venerdì 20 aprile 2012

Il flop delle agenzie per l'impiego


di WALTER PASSERINI, dalla stampa

Oltre che di navigatori e poeti, il nostro è il paese dei rassegnati. Sono oltre tre milioni le forze di lavoro potenziali in Italia che, sommati ai 2,1 milioni di disoccupati e ai 450mila sottoccupati involontari in parttime, rappresentano un esercito di quasi 5,2 milioni di persone impiegabili nei processi produttivi, affamate di occupazione ma senza un posto di lavoro. Gli ultimi dati complementari 2011 dell’Istat rivelano che, se abbiamo una disoccupazione più bassa che in Europa (8,4 contro 9,6%, ma destinata a peggiorare), abbiamo tre volte gli inattivi rassegnati d'Europa (12,1 contro 4,6%) e ospitiamo un terzo degli 8,6 milioni di europei che non cercano lavoro ma sono disponibili a lavorare. Su chi sono non ci sono dubbi: più donne che uomini, più 35-54enni che giovanissimi, due su tre a Sud, sei su dieci solo con licenza media inferiore.

La sfida è capire perché tre milioni di inattivi disponibili al lavoro, oltre ai disoccupati, non lo cercano più. Vi sono motivazioni soggettive. Circa la metà (oltre 1,2 milioni) è fatta di sfiduciati, che rinunciano a cercarlo perché pensano di non trovarlo. Uomini e donne in questo sono pari. Un uomo su quattro poi non lo cerca perché aspetta di conoscere l’esito di precedenti ricerche; una donna su cinque perché impegnata nelle cure familiari. Altri hanno ripreso a studiare e a frequentare corsi. Ma al di là di quelle soggettive, vi sono ragioni oggettive che impediscono di soddisfare la voglia e il bisogno di lavorare. Qui il re diventa nudo. Qui il nostro mercato del lavoro, come in un medaglione, rivela le sue due debolissime facce: quella della costituzione economica e quella dell’offerta di servizi all’impiego. Non dimentichiamolo, siamo il Paese delle piccole imprese, delle microimprese, dell’industria bonsai, mentre i cercatori di lavoro, specie i più giovani, ambirebbero lavorare in grandi imprese. Oggi le piccole soffrono sotto i colpi della crisi. Ma se le piccole dimensioni, ai primi refoli di ripresa, ridiventano un sensore di vitalità e recupero, è sull’accompagnamento al lavoro che lo sguardo diventa impietoso. Abbiamo servizi al lavoro da Terzo mondo, con tutto il rispetto. Oggi le persone che cercano lavoro lo trovano grazie ad amici e reti personali. Centri pubblici per l’impiego e agenzie di lavoro e ricerca (oltre 3 mila sportelli e 20 mila dipendenti) oggi trovano lavoro al 7% dei cercatori. Ma anche se i canali professionali soddisfano solo sette italiani su cento, è su questo paesaggio desolato che dovremo accendere un faro e migliorare. Se chi perde il lavoro non sa a che santo votarsi, vuol dire che non siamo un paese normale, affidabile né prevedibile.

Dovremo cambiare le nostre pratiche: il diritto al lavoro non è restare aggrappati al posto, ma avere la serena certezza di essere aiutati a trovarlo. Dal posto di lavoro ai servizi al lavoro (orientamento, formazione e ricerca compresa), nel mercato e nel territorio. Non deve essere una pia illusione ma una prossima realtà.


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