domenica 13 febbraio 2011

Disuguaglianze all'italiana.

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Left n.2 del 14 gennaio 2011Il nuovo decreto attuativo sul fisco municipale è solo l’inizio di un processo. Ma gli effetti del principio di territorialità cadranno subito come una mannaia sulle zone più povere del Paese
di Claudio De Fiores* Con la presentazione del nuovo decreto attuativo sul fisco municipale il processo di costruzione del federalismo all’italiana è giunto a un punto decisivo, seppure non conclusivo. Molti altri e dirimenti saranno i nodi che l’attuazione dell’art. 119 della Costituzione sarà nei mesi prossimi chiamata ad affrontare: definizione degli standard di prestazione; rapporti fra Regioni; sistema delle sanzioni per gli amministratori poco virtuosi. Certo, prevedere sin da ora quali saranno i tempi per l’integrale realizzazione del federalismo fiscale nel nostro ordinamento è operazione a dir poco ardua. Pur ammettendo che il governo riesca a vedere approvato il decreto sui Comuni in bicamerale, per la completa attuazione del federalismo fiscale bisognerà in ogni caso attendere molto più tempo. La legge n. 42 approvata in Parlamento nel 2009 è, infatti, una legge delega. E ciò comporta che la minuziosa determinazione dei contenuti della riforma sarà non solo ad appannaggio pressoché esclusivo del governo, ma verrà anche a essere diluita nel tempo. È quanto si apprende, in particolare, dall’art. 2 della legge che accorda la dettagliata stesura della riforma al governo, chiamato a redigere entro «ventiquattro mesi dalla entrata in vigore della legge uno o più decreti legislativi aventi ad oggetto l’attuazione dell’art. 119 della Costituzione».

Non tutto il procedimento è destinato quindi a esaurirsi entro i due anni previsti. E il 2011 non sarà di certo - come da più parti, più o meno ingenuamente, si vuole credere - l’anno del risolutivo compimento del federalismo fiscale. Ma semmai solo quello del suo concreto avvio. Una volta adottati i decreti legislativi avrà, infatti, inizio una nuova fase. Anche perché bisogna tener presente che il governo, una volta saggiati gli effetti della riforma, potrebbe «entro due anni dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi» (art. 2, quarto comma), intervenire per “aggiustare il tiro”, adottando nuove disposizioni normative (con decreti integrativi-correttivi).

Ma delineati succintamente gli aspetti procedurali della riforma, vediamo adesso quali sono i suoi contenuti. Fondamento giuridico e vero e proprio asse valoriale della legge è il principio della territorialità, la cui dirompente valenza politica e normativa è a tutti nota: ogni Regione ha il diritto di gestire la ricchezza prodotta sul proprio territorio.
E ciò significa, in altre parole che, per quanto riguarda le funzioni ritenute non essenziali - ma che inessenziali non sono (basti pensare ad alcuni settori particolarmente esposti come la formazione professionale, i servizi alle imprese e in parte i trasporti) - ogni Regione dovrà provvedere a finanziarsele autonomamente.

Una vera e propria mannaia
destinata ad abbattersi soprattutto sul Meridione, sospingendo fatalmente le classi dirigenti di queste Regioni a cimentarsi in futuro in vere e proprie partite di giro. Non è infatti necessario disporre di una palla di vetro per prevedere che il ceto politico meridionale tenterà (al fine di non bruciare il consenso elettorale di cui ancora gode) di escogitare tutte le possibili soluzioni pur di non incrementare la pressione fiscale. E ciò anche a costo di fornire meno servizi, meno interventi sociali, meno beni comuni e anzi trincerandosi comodamente, ancora una volta, dietro un’altra famigerata “conquista” della revisione costituzionale del 2001: il principio di sussidiarietà (in senso orizzontale) che consente oggi al potere pubblico di devolvere tutto, o quasi tutto, al mercato.

L’escamotage, utilizzato dal decreto
attuativo sul federalismo municipale, di introdurre un’imposta comunale sulle seconde case più che lenire gli effetti che potrebbero derivare da una rigida applicazione del principio di territorialità, rischia oggi in realtà di acuirne ulteriormente la portata. E questo perché i comuni più ricchi e con spiccata vocazione turistica si vedranno in futuro beneficiati di ulteriori risorse aggiuntive a danno di quei comuni che, pur presentando una notevole densità abitativa, non lo sono. E tutto ciò con buona pace anche del principio del no taxation without representation (nella stragrande maggioranza delle situazioni i proprietari di seconde case non sono residenti in quei comuni).

Il principio di territorialità, così come recepito dall’ art. 119 e oggi dalla legge 42, ammette tuttavia un’eccezione, concernente il finanziamento delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali (sanità, assistenza, istruzione). Ma per assicurare i livelli essenziali di queste prestazioni i governi territoriali saranno costretti a utilizzare le risorse contenute in un fondo perequativo che verrebbe ad essere finanziato - secondo quanto si apprende dalla legge - dalla fiscalità generale. L’istituzione del fondo, sebbene immaginata nel 2001 a fini perequativi (e quindi di eguaglianza), verrebbe così adesso a essere drasticamente dirottata al perseguimento di altri obiettivi: non più la rimozione degli squilibri economici e sociali fra le regioni ma solo un sostegno limitato (e proprio per questo “essenziale”) a favore delle aree del Paese più disagiate. Una soluzione destinata a innescare un’aspra competizione fra i governi territoriali, che solo un cinico sforzo di fantasia potrebbe indurci a definire “virtuosa”. Essa non avrà, infatti, altro effetto se non quello di sospingere i cittadini delle aree più povere del Paese a spostarsi in quelle regioni dove il saldo tra il livello di tassazione e la qualità dei servizi verrà ritenuta più conveniente. Laddove, in altre parole, si potrà guadagnare di più pagando, molto di meno.

Dalla Legge sul federalismo
fiscale apprendiamo, altresì, che le politiche di sostegno ai diritti di cittadinanza non verranno in futuro più predisposte sulla base del “criterio della spesa storica” (cioè sulla base di quanto speso nell’anno precedente) ma esclusivamente in relazione ai costi standard calcolati a livello nazionale al fine di assicurare un’equilibrata distribuzione delle risorse.

Una soluzione a dir poco illusoria.
Anche perché la legge 42 - interpretando restrittivamente il disposto costituzionale - si ostina a privilegiare quale unico ed esclusivo parametro di riferimento la «capacità fiscale per abitante». Evitando, in tal modo, di contemperare tale criterio con altri coefficienti sociali di ponderazione quale - ad esempio - il fabbisogno oggettivo di spesa. Ipotesi, quest’ultima, che avrebbe potuto consentire al legislatore di intervenire non solo sulle disparità derivanti dalla differente capacità fiscale strictu sensu ma anche sugli altri fattori di squilibrio (territoriale), interpretati alla luce di altri parametri di ponderazione (quali il costo delle funzioni o l’entità del fabbisogno). Anche perché - a fronte dei gravi divari economici e sociali che attraversano il Paese - non è detto che due cittadini affini per capacità fiscale (ma abitanti in due diverse regioni) abbiano anche una affine qualità della vita, godano delle medesime chances, usufruiscano (alla stessa maniera e alle stesse condizioni) dei medesimi beni e servizi. 

* docente di Diritto pubblico Seconda università di Napoli

Da LEFT

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