domenica 29 aprile 2012

Un tifone elettorale sull'Europa


di ENZO BETTIZA, dalla stampa

Ci sarà poco da scherzare il 6 maggio. La data batte ormai alle porte della travagliata Unione Europea, non più con i toni trionfali della Nona di Beethoven, ma con quelli fatidici e minacciosamente interrogativi della Quinta. Dopo l’inno alla Gioia, che risuonava nel 1979 all’inaugurazione a Strasburgo della prima assemblea europea eletta a suffragio universale, ci verranno piuttosto in mente, domenica prossima, le note incalzanti di una Quinta molto severa e ostinata, molto germanica, dalla quale sembrano erompere e crescere senza posa l’austerità e l’enigma di un destino sempre più oscuro.

Domenica si abbatterà da ogni parte d’Europa, anche non comunitaria, un vero e proprio tornado elettorale. In un’atmosfera di crisi rivelata e di irritazione quasi psicotica i francesi torneranno alle urne per il secondo turno. I greci vi andranno sfiduciati e stizzosi per eleggere un nuovo Parlamento. I serbi, che aspiravano all’Europa e oggi ne osservano con perplessità i guasti, dovranno in una sola volta nominare un presidente, scegliere un nuovo Parlamento e nuove assemblee provinciali e regionali. I tedeschi affronteranno le regionali nello Schleswig-Holstein e più in là quelle nel Nord-Reno-Vestfalia. Perfino i votanti italiani andranno a tastarsi il polso con provinciali a scartamento ridotto. Seguiranno a settembre le inattese quanto difficili votazioni in un’Olanda denudata, di sorpresa, sotto l’apparente virtuosità calvinista, nelle sue tre vulnerabilità. La falsità economica, l’instabilità politica, l’ambiguità ideologica.

Non è possibile sottrarsi alle ombre di una situazione eccezionale e piena, per tanti aspetti, di insidie rischiose. Il clima, le emozioni, i risentimenti, le delusioni, i calcoli, dopo la giornata di un voto così diffuso, saranno destinati a marcare in profondità la sorte di un continente che, unito a parole, non è poi riuscito ad unirsi per affrontare nella realtà la globalizzazione e i baratri della recessione occidentale. In quale specie di «casa comune» ci ritroviamo ad abitare oggi? Anche se costa una certa fatica ammetterlo, ci ritroviamo ammucchiati o stretti in una sorta di conglomerato di 27 Stati (talora 26, o 25, se consideriamo l’assenza valutaria e spesso politica dell’Inghilterra con qualche corifeo).

Fino all’altroieri i 25 avevano almeno una bussola puntata ad un approdo ormai divenuto miraggio lontano e forse evanescente: dalla moneta unica europea ad una politica di unità europea, competitiva all’Ovest con l’America e all’Est con giganti consolidati come il Giappone o emergenti come la Cina e l’India. Quel che vediamo invece è un insieme di Stati in procinto di slegarsi dalla matrice europea degli Anni 50, Ceca, Euratom, Mec, Cee, trattato di Roma eccetera. La cupola di questo paziente work in progress federatore, non privo di prestigio internazionale e di successi straordinari (basti pensare agli anni d’oro dell’Irlanda), doveva diventare infine un’eurozona inserita al centro della Comunità trasformata e proclamata Unione Europea nel 1993.

Certo, gli Stati che compongono l’entità sovranazionale si dichiarano ancora sempre, con buone ragioni storiche, membri di un’Unione che però, alla vigilia del tifone elettorale in arrivo, vediamo uscire sfinita, divisa e delusa dalla belle époque semifederalista svoltasi all’egida del suffragio diretto, dei trattati di Maastricht e dell’allargamento ai Paesi ex comunisti. L’impressione odierna è che grandi Stati come la Francia, o minori come la Grecia, continuino per materiali necessità di sostegno o di sussidio a definirsi membri dell’Unione, mentre le opposizioni estremiste di destra e di sinistra, in continuo vantaggio, rifiutano tutto ciò che odora di sovranazionalità: l’euro considerato contagioso untore pestifero, la Commissione di Bruxelles rinnegata come usurpatrice, le frontiere aperte criticate come inviti all’immigrazione selvaggia.

Un nascente neonazionalismo posteuropeista, che ha già inquinato le urne francesi del primo turno con l’abnorme riconferma del voto lepenista, si sta diffondendo e rafforzando ben al di là della Senna. Gli euronegazionisti non francesi, anarchici, fascistoidi, postcomunisti, danno quasi tutti l’impressione di volersi lasciare influenzare dalla deriva dell’imminente ballottaggio francese, tra un Sarkozy che rincorre ansimante i cani sciolti dell’ultradestra nazionalista e un Hollande sicuro di recuperare per intero il 10 per cento della gauche di Mélenchon e una buona fetta del voto di protesta operaio confluito sul Front National.

L’antieuropeismo, che per ragioni di cassetta ormai accomuna negli ultimi discorsi Sarkozy e Hollande, ha già provocato la caduta della coalizione governativa di centrodestra in Olanda; già mette in pericolo la rielezione del presidente serbo Tadic, che ha esaltato nel suo programma l’ingresso in Europa; si fa sentire con forza crescente in Belgio e in Danimarca e non risparmia neppure il nordismo leghista in Italia. Il grande rischio, incrementato dalle sferzate d’austerità del cancelliere Merkel perfino nell’Olanda filotedesca, umiliata da un deficit pubblico pari al 4,7 del prodotto interno (più alto di quello italiano del 3,9), è che il voto di maggio sfoci in una sorta di referendum più o meno velato sul rimanere o non rimanere nella zona euro o, in senso più lato, nell’Unione europea in quanto tale.

Non piace più a nessuno, neanche ai governanti francesi in carica che l’avevano approvato, il temibile «Compact» fiscale che la Germania, la sola ricca fra troppi poveri, ha imposto un po’ a tutti: dalla Spagna in bolletta, con un esercito esplosivo di disoccupati, alla Grecia in rovina dove la maggioranza degli elettori potrebbe decidere di uscire dall’euro e tornare alla dracma. Anche un’altra sorpresa potrebbe verificarsi ad Atene. All’interno dei due partiti maggiori - la conservatrice Nuova democrazia e il Pasok socialista, destinati a rimettersi insieme al governo - potrebbero rafforzarsi con l’aiuto di formazioni estremiste le correnti antieuropee che vedono il salvatore in Vladimir Putin: il Gazprom al posto dell’ente petrolifero nazionale, un terzo e più del debito sovrano coperto dall’oro di Mosca, il tutto provvidenzialmente benedetto dall’antico abbraccio ortodosso fra prelati greci e russi.

Intanto, se Atene piange, Sparta non ride. Per la prussiana Merkel il 6 maggio sarà l’inizio di una settimana di fuoco che si concluderà il 13 con il voto nel Nord-Reno-Vestfalia: un Land da 18 milioni di abitanti, determinante sul piano elettorale, dove il possibile crollo degli alleati liberali della cancelliera cristianodemocratica potrebbe mandare all’aria il governo di coalizione a Berlino. Una deviazione di rotta non da poco, per la punitiva politica di rigore inflitta dalla Germania merkeliana soprattutto agli europei del Sud: per i quali la solidarietà dovrebbe contare più dell’austerità da Kriegswirtschaft, o economia di guerra, che da tempo sembra prevalere per volontà tedesca fra i banchieri di Francoforte e gli eurocrati di Bruxelles.

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