei vitalizi è un cambiamento: anche se sarebbe stato preferibile, e più equo, abolire i vitalizi e calcolare i relativi periodi contributivi ai fini di un'unica pensione.
Certo, un taglio di 1.300 euro lordi al mese potrebbe sembrare una bella sforbiciata, se non si trattasse di una partita di giro: quell'importo altro non sarebbe, a quanto pare, che l'aumento della retribuzione conseguente al passaggio al regime contributivo, che verrebbe sterilizzato girando il di più a un apposito fondo di spettanza degli stessi parlamentari.
Certo, la riduzione del 10% delle indennità di funzione è un segnale: ma riguarda appena una manciata di deputati e senatori.
C'è chi argomenterà che non si può sempre vedere il bicchiere mezzo vuoto. In un mondo nel quale per anni si è giocato a rimpiattino, fingendo di fare i sacrifici mentre in realtà i privilegi aumentavano, la semplice applicazione del contributivo per i vitalizi è una misura scioccante. Per quanto non assolutamente paragonabile, dal punto di vista degli effetti finanziari, al tetto delle retribuzioni degli alti dirigenti pubblici che Mario Monti è riuscito a imporre.
Ma va detto, con forza, che ancora una volta il problema più macroscopico non è stato risolto. La somma destinata al pagamento degli assistenti parlamentari, finora versata a forfait senza bisogno di esibire i contratti o le pezze d'appoggio, dovrà adesso essere rendicontata per il 50%. L'altra metà continuerà ad affluire senza giustificativi nelle tasche degli onorevoli. Parliamo di 1.845 euro al mese per i deputati e 2.090 per i senatori. Tutto ciò fin quando non sarà individuata una soluzione definitiva. Quale? «Regolarizzare la figura dell'assistente parlamentare, spesso registrato come colf o autista, e dargli una dignità sul modello europeo. Con qualifiche e uno stipendio determinato per legge, pagato direttamente dal Parlamento», aveva detto uno dei tre questori, il pidiellino Antonio Mazzocchi. Semplicissimo da fare: basta copiare Strasburgo. Ma qui da noi è molto più facile da dire.
Ora ci spiegano che servirà una legge, sebbene proposte che vanno proprio in questa direzione giacciano da anni a Montecitorio e palazzo Madama. Sepolte nei cassetti. Una per tutte, il disegno di legge presentato dai tre questori del Senato Romano Comincioli (deceduto qualche mese fa), Benedetto Adragna e Paolo Franco il 21 aprile 2009, quasi tre anni fa. Perché non è mai stata messa all'ordine del giorno? Il motivo è lo stesso che fa andare avanti su questa vicenda una indecorosa melina: i partiti non vogliono perché i soldi destinati alla retribuzione dei collaboratori parlamentari finiscono anche nelle loro casse. Una forma di finanziamento surrettizio della politica, che suona come una beffa per chi paga le tasse, dato che su quei contributi c'è uno sgravio fiscale del 19%. Un esempio concreto? Il deputato Tizio versa al partito 2.000 euro al mese prelevandoli dalla somma destinata ai «portaborse». Il Fisco gliene restituisce 380: ai contribuenti il suo fondo per gli assistenti parlamentari viene quindi a costare non più i 3.690 euro mensili dichiarati, bensì 3.690+380 = 4.070.
Ecco perché le sforbiciatine agli stipendi sono nulla in confronto alla vera questione: la mancanza di trasparenza nel finanziamento dei partiti, che questa vicenda apparentemente marginale mette brutalmente in luce. Un'opacità arrogante, che alimenta corruzione e altri comportamenti riprovevoli. Per non parlare dei costi abnormi delle strutture e degli apparati. Si può allora dare in pasto alle folle urlanti un taglio furbetto alle indennità, spacciandolo per un doloroso salasso. Ma finché non si sarà stabilito che un commesso della Camera non può guadagnare come un manager e che la politica si deve finanziare in modo equo e trasparente non si sarà fatto ancora niente.
Sergio Rizzo

di Sergio Rizzo, dal corriere
31 gennaio 2012 |

La rimozione dell'Italia


IL FUTURO DEI PARTITI / 1
La rimozione dell'Italia
I partiti italiani ce la faranno a uscire dalla condizione di irrilevanza - vorrei dire d'inutilità - in cui li sta precipitando la presenza del governo Monti?

I partiti italiani ce la faranno a uscire dalla condizione di irrilevanza - vorrei dire d'inutilità - in cui li sta precipitando la presenza del governo Monti? Questa è la domanda cruciale da qui alla prossima scadenza elettorale, qualunque essa sia.
Rispondere è impossibile essendo troppe le variabili in gioco. Ma di una cosa però mi sentirei sicuro. Che essi non potranno mai riacquistare un senso e un ruolo se nella loro identità politica non tornerà ad avere posto un elemento da troppo tempo assente: e cioè il discorso sull'Italia. Intendo dire la consapevolezza di che cosa è stato ed è il nostro Paese e di quali sono i suoi grandi e sempre attuali problemi: l'antica tensione tra pluralità dei luoghi e dissolvimento localistico, l'abisso multiforme tra Nord e Sud, la perenne e generale scarsa educazione alla legalità e alle virtù civiche, la forza degli interessi, delle corporazioni e delle camarille, sempre pronti a diventare dietro le quinte gli attori concreti di ogni realtà sociale e pubblica. Infine l'egoismo di chi ha e la triste condizione dei troppi che non hanno.

Questa è l'Italia vera con la quale i partiti e le loro culture e i loro programmi dovrebbero sentirsi chiamati a fare i conti. E con la quale per la verità ci fu un tempo in cui cercarono di farli. Accadde all'incirca fin verso gli anni 70-80 del secolo scorso quando ancora tenevano il campo le culture politiche del nostro Novecento: tutte nate, per l'appunto, da un'analisi approfondita della vicenda del Paese, da una radiografia dei suoi problemi, dei suoi vizi e delle sue virtù. Da qui non solo programmi, ma soprattutto un'idea dell'interesse generale della collettività nazionale e di conseguenza una loro ispirazione autentica, e quindi la voglia e la capacità di darle voce venendo presi sul serio.

Ma con la fine della cosiddetta Prima Repubblica le culture politiche del nostro Novecento si sono disintegrate. Qualunque discorso sull'Italia è scomparso dalla vita pubblica italiana. Si è diffusa una sorta di stanchezza per il pensare in generale e magari in grande. Abbiamo provato come una noia, quasi un disgusto, per noi stessi e per una nostra storia che sembrava averci portato solo a Tangentopoli e al grigiore un po' torbido e inconcludente della stagione successiva. È accaduto così che ci siamo buttati a corpo morto sull'Europa. Per quindici anni e più il solo avvenire che è apparso lecito augurare al nostro Paese è stato quello di «entrare» in Europa, o, per restarci, di «avere i conti in ordine», di adottare le sue direttive, di «fare i compiti» a vario titolo assegnatici. Giustissimo, per carità, ma troppo ci è sembrato che a tutto dovesse (e potesse!) pensare l'«Europa»; che nel frattempo, peraltro, stava diventando sempre più evanescente. Troppo ci è sembrato che per essere europei fosse necessario buttarsi dietro le spalle l'Italia e il fardello della sua storia.

Superficialmente persuasi che ormai essa avesse fatto il suo tempo abbiamo guardato con sufficienza alla dimensione statal-nazionale. Non si decideva, tanto, tutto «in Europa»?

L'europeismo è diventato l'ideologia radio-televisiva del potere italiano, il pennacchio di ogni chiacchiera pubblica, il prezzemolo di tutte le minestrine dei Convegni Ambrosetti. Oggi ci accorgiamo che le cose stavano - e soprattutto stanno - un po' diversamente. La crisi paurosa del debito pubblico, e insieme la manifestazione di tutte le nostre innumerevoli inadeguatezza che essa ha causato, ci hanno ricordato, infatti, che esiste una cosa chiamata Italia, e che, ci piaccia o meno, tanta parte della nostra vita individuale e collettiva dipende da essa (e forse è servito a questo ricordo anche il concomitante anniversario della nascita del nostro Stato).

Ora è giunto il momento che se ne accorgano e se ne ricordino pure i partiti. L'origine della loro afasia degli ultimi anni, della loro perdita di senso e dunque di ascolto presso l'opinione pubblica, nasce per tanta parte dall'aver escluso dal loro orizzonte l'Italia e la sua vicenda, la sua realtà più intima. Nasce dall'aver cancellato ogni riflessione, ogni proposta di vasto respiro, ma credibile, capace di tener conto di quella vicenda parlando al cuore, alla mente, ma soprattutto alle speranze degli italiani. Siamo pieni di discorsi su ciò che è fuori dei nostri confini, su dove va il mondo, ma non abbiamo un'idea di dove vada o voglia andare l'Italia. Di che cosa essa debba volere. Nessuno ci dice, non sappiamo, a che cosa essa possa ancora servire. Sono i partiti che devono ricominciare a dircelo. Non ricordo più dove Antonio Gramsci ha scritto che si può essere realmente cosmopoliti solo a patto di avere una patria. Bene: è tempo che la politica, facendo sentire di nuovo la propria voce, torni a parlarci della nostra.

di Ernesto Galli della Loggia,dal corriere
31 gennaio 2012 |

“Né di destra, né di sinistra”


“Né di destra, né di sinistra”
di Michele Smargiassi, da Repubblica, 28 gennaio 2012

Dagli indignati ai grillini, da Celentano a Grillo, proclamare la fuga sprezzante o snob o furbesca dalla geografia dell'agorà è una strategia d'immagine che paga sempre. Ma è davvero possibili sottrarsi alle categorie che hanno scolpito la geografia politica della modernità?

“Sopra”, “oltre”, “avanti”, “altrove”: deve convocare un'intera famiglia di avverbi di luogo chi vuole evadere la topografia politica del Novecento, disposta su una linea che corre da destra a sinistra. Affermare “non sono né di destra né di sinistra” rientra, è vero, nel diritto d'opinione del singolo cittadino, ma che succede quando il verbo viene coniugato al plurale collettivo, “non siamo né di destra né di sinistra”, quando è un movimento politico che rifiuta di collocarsi sugli assi cartesiani della democrazia occidentale? Succede che qualcuno gli ritorce addosso la furbizia: «Ci sono due modi di non essere né di destra né di sinistra: un modo di destra e uno di sinistra…».

È il beffardo «paradosso spaziale da disegno di Escher» con cui Wu Ming 1, uno dei componenti “senza nome” del collettivo di scrittura che si affermò con l'allegoria storico-politica del romanzo Q, ha aperto le ostilità su Nuova rivista letteraria e poi su Giap, il blog che esprime il coté militante del sodalizio bolognese. Troppi, ormai, i movimenti sedicenti atopici nel mondo, dai nordici “partiti dei Pirati” agli Occupy Wall Street, per arrivare alle primavere arabe. Ma questo è «un velo che dobbiamo lacerare», sostiene Wu Ming 1, e affonda: se gli Indignados spagnoli incarnano palesemente un “né-né” di sinistra, “egualitario, anticapitalista”, i grillini italiani per esempio sono senza dubbio un movimento di destra: “diversivo, poujadista, sovente forcaiolo”. Un testo articolato che procede citando criticamente George Lakoff e la sua coppia antitetica progressista/conservatore e utilizzando Fredric Jameson che intimava, nel suo Inconscio politico, a “Storicizzare sempre”.

Nel dibattito, ovviamente, i né-né rivendicano il loro rifiuto della polarizzazione obbligatoria con parole che risuonano nei sondaggi (l'ultimo quello di giovedì scorso dell'Ipsos dove il 57% ha risposto che «conta la capacità dei leader, che siano di destra o di sinistra è secondario») e in qualsiasi pizzeria: «destra e sinistra hanno fallito entrambe, fanno ugualmente schifo». Nascosto nel muto magma dell'astensionismo elettorale, è questo il voltafaccia dell'elettore identitario tradito, è il disgusto del consumatore insoddisfatto, «di chi non è contento dell'offerta sul mercato delle idee, comprensibile, perfino condivisibile», riconosce il politologo Piero Ignazi, studioso di postfascismo e quindi esperto di partiti “migratori”, «ma non ce la raccontiamo: non c'è altro modo, per chiunque chieda consensi, che collocarsi da qualche parte nel campo politico».

E la polarità destra-sinistra è ancora quella che meglio visualizza la mappa di quel territorio. Norberto Bobbio, che difese la bipartizione in un libro più citato che letto, avrebbe ribadito a questo punto che «chi dice di non essere né da una parte né dall'altra, non vuole semplicemente far sapere da che parte sta», lo ripete per lui uno dei suoi più accreditati eredi, Michelangelo Bovero: «È una collocazione inevitabile, qualunque altra cosa si affermi, perché destra e sinistra non sono concetti identitari, ma relazionali. Ti chiedono di rispondere non alla domanda “chi sei?”, ma a “dove sei rispetto agli altri?”: se non lo dichiari tu, saranno le tue relazioni a collocarti». Ma è proprio per evitare questo che il movimento di Beppe Grillo si impone di “non stare con nessuno”… «Allora saranno i tuoi “no”, la tua retorica, il tuo linguaggio a definire il tuo luogo politico».

Eppure la tentazione agnostica ha una lunga storia nella nostra democrazia caotica. A parte la parabola postbellica dell'Uomo qualunque, che oggi non si fa fatica a riconoscere come un movimento reazionario, la vicenda italiana ha conosciuto diverse anguille politiche. Quando nel '76 la prima pattuglia di Radicali entrò in Parlamento, fu quasi zuffa per la scelta dei seggi: si piazzarono a un'estremità (quella sinistra, però…) per evidenziare la loro estraneità all'”arco costituzionale” e alla “partitocrazia” più che per autodefinizione logistica. La Lega Nord, com'è noto, ha rimpiazzato il destra-sinistra con altre polarità, geografiche o etniche, pseudonaturali, mitiche o folcloristiche. Ma anche Antonio Di Pietro, in più di una intervista, ha ceduto alla dolce tentazione del né-né. E tuttavia sono stati poi tutti quanti incastonati senza pietà a destra o a sinistra dalle rispettive alleanze politiche. Anche il pragmatismo localista delle liste civiche comunali, che visse un momento di fortuna alla fine degli anni Novanta, non riuscì a far credere a lungo al suo slogan: “i problemi non sono né di destra né di sinistra”, proprio perché, alla fine, governò le città alleandosi con la destra o, più raramente, con la sinistra.

Un luogo politico inesistente, il né-né? Per Gustavo Zagrebelski «esiste solo nel prepolitico, dove si incontrano i vasti princìpi condivisibili da tutti: ma appena si affronta il piano delle decisioni, la scelta è inevitabile». «Forse solo l'ecologismo radicale, che ha come orizzonte la specie, sfugge all'inevitabilità di scegliere fra l'interesse superiore dell'individuo o quello della comunità, fra destra e sinistra» aggiunge Carlo Galli, autore di Perché ancora destra e sinistra, «al di là dei contenuti che queste definizioni esprimono, e che variano nel tempo e nei contesti: non sono la stessa cosa nell'Italia odierna e negli Usa, o nell'Italia degli anni Cinquanta. Si può anche essere più cose contemporaneamente, come i grillini che sono di sinistra per l'attenzione ai diritti, e di destra per gli atteggiamenti populisti. Ma pretendere di stare da un'altra parte è insipienza politica, o più verosimilmente tattica».

Non c'è “terzismo” che tenga, sostengono dunque concordi i politologi: anche Sofia Ventura, considerata vicina al Terzo Polo politico, non deflette: «Se non ci fossero disposizioni nello spazio politico, non ci sarebbe neppure la politica. Le posizioni possono non essere stabili, di fatto non lo sono mai nel lungo periodo, ma chi si muove è tenuto a dire dove va». Negli anni del terrorismo, in effetti, chi diceva “né con lo Stato né con le Br” rivendicava una collocazione politica chiara, di sinistra critica ma non omicida. Mentre col suo preteso rifiuto bilaterale anticapitalista e anticollettivista Terza Posizione era fin troppo chiaramente un movimento di estrema destra.

Ma il marketing politico non ascolta certo le lezioni teoriche dei professori. Da Celentano a don Verzè, da Gaber a Grillo, proclamare la fuga sprezzante o snob o furbesca dalla geografia dell'agorà è una strategia d'immagine che paga sempre. Un grave difetto di lateralizzazione in un bambino di prima elementare impone una visita dal medico; in un adulto, può fondare una carriera.

(30 gennaio 2012)

mprese commercio, fiducia ai minimi dal 2003 Settore manifatturiero, mai così male dal 2009


ISTAT
Imprese commercio, fiducia ai minimi dal 2003
Settore manifatturiero, mai così male dal 2009
Nelle vendite al dettaglio il clima di fiducia scende sia nella pccola che nella grande distribuzione. In leggero miglioramento i dati relativi alle imprese di costruzione. Bce, cresce fiducia del business

Cala, a gennaio 2012, la fiducia nelle imprese del commercio al dettaglio: l'indice destagionalizzato scende al 78,4, segnando il valore minimo dal 2003, ovvero dall'inizio delle serie storiche destagionalizzate. Lo rileva l'Istat che sottolinea come nel commercio al dettaglio il clima di fiducia scenda in entrambe le tipologie di vendita. In particolare, l'indicatore cala da 68,1 a 65,5 nella grande distribuzione e da 93,5 a 88,6 nella distribuzione tradizionale. Continuano a peggiorare le attese e, soprattutto, i giudizi sulle vendite, e cala il saldo relativo alle scorte di magazzino.

In calo anche il clima di fiducia del settore manifatturiero che, sebbene la flessione rispetto al mese di dicembre sia minima (da 92,5 a 92,1), tocca il valore più basso da novembre 2009. L'Istat spiega che i giudizi sugli ordini migliorano, mentre le attese di produzione peggiorano; il saldo dei giudizi sul livello delle scorte di magazzino diminuisce.

L'indice scende da 91,2 a 90,2 nel comparto produttore di beni strumentali e da 95 a 93,9 in quello dei beni di consumo, mentre aumenta da 90,9 a 91,7 nei beni intermedi. Secondo le consuete domande trimestrali sulla capacità produttiva, nel quarto trimestre 2011 il grado di utilizzo degli impianti scende a 70,4% da 71,7% del terzo trimestre; la durata della produzione assicurata sulla base dell'attuale portafoglio ordini rimane stabile a 3,1 mesi. Nel quarto trimestre la quota di operatori che segnala la presenza di ostacoli all'attività produttiva rimane invariata al 44%.

Sempre a gennaio l'indice destagionalizzato del clima di fiducia delle imprese di costruzione sale a 82,2 da 80,2 di dicembre. Migliorano sia i giudizi sugli ordini e/o sui piani di costruzione, sia le attese sull'occupazione. L'indice sale da 71,0 a 77,2 nella costruzione di edifici e da 77,7 a 83,6 nell'ingegneria civile, ma scende da 90,2 a 86,0 nei lavori di costruzione specializzati.

E17, cresce la fiducia business. Nel primo mese dell'anno, l'indicatore Esi, che misura la fiducia del business e dei consumatori sullo stato dell'economia è aumentato 0,6 punti nell'Eurozona a 93,4 punti e di 1,2 punti a 92,8 punti nella Ue. Si tratta del primo aumento da marzo 2011. Lo rileva la Commissione Ue. In Germania +2,3 punti, Spagna +1,8, Francia -2,1 e Italia -1,1. Il miglioramento è dovuto all'aumento della fiducia nel settore dei servizi e in misura inferiore tra i consumatori e nelle costruzioni. L'indicatore è sopra la media di lungo termine solo in Germania.

Industria - Stabile nell'Eurozona, +0,4 punti nella Ue (appena sotto la media di lungo termine). Nelle due aree i manager valutano più positivamente la produzione passata e il portafoglio ordini. Nell'Unione europea le imprese esprimono un crescente ottimismo sulle attese di produzione e sugli attuali livelli degli ordini anche se tali miglioramenti sono parzialmente compensati da un peggioramento delle attese sullo stock di prodotti finiti. Nell'Eurozona le attese di produzione sono stabili mentre il giudizio degli ordini si è deteriorato. I manager vedono con occhio più positivo gli stock. In Italia la fiducia peggiora da -11,3 punti a -11,8.

Servizi - nell'Eurozona è +2 punti, nella Ue +2,9 grazie alle valutazioni più positive sul business passato, sulla domanda passata e sulla domanda attesa. In Italia peggioramento da -14,7 punti a -16,2 punti.

Costruzioni - Eurozona +0,6, Ue +1,2, in Italia miglioramento da -32,3 punti a 29,3.

Commercio dettaglio - Peggioramento sia nell'Eurozona, -3,3, che nella Ue, -2,7; Italia da -20,2 a -25,6.

Consumatori - Migliora di 0,6 punti nell'Eurozona e di 1,3 punti nella Ue grazie al calo delle preoccupazioni per la disoccupazione. In Italia peggiora da -34 a -36,3.

La fiducia nei servizi finanziari (non inclusa nell'indicatore Esi) aumenta nelle due aree (+9,1 punti nell'Eurozona e +6 nella Ue). Secondo il sondaggio trimestrale sul settore manifatturiero le attese dei manager sull'export è aumentato nelle due zone, mentre nell'eurozona si verifica anche un miglioramento nella valutazione della posizione competitiva nei mercati extra Ue. La capacità di utilizzazione degli impianti aumenta marginalmente, al 79,9% nell'eurozona e all'80,2% nell'Unione (resta sotto la media di lungo termine).
Fonte : Repubblica
(30 gennaio 2012)

Non basta un successo parziale


di FRANCO BRUNI,dalla Stampa

Il vertice di Bruxelles di ieri sera ha cercato di raggiungere tre obiettivi: il rafforzamento della disciplina comunitaria dei bilanci pubblici, con un nuovo «patto fiscale» fra i Paesi dell'area dell'euro; il rilancio di politiche comunitarie di crescita, che si affianchino alla disciplina di bilancio e ne contengano gli effetti depressivi di breve periodo; l'istituzione di un fondo salva-Stati permanente, in grado di finanziare a medio termine i Paesi in difficoltà, dando loro tempo di riequilibrare i bilanci con buone riforme strutturali, in modi sostenibili, senza precipitazione controproducente.

Sui tre fronti c'è stato un successo parziale. Il patto fiscale è il testo di un Trattato che sarà sottoscritto anche dai Paesi che non hanno l'euro, salvo la Gran Bretagna e la Repubblica Ceca. Si sovrappone in modi non del tutto chiari alla legislazione sugli squilibri macroeconomici che l'Ue ha appena varato con un lavoro lungo e complesso; rischia di essere una complicazione che, nella sostanza, non aggiunge quasi nulla salvo imporre ai Paesi di introdurre alcune norme della disciplina fiscale nella propria legislazione, possibilmente a livello costituzionale.

L’ intervento dell'Italia è stato determinante per evitare clausole del patto formulate con severità controproducente. Il patto è soprattutto un risultato formale che Angela Merkel vuole esibire per giustificare ai suoi elettori gli aiuti e le attenzioni che il mantenimento della stabilità finanziaria europea richiede vengano riservati ai Paesi in maggiore difficoltà.

Il rilancio delle politiche per la crescita e l'occupazione rimane affidato a dichiarazioni di intenzioni (dalle quali si è sottratta la Svezia), la più concreta delle quali sembra per ora la mobilizzazione di fondi strutturali comunitari non spesi. Anche qui la spinta italiana, e quella personale di Mario Monti, è servita a evitare che questo tema fosse trascurato. Speriamo che il rilancio divenga presto concreto, che si trasformi in misure visibili per i progressi del mercato unico.

Quanto al fondo salva-Stati non è ancora chiaro quale dimensione potrà raggiungere e quale flessibilità operativa potrà avere. Il suo compito è fondamentale, soprattutto per sollevare la Bce dalla funzione di supplenza dei governi che l'ha costretta fino ad ora a sostenere i debiti pubblici dei Paesi in crisi con acquisti diretti o indiretti, attraverso le banche che lei finanzia, andando oltre il breve termine al quale i suoi interventi dovrebbero limitarsi.

Ora occorre perfezionare e completare gli accordi, rifinendoli entro il prossimo vertice di marzo.

Ma i tasti da toccare, per rafforzare durevolmente la stabilità finanziaria europea, sono anche altri. Innanzitutto tutti i Paesi devono mostrare una volontà nazionale, interna e indipendente dagli obblighi comunitari, dai diktat del «podestà forestiero», di aggiustare i loro squilibri e fare riforme strutturali importanti. Da questo punto di vista l'Italia è su una strada più promettente della Francia e della Spagna: sarebbe eroico ma sconveniente aver salvato l'Europa con i nostri sforzi ma vederci travolti con l'Europa per i mancato sforzi altrui.

In secondo luogo i meccanismi di credito del fondo salva-Stati devono venir precisati e attuati in modi tecnicamente efficienti, senza interferenze e lungaggini politiche, e devono permettere di affermare senza equivoci un «principio di solidarietà», senza il quale un'Europa profondamente interdipendente non sta in piedi. Inoltre, la regolamentazione e la vigilanza su banche e altri intermediari e mercati finanziari richiedono nuove messe a punto: hanno dato luogo a provvedimenti controversi, non hanno superato il nazionalismo con cui i singoli Paesi tendono a proteggere e nascondere i guai dei propri intermediari, è ancora inadeguato il loro coordinamento con l'azione della Bce. Infine, occorre mettere a punto procedure adeguate e omogenee in tutta l'Ue, per consentire senza traumi e contagi lo scioglimento di banche insolventi e il default, cioè la ristrutturazione, dei debiti dei governi.

Non ha senso negare il default quando proprio la sua eventualità è alla base della disciplina di mercato, cioè della pressione con cui l'attacco ai titoli di Stato dei Paesi più indebitati li ha portati a prendere importanti misure di correzione e, addirittura, a cambiare i governi. In un certo senso la disciplina di mercato, con tutte le sue esagerazioni speculative, la sua discontinuità, i suoi errori di prospettiva, è stata l'unico motore di aggiustamento che ha veramente funzionato finora in questa crisi. Ma è una disciplina che presuppone la possibilità di default: è indispensabile che, almeno nel caso della Grecia, un default ordinato e regolato possa aver luogo al più presto, scaricando così parte del costo di aggiustamento di Atene sui suoi creditori imprudenti e opportunisti. Non dobbiamo temere che ciò trascini l'Italia in default: stiamo dando prova di essere in decente salute e, soprattutto, di saper avviare la correzione delle nostre debolezze con determinazione politica e capacità tecnica.

Nel complesso non c'è ragione di pensare che l'Europa non ce la farà, ma il vertice di ieri non ha ancora tolto l'impressione di disordine che dà il governo dell'economia e della finanza europea. Il Consiglio di marzo avrà modo di migliorare.

lunedì 30 gennaio 2012

Stop al credito, l’incubo dell’Italia


Stop al credito, l’incubo dell’Italia


Le banche stringono i rubinetti e l’afflusso extra garantito dalla Bce non si è riversato sulle aziende
di DANIELE MARINI (*)dalla Stampa
Le banche non godono di grande credito nell’opinione pubblica. E ancora più critica è la posizione degli imprenditori che, in una fase assai difficoltosa e incerta dell'economia, hanno levato a più riprese la loro voce a denunciare un’eccessiva selettività nell’erogazione del credito. Soprattutto dopo che, nonostante l’iniezione di liquidità offerta loro dalla Banca centrale europea, pare che quelle risorse siano andate solo in parte limitata a finanziare le attività del sistema produttivo, mentre quella più consistente sia stata diretta a consolidare la propria struttura e verso attività considerate più remunerative economicamente (investimenti finanziari).

Le schermaglie non mancano da una parte e dall’altra: i banchieri prodighi a illustrare come ciò non sia vero e, dati alla mano, a dimostrare i flussi degli impieghi; gli imprenditori pronti a ribattere con casi concreti di una progressiva riduzione del credito che soffoca le potenzialità delle imprese.

Non siamo ancora arrivati al clima del 2009, quando si avvertiva l’arrivo del “credit crunch” (blocco pressoché completo dell’attività creditizia, ndr) ma i rapporti evidenziano una progressiva tensione.

Punto di frizione
A indicare che ci stiamo avvicinando pericolosamente a un punto di frizione fra banche e imprese, al di là del moltiplicarsi delle denunce delle categoria produttive, sono due segnali recenti. Il primo è l’intervento, nei giorni scorsi, del governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, sull’attenzione da porre su un possibile “credit crunch”. Il secondo è il road show che l’Associazione bancaria italiana ha avviato a Vicenza probabilmente come strategia per ripristinare un colloquio con gli imprenditori. Come spesso accade in simili situazioni, ciascuno ha molte e ragionevoli giustificazioni da portare a sostegno della propria posizione. Una ricerca dedicata al rapporto banche-imprese nel Nord Est, curata dall’economista Gianluca Toschi (Fondazione Nord Est-Friuladria Crédit Agricole), comparata con quanto era avvenuto nel periodo di avvio della crisi (2009) prova a gettare un po’ di luce sulle dinamiche in corso. Vediamone gli elementi essenziali:

1. C'è un problema crescente di liquidità. Aumenta significativamente la quota di quante hanno chiesto negli ultimi 3 mesi ulteriori affidamenti alle banche: si passa dal 35,3% del 2009, al 47,8% di novembre 2011.

2. La selettività delle banche nella concessione del credito più che nella fase d'ingresso (aumenta dall’8,8% al 14,1% il numero d’imprese cui non è stato concesso), si riflette sui costi più elevati da sostenere: se nel 2009 una maggiore onerosità era stata denunciata dal 16,9% delle imprese, oggi sale al 64,6%.

3. Il motivo per cui le imprese chiedono nuovi affidamenti è sempre legato a esigenze di cassa (67,1% nel 2009, 67,2% nel 2011), ma cresce la quota di quante ne fanno richiesta per realizzare investimenti (52,1% nel 2009, 61,5% nel 2011).

4. La maggiore onerosità per le banche, si scarica sui costi verso le imprese: il 63,8% denuncia un aumento dei tassi applicati (era il 14,2% nel 2009) e al 19,7% è stato richiesto un rientro degli affidamenti (era il 10,0% nel 2009).

Sulla scorta di questi primi esiti, si può comprendere come il livello di sofferenza da parte del sistema produttivo stia raggiungendo soglie di forte preoccupazione.

Non v’è dubbio che ragioni corrette alberghino da entrambe le parti. Le banche rivendicano il loro statuto d’impresa e chiedono alle imprese una maggiore trasparenza e correttezza nella gestione finanziaria. Le imprese, a loro volta, rivendicano correttamente una valutazione meno burocratica e più prossima alle reali vicende delle imprese.

Rischio di soffocamento
Perché il rischio è di soffocare anche quelle meritevoli di credito. C’è un’operazione di reciproca trasparenza che dovrebbe essere realizzata, come ha opportunamente sottolineato Dario Di Vico sul Corriere della Sera. Ma dovrebbe essere avviata anche una ricerca di maggiore approssimazione alla realtà delle imprese negli affidamenti del credito da parte delle banche, superando l’ottica del bilancio della singola azienda. Infatti, una parte consistente delle imprese lavora inserita in una fitta rete di relazioni. Una media impresa del Nord Italia (50-250 dipendenti) ha rapporti produttivi e commerciali mediamente con 240 altre piccole imprese.

Intrecci economici
Generalmente queste medie imprese sono esposte ai mercati internazionali e con loro una quota consistente dei loro fornitori più piccoli. Quando una piccola impresa chiede un affidamento sarebbe necessario comprendere anche le dinamiche economiche della filiera in cui è inserita per valutarne effettivamente il merito di credito; sapere gli andamenti economici della committente principale, le sue prospettive e così via. Insomma, riuscire a redigere una sorta di bilancio consolidato della filiera. È un’operazione complicata, ma aiuterebbe contemporaneamente le imprese e le banche in uno sforzo di migliore conoscenza delle reciproche dinamiche.

(*)Università di Padova

Decalogo di chi la precarietà la vive sulla propria pelle


Dieci proposte concrete
da www.ilnostrotempoeadesso.it
In queste ultime settimane, in nome dei giovani e della loro condizione di precarietà, si è aperto un acceso dibattito sulla riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali intorno all'idea di un presunto “contratto unico” e al modello della “flexsecurity”. Tutti si sono preoccupati dei giovani lavoratori precari, ma pochi si sono interessati di capirne veramente la condizione e ascoltarne le ragioni. “Il nostro tempo è adesso”, il comitato che raccoglie reti di lavoratori precari e realtà politiche giovanili che il 9 Aprile scorso hanno dato vita alla loro prima manifestazione nazionale, prende la parola e rilancia il proprio decalogo, dieci proposte concrete, frutto dell'elaborazione di chi la precarietà la vive davvero.

Un decalogo che affronta la complessità delle problematiche che vivono le lavoratrici e i lavoratori precari, al posto di una “soluzione unica” che ci pare, non solo poco efficace, ma soprattutto strumentale. Non vorremmo infatti che, dietro la rassicurante formula del “contratto unico” si nascondesse l’ennesimo contratto precario, che non cancella i contratti truffa e soprattutto non tutela la molteplicità e la differenza delle figure che popolano il mondo del lavoro. Rifiutiamo inoltre la strumentalità dello scambio tra garantiti e non garantiti, funzionale a quel gioco al ribasso che mira a ridurre i nostri diritti per renderci di fatto precari a tempo indeterminato.

Ad un lavoro stabile deve corrispondere un contratto stabile, e quindi eliminazione di tutti i contratti di lavoro “usa e getta”. Questo deve avvenire nel privato ma anche nel pubblico, dove si nasconde gran parte del lavoro precario e dove è necessario implementare un piano di assunzioni. L'ingresso al lavoro non può diventare un labirinto senza uscita e deve avvenire con un contratto di lavoro vero, che garantisca pieni diritti, formazione, tempi certi di conferma. Il lavoro discontinuo deve essere pagato di più, costare di più alle aziende e prevedere tutte le tutele sociali in materia di malattia, maternità, previdenza, disoccupazione.

E' necessario estendere a tutti gli ammortizzatori sociali per garantire la continuità di reddito e prevedere un reddito minimo di inserimento per i giovani in cerca di prima occupazione accompagnato da politiche attive per il lavoro, formazione continua e politiche che promuovano il diritto all'autonomia abitativa.

E’ sulla base di queste proposte che inauguriamo una campagna che possa coinvolgere in primo luogo i giovani, le lavoratrici e i lavoratori precari, attraverso un percorso di condivisione, e contemporanemente vogliamo attivare un confronto ampio, rivolto anche alle forze politiche e sindacali, nonché ovviamente alle Istituzioni, perché siamo certi che le risposte che chiediamo da anni non possano che arrivare da un dibattito pubblico che metta al centro le nostre esperienze, i nostri desideri, il nostro presente.



Aderisci al decalogo e fai girare info@ilnostrotempoeadesso.it


1. CONTRATTO STABILE PER LAVORO STABILE
La precarietà è la truffa attraverso cui scaricare il rischio dall'impresa ai lavoratori. Il rischio della discontinuità e il rischio economico. La precarietà serve a far pagare meno il lavoro. Meno di quanto vale.
Per questo serve affermare l'ovvio. Chi fa un lavoro stabile deve avere un contratto stabile. Chi fa un lavoro subordinato deve avere un contratto subordinato. Per fare questo sono necessari alcuni provvedimenti: abrogare le forme di lavoro più precarizzanti; rendere, per il datore di lavoro, il lavoro autonomo più costoso del lavoro subordinato; escludere le mansioni esecutive e ciò che ha che vedere con il “core business” dell’impresa dalla sfera di applicazione del lavoro autonomo; smascherare le truffe che si celano dietro gli stage: stage e praticantato dovrebbero essere strumenti per formarsi ed esplorare il mondo del lavoro, ma troppo spesso vengono utilizzati come lavoro gratuito al posto di lavoro vero. Per questo sono necessarie regole per gli stage e sanzioni per chi non le rispetta, per questo gli stage devono essere rivolti a chi è inserito in percorsi di studio o li ha appena completati e devono prevedere un rimborso spese adeguato.



2. IL LAVORO DEVE ESSERE PAGATO. BENE.
La precarietà vuol dire essere pagati poco, pochissimo. A volte niente. Poco conta che addirittura un articolo della nostra Costituzione preveda il diritto all'equo compenso. Ma questo non si chiama lavoro, si chiama sfruttamento.
Noi vogliamo una paga che corrisponda alla quantità e alla qualità del nostro lavoro. I livelli minimi retributivi dei contratti collettivi nazionali di lavoro devono valere, a parità di lavoro, per tutti coloro che prestano la loro opera presso un committente a prescindere dalla tipologia d’impiego. E non è tutto: chi fa un lavoro strutturalmente discontinuo deve essere pagato di più.


3. CONTINUITÀ DI REDDITO
La precarietà significa che se rimani senza lavoro non hai diritto a un sostegno di welfare. Vale per i collaboratori, vale per le p.iva, vale, spesso, per i lavoratori a termine che non hanno i requisiti contributivi per accedere all'indennità di disoccupazione. Eppure sono proprio le lavoratrici e i lavoratori precari ad essere i più esposti al rischio disoccupazione e proprio quelli a cui viene negato questo diritto.
L'indennità di disoccupazione va estesa, subito, a tutti: alle lavoratrici e ai lavoratori parasubordinati, a chi presta la sua opera con p.iva e vede una drastica diminuzione del proprio reddito a causa della perdita di gran parte dei suoi committenti, a tutti i lavoratori a tempo determinato che oggi non vi posso accedere.



4. REDDITO MINIMO D'INSERIMENTO
La disoccupazione e la povertà sono l'altra faccia della precarietà del lavoro. Chi si barcamena tra la ricerca -senza risultati- di un lavoro, stage truffa e lavoretti in nero, paga esattamente il prezzo di un mondo del lavoro precarizzato e asfittico. La precarietà si nutre proprio di questo bacino: il 30% di giovani disoccupati e di oltre 2 milioni NEET. Quando si è senza possibilità si è disposti ad accettare tutto, anche lavori senza diritti, né tutele, né compensi decenti.
Il circolo vizioso di questo ricatto va spezzato con uno strumento che aumenti i gradi di libertà dei soggetti e che permetta di sottrarsi al ricatto. Al ricatto della precarietà e a quello del lavoro nero.
Va introdotto, subito, anche in Italia un Reddito Minimo rivolto a chi è disoccupato, inoccupato o ha un reddito al di sotto della soglia di povertà, coordinato con l’azione di supporto e promozionale da parte di servizi pubblici per l’impiego per l’inserimento al lavoro e per una vita attiva. Un reddito fatto del libero accesso ai servizi e di un contributo monetario che, come previsto dalla risoluzione del Parlamento Europeo del 20 Ottobre 2010 (“Il ruolo del reddito minimo nella lotta alla povertà e all’esclusione sociale in Europa”), corrisponda almeno al 60% del reddito mediano nazionale.



5. PREVIDENZA. NON È UNA VECCHIAIA PER GIOVANI.
Chi è giovane e precario oggi, sarà un vecchio povero domani. È un'equazione senza incognite. La discontinuità del lavoro e quindi la discontinuità dei contributi per la pensione, uniti a retribuzioni ai limiti della miseria vorrebbero condannarci a una vecchiaia senza pensione (o con pensioni da fame). E non è tutto. Per chi lavora con p.iva i contributi previdenziali sono tutti sulle spalle dei lavoratori: un grosso esborso oggi per una pensione inesistente domani.
Vogliamo assicurarci la vecchiaia. Per avere una pensione dignitosa domani è necessario avere compensi decenti oggi: i lavoratori autonomi devono avere compensi superiori a quanto previsto dai minimi dei Contratti collettivi nazionali; contributi previdenziali figurativi nei periodi di non lavoro; vanno adeguati i contributi, rendendoli uguali a quelli dei lavoratori dipendenti, addebitandoli, però, ai committenti proprio come avviene per i lavoratori dipendenti. Inoltre è necessario che tutti i contributi versati possano essere cumulati. Ed è necessario che COMUNQUE lo stato assicuri a chi ha lavorato una vita, ancor più se precario, una pensione che permetta una vita dignitosa.




6. DIRITTO DI VOTO, DI ASSEMBLEA, DI SCIOPERO
Non è solo l'instabilità, né la miseria delle nostre paghe. È anche la totale assenza di diritti, la ricattabilità costante nel posto di lavoro che ci rende precari. Vogliamo avere voce in capitolo sulle nostre condizioni di lavoro e sui nostri contratti: senza delegare ad altri le nostre rivendicazioni. Vogliamo il diritto di voto elezioni per le rappresentanze dei lavoratori nei luoghi di lavoro. Vogliamo potere eleggere ed essere eletti. Vogliamo avere diritti sindacali: diritto di sciopero e permessi per le assemblee. Vogliamo che i diritti sindacali previsti nei contratti collettivi nazionali di lavoro valgano per tutti. Anche per noi.



7. MATERNITÀ E PATERNITÀ. DIRITTI UNIVERSALI
La precarietà è il vero contraccettivo del nostro tempo.
Non è un paese per madri quello che abitiamo. Né per padri. Sembra essere solo un paese per figli. Figli precari di genitori vecchi che con i loro risparmi tappano i buchi di un welfare che non c'è. Non c'è neanche per chi vuole diventare madre e non ha un contratto di lavoro che le garantisca un sostegno in caso di gravidanza. Non c'è per i padri con contratti precari che vogliano dedicare del tempo ai loro figli.
Vogliamo che la maternità diventi un diritto universale che prescinde dal contratto di lavoro e che si tramuti in sostegno al reddito e servizi. Vogliamo che la maternità sia sostenuta per tutte: chi lavora, chi non lavora, chi sceglie di non lavorare. E anche la paternità.
Vogliamo che le donne che scelgono di diventare madri non vivano nel ricatto: dimissioni in bianco, contratti non rinnovati e interruzioni del rapporto di lavoro mettono le donne di fronte all’aut-aut vita-lavoro. Vogliamo che le donne e gli uomini che desiderano avere figli lo possano fare liberamente, anche se non hanno un lavoro, anche se non hanno un reddito.



8. DIRITTO AD AMMALARSI
Anche chi è precaria/o si ammala. Sembra una ovvietà eppure non lo è.
Chi lavora con p.iva o è associato in partecipazione non ha accesso all'indennità di malattia. Se si ammala, insomma, non viene pagato. Chi lavora con contratto a progetto o collaborazione occasionale, a meno che non si tratti di malattia grave e ricovero in ospedale, rimane senza compenso o riceve un indennizzo solo simbolico: il che equivale a dire che anche con la febbre alta non si salta un giorno di lavoro.
Noi vogliamo un diritto elementare. Quello ad ammalarsi anche se si è precari. L'indennità di malattia prevista per i lavoratori subordinati deve essere garantita anche per chi ha un contratto precario.


9.  FORMAZIONE CONTINUA… E GARANTITA!
La costruzione e la disseminazione di conoscenza è l'unica chance per un nuovo sviluppo fondato sull'inclusione sociale e il benessere collettivo. L'Italia ha tradito tutti gli obiettivi della società della conoscenza e soprattutto ha tradito le nuove generazioni che si trovano ad avere crescenti difficoltà ad accedere alla conoscenza e, quando ce la fanno, a non poter restituire al proprio paese le competenze acquisite in anni di studio e ricerca.
Non vogliamo cadere nella retorica strumentale dei lavori umili e non smetteremo di formarci, perché la conoscenza è un bene sociale che si moltiplica se tutti possono scommettere al massimo sulle proprie capacità.
Per questo vogliamo il diritto a formarci tutto l'arco della vita: prima del lavoro, durante e tra un lavoro e l'altro. Questo diritto va garantito attraverso un sistema integrato di istruzione e formazione che consenta: un'offerta formativa adeguata e di qualità, un welfare che ne sostenga il libero accesso, il diritto contrattualmente riconosciuto alla formazione continua.
Infine è necessario un sistema di certificazione delle competenze e conoscenze acquisite e la correlazione tra queste e i profili professionali contrattualmente riconosciuti: siamo infatti la generazione più formata e sotto-inquadrata della storia repubblicana.



10. QUESTA È LA MIA CASA. LA CASA DOV'È?
Un’economia di carta e di mattoni ha distrutto sogni ed aspettative di una generazione. La carta delle speculazioni finanziarie,  i mattoni di quelle edilizie. La casa è un sogno irrealizzabile per le lavoratrici e i lavoratori precari: moderni nomadi di affitti in nero, ricerche disperate, coabitazioni coatte. Troppo cari gli affitti, impraticabile l’acquisto, inaccessibili i mutui. Eppure  in questi anni si è costruito tanto: troppe case, ma troppo costose perché non è importante che siano a disposizione dei cittadini, ma nelle disponibilità di qualche fondo immobiliare.
E’ una tendenza da invertire: quello all'abitare è un diritto di tutte e tutti.  Vogliamo poter vivere la nostra vita con un tetto decoroso sopra la testa e vogliamo delle città a misura di persone. Vogliamo che le case sfitte siano affittate ai tanti che le cercano a prezzi ragionevoli, senza essere costretti all’acquisto; vogliamo investimenti sull'edilizia popolare perché offrire una casa non può essere questione di profitto. Vogliamo sperimentare forme di autocostruzione e riutilizzo di spazi in luoghi abitativi come già sperimentato in alcune regioni italiane ed europee attraverso progetti di riqualificazione degli edifici pubblici dismessi, da destinare a case dello studente e alloggi popolari. Vogliamo contratti di affitto e forme di locazione agevolata per chi lavora con contratti precari o ha redditi bassi.


È nel diritto alla cultura la nuova lotta di classe


È nel diritto alla cultura la nuova lotta di classe
di Guido Rossi, dal Sole 24 Ore, 29 gennaio 2012

Gira su internet la seguente frase, datata nel 55 A.C., attribuita a Marco Tullio Cicerone: «Il bilancio nazionale deve essere portato in pareggio. Il debito pubblico deve essere ridotto; l'arroganza delle autorità deve essere moderata e controllata. (...) Gli uomini devono imparare di nuovo a lavorare, invece che vivere di pubblica assistenza».

La frase, che sembra dettata dalla signora Angela Merkel e dai Governi europei, in verità non è affatto di Cicerone. La citazione, tratta da una biografia romanzata, scritta nel 1965 da Taylor Caldwell, A Pillar of Iron, è un falso, come aveva già dimostrato il professor Collins fin dal 1971; ciò nonostante, essa è stata abbondantemente abusata persino dall'Ocse e dal Fondo monetario internazionale, alla ricerca di autorevoli precedenti a giustificazione della loro politica monetaria.
Le politiche europee che si sono ispirate ai principi del falso Cicerone hanno poi provocato una serie di proteste che caratterizzano un po' ovunque la vita sociale dei Paesi globalizzati. Così è anche per le ultime "liberalizzazioni" del Governo italiano. Eppure queste dovrebbero favorire la concorrenza e dunque alla fine giovare all'interesse degli autotrasportatori, dei tassisti, dei farmacisti, dei pescatori, degli agricoltori e degli avvocati, dirette a eliminare strutture arcaiche alle quali nessuno aveva mai posto mano.

Queste strutture avevano trovato un loro scadente equilibrio, certo non giusto né trasparente, ma appena è stato rotto, ha provocato la rivolta.
S'è è fatto così l'esempio dell'autotrasporto, che vede a capo del circuito economico nel quale è inserito società di spedizione multinazionali, per lo più straniere, che controllano reti commerciali e software e collegano la produzione e la destinazione finale delle merci, mentre gli autotrasportatori non sono che l'ultimo sfortunato anello della catena. E già liberalizzato quanto basta. Diverso discorso si potrebbe affrontare per le altre liberalizzazioni, ma lo schema più o meno si ripete.
Le rivolte che ne sono state la conseguenza si accomunano alle molte altre in giro per un mondo nel quale la disoccupazione aumenta e le prospettive di lavoro sembrano azzerarsi, sicché esse paiono una scomposta e flebile reviviscenza della tradizionale "lotta di classe".

Ma così non è. La lotta, a tutti i livelli, fra ricchi e poveri, fra capitalisti e proletari, non è più quella. E soprattutto la grande ricchezza non è più il surplus prodotto dallo sfruttamento di lavoro nella produzione di merci, anche se esso tuttora esiste. Né diverso sarebbe il discorso sui beni naturali come il petrolio, il cui prezzo altalenante fra gli interessi dei paesi produttori e le corporations occidentali sarebbe ridicolo vederlo riferito ai costi di produzione. Una prima conclusione che si può trarre è che il grande cambiamento che ha reso possibile la globalizzazione e questi fenomeni che ne fanno parte integrante è l'importanza che ha assunto quello che già Karl Marx, pur senza averne previsto la straordinaria capacità di trasformazione del capitalismo, aveva chiamato «l'interesse generale», inteso come la conoscenza collettiva in tutte le sue forme, dalla scienza alle applicazioni pratiche delle tecnologie.

In verità, già ben prima, uno dei più grandi innovatori nella storia del pensiero, il nostro Giambattista Vico, aveva scoperto l'esistenza di un senso comune in tutto il genere umano collegato alla sapienza insita nell'ingenium. Ed è così che oggi la vera fonte di ricchezza sta nella privatizzazione di una parte rilevante dell'"interesse generale" o dell'"ingenium" vichiano. È così infatti che l'aumento della produttività e dell'efficienza attraverso il determinante ruolo che nella trasformazione dell'economia mondiale ha avuto la conoscenza collettiva costituisce il grande successo del capitalismo globale. Ma questo successo ha altresì prodotto una disoccupazione di carattere strutturale, che ha reso dovunque una moltitudine di lavoratori inutili e superflui.

Il risultato di questo successo è che ai capitalisti di antica tradizione si sono sostituiti i manager i quali, in base a meriti e competenze sempre più incerte e discutibili, si appropriano del surplus della produzione, vengono pagati con lauti bonus, stock options e liquidazioni forsennate; al contrario degli antichi capitalisti non rischiano, ma addirittura si arricchiscono anche quando le imprese sono in perdita.

È così che la classe media, la borghesia, che era il collante d'equilibrio delle società del capitalismo industriale, va via via sparendo e il suo lavoro, come hanno dimostrato anche da noi le recenti indagini dell'Istat, ha un reddito reale che viene eroso dall'inflazione.

Ma le rivolte e lo sconfortante pessimismo non servono. Ciò che pare essenziale per la borghesia proletarizzata è il recupero della conoscenza collettiva da parte di tutti e soprattutto da parte dei giovani. Pare che questa nuova dimensione, al di fuori dei falsi Ciceroni, sia stata finalmente capita anche dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama con l'imponente programma di aiuti per accedere all'istruzione dei giovani e all'educazione degli adulti. Sarà forse così anche possibile ridurre, e quando necessario, eliminare, la deriva finanziaria che si è inserita nel gioco perverso della privatizzazione della conoscenza collettiva. Ancora una volta la vera e non la falsa cultura costituiscono la via d'uscita dalla crisi.

(30 gennaio 2012)

Labriola è pronto a candidarsi


POLICORO 


Una dichiarazione dell'ex consigliere alla radio apre il confronto in casa Pd. Convocato il direttivo, si cerca un accordo senza dividere il partito


di PIERANTONO LITRELLI


POLICORO - «Il mio partito mi deve spiegare quali sono i motivi, eventuali, secondo cui io non posso fare il candidato sindaco».
Sono le parole pronunciate ieri mattina dall'esponente del Partito democratico di Policoro, Franco Labriola, nel corso della trasmissione radiofonica "Gran mattino" in onda sull'emittente "Basilicata radio due" durante un'intervista con il direttore Filippo D'Agostino. Labriola dunque è il primo a palesare pubblicamente, in casa Pd, la propria aspirazione per la carica di primo cittadino della città di Policoro. Mancano due mesi e qualche giorno al 5 aprile prossimo, data della presentazione delle liste elettorali (si vota il 6 maggio) ed ora il dibattito interno alle forze di centrosinistra sta entrando nel vivo, ma soprattutto in casa Partito democratico, che, data la sua consistenza, dovrebbe esprimere quasi sicuramente il candidato sindaco. Lo scatto in avanti di Labriola, 43 anni, proveniente dai Ds, con un passato di assessore provinciale dal 2001 al 2009, accelera, semmai ve ne fosse bisogno, la discussione nel partito. Ieri sera, la segretaria cittadina, Beatrice Di Brizio, ha convocato la segreteria del partito, il cosiddetto "esecutivo" proprio per addivenire ad una soluzione. Domani sera è convocato il direttivo. All'interno del Pd, ci sono indubbiamente anche altre risorse ed altre velleità, ma la sintesi dovrà essere necessaria per essere realmente competitivi. Infatti l'errore che dovrebbe evitare il partito è proprio quello di essere spaccato al suo interno. La sensazione è che il candidato alla carica di sindaco uscirà non dalla sezione cittadina, bensì da accordi all'interno del partito su scala provinciale. Policoro non è l'ultimo Comune, per cui l'interesse dei dirigenti ai massimi livelli, affinché si vinca è molto alto. Come extrema ratio, i segretari della coalizione, al fine di ricercare una soluzione unitaria, potrebbero optare per la metodica delle primarie di coalizione. Intanto la discussione interna inizia a farsi serrata e soltanto dopo il doppio incontro (esecutivo e direttivo), la leader cittadina, Di Brizio, potrà avere il mandato dal partito con le indicazioni sul come procedere. In caso di primarie, com'è ovvio, gli sconfitti dovrebbero accettare di candidarsi nelle liste degli aspiranti consiglieri. Questo è pacifico. Il rischio, difatti, è quello di evitare un'altra Pisticci, in cui lo scorso anno il Pd aveva in campo due candidati (uno ufficiale e l'altro ufficioso) che ironia della sorte si sono ritrovati l'uno contro l'altro al ballottaggio che ha visto premiato il candidato senza simbolo, Vito Di Trani, che ora è sindaco, con i consiglieri del Pd ufficiale, Badursi e Mastroluisi, collocati nel vero senso della parola all'opposizione. A Policoro, dunque, memori della recente vicenda pisticcese, si vuole evitare una frattura interna che potrebbe finire per vedere favoriti gli avversari decisamente più agguerriti di quelli che i "Pd" pisticcesi avevano contro. Sta di fatto che Labriola per pronunciare quelle parole, si rende conto di non trovare terreno fertile nei confronti di una sua nomination in casa propria.


(Da Il Quotidiano della Basilicata)

L'investimento che rende


L'investimento che rende
Il bene avanza


Il bene avanza o arretra? Ovvero: c’è pro­gresso nel bene oppure no? Se volgiamo il nostro sguardo al breve periodo, di fron­te ad alcuni fatti di cronaca, il bene sembra arretrare. Ma se guardiamo al lungo termi­ne, non possiamo non notare alcuni signi­ficativi passi in avanti: negli stadi oggi si confrontano calciatori e non gladiatori, la schiavitù è stata abolita, le donne si sono e­mancipate, i diritti dell’uomo e dei bambi­ni si stanno affermando, i disabili si inte­grano nella società. La vita media è più che raddoppiata in Italia in 150 anni. Nessuno di noi, pur lamentandosi di tante cose, scambierebbe la propria vita con quella di un cittadino di epoche passate. Il progres­so del bene (e il suo desiderio?) è testimo­niato dalle crescenti aspettative di bene del­l’opinione pubblica raccolte dai mezzi di comunicazione di massa. Non possiamo tollerare, ci diciamo, un numero così ele­vato di morti per incidenti stradali, per ca­lamità naturali o crisi economiche, per ma­­lattia: riteniamo i risultati di oggi, che sa­rebbero stati considerati lusinghieri dalle generazioni passate, inaccettabili per noi.

Nonostante ciò, la risposta finale di questa battaglia non è già scritta: dipende da noi ed è resa più incerta dal fatto che la tecno­logia offre strumenti fino a ieri impensabi­li sia al bene sia al male, aumentando po­tenza ed effetti degli atti da una parte e dal­l’altra.

Il bene è utile. Le evidenze statistiche e spe­rimentali nelle scienze sociali ed economi­che non fanno altro che dirci che con più cooperazione, più solidarietà, più capitale sociale possiamo raggiungere equilibri mi­gliori per noi e per tutti, superando i di­lemmi sociali, costante delle nostre intera­zioni. È ormai fatto assodato che il succes­so delle relazioni affettive, sociali, com­merciali, tra individui e tra Stati dipende in modo inestricabie da capitale sociale, fidu­cia e meritevolezza di fiducia. Questo per­ché in presenza di informazione imperfet­ta, contratti incompleti e lentezze della giu­stizia, le vie esterne per garantirci dal ri­schio di abuso della controparte sono ine­vitabilmente meno efficaci. Se c’è fiducia e si costruisce fiducia le relazioni scorrono e la vita sociale ed economica prospera.

Il bene è necessario. Proprio perché la tec­nologia, aumentando enormemente gli ef­fetti dei nostri investimenti nel bene, au­menta anche potenza ed effetti di quelli nel male, il bene è oggi più che mai necessario. Il male è infatti potentissimo, disponibile a costo zero. La globalizzazione e la crescen­te interdipendenza dei nostri destini rende le azioni di male (o almeno alcune di esse) sempre meno innocue e sempre più peri­colose. Possiamo costruire facilmente po­tenti esplosivi con «ricette» disponibili in rete, portare in una valigetta polveri chimi­che in grado di fare stragi, schiacciare un bottone davanti un terminale che fa fallire grandi banche e mette sul lastrico interi paesi. Per questo il bene e il coordinamen­to degli sforzi in tale direzione è oggi rico­nosciuto come assolutamente necessario da individui e Stati.

Il bene è investimento che rischia di non essere corrisposto. Esso è essenzialmente relazione. Come tale, il risultato finale dei nostri «investimenti» dipende dalla corri­spondenza da parte di coloro con cui stia­mo costruendo quella relazione (una rela­zione affettiva, un’associazione, un parti­to). Chi ha paura del rischio e ha il terrore di essere tradito non riesce a trovare il co­raggio di investire nel bene. Eppure il ri­schio di mancata corrispondenza, di falli­mento, è proprio ciò che rende il bene co­sì poetico e struggente, forte proprio perché indifeso.

Il bene è la cosa migliore che può capitare nella nostra vita. Chi ne rimane lontano, soffre di mancanza di pienezza e può mo­rire della sua nostalgia: anzi, è già morto e spesso non sa di esserlo. Lavorare per il be­ne è la cosa migliore che ci possa capitare nella nostra vita. In mezzo ad inevitabili fa­tiche, delusioni e tradimenti scopriamo di essere vivi, accesi e di intercettare a tratti u­na pienezza di vita incredibile. Lavorare per il bene è la cosa più bella che ci può capi­tare (che possiamo far capitare) nella nostra vita.

di Leonardo Becchetti, da Avvenire

Genoma low -cost, ma che cosa ce ne facciamo?


GENETICA
Genoma low -cost, ma che cosa ce ne facciamo?
Il nostro Dna con mille dollari. Ma l'abbattimento dei costi non muta, per ora, le possibilità di diagnosi

La notizia è di quelle che fanno riflettere. Da un lato dimostra i rapidi passi avanti che le tecnologie più moderne consentono di fare in medicina, dall'altro preoccupa per le conseguenze etiche e psicologiche che certi progressi comportano. Un'azienda americana ha messo sul mercato una macchina per il sequenziamento del genoma umano a basso costo: grande quanto una stampante è in grado in un solo giorno di decodificare il Dna di una persona. Ovvero di elencare i circa tre miliardi di «lettere» che contengono tutte le informazioni genetiche ereditarie alla base dello sviluppo di tutti gli organismi viventi. Sembra che il nuovo apparecchio sarà venduto per una somma intorno ai 100-150 mila dollari e potrebbe quindi rappresentare una svolta per l'utilizzo su ampia scala di questo tipo di esami.
Le analisi del Dna, hanno ipotizzato gli esperti, oltre che in tempi molto più brevi saranno così disponibili per circa mille dollari (ora costano 10 volte tanto). E, di conseguenza, diminuirà di circa un terzo anche la spesa dei test genetici già oggi effettuati per scoprire se si è a rischio, per esempio, di sviluppare un determinato tumore. «L'ipotesi di poter sequenziale il Dna di una persona più velocemente e con costi minori è interessante — commenta Sergio Abrignani, direttore scientifico dell'Istituto nazionale di genetica molecolare a Milano —, ma di fronte a queste notizie serve grande cautela. Avere tutto il genoma è come avere un alfabeto, ma non significa - come hanno detto gli stessi esperti americani - saper leggere le informazioni che il Dna contiene. Ovvero, per capire e usare quelle informazioni nella pratica medica (prevenzione, diagnosi precoce, terapie dei tumori o di altre malattie) bisogna analizzarle e comporre "parole e frasi". Questo secondo passaggio comporta un secondo costo enorme, molto più alto del primo».

In pratica, servono centinaia di migliaia di dollari per analizzare (e poter usare) ciò che si è ottenuto con i mille euro. Si aprono poi inquietanti scenari per la privacy: «Soprattutto negli Usa, — continua Abrignani — dove le assicurazioni mediche sono indispensabili, sarebbero devastanti per la privacy gli effetti di un database che contiene tutto il genoma di un singolo e, quindi, le sue probabilità di ammalarsi». Le informazioni genetiche usate per specifici test diagnostici non sono, comunque, una novità. Vengono comunemente adottate, ad esempio, nei test prenatali (come quello per la sindrome di Down) o in quelli per la fibrosi cistica, per alcune malattie neurologiche (Corea), per l'anemia mediterranea e per alcuni tipi di cancro, al fine di scoprire se si è a rischio di sviluppare la patologia o di trasmetterla ai propri figli.

Esistono circa 8 mila malattie causate da un unico gene malato, ma sono estremamente rare e incidono poco sulla popolazione. Tutte le altre sono malattie cosiddette multifattoriali, ovvero causate da variazioni del Dna e da altri fattori, innanzitutto lo stile di vita e l'ambiente. «Soprattutto quando si fanno test genetici sui tumori — spiega Bernardo Bonanni, direttore della Divisione di prevenzione e genetica oncologica dell'Istituto europeo di oncologia di Milano — e si scopre di essere portatori di una mutazione genetica che predispone ad ammalarsi di tumore, due sono le informazioni fondamentali che le persone devono avere. La prima: non è una certezza, non va vissuta come condanna e servono cautele psicologiche nel comunicare l'esito del test. La seconda: è un'informazione utilissima in chiave preventiva. Chi sa di essere a rischio può giocare d'anticipo migliorando lo stile vita, facendo controlli mirati o sottoponendosi a cure preventive quando indicate. E solo in casi estremi asportando l'organo possibile sede del tumore».

di Vera Martinella, dal corriere
29 gennaio 2012 |

Il 39% della popolazione tra i 16 e i 74 anni non si è mai collegata al web. In Inghilterra è solo il 10%


TUTTI I SERVIZI PUBBLICI ONLINE, MA LA NOSTRA RETE NON È COMPLETA
L'accesso impossibile a internet 
per quattro famiglie su dieci
Il 39% della popolazione tra i 16 e i 74 anni non si è mai collegata al web. In Inghilterra è solo il 10%


Test di ingresso al Politecnico di Milano (Fotogramma)
Lo stato di salute del rapporto tra noi cittadini e la pubblica amministrazione è ricco di statistiche e alcune sono sorprendenti. La transizione verso il digitale in Italia è al palo? Tutt'altro. Se si va a prendere la percentuale di servizi pubblici di base interamente disponibili online - la fonte è la Commissione europea - l'Italia raggiunge il 100%, saldamente davanti alla Germania (90,9), Francia (83,3) e Unione Europea a 27 (80,9). Anche la tanto osannata Finlandia è ora sotto di noi. La crescita è stata esponenziale. Solo a metà del 2009 eravamo al 55,6% e dovevamo guardare in alto per subire l'ironia degli altri Paesi europei. Per inciso, è interessante osservare che anche la Spagna ha subito un'accelerazione fermandosi però al 91,7%. Dovendo riconoscere a Cesare quel che è di Cesare quella curva esponenziale ha un nome: Renato Brunetta, il ministro della Pubblica amministrazione del governo Berlusconi. Il suo progetto di digitalizzazione della Pubblica amministrazione ha ottenuto deirisultati che sulla carta sono ottimi. Ora il decreto legge sulle Semplificazioni, nel capitolo in cui implementa la cosiddetta Agenda digitale, ha dato un'ulteriore spinta a questo processo con 7 milioni di documenti e certificati che verranno forniti «solo» online. È la prima fase di quella che Stefano Parisi, alla guida della neonata Confindustria digitale, ha definito sul Corriere come switch off dello stato analogico. Una strategia condivisibile anche per Francesco Sacco dell'Università Bocconi che, insieme a Stefano Quintarelli, è stato uno dei promotori del manifesto per l'Agenda digitale in Italia.
Ma allora la domanda spontanea è: come mai l' e-government italiano non fa scuola? Se ci si sposta sulla percentuale di cittadini che negli ultimi 3 mesi ha inviato o ricevuto un documento della pubblica amministrazione online si scopre che rifiniamo in fondo alla classifica: 10,7% contro il 19,3 dell'Unione, il 21,2 della Francia e il 32,3 della Finlandia. Addirittura tra il 2008 e il 2010 siamo peggiorati di quasi due punti percentuali. Nel 2006 eravamo al 13,7%. Da una parte una crescita esponenziale, dall'altra un trend negativo: il nodo da sciogliere inizia a intravedersi. E per definirne meglio i contorni vale la pena di incrociare i numeri della Commissione con i dati Eurostat del dicembre 2011 sulle case con un accesso a Internet: 62% in Italia, contro l'83 della Germania, il 76 della Francia, l'85 della Gran Bretagna, l'84 della Finlandia e il 91 della Svezia. In soldoni: 4 famiglie su dieci in Italia non hanno fisicamente la possibilità di collegarsi al web tramite rete fissa. Peggio: il 39% della popolazione tra i 16 e i 74 anni non si è mai collegata alla rete né fissa né mobile. Solo un inglese su dieci non ha mai sperimentato una pagina web in qualunque sua forma. Siamo degli emarginati digitali. E questi due ultimi dati ci dicono che un po' è analfabetismo e un bel po' assenza di infrastrutture.

In Italia è come se avessimo costruito tutti i caselli ma non ci fosse ancora l'autostrada (e, anzi, talvolta si spaccia per autostrada una semplice statale). Come faranno a ritirare i certificati coloro che non hanno accesso al web? Il digital divide non può essere nascosto sotto un tappeto. E forse varrebbe la pena di pensare a una sorta di incentivo per chi si allaccia alla rete dopo averne dati per cambiare l'automobile e gli elettrodomestici.

Il tema delle infrastrutture è caldo, anzi caldissimo tra le società di telecomunicazioni. E authority di settore e ministeri ci hanno sbattuto già la testa. Il tavolo dell'ex ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani, sulla rete di nuova generazione non ha sortito effetti. La litigiosità degli operatori sul tema (Telecom Italia, Vodafone, Wind, Fastweb e Tiscali) anzi è aumentata. Permettendo a tutti di uscire sbattendo la porta. Forse è per questo che il governo con il decreto sulle Semplificazioni e il ministro dello Sviluppo Corrado Passera (che ha anche la delega sulle infrastrutture) hanno optato per la «cabina di regia», cioè un coordinamento degli interventi, senza però fare cenno alla patata bollente della rete. «L'assenza di una strategia per le infrastrutture allo stato attuale è l'anello mancante. Bisognerà attendere l'attuazione della cabina di regia per vedere come si vorrà procedere», concorda Sacco, il cui nome era emerso tra quello dei possibili candidati alla poltrona di sottosegretario con delega al digitale.

Intanto la banda larga e ultra larga in Italia resta un miraggio. Il piano di Francesco Caio che, richiesto dal governo Berlusconi, era stato presentato già nel febbraio del 2009, è finito in un cassetto, nonostante contenesse anche interventi a costo zero. Le regole sulla nuova rete in fibra ottica dell'Agenzia garante per le comunicazioni guidata da Corrado Calabrò sono state pubblicate da pochi giorni. Ma si è ben lontani dal capire chi dovrà costruire e quando. Intanto il cronometro europeo avanza. E l' e-government è solo uno degli obiettivi europei. Abbiamo un altro anno per collegare a banda larga tutti e siamo ancora al 52%. Il target è già sfumato.

Entro il 2020, poi, ognuno dovrà poter accedere a una banda a 30 megabyte al secondo, mentre metà delle famiglie dovrà poter avere un abbonamento a 100 megabyte. Entro il 2015 metà della popolazione europea dovrebbe fare abitualmente shopping online. E la possibilità per noi di restare confinati nell'altro 50% è alta: nel 2011 solo 27 italiani su 100 hanno ordinato beni sul web (contro 67 della Francia, 77 della Germania e 82 della Gran Bretagna). Duro da digerire: ma ora che non ci sono più i vecchi «Paesi in via di sviluppo», trasformatisi in economie in crescita, chi non centrerà gli obiettivi farà parte della nuova serie B: quella dei Paesi in via di sviluppo digitale.

di Massimo Sideri, dal corriere
msideri@corriere.it
30 gennaio 2012 |

Costituzione, Parlamento e democrazia


Riproponiamo la trascrizione della videointervista su Costituzione, Parlamento e democrazia rilasciata da Oscar Luigi Scalfaro a Stefano Rodotà in occasione del Festival del Diritto edizione 2011, organizzato dalla Laterza a Piacenza dal 22 al 25 settembre 2011

RODOTÀ: Presidente, io parto da un dato di fatto non discutibile e cioè, se oggi c'è un vero testimone della storia della Repubblica sei tu. Non è un omaggio formale. Componente dell'Assemblea Costituente, membro del Governo, personalità importante del più grande partito italiano, la Democrazia Cristiana, Presidente della Camera, Presidente della Repubblica, difensore pubblico della Costituzione, così direi per la fase che si ebbe in occasione del referendum del 2006. E' una storia lunga, è una storia importante e forse vale la pena di cominciare proprio dall'inizio. Oggi tu come ricordi l'Assemblea Costituente, come l'hai vissuta?
SCALFARO: All'Assemblea Costituente arrivarono persone dalle più diverse provenienze, compreso qualcuno che non aveva una chiara visione della democrazia. Tu che hai avvicinato un'infinità di persone hai notato che chi ha fatto parte dell'Assemblea Costituente ha mantenuto nella carne viva il marchio della Costituzione?

RODOTÀ: Adesso le parti si sono invertite, rispondo io a questa domanda. Io ho incontrato varie persone, alcune mi hanno dato la sensazione che erano rimasti costituenti, cioè per essi la Costituzione non era un'impresa finita, era la loro storia e la storia della Repubblica. Ricordo solo tre di queste persone (poi ne aggiungerò una quarta): Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira e Lelio Basso. Loro avevano in sé la Costituzione e io da loro ho imparato molto, così come ho imparato molto da Kiki Mattei, una deputata del PC che - come mi raccontò Lelio Basso - nel momento in cui si dovette votare sul concordato, dovette votare a favore per disciplina di partito e piangeva. Cioè, ho trovato in molti il senso di partecipare a una grandissima impresa
SCALFARO: Noi avevamo, vorrei dire, quasi naturalmente per essere stati all'Assemblea Costituente il senso del Parlamento, della democrazia parlamentare. Se il Parlamento è vivo la democrazia è certa, se il Parlamento è povero o pezzente, come oggi, allora c'è da dubitare molto che ci sia democrazia.

RODOTÀ: Il raffronto tra i tempi della Costituente e oggi che è inevitabile. Quando accennavi all'altezza intellettuale, io credo che quella della Costituente sia stata anche una scuola per chi è stato.
SCALFARO: Io ricordo che queste erano le direttive della Democrazia Cristiana, cioè ascoltare tutti, in particolare quelli che sostengono tesi diverse dalle nostre. Ma io devo confessare che ho sempre ascoltato tutti con passione, con la voglia di capire. Sono nate per me delle amicizie in questo desiderio di capire che supera le diversità e si ritrova questo denominatore comune, democrazia uguale Parlamento vivo e vero.

RODOTÀ: Questo è già un giudizio su come si faceva politica negli anni successivi alla Costituente, nei lunghi anni della storia repubblicana, una storia difficile, e allora il tuo sentimento, il tuo ricordo di protagonista del maggiore partito italiano, qual è la tua opinione? Già hai dato un giudizio molto netto, però la storia, il grande partito della DC, in cui tu hai militato e sei stato esponente importante, Ministro della Repubblica, allora?
SCALFARO: La Democrazia Cristiana ebbe il culto del Parlamento. Il Parlamento come marchio di fabbrica di una democrazia, indice di quanto la democrazia è entrata dentro il paese, starei per dire di come la democrazia si è incarnata nelle persone. Questo fu un marchio che fu rafforzato nell'Assemblea Costituente in modo assolutamente eccezionale e trovò nella mia esperienza una conferma nel 2006, quando io inaspettatamente, con mia grande commozione, fui chiamato a presiedere a tutti i Comitati per la difesa della costituzione, tanti che certi non riuscimmo neanche a catalogarli. C'erano delle madri di famiglia che erano cape del loro fabbricato e servendosi di questo avevano fatto un comitato a difesa della Carta Costituzionale. Fu una cosa emozionantissima, nel 2006, cioè noi che registravamo tutti i Comitati ne abbiamo avuto qualche centinaio sfuggito al controllo, dove madri di famiglia, insegnanti delle elementari, direttrici didattiche, persone che si sono buttate per difendere questa Carta come cosa propria, come proprietà, come carne propria, come vita propria, formidabile.

RODOTÀ: Hai usato l'aggettivo giusto, formidabile, perché io credo che tu abbia avuto la fortuna o il destino di essere presente nei passaggi più significativi: l'Assemblea Costituente, il passaggio che io esito a definire dalla Prima alla Seconda Repubblica, ma certamente la gestione politico-istituzionale negli anni difficilissimi che cominciarono proprio nel 1992, e poi questa, che tu hai descritto così bene, ripresa dello spirito costituzionale nelle persone. Se posso usare una formula che non mi pare retorica, in quel momento la Costituzione ha incontrato il suo popolo, mentre un ceto politico se ne allontanava. Tu hai capeggiato, per il referendum che ha conservato la Costituzione nel 2006, questa ripresa dello spirito repubblicano costituzionale.
SCALFARO: E' stato per me intensamente commovente. Quel 2006, questo di vedere nascere lo stesso spirito che io avevo vissuto all'Assemblea Costituente, nato in persone che non erano al mondo allora, quindi starei per dire una trasmissione di generazione in generazione, di vita in vita, di carne in carne, perché c'è molto la partecipazione della persona umana, capace di pensare e di ricondursi ai principi essenziali per la vita della persona e per la vita delle comunità democratiche.

RODOTÀ: Hai detto due cose che mi paiono molto importanti: primo l'accenno agli insegnanti, alle direttrici didattiche, alla scuola, che dobbiamo avere al centro. E poi la parola persona. Io devo confessare che, all'inizio, io e altri della mia generazione consideravamo il termine "persona" nella Costituzione con distanza, senza valutare in tutta la sua importanza, come se che fosse solo l'esito di una sorta di negoziato e la persona era un po' consegnata alla parte democristiana. Passando il tempo abbiamo visto come la Costituzione italiana sia stata in questo senso anticipatrice e lungimirante per questa centralità della persona.
SCALFARO: Quando si dice c'è stato un grande mercato tra mondo cattolico e comunisti, si snatura tutto perché c'è stato un dialogo, ma quanto rispetto avevano i comunisti dei principi cristiani? Quanto rispetto avevano i cristiani dello schieramento lontano dalla fede in quanto tale, ma non lontano dai principi dei valori dell'uomo, dai principi dei valori della comunità?

RODOTÀ: Voglio ricordare un altro nostro colloquio, perché io ti chiesi qual era la tua opinione sul fatto che La Pira, che aveva proposto con un emendamento che la Costituzione si aprisse con la parole, In nome di Dio e del Popolo italiano si dà la presente Costituzione, io ti chiesi il tuo giudizio e tu avesti una frase lapidaria, "non si vota su Dio", e quindi tu sostenesti la opportunità del ritiro dell'emendamento.
SCALFARO: Io fui contrario dall'inizio, ma devo dire che da noi furono alquanto numerosi quelli che dissero no, assolutamente no. Ma io dico, se tu credi che c'è un essere al di sopra, lascialo tranquillo, rispettalo. Se tu non ci credi, lascialo due volte tranquillo. Cioè è un controsenso terribile questo. Infatti furono, con tutto il rispetto, persone di ali basse che sostennero queste tesi che sanno non di volo d'aquila, ma di volo di piccione nella Piazza del Duomo di Milano.

RODOTÀ: Però c'è un altro momento alto, questa volta che ti riguarda direttamente, proprio in questo rapporto tra la religione e la politica. Mi riferisco al tuo discorso quando ci fu la visita di Stato di Giovanni Paolo II. Io lo ritengo uno dei grandi discorsi sull'autonomia dello Stato e del rispetto della religione in sé, due cose che delle volte sembra oggi che non possano andare insieme.
SCALFARO: Dico una cosa che non è un segreto: un vescovo, che c'è ancora oggi e che è un uomo di degna statura, mi disse che il Segretario del Papa, dopo che io feci quell'intervento, disse a questo vescovo di non aver capito perché il Capo dello Stato avesse fatto quel discorso. E io dissi a quel vescovo: "Eccellenza, lo lasci tranquillo e non glielo spieghi".

RODOTÀ: In questo credo che sempre quello spirito costituente che tu hai evocato, il rispetto dell'altro, il dialogo malgrado le distanze che possano esserci, non sono forse più oggi la cifra e il segno della nostra vita civile.
SCALFARO: Non c'è alcun dubbio oggi si sono perse terribilmente, oggi guardare il Parlamento è una desolazione gravissima. Oggi purtroppo si può sostenere che la democrazia è defunta e defunta malamente.

RODOTÀ: Tu sei stato anche Ministro in un Ministero chiave, il Ministero degli Interni. Con l'occhio questa volta dell'uomo di governo, che cosa tu oggi ricorderesti, che valutazione faresti di questa esperienza?
SCALFARO: Devo dire che a fare il Ministro dell'Interno credendoci si impara anzitutto ad ascoltare gli altri e a tener conto degli altri, anzitutto soprattutto per quelli che sono più idonei a pensare che a parlare, e oggi c'è una scarsità enorme di questa popolazione, specie in Parlamento.

RODOTÀ: Nello stesso tempo però noi abbiamo quasi una situazione contraddittoria, cioè un ritorno della Costituzione nello spirito popolare. L'espressione è brutta ma si può dire che della gente comune si distingue sempre più da chi ha abbandonato i valori costituzionali, con una deriva anche della moralità pubblica e civile. Come contempli questa fase difficile per la moralità civile?
SCALFARO: Io ho avuto, di fronte a questa realtà che per me è deprimente, un aiuto enorme dai giovani e dai giovanissimi, i quali hanno mostrato una fede nella Carta Costituzionale, prodotta quando non erano neanche nati, che mi ha commosso intensamente. Non so piangere di fuori, ma di dentro ho pianto davvero.

RODOTÀ: E sullo stato della moralità pubblica?
SCALFARO: Oggi a questa impostazione segue una realtà desolante. Quando io leggo le cronache dei giornali, sembra che ogni giorno nascano a centinaia i nuovi profittatori, i nuovi ladri, le persone che nel momento in cui si avvicinano a un incarico, a una responsabilità, pensano per prima cosa a rubare, a tradire. Una cosa che fa spavento. La corruzione dilaga come una peste bubbonica.

RODOTÀ: Non potresti essere più chiaro. Voglio tornare però adesso su una tua grande decisione politica, che all'epoca fu discussa, e se ne discute ancora. Mi riferisco a quello che è stato chiamato, più o meno propriamente, il ribaltone, e che era invece - questo io lo dissi, tu lo sai - un modo profondo di rispettare la logica costituzionale.
SCALFARO: C'è un episodio che ho raccontato diverse volte, ma per me è storia vissuta e pagata. Il Presidente del Consiglio Berlusconi era venuto a consegnare la sua delega, quindi dando la sensazione che si rendeva conto che aveva finito il suo compito. Non ricordo se nella stessa seduta o poco dopo tornò e mi disse: "Presidente, ti chiedo tre cose: lo scioglimento del Parlamento, la crisi di governo e che questi passi li faccia io col mio governo". (Il quale si era dimesso pochi minuti prima). Io rimasi interdetto per un secondo, perché la persona mi aveva colpito la prima volta che mi aveva parlato di una cosa come se fosse stata vera e vera non era. Devo dire che per me negare la verità conosciuta vuol dire chiudere totalmente la possibilità di dialogo. Quindi mentre lui diceva, ti chiedo tre cose, mi fermai un momento e lui mi incalzò, ti ho chiesto tre cose, cosa mi rispondi? "Ti rispondo tre no" - gli dissi - "perché su questa Carta, che anche in questo momento mi è vicina, su questa Carta ho giurato fedeltà, se io facessi questo farei un passo in favore di una parte e contro un'altra, e andrei contro al mio giuramento. Ti rispondo tre no". Non mi sarà perdonato.

RODOTÀ: Sappiamo da chi...
SCALFARO: Ma non mi perdonerei mai se avessi risposto diversamente. Ringrazio Dio di avermi illuminato.

RODOTÀ: Chiudiamo con un saluto ai piacentini, e non solo, perché il festival del diritto richiama - è il quarto anno - dai posti più diversi, persone interessate e che oggi erano particolarmente in attesa di questa tua parola.
SCALFARO: Ringrazio Dio di questo incontro con te, che stimo tanto e amo profondamente. Sei un mio amico fino in fondo, ma poi in questo caso sei quello che mi porti a Piacenza, dove sarei venuto con gioia, ma la Provvidenza mi ha dato la voce per 92 anni e poi, vedendo come l'ho usata, me l'ha tolta ai 93. Ma vorrei comunque che vi giungesse la mia parola e il mio cuore, il cuore di chi crede nel Parlamento, nella democrazia, nella onestà delle persone della cosa pubblica, nella trasparenza di chi manipola e tocca i soldi dello Stato, di chi è disposto a lottare per distinguere la marmaglia di coloro che mettono le mani sulla cosa pubblica nel proprio interesse personale. Sono da estinguere. Grazie di cuore.

(29 gennaio 2012)
Fonte : Repubblica