Segni di fiducia malgrado tutto
In quasi tutte le città, l'azienda con più dipendenti è il Comune. Quasi tutte sono candidate l'una contro l'altra a capitale della cultura europea per il 2019, o a patrimonio mondiale dell'Unesco (quando non lo sono già). Le procure che indagano su politica e affari hanno una gran mole di lavoro, nel Sud clientelare come nel Nord leghista. I gruppi industriali quasi ovunque cercano di alleggerirsi anziché crescere. Eppure è possibile uscire da un lungo viaggio in Italia convinti che il Paese in qualche modo tenga, resista, e per alcuni versi sia più unito di prima, pronto a ripartire.
Certo, i segni della crisi sono evidenti. A cominciare dalla proliferazione delle insegne «compro oro» (una sorta di simbolo dell'Italia di oggi) e «tutto a un euro», delle slot machine, delle pizzerie al taglio dove talora anche nei quartieri borghesi si compra la cena per tutta la famiglia. E il segno più doloroso dell'impoverimento è il degrado dei rapporti umani, il diradarsi di quelle relazioni che rendevano bello e allegro vivere nei centri storici, oggi splendidamente recuperati ma meno abitati di un tempo: molti ristoranti sono pieni di televisori accesi, molti centri commerciali tengono la musica a tutto volume, come a disincentivare la comunicazione tra le persone. L'Italia appare un Paese di cattivo umore. Impaurito dal futuro, spaventato all'idea di spendere e investire, come conferma il dossier Eurisko.
Eppure il tessuto sociale tiene. C'è un'Italia che resiste. Il patrimonio di ricchezza privata resta imponente, e andrebbe (almeno in parte) messo a frutto. Il potenziale turistico rimane talvolta inespresso; anche perché, grazie agli investimenti pubblici e privati di questi anni, le nostre città non sono mai state così belle. Forse le prospettive future dipendono anche dal modo in cui pensiamo l'Italia. Tendiamo ad esempio a concentrare l'attenzione sulla dorsale tirrenica, dove ci sono le grandi città tra cui quelle impoverite dal declino dell'industria statale, come Genova e Napoli; e dimentichiamo la dorsale adriatica, da Trieste tornata centro geografico d'Europa ai cantieri di Venezia, dal miracolo rinnovato dei romagnoli che riescono a vendere - ieri ai tedeschi oggi ai russi - un mare non bellissimo al fervore dei marchigiani, sino alla vitalità della Puglia (che non è solo vizio e corruzione) e alla resistenza dell'Abruzzo.
È vero che il Paese rischia di diventare meno multicentrico di un tempo: le banche locali sono finite quasi tutte a Milano, l'impasse del federalismo riporta i centri decisionali a Roma. Ma nessuna nazione al mondo ha così tante città forti di una propria storia, una propria identità, una propria specificità (non a caso i sindaci, pur con i loro problemi, non sono stati travolti dal discredito generale dei partiti). È sempre stato così; ma in un mondo globale, che diventa sempre più uniforme, questa è una ricchezza ancora non del tutto valorizzata. L'importante è essere consapevoli di chi siamo; e ricordarcelo anche nell'ora più difficile.
di Aldo Cazzullo, dal corriere
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