domenica 13 febbraio 2011

La generazione contro il Nulla Stampa E-mail
Left n.50-51 del 24dicembre 2010Ci siamo votati al merito e lo abbiamo visto calpestato. Abbiamo imparato il senso dello Stato e abbiamo visto fare della cosa pubblica un uso privato. Volevamo sentirci parte di una comunità per poi assistere a una tragica e banale sperequazione: furbizia contro legalità
di Tommaso Matano* Siamo stati cresciuti con la convinzione che la cultura fosse la strada da percorrere, perché lo studio rende critici, insegna a pensare. Siamo stati cresciuti con la coscienza che il futuro non è qualcosa che sta lì, fermo, in attesa di essere percorso, ma è una possibilità che va guadagnata, che è tanto migliore quanto maggiore è il nostro impegno. Che le cose vanno meritate. Siamo stati cresciuti in un mondo in cui comunicare, informarsi, sapere, era reso più facile dalle tecnologie. E mentre crescevamo ci accorgevamo che il Paese andava nella direzione opposta a noi. Ci remava contro. Si può capire la disperazione, la paura, la rabbia degli studenti e dei ricercatori che sfilano nelle città italiane in questi mesi solo se si capisce che la loro, la nostra, ragione più profonda, è di matrice culturale e sociale. Anzi, dico di più: è di natura spirituale.

Ci siamo votati al merito e abbiamo visto il merito calpestato. Abbiamo voluto imparare il senso dello Stato e abbiamo visto fare della Cosa pubblica un uso privato. Abbiamo desiderato sentirci parte di una comunità per poi assistere al concretizzarsi di una tragica e banale sperequazione: furbizia contro legalità. Ciò che il governo oggi ci consegna è un futuro ineluttabilmente precario, un’istruzione pubblica delegittimata, un disprezzo per la cultura conclamato, rivendicato quasi con fierezza. Ciò che il berlusconismo ci vorrebbe inculcare, ciò su cui ha plasmato e con cui ha condannato il nostro Paese, è una distruzione sistematica di ogni valore culturale. Questa continua, martellante, reiterata esaltazione del nulla ci ha così mostrato la desolazione dell’Italia. La televisione ci ha rigurgitato addosso colori pirotecnici, donne ridotte a oggetti sessuali, idiozia resa monumento, e intanto noi nelle case, nelle scuole, nelle università, abbiamo sopportato questa incomprensibile bruttezza rifugiandoci nelle piccole soddisfazioni e nelle cose che contano, che ci hanno insegnato ad apprezzare fin da bambini. Così abbiamo pian piano fatto il gioco che il nichilismo dominante voleva, chiudendoci nei nostri spazi, reificati, dimenticati, abbandonati dalla società cui apparteniamo e di cui saremo il futuro. Finché la frustrazione e il disagio non sono diventati insopportabili.

La riforma Gelmini dell’università è un provvedimento che rende il percorso per diventare ricercatori tortuoso, moltiplica le normative senza dare conto della loro applicabilità, si trincera dietro la norma anti baronato per poi spostare il potere nelle mani dei rettorati, e non risponde all’evidenza più inaccettabile: non si riforma senza spendere, non si taglia per migliorare. Ma la risposta degli studenti affonda le sue radici più in profondità. Berlusconi ha costruito la sua politica impolitica in un momento in cui noi non avevamo punti di riferimento. Non potevamo opporgli un’ideologia perché non ce n’erano più. Non vivevamo nemmeno più la politica come lo scenario adatto per questa battaglia (e lo mostra l’imbarazzo nel voto alle urne). Così è accaduto che il carattere eccezionale, anomalo, del suo governare sia diventato la normalità. Noi ci siamo ritrovati da soli, senza le armi per combattere l’irresponsabilità grottesca con cui quell’uomo e con lui un’intera categoria di pensiero e persone continuavano a rimanere, anno dopo anno, comandanti indiscussi della nostra democrazia.
Derisi, abbandonati, offesi da ciò che primariamente dovrebbe appartenerci in quanto cittadini, la politica, ci siamo ritrovati dall’altra parte di un confine che non dovrebbe esistere. Quelle camionette blindate poste a interrompere la strada tra noi e loro hanno riassunto con precisione calligrafica il senso di tutto quello che sta accadendo. E allora non più la legge, il ministro, il governo, ma la politica è diventata il nemico, si è trasformata in una classe opposta, nel segno di una contrapposizione frontale priva di senso, contraria al concetto stesso di democrazia. Una contrapposizione pressappochista e pericolosa che è però il frutto naturale di un governo che ha semplicemente ignorato la società di cui dovrebbe rendersi onorevole rappresentante. Abbiamo sfilato e sfileremo perché sappiamo di essere nel giusto. Abbiamo ascoltato la disperazione di un Paese, dagli abitanti di Terzigno agli sfollati de L’Aquila, dagli operai sulle gru a quelli di noi sui tetti; abbiamo sentito la rabbia esplosa nelle strade di Atene, di Londra, la rabbia di una generazione che va per la prima volta incontro a un domani peggiore dell’oggi, abbiamo compreso la difficoltà di un mondo preda della crisi economica, di una competitività spietata, di una velocità spiazzante, schizofrenica e votata al denaro. E di fronte a tutto questo chiediamo al nostro presente di darci una speranza per essere e avere un futuro. Perché in un Paese che funziona, il ministro dovrebbe salire sui tetti a darci ascolto. In un Paese che funziona la classe dirigente non dovrebbe essere sorda alle proteste, e liquidarle con la solita fiera stupidità. In un Paese che funziona si dovrebbe dire con chiarezza che la cultura dà lavoro, che noi siamo risorsa, non spesa.

Mi permetto un’ultima parola sulla manifestazione del 14 dicembre. Si è trattato di una mobilitazione partecipata, convinta, forte. Credo che gli episodi di violenza cui abbiamo assistito siano una degenerazione cui non va data legittimità ideologica. Perché i sassi lanciati contro un poliziotto sono l’inizio di una spirale di cieca violenza, di botte prese e date, che la sera lasciano in bocca il sapore del sangue, non della vittoria. Il “Palazzo del potere” non è un’entità distinta da colpire, da rovesciare, da soverchiare. È qualcosa di cui dobbiamo riappropriarci. Perché ci appartiene. Nella logica perversa della nostra società, gli scontri hanno avuto il merito di dare alla nostra questione una dimensione nuova. Ma non perdiamoci qui. Alla cultura del nulla che dobbiamo combattere si risponde solo con un’altra, vera, cultura.
Non sottovalutate quello che succede oggi. Nelle piazze di tutta Italia non ci sono giovani esaltati con la passione per la disobbedienza. È la Storia che va in scena, percorrendo una tappa fondamentale. Quella in cui un Paese anestetizzato si risveglia dal torpore e nella partecipazione, nel dialogo, nei libri, nell’energia degli studenti trova il coraggio di parlare una voce vibrante di rabbia. Ma anche di speranza. 

*studente del secondo anno di Filosofia all’università di Roma - La Sapienza

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