lunedì 30 aprile 2012

Ci vorrebbe un tecnico per riparare i guai dei tecnici


Si diceva che il governo dei professori doveva riparare i danni fatti dai politici. Ma agli errori che accumulano Monti e i suoi ministri chi porrà rimedio? Eccone un primo, sommario elenco.

di Marco Travaglio, da l'Espresso, 27 aprile 2012

Immaginiamo un governo politico, di destra o di centro o di sinistra, che l'8 gennaio promette di mettere mano alla Rai "entro poche settimane" e poi non fa nulla per tre mesi e mezzo, anche dopo che il 28 marzo è scaduto il Cda; si dice "disponibile a un decreto" per tagliare i fondi pubblici ai partiti e poi non muove un dito; annuncia che le province saranno abolite, poi si scopre che restano, ma i consiglieri non li eleggono più i cittadini, bensì li nominano i consiglieri comunali; alza l'età pensionabile a 68 anni mentre ogni anno decine di migliaia di lavoratori vengono rottamati a 50, e poi s'accorge che così centinaia di migliaia di lavoratori restano senza stipendio né pensione; annuncia che gli "esodati" sono 65 mila perché i soldi bastano solo per questi, salvo scoprire che sono 350 mila; ripristina la tassa sulla prima casa (Imu), esentando le fondazioni bancarie, ma non le case di vecchi e invalidi ricoverati in ospizio; divide l'Imu prima in due poi in tre rate e annuncia aliquote più alte ma senza fissarle, gettando i contribuenti nel caos e beccandosi l'accusa di incostituzionalità dai tecnici della Camera.

Ma non è finita: abolisce le imposte sulle borse di studio fino a 11.500 euro, ma non per i 25 mila medici specializzandi scippandogli il 20 per cento di quel poco che lo Stato concede loro per finire gli studi; abolisce dall'articolo 18 il reintegro giudiziario per i licenziati ingiustamente con la scusa dei motivi economici, poi annuncia che la riforma è immodificabile, infine fa retromarcia alla prima minaccia di sciopero; lancia il decreto liberalizzazioni e poi lo lascia svuotare in Parlamento dalle solite lobby, mentre la Ragioneria dello Stato segnala la mancanza di copertura finanziaria per alcune norme; dà parere favorevole a un emendamento Pd che cancella le commissioni bancarie, salvo poi accorgersene e cancellarlo con un altro decreto; lascia passare un altro emendamento Pd che tassa gli alcolici per assumere 10 mila precari della scuola, poi lo fa bocciare in extremis; annuncia la ritassazione dei capitali scudati, ma senza spiegare come si paga, così nessuno riesce a pagarla nemmeno se vuole; tassa le ville all'estero, ma si scorda quelle intestate a società, che sono la maggioranza, così non paga quasi nessuno; toglie ai disoccupati l'esenzione dal ticket sanitario e poi la ripristina scusandosi per il "refuso".

E ancora: vara il decreto "svuotacarceri" per sfollare le celle, col risultato che i detenuti aumentano (66.632 fine febbraio, 66.695 fine marzo); annuncia la tassa di 2 centesimi sugli sms per finanziare la Protezione civile, poi se la rimangia e aumenta le accise sulla benzina; annuncia due volte nella Delega fiscale un "fondo taglia-tasse" per abbassare le aliquote e abolire l'Irap coi proventi della lotta all'evasione, ma due volte lo cancella; depenalizza le condotte "ascrivibili all'elusione fiscale" con "abuso del diritto" che vedono imputati Dolce e Gabbana, indagati dirigenti di Unicredit e Barclays e multati dal fisco Intesa Sanpaolo per 270 milioni e Montepaschi per 260 (lodo salva-banche); inventa una tassa sulle barche di lusso, ma cambia tre volte le regole così pochi la pagano e quasi tutti portano gli yacht all'estero ("lodo Briatore"); nella riforma della Protezione civile scrive che "il soggetto incaricato dell'attività di previsione e prevenzione del rischio è responsabile solo in caso di dolo o colpa grave", rischiando di mandare in fumo il processo in corso a L'Aquila contro la Commissione grandi rischi per omicidio colposo e le indagini sulla mancata prevenzione nel sisma del 2009 (lodo salva-Bertolaso & C.); nel pacchetto anticorruzione Severino cambia il nome e riduce la pena (e la prescrizione: da 15 a 10 anni) alla concussione per induzione, reato contestato a Berlusconi nel processo Ruby (lodo salva-Silvio).

Ecco, in uno a caso di tutti questi casi, che si direbbe di questo governo politico? Che ci vogliono dei tecnici per ripararne tutti i guasti. Ma se questi guasti li fa il governo tecnico, chi li ripara?

L'utopia della lotta agli sprechi


di LUCA RICOLFI, dalla stampa

Oggi il Consiglio dei ministri si riunisce per affrontare il problema dei tagli alla spesa pubblica. Vedremo che cosa ne verrà fuori. E speriamo che il risultato non siano solo annunci, ulteriori «fasi di studio», impegni futuri, «tavoli tecnici» e approfondimenti vari. Perché una cosa va detta: di «enti inutili», «spending review», sprechi della Pubblica Amministrazione, si parla da decenni, almeno dai tempi di Ugo La Malfa, e di studi settoriali sull’efficienza della macchina amministrativa pubblica se ne contano ormai a bizzeffe.

E il quadro generale è piuttosto chiaro. La spesa pubblica totale, al netto delle pensioni e degli interessi sul debito, ammonta a circa 500 miliardi di euro.

Il tasso di spreco medio è nell’ordine del 20-25%, il che significa che, se si adottassero le pratiche delle amministrazioni più efficienti (ma sarebbe più esatto dire: meno inefficienti), si potrebbero risparmiare almeno 100 miliardi l’anno. Una cifra con cui, giusto per fare un esempio, si potrebbe portare la pressione fiscale sui produttori a livelli irlandesi, attirare investimenti esteri e creare milioni di posti di lavoro.

Ma perché, se il quadro è chiaro, nulla o quasi nulla mai avviene, né con governi di sinistra, né con governi di destra, né con governi tecnici?

Le ragioni per cui nulla di importante mai avviene, a mio parere, sono almeno tre. La prima, ovvia, è che è politicamente più facile aumentare le tasse che ridurre la spesa. L’aumento delle tasse si traduce in decine di piccole vessazioni nessuna delle quali è abbastanza concentrata su una singola categoria da suscitare una rivolta dei contribuenti. I tagli alla spesa invece toccano categorie molto specifiche, e così creano una saldatura fra corporazioni, sindacati e ceto politico (specie locale), una sorta di patto nascosto o implicito che blocca qualsiasi decisione presa dal governo centrale.

La seconda ragione che blocca i tagli è che, colpevolmente, in questi anni il ceto politico non ha mai commissionato studi analitici. Di un comparto come la sanità, o come la giustizia, o come la burocrazia comunale, si sa con discreta precisione quanto spreca, a vari livelli: a livello nazionale, a livello regionale, spesso anche a livello provinciale. Ma non si sa dove esattamente gli sprechi si annidino, perché per saperlo occorrerebbe effettuare centinaia di studi locali e dettagliati – «studi analitici» appunto – che di norma richiedono un tempo (da 1 a 3 anni) che va al di là del miope orizzonte dei nostri partiti politici. Questo spiega perché, arrivati al dunque, i tagli sono sempre lineari e piccoli. Si dice a tutti: risparmia il 2% subito, mentre si dovrebbe dire: avete tempo 5 anni, ma tu – amministrazione abbastanza virtuosa – devi risparmiare il 4% in 5 anni, mentre tu – amministrazione cicala – devi risparmiare il 40%.

E qui veniamo alla vera, profonda e a mio parere insuperabile ragione per cui non si riesce e – temo – non si riuscirà mai a eliminare gli sprechi: le amministrazioni virtuose sono territorialmente concentrate in alcune, ben note, regioni del Centro-Nord, quelle viziose in alcune, ben note, regioni del CentroSud. Una politica di risparmi di spesa seria dovrebbe avere il coraggio di dire: caro Lombardo-Veneto, cara Emilia Romagna, avete già fatto molto per razionalizzare la spesa, quindi a voi chiediamo solo una ulteriore limatura del 5% (cifra indicativa, ma non lontana dalla realtà). Caro Piemonte, cara Liguria, cara Umbria, voi siete state meno brave, a voi dobbiamo chiedere di tagliare il 15%. E poi dovrebbe farsi forza e dire: care Sicilia, Calabria e Campania, voi buttate via i soldi, vi diamo 5 anni di tempo ma voi la spesa la dovete ridurre del 40%. Mentre voi, Puglia, Abruzzo, Sardegna, di soldi ne buttate via un po’ di meno, e quindi a voi chiediamo risparmi minori, diciamo del 25% in 5 anni.

Naturalmente le regioni e le cifre precedenti sono solo indicative. La graduatoria degli sprechi, all’ingrosso e a grandissime linee, è effettivamente quella che ho appena indicato ma non è la medesima in tutti i campi: un territorio può essere inefficiente nella sanità ma abbastanza efficiente nella giustizia; una regione sprecona può contenere isole di efficienza, così come una regione virtuosa può contenere sacche di inefficienza. E’ proprio per questo che, se non ci si vuole affidare ai tagli lineari, gli studi devono essere il più analitici possibile e un governo centrale può fissare solo gli obiettivi aggregati di medio periodo. Un governo che volesse fare sul serio dovrebbe fissare un orizzonte temporale ragionevole (3, 4, 5 anni), quantificare i risparmi possibili in ognuno dei grandi comparti della Pubblica amministrazione, e fissare precisi obiettivi territoriali per ogni comparto. Questo, se lo si volesse, si potrebbe fare anche subito, perché di studi ce ne sono già abbastanza, a partire da quelli della (colpevolmente) disciolta «Commissione Muraro» sulla spesa pubblica, che già anni fa aveva cominciato a delineare un quadro delle inefficienze. Fatto questo, toccherebbe poi alle varie amministrazioni pubbliche, centrali (ministeri) e locali (Regioni, Province, Comuni), ripartire il carico dei risparmi Asl per Asl, reparto per reparto, Comune per Comune, servizio per servizio. Un’operazione che richiederebbe una miriade di studi analitici, una serie di autorità esterne di controllo e valutazione, nonché un processo di contrattazione fra gli enti coinvolti.

Un’utopia? Sì, penso di sì. E appunto per questo, perché quel che si dovrebbe fare appare utopistico con questo ceto politico, con questa opinione pubblica, con queste forze sociali, penso che non se ne farà nulla. Di «spending review» si parlerà ancora un po’, saremo inondati di intenzioni e annunci, e alla fine la spesa verrà limata in maniera molto modesta. I risultati non saranno usati né per costruire asili nido (di cui c’è un enorme bisogno) né per ridurre le tasse a lavoratori e imprese, ma per coprire i buchi di bilancio che – puntualmente – si scopriranno all’avvicinarsi della scadenza del 2013. Il governo, quale che esso sia, si accorgerà fra qualche tempo che l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013 è a rischio, e lì farà confluire i proventi di tutti i nostri sacrifici, fatti di maggiori tasse e minori servizi. So che a molti apparirò troppo pessimista, o prevenuto nei confronti di ogni governo della Repubblica presente, passato e futuro, ma questo è quello che – sulla base dell’esperienza – penso si possa realisticamente prevedere.

domenica 29 aprile 2012

Un tifone elettorale sull'Europa


di ENZO BETTIZA, dalla stampa

Ci sarà poco da scherzare il 6 maggio. La data batte ormai alle porte della travagliata Unione Europea, non più con i toni trionfali della Nona di Beethoven, ma con quelli fatidici e minacciosamente interrogativi della Quinta. Dopo l’inno alla Gioia, che risuonava nel 1979 all’inaugurazione a Strasburgo della prima assemblea europea eletta a suffragio universale, ci verranno piuttosto in mente, domenica prossima, le note incalzanti di una Quinta molto severa e ostinata, molto germanica, dalla quale sembrano erompere e crescere senza posa l’austerità e l’enigma di un destino sempre più oscuro.

Domenica si abbatterà da ogni parte d’Europa, anche non comunitaria, un vero e proprio tornado elettorale. In un’atmosfera di crisi rivelata e di irritazione quasi psicotica i francesi torneranno alle urne per il secondo turno. I greci vi andranno sfiduciati e stizzosi per eleggere un nuovo Parlamento. I serbi, che aspiravano all’Europa e oggi ne osservano con perplessità i guasti, dovranno in una sola volta nominare un presidente, scegliere un nuovo Parlamento e nuove assemblee provinciali e regionali. I tedeschi affronteranno le regionali nello Schleswig-Holstein e più in là quelle nel Nord-Reno-Vestfalia. Perfino i votanti italiani andranno a tastarsi il polso con provinciali a scartamento ridotto. Seguiranno a settembre le inattese quanto difficili votazioni in un’Olanda denudata, di sorpresa, sotto l’apparente virtuosità calvinista, nelle sue tre vulnerabilità. La falsità economica, l’instabilità politica, l’ambiguità ideologica.

Non è possibile sottrarsi alle ombre di una situazione eccezionale e piena, per tanti aspetti, di insidie rischiose. Il clima, le emozioni, i risentimenti, le delusioni, i calcoli, dopo la giornata di un voto così diffuso, saranno destinati a marcare in profondità la sorte di un continente che, unito a parole, non è poi riuscito ad unirsi per affrontare nella realtà la globalizzazione e i baratri della recessione occidentale. In quale specie di «casa comune» ci ritroviamo ad abitare oggi? Anche se costa una certa fatica ammetterlo, ci ritroviamo ammucchiati o stretti in una sorta di conglomerato di 27 Stati (talora 26, o 25, se consideriamo l’assenza valutaria e spesso politica dell’Inghilterra con qualche corifeo).

Fino all’altroieri i 25 avevano almeno una bussola puntata ad un approdo ormai divenuto miraggio lontano e forse evanescente: dalla moneta unica europea ad una politica di unità europea, competitiva all’Ovest con l’America e all’Est con giganti consolidati come il Giappone o emergenti come la Cina e l’India. Quel che vediamo invece è un insieme di Stati in procinto di slegarsi dalla matrice europea degli Anni 50, Ceca, Euratom, Mec, Cee, trattato di Roma eccetera. La cupola di questo paziente work in progress federatore, non privo di prestigio internazionale e di successi straordinari (basti pensare agli anni d’oro dell’Irlanda), doveva diventare infine un’eurozona inserita al centro della Comunità trasformata e proclamata Unione Europea nel 1993.

Certo, gli Stati che compongono l’entità sovranazionale si dichiarano ancora sempre, con buone ragioni storiche, membri di un’Unione che però, alla vigilia del tifone elettorale in arrivo, vediamo uscire sfinita, divisa e delusa dalla belle époque semifederalista svoltasi all’egida del suffragio diretto, dei trattati di Maastricht e dell’allargamento ai Paesi ex comunisti. L’impressione odierna è che grandi Stati come la Francia, o minori come la Grecia, continuino per materiali necessità di sostegno o di sussidio a definirsi membri dell’Unione, mentre le opposizioni estremiste di destra e di sinistra, in continuo vantaggio, rifiutano tutto ciò che odora di sovranazionalità: l’euro considerato contagioso untore pestifero, la Commissione di Bruxelles rinnegata come usurpatrice, le frontiere aperte criticate come inviti all’immigrazione selvaggia.

Un nascente neonazionalismo posteuropeista, che ha già inquinato le urne francesi del primo turno con l’abnorme riconferma del voto lepenista, si sta diffondendo e rafforzando ben al di là della Senna. Gli euronegazionisti non francesi, anarchici, fascistoidi, postcomunisti, danno quasi tutti l’impressione di volersi lasciare influenzare dalla deriva dell’imminente ballottaggio francese, tra un Sarkozy che rincorre ansimante i cani sciolti dell’ultradestra nazionalista e un Hollande sicuro di recuperare per intero il 10 per cento della gauche di Mélenchon e una buona fetta del voto di protesta operaio confluito sul Front National.

L’antieuropeismo, che per ragioni di cassetta ormai accomuna negli ultimi discorsi Sarkozy e Hollande, ha già provocato la caduta della coalizione governativa di centrodestra in Olanda; già mette in pericolo la rielezione del presidente serbo Tadic, che ha esaltato nel suo programma l’ingresso in Europa; si fa sentire con forza crescente in Belgio e in Danimarca e non risparmia neppure il nordismo leghista in Italia. Il grande rischio, incrementato dalle sferzate d’austerità del cancelliere Merkel perfino nell’Olanda filotedesca, umiliata da un deficit pubblico pari al 4,7 del prodotto interno (più alto di quello italiano del 3,9), è che il voto di maggio sfoci in una sorta di referendum più o meno velato sul rimanere o non rimanere nella zona euro o, in senso più lato, nell’Unione europea in quanto tale.

Non piace più a nessuno, neanche ai governanti francesi in carica che l’avevano approvato, il temibile «Compact» fiscale che la Germania, la sola ricca fra troppi poveri, ha imposto un po’ a tutti: dalla Spagna in bolletta, con un esercito esplosivo di disoccupati, alla Grecia in rovina dove la maggioranza degli elettori potrebbe decidere di uscire dall’euro e tornare alla dracma. Anche un’altra sorpresa potrebbe verificarsi ad Atene. All’interno dei due partiti maggiori - la conservatrice Nuova democrazia e il Pasok socialista, destinati a rimettersi insieme al governo - potrebbero rafforzarsi con l’aiuto di formazioni estremiste le correnti antieuropee che vedono il salvatore in Vladimir Putin: il Gazprom al posto dell’ente petrolifero nazionale, un terzo e più del debito sovrano coperto dall’oro di Mosca, il tutto provvidenzialmente benedetto dall’antico abbraccio ortodosso fra prelati greci e russi.

Intanto, se Atene piange, Sparta non ride. Per la prussiana Merkel il 6 maggio sarà l’inizio di una settimana di fuoco che si concluderà il 13 con il voto nel Nord-Reno-Vestfalia: un Land da 18 milioni di abitanti, determinante sul piano elettorale, dove il possibile crollo degli alleati liberali della cancelliera cristianodemocratica potrebbe mandare all’aria il governo di coalizione a Berlino. Una deviazione di rotta non da poco, per la punitiva politica di rigore inflitta dalla Germania merkeliana soprattutto agli europei del Sud: per i quali la solidarietà dovrebbe contare più dell’austerità da Kriegswirtschaft, o economia di guerra, che da tempo sembra prevalere per volontà tedesca fra i banchieri di Francoforte e gli eurocrati di Bruxelles.

sabato 28 aprile 2012

L'età dell'ignoranza


Altro che società dell'informazione, siamo nel pieno della "Età dell'ignoranza". E ci siamo arrivati quasi senza accorgercene. Un libro di Fabrizio Tonello contro l'ottimismo tecnologico e altre scorciatoie che possono trarre in inganno. Un'anticipazione, da www.sbilanciamoci.info

Non si sente parlare che di “società dell’informazione” ma siamo entrati senza accorgercene nell’Età dell’Ignoranza. Nostra, di tutti. Si scrivono intere biblioteche sul valore di internet per la crescita culturale e la conoscenza diffusa; nelle scuole entrano i portatili e gli iPad; i nuovi telefoni cellulari ci permettono di scaricare musica, parole o immagini ovunque; possiamo restare in contatto con gli amici 24 ore su 24, ascoltare la radio italiana anche se siamo in Australia, leggere qualsiasi giornale anche stando a capo Nord, dove saremo arrivati tranquillamente in moto grazie a Google Maps; possiamo studiare sul nostro computer rari incunaboli fino a poco tempo fa disponibili solo in antiche biblioteche e oggi digitalizzati. Internet , nel giro di pochissimi anni, ha reso possibili tutte queste cose, e molte altre ancora. Purtroppo, l’ingenuo ottimismo dei cantori della modernità tende a ignorare molti problemi che ci stanno di fronte.
Prima di tutto, guardiamo al fossato che si sta approfondendo tra chi ha accesso a internet e chi non ce l’ha. Nel dicembre 2011, i giornali italiani hanno commentato con soddisfazione che il traguardo del 50% della popolazione che frequenta la Rete era stato raggiunto; in un giorno medio sono 12 milioni gli italiani che usano la Rete. Cifre positive? C’è da dubitarne: siamo indietro rispetto a tutti i partner europei (l’accesso mediante banda larga ha un tasso di penetrazione del 49% rispetto alla media europea del 61%)ed è facile capire che, se si escludono dal calcolo gli studenti e chi deve usare un computer per lavoro ben pochi italiani usano la Rete , non fosse che per mandare una mail ai parenti lontani o un messaggio Facebook agli amici più intimi. Una maggioranza dei nostri concittadini è ancora indifferente, o impossibilitata per varie ragioni, a usare questa risorsa: “chi ha bassi livelli di scolarità, meno della licenza media, sembra quasi escluso da questi usi [del computer]”.
Guardiamo anche ai dati americani, che rivelano una sostanziale stagnazione nell’uso della Rete: gli utilizzatori di internet avevano toccato il picco del 79% degli adulti già nell’aprile 2009, per poi calare al 74% otto mesi dopo, risalire al 79% nel maggio 2010 e riscendere al 74% in novembre dello stesso anno. Nel maggio 2011 erano a quota 77%. Questo andamento significa che, al di là delle oscillazioni statistiche e delle variazioni stagionali, si sta consolidando una divisione della società americana, che vede circa 4 adulti su 5 come utenti della Rete, senza progredire ulteriormente. Ma il 20% degli adulti sono più di 50 milioni di persone, cifra che non casualmente è assai vicina a quella dei cittadini che vivono in povertà. Anche se le due aree non coincidono perfettamente, è ovvio che la grande maggioranza dei poveri non usa internet perché non può permetterselo, non sa come usarlo, ha difficoltà sociali e cognitive per sfruttare la Rete .[i]
In secondo luogo, sappiamo che avere a disposizione miliardi di informazioni non equivale a comprenderle, né a saperle usare correttamente: al contrario, il “rumore di fondo” può diventare un ostacolo all’uso dell’intelligenza critica, la “fondamentale capacità dell'uomo di comprendere al tempo stesso in che mondo si trova a vivere ed a partire da quali condizioni la rivolta contro questo mondo diventa una necessità morale”. Fino ad oggi la Terra non è stata guarita dalle sue povertà, violenze, disuguaglianze, problemi alimentari e ambientali grazie a internet: l’immensa banca dati che oggi abbiamo a portata di mano non potrà mai sostituire l’attività critica della Ragione e ancor meno l’azione collettiva.
Il dibattito di questi anni su internet è stato privo di spessore storico, della capacità di chiedersi se altre invenzioni moderne non fossero state caricate di aspettative del tutto sproporzionate. Anche a cavallo del 1900, per esempio, un redattore di Scientific American definiva l’epoca in cui stava vivendo come un momento “unico” nella storia dell’umanità,
“una gigantesca onda di marea di ingegnosità e capacità umana, così meravigliosa nella sua grandezza, così complessa nella sua diversità, così profonda nel suo pensiero, così fruttuosa nella sua ricchezza, così benefica nei suoi risultati che la mente fatica e stenta nello sforzo di aprirsi a una completa comprensione del fenomeno.”
Negli anni Venti, molti erano convinti che la radio avrebbe portato con sé cultura, fine dell’isolamento delle campagne, informazione per tutti e in ogni momento: “Si pensi al valore che potrebbe avere la radio specie per gli abitanti di piccoli villaggi che non possono usufruire neanche di un cinema (…) il sistema radiofonico deve venire esteso rapidamente, infatti esso contribuirà sensibilmente all’estendersi della cultura generale del popolo”. Essa era vista un po’ come internet oggi, come una tecnologia capace di eliminare le barriere che impedivano ai cittadini un accesso diretto alla politica.
Ci si aspettava che l’aviazione avrebbe portato la parità fra uomo e donna e ampliato la democrazia eliminando “le discriminazioni e i mali che il nostro sistema capitalistico di distribuzione ci ha inflitto”, mentre il premio Nobel Wilhelm Ostwald scriveva nel settimanale radicale The Masses che l’aereo avrebbe fatto scomparire le frontiere e “apportato la fratellanza umana”.
Negli anni Quaranta, l’elettrificazione delle campagne permessa dalla costruzione di grandi dighe e l’uso dei fertilizzanti chimici rappresentavano, per i collaboratori di Roosevelt, la “democrazia che avanza”.[ii] Negli stessi anni, la catena di montaggio degli stabilimenti di Detroit suscitava queste riflessioni in un visitatore tedesco: “Nessuna sinfonia, nessuna Eroica è paragonabile come profondità, contenuto e potere alla musica che ci minacciava e ci colpiva mentre percorrevamo le officine Ford, passanti travolti dall’audace espressione dello spirito umano”.[iii]
A sua volta, la televisione fu presentata alla fiera di New York nel febbraio 1939 come “una forza vitale per l’educazione e l’intrattenimento”, un “miracolo” che avrebbe avuto “una magnifica missione di pace e interdipendenza tra le nazioni”.[iv] Nel 1978, l’esperienza di oltre trent’anni di televisione commerciale non avrebbe impedito a Daniel Boorstin di celebrarla per il suo potere di ”dissolvere gli eserciti, licenziare i presidenti, creare un mondo democratico interamente nuovo”.[v]
Questo atteggiamento di ingenuo determinismo tecnologico è particolarmente visibile oggi nelle aspettative create da Wikipedia e, più recentemente, da Facebook, Twitter e altre piattaforme simili. Da quando le “tecnologie nomadi”, il laptop, l’iPad, i cellulari di ultima generazione si sono diffusi con grande velocità in tutti i paesi industrializzati toccando l’organizzazione della vita quotidiana e le forme di relazione sociale, la Rete è diventata oggetto di un culto quasi religioso negli uomini (Steve Jobs, Bill Gates), nelle tecnologie (motori di ricerca, telefonini), nelle aspettative (cultura a disposizione di tutti, economia dell’abbondanza) nell’impatto politico (Twitter e Facebook come “forze motrici” della primavera araba).
Purtroppo, Internet non è la bacchetta magica della democrazia. Martha Nussbaum ha giustamente scritto: “Non mi riferisco alla crisi economica mondiale che è iniziata nel 2008. (...) Mi riferisco invece a una crisi che passa inosservata, che lavora in silenzio, come un cancro; una crisi destinata ad essere, in prospettiva, ben più dannosa per il futuro della democrazia: la crisi mondiale dell’istruzione”.
Chi ha studiato, e studiato, e studiato ancora, può usare le sue risorse come la lampada di Aladino: chiedete (a Google) e i vostri desideri saranno realizzati (almeno per chi ha una carta di credito valida). Chi usa internet per mettere le foto delle vacanze su Facebook non diventerà per questo un cittadino informato e responsabile. Nessuna connessione a banda larga, nessun iPad ci protegge dall’aumento vertiginoso della complessità della vita quotidiana, dalla mancanza di punti di riferimento che fino a ieri davamo per scontati. La nostra percezione del mondo si affida sempre più ai mass media e questo ci rende confusi, incerti, angosciati, una condizione assai pericolosa per la democrazia. Di fronte a queste tendenze negative sta, si dice, la trasparenza della Rete e la capacità di usarla tipica delle nuove generazioni. Oggi mentire, per i politici, è assai più difficile perché sul Web non è difficile trovare le dichiarazioni di ieri, le immagini delle gaffe, i documenti di governi e organizzazioni internazionali.
I capitoli che seguono cercheranno quindi di esplorare questa contraddizione: un mondo di ignoranti in un’era dove la conoscenza è a portata di mano. Un mondo di persone disinformate in un’era di comunicazioni istantanee. L’Età della (nostra) ignoranza è una situazione in cui un intreccio di tecnologie, pratiche sociali e habitus prevalenti mette in pericolo il patrimonio di saperi del mondo civile e le basi sociali della democrazia. Proporremo quindi di indicare come “ignorante” colui il quale manchi delle risorse etico-cognitive necessarie per confrontarsi con il mondo in cui viviamo.
Internet certo non libererà l’Italia da chi parcheggia in seconda fila, getta la spazzatura in strada o urla al telefonino in treno. Ignoranza, oggi, significa prima di tutto maleducazione, arroganza, prepotenza simili a quelle dei tifosi della curva Sud. Sembra che nel nostro paese quasi nessuno ragioni più con una logica che fino a ieri sembrava elementare: talvolta ci si chiede cosa sia successo nella testa delle persone, visto che il ragionamento logico non funziona, non fa presa, non convince.
Per fortuna, ci sono controtendenze in atto, mobilitazioni di massa che fanno un uso creativo delle nuove tecnologie, movimenti che si oppongono alla commercializzazione della Rete e ai suoi usi per rafforzare la sorveglianza e la repressione.


[i] Può essere che i dati sull’uso di internet siano leggermente sottovalutati perché molti americani poveri vi possono accedere attraverso la capillare ed efficiente rete di biblioteche pubbliche. Vedi Becker, Samantha, et al. (2010), Opportunity for All: How the American Public Benefits from Internet Access at U.S. Libraries, Institute of Museum and Library Services, Washington, D.C.; Agnoli, Caro sindaco, parliamo di biblioteche, Editrice Bibliografica, Milano 2011.
[ii] David Lilienthal, TVA: Democracy on the March, New York, Harper & Brothers, 1944.
[iii] Hughes, op. cit., p. 291.
[iv] Manoscritto del discorso di John Young, febbraio 1939, New York Public Library
[v] Daniel Boorstin, The Republic of Technology, New York, Harper & Row, 1978, p. 7.

Fabrizio Tonello, L'età dell'ignoranza. E' possibile una democrazia senza cultura? Bruno Mondadori, 2012

Per creare nuovi posti di lavoro, serve uno sguardo d'insieme, che colga la scenario in cui siamo immersi e le trasformazioni già avvenute. O che stanno per avvenire



La ripresa, la crescita, e creare posti di lavoro. Per realizzare questi obiettivi è prioritario rendere competitiva l’economia. In questa fase dunque la competitività è al centro dell’agenda politica di tutti i paesi (lo si è visto, per fare un esempio, seguendo la campagna elettorale in Francia). Alle analisi e proposte che ci vengono fornite sarebbe utile affiancare considerazioni di scenario. Affrontare i molti aspetti che compongono il quadro mettendo appunto in luce i cambiamenti di contesto (che molto poco vengono presi in considerazione): alcuni già in atto, altri suggeriti da eventi del passato. Porto l’attenzione (con veloci riflessioni che, certo, andrebbero approfondite) sul terzo “obbiettivo”: creare di posti di lavoro. L’attenzione - in Italia come altrove - è rivolta prima di tutto alle “nuove generazioni” e in particolare alla drammatica mancanza di opportunità di lavoro. Numeri crescenti di giovani hanno per la prima volta accesso all’istruzione e si affacciano alla fase adulta con capacità e aspettative prima impensabili. In molte parti del mondo abbiamo visto mobilitazioni contro le strutture di potere e le istituzioni: per cambiare, per realizzare un futuro migliore. “Lavoro” vuol dire retribuzione e dunque acceso a beni essenziali, ma anche tutele, diritti, sicurezza; e i contesti, le relazioni, la qualità della vita quotidiana. Aspettative e aspirazioni che non si possono non condividere.
Ma ricordiamoci: siamo, a livello mondiale, sette miliardi. Il contesto è segnato da processi che non è sufficiente definire dicendo “migrazioni”: è forse più appropriato parlare di “mobilità”, facendo riferimento ai flussi in tutte le direzioni, e con differenti caratteristiche, che si presentano nello scenario globale. E ancora, nel quadro internazionale (appunto, competitivo): resistenze e chiusure, forme tradizionali - e altre nuove - di discriminazione; ed espliciti criteri di “selezione”. Va detto che, nelle notizie messe in circolo dai nostri media e anche nel nostro dibattito politico, quasi sempre la prospettiva è solo “italiana”. E’ un grave limite.
Un secondo riferimento: la produzione industriale è largamente meccanizzata, e lo sappiamo. Ma per i molti di noi che non le avevano abbastanza presenti, le condizioni attuali nelle fabbriche, le riprese che la televisione ha presentato nei mesi della “crisi” hanno fatto vedere uomini e donne a fianco di macchinari e congegni che - in parte almeno - sostituiscono lavoro umano.
Questo il contesto quotidiano, normale, di milioni. E non solo nel lavoro di fabbrica. Anche nel terziario strumenti e tecnologie oggi disponibili hanno portato a una riduzione della “componente umana”: minori i costi, tempi più rapidi, una maggiore efficienza complessiva. Possiamo osservarlo (se facciamo attenzione), in uffici postali, nelle banche, anche nei grandi magazzini. Meno impiegati agli sportelli rispetto a prima; alle casse dei supermarket si può pagare con dispositivi di vario tipo. Biglietti ferroviari e aerei, e altre pratiche, li facciamo via internet.
Introduco qui, per richiamare una varietà di processi che assai poco vengono analizzati in relazione ai problemi del lavoro e della disoccupazione, la parola robot. Qualcosa veniamo anche a sapere su applicazioni, appunto di robot, nelle imprese spaziali; ci appare utile l’uso crescente di “droni” in operazioni di guerra. Ma poca attenzione si rivolge, da noi, a innovazioni e politiche che in altri contesti sono centrali nella prospettiva del mercato del lavoro e dell’occupazione (in Giappone e in Corea del Sud si registrano le forme più avanzate della robotica; e menziono solo una recente notizia di stampa: in Cina un’impresa che ha oltre un milione di dipendenti prevede di utilizzare 300.000 robot entro il 2013, arrivando a un milione nel 2014). E’ semplice: i robot lavorano ventiquattr’ore su ventiquattro, non si ammalano, non scioperano.
Processi che non potranno non diventare parte del nostro mondo e della nostra vita. Riduzione di costi, prestazioni migliori (anche in Italia, questo è stato segnalato, si è arrivati a risultati importanti in interventi chirurgici di alto livello applicando appunto la robotica). Sarebbe importante allargare lo sguardo, tenere sotto osservazione questi processi rispetto all’obiettivo di creare posti di lavoro.
E c’è un altro elemento sul quale portare l’attenzione. E’ il tema delle guerre. Non ci sono più le guerre che hanno segnato secoli della nostra storia: un dato fondamentale della fase in cui viviamo, e della nostra parte del mondo. Penso però che ci sono vicende alle quali si dovrebbe fare riferimento, e provo a dirlo così: durante le guerre milioni di potenziali “lavoratori” sono stati “annullati”. Nell’arco dei trent’anni circa che vanno dalla prima alla seconda guerra mondiale sono morti in azioni di combattimento milioni di giovani (anche altri, donne e bambini e vecchi, sotto i bombardamenti e in tante terribili circostanze che conosciamo). Un silenzio, questo, che può essere comprensibile. Però anche una pesante omissione nelle nostre analisi. E negli stessi anni si ponevano in parallelo urgenti priorità: continuare a produrre attrezzature e strumenti bellici, ricostruire dopo le immani distruzioni. Nei diversi contesti della seconda guerra mondiale fenomeni di migrazioni – interne, o anche di dimensione internazionale - sono stati un fattore fondamentale nei processi di cambiamento delle economie, delle società. Anche la crescita di manodopera femminile nel mondo del lavoro va vista in relazione a questi eventi.
Nelle chiavi di lettura che ci vengono date, e nelle proposte per creare lavoro, di tutte queste componenti non c’è menzione. E’ urgente che la si proponga, una lettura pienamente avvertita dei tanti aspetti che vanno ricostruiti e anticipati e collegati tra loro, tenendo conto delle trasformazioni rispetto ai decenni passati, di quelle che sono in atto e che verranno. Inevitabile che condizioni e processi del futuro li si debba affrontare con prospettive radicalmente cambiate. Il rischio di questa (inconsapevole, forse?) miopia è pesante.
di Laura Balbo da : www.sbilanciamoci.info

I minotauri finanziari e i loro labirinti


Il sistema bancario è un istituto prezioso per lo sviluppo economico e sociale. Oggi però la finanza appare come un gigantesco labirinto popolato da esseri mostruosi. Da ancella dell'economia e della società è diventata tiranna. A quali compiti è chiamato il nuovo Teseo?

di Alfonso Scarano*, da Micromega

Il Minotauro era un essere mostruoso, metà toro e metà uomo che si celava minaccioso in un enorme labirinto costruito dagli uomini dove divorava giovani vittime sacrificali offerte per placare il suo istinto bestiale.
Il mito greco racconta il terrore dell’incognito contrapposto alla sete di conoscenza, la bestialità contro l’intelligenza, il sacrificio di vittime umane contro l'anelito di libertà dai servaggi.
Anche la finanza moderna è di costruzione umana come il labirinto di Creta realizzato da Dedalo. Essa ha preso le sembianze del labirinto in cui circolano numerosi Minotauri mostruosi. Si celano e si proteggono all'interno di quella vasta ed impenetrabile costruzione umana che è l'economia finanziaria. Branca che, invece, fu inizialmente creata come strumento per favorire lo sviluppo economico.
La finanza moderna da ancella è diventata tiranna.
L'originale costruzione si è rinchiusa in un labirinto di parole, di prassi, norme e oscuri rituali officiati dai soggetti – nuovi sacerdoti del labirinto - che costituiscono i moderni mercati finanziari, con il loro linguaggio, le loro regole, la loro organizzazione.

Le banche Minotauro

Questa finanza trasformatasi in Minotauro si è sviluppata grandemente sul solco del processo di sviluppo del sistema bancario che man mano ha teso a tradire o a latitare alla sua funzione originaria di propulsore dell’economia.
Il sistema bancario è un istituto prezioso per lo sviluppo economico e sociale, tanto da meritare una speciale tutela pubblica. Raccoglie il risparmio e fornisce credito, tutela e dà fiducia ai risparmiatori, incentiva e finanzia lo sviluppo delle imprese.
Ma il mondo delle banche è bicefalo, vi è la testa della banca vera – quella detta commerciale – e quella della banca falsa, la banca d'affari.
Le banche commerciali raccolgono il risparmio e concedono prestiti oltre tutta una serie di servizi utili, mentre le banche di affari sono società che fanno affari finanziari, creano prodotti finanziari e speculano.
La visione liberistica ha spazzato via le regole che separavano questi due diversi mestieri, la banca vera e quella d'affari, dunque consentendo la creazione di conglomerati che facendo insieme sia il mestiere della banca commerciale che quella d'affari, hanno creato un permanete conflitto di interesse in seno a queste nuove banche tuttofare.
Questo conflitto non risolto ha innescato una degenerazione inarrestabile e pericolosa di cui sopportiamo tutt'ora le conseguenze, ad esempio, con il proliferare inarrestabile della finanza derivata.
Con una mano le banche emettono titoli derivati, che poi collocano tra gli investitori con l'altra mano. Titoli che spesso si sono rivelati di dubbia qualità.
Occorre oggi un serio e generale dibattito se esiste o meno di una commistione, incestuosa e parassitaria del sistema bancario e come poterla risolvere.
E’ importante considerare ciò per comprendere razionalmente l'urlo del “Minotauro finanziario-bancario”, come mai ha prodotto molte vittime, come mai gli è stata data la possibilità mostruosa, favorita e supportata dalla normativa, di creare cartolarizzazioni e prodotti finanziari derivati à gogo.
Cartolarizzazioni costruite su un debito alimentato e concesso dapprima senza alcun ritegno né raziocinio di prudenza.
Ed occorre anche domandarsi perché si son lasciate non sorvegliate o si sono eliminate le regole, tanto da poter collocare questi prodotti finanziari con bei voti di rating nei portafogli dei risparmiatori di tutto il mondo.
Allora, il Minotauro, l'uomo-toro, la bestia umanoide della banca e della finanza moderna, viene o no di fatto protetta e fatta crescere in un crescente labirinto normativo che, lungi dal disinnescarne le sue pretese ed i suoi danni sociali, lo protegge e ne consente e favorisce la perpetuazione del rito di immolazione di vittime?
Le urla del Minotauro suonano anche con le parole e le frasi “spread”, “i mercati apprezzano, penalizzano, pretendono, vogliono, sanzionano”, “contagio”.

La finanza derivata

E’ percezione diffusa che gli argini tra l'economia reale e la finanza si sono rotti, poiché la nuova finanza derivata ha potuto infestare come una gramigna il campo di grano del mercato reale, di chi lavora, suda e produce beni e servizi, la vera ricchezza.
Ma se questa è cosa se non compresa almeno sentita dai più, se dunque il killer dell'economia è stato identificato, perché si continua a stare alla finestra lasciandolo operare sostanzialmente indisturbato?
Perchè, sotto la spinta della “deregolamentazione” che ha annullato le barriere che salvaguardavano la finanza buona da quella cattiva ed infestante, è man mano cresciuta una pseudo-regolamentazione assai più complessa, leguleia e palesemente inefficace a controllare e sanzionare i fenomeni degenerativi ma presentata come salvifica?
E' come se le norme che sono state realizzate con lo scopo apparente di porre rimedi alla crisi in realtà stiano di fatto favorendo la stessa logica che ha sospinto alla deregolamentazione del sistema finanziario, ovvero la complessità protegge i minotauri quasi alla stessa stregua della deregulation.

Così, alternando la “tabula rasa” della deregolamentazione con una successiva voluminosa e farraginosa costruzione di norme complesse che dovrebbero, ma non sono affatto efficaci a rimediare ai guasti finanziari, si continua ancora comunque a fertilizzare il terreno della finanza spregiudicata.
Solo a titolo di esempio, la legge di riforma dei mercati finanziari americana fatta approvare dal Presidente Obama è di “sole”, si fa per dire, 2300 pagine, la dimensione di una sorta di enciclopedia che solo descrive la strada di futuro cambiamento, tutta ancora da realizzare, in uno scenario di molti anni. Quando invece si è trattato di soccorrere le banche, con appena tre paginette si sono messi sul piatto delle banche 700 miliardi di dollari di soldi pubblici, quelli del piano di salvataggio straordinario di Bush junior denominato Tarp - Troubled asset relief program, ovvero un miliardo a parola.
Nuove norme e nuove autorità ed organizzazioni anch'esse intrecciate labirinticamente lasciano ancora quasi onnipotenti alcuni oligopoli privati come quelli delle agenzie di rating, come pure lasciano che si sviluppino i nuovi oligopoli delle Borse Valori come nuove società marcato, e lasciano anche svilupparsi nuovi soggetti speculatori tendenzialmente oligopolisti che operano sui mercati con le tecniche del trading ad alta frequenza (HFT).
Gli HFT sono pochi operatori borsistici al mondo che possiedono e sviluppano tecnologie che consentono di inondare il mercato di ordini di acquisto e di vendita con i loro computer e software super-potenti, alla velocità del millisecondo (il tempo di click di un mouse di computer è in media di 80 millisecondi). Tali operatori movimentano fin’oltre la metà delle operazioni di borsa (oltre il 70’% negli USA) suscitando preoccupazioni circa il buon ordine dei mercati in numerosi analisti.
Eppur si muovono sostanzialmente indisturbati.
E che dire quando, durante una crisi finanziaria ma soprattutto economica di attuali ed epocali dimensioni, lo “spread” fra titoli di debito sovrano viene declinato come la temperatura altalenante, ma sempre elevatissima, che rappresenterebbe lo stato di febbre del paese oggetto delle attenzioni della finanza speculativa, come quasi fosse un moribondo?
Non è anche questo un urlo del Minotauro bancario-finanziario moderno? Il riecheggiare e l’amplificarsi dell'urlo “spread” in formato pillola mass-mediatica, può rendere una intera società ansiogena ed atterrita.
Oppure l'urlo del “credit crunch”, la rarefazione del credito che costringe recentemente la Banca Centrale Europea - BCE a foraggiare le banche di ben 1 trilione di euro al tasso assai basso dell'1% di interesse e che di questa gran massa di soldi pochissimo arrivi all'economia reale delle imprese e delle famiglie?

Comunicazione parziale e analfabetismo finanziario diffuso

Gravissimo è l'analfabetismo finanziario oggi diffuso, ma ancor più grave è lasciare che questo analfabetismo si perpetui. Come una volta l'analfabeta era chi non sapeva né leggere né scrivere ed era un cittadino debole, manipolabile e sfruttabile, oggi è altrettanto debole, manipolabile e sfruttabile chi è un analfabeta finanziario.
L'analfabetismo finanziario consente ai guru, alla moderna casta sacerdotale dei banchieri e professoroni che veglia e vaticina sui mercati finanziari moderni, di lanciare affermazioni che suonano apodittiche e che rimbalzano e si esaltano e si moltiplicano sui media.
L'alimentazione della paura del deficit e dello “spread” alla stregua delle mitiche urla furiose del Minotauro, rendono la più parte della società che rimane analfabeta di economia e finanza, atterrita ed allucinata, ed in un certo senso anche disponibile al tributo umano di lacrime e sangue ed anche alla insensibile rinuncia di pezzi di quelli che una volta erano diritti inviolabili della democrazia, pena l'altro tradimento verso lo Stato.

I CDS

I mercati dei CDS sono una sorta di mercato di derivati finanziario pseudo-assicurativi e sono prodotti tutt'altro che trasparenti. Chi sta indagando analiticamente quale effetto provocano i Credit default-swap, i CDS, sui titoli che dovrebbero assicurare?
Perché un mercato così importante rimane oscuro e non regolamentato, dominato da pochi soggetti, dove le contrattazioni sono Out The Counter – OTC?
I mercati OTC sono, appunto, mercati non regolamentati dove gli operatori si scambiano direttamente e bilateralmente tra loro molteplici tipologie di strumenti finanziari senza che operi un controllore che sovraintenda. Oltre al mercato dei CDS, un altro mercato OTC di primaria importanza è il mercato interbancario che è una sorta di iper-mercato della liquidità, dove le banche si prestano vicendevolmente denaro. Proprio il mercato interbancario fu al centro della crisi della liquidità delle banche e della loro reputazione di solvibilità nell’agosto 2007, data di inizio della crisi finanziaria ed economica nella quale ancora siamo immersi.
Un prodotto pseudo-assicurativo particolare il CDS, perché – esemplificando - è come se un vicino di casa potesse – acquistando un CDS-casa-incendio - assicurare la vostra casa contro il rischio di incendio e beneficiare del rimborso nel caso la casa andasse a fuoco. Ma non viene il sospetto che, di fatto, si crea – in assenza di regolamentazione – il rischio di proliferazione di vicini di casa piromani?
Un mercato, quello dei CDS, ad alta volatilità e ad alta leva speculativa. Nel caso della Grecia perfino gli speculatori hanno mostrato preoccupazione per l’enorme dimensione dei contratti CDS costruiti sul debito.
L'innesco mediatico rinforzato dalla leva speculativa dei CDS sulla crisi di altri debito sovrani non viene affatto risolta con il semplice annuncio di una loro possibile regolamentazione. Ovvero, nel concreto, la dinamite finanziaria dei CDS non viene disinnescata se non da normative cogenti e non da fumosi annunci di regole che ancora non trovano concretizzazione.
Chi ignora cosa sia un CDS come può valutare la situazione della moderna finanza che pur ha impatto sociale generalizzato, impattando sui bilanci degli Stati?
Come accettare questo analfabetismo finanziario dato che l'influenza della finanza è arrivata ad esigere anche i suoi tributi di pezzi di democrazia. L’incidenza sulle basi democratiche diventa sfacciata osservando il caso di sviluppo della crisi in Grecia, dove Stato Greco e la società civile greca viene impattata da regole e vincoli direttamente dettati dall’Europa. Ed anche l’Italia ha ricevuto i suoi “compitini” da svolgere a casa, quando si è vista destinataria di una lettera di raccomandazioni europee da osservare. Lascia anche perplessi l'imposizione subitanea e sotto l'incudine della grande paura dello “spread” con il varo del Governo tecnico di emergenza presieduto da Monti.

Mifid

La Mifid – Markets in Financial Instruments Directive – è una normativa europea di regolamentazione finanziaria e viene presentata come una utile risposta all'esigenza di creare un terreno competitivo uniforme tra tutti gli intermediari finanziari europei, e che tuteli gli investitori.
La realtà è, invece, che in base a questa normativa fortemente promossa dal sistema bancario, le banche stesse è come se si fossero costrette da sole a misurare secondo scale di propensione al rischio, qualunque risparmiatore-investitore loro cliente. Ciascun cliente-investitore deve avere – secondo Mifid - un associato profilo di rischio.
Basta che un prodotto finanziario sia qualificato come rischioso ad un certo livello – e tale livello viene calcolato dal giudizio di rating - che allora possa essere consigliato dalle banche e dunque acquistato da chi viene misurato adatto a quel rischio.
Nella logica maggior rischio maggior rendimento associato. Ma non è affatto detto!
Non viene neppure il dubbio che le misure sono opinabili o solo delle stime – il rating è un giudizio che non ha valore se non quella di una opinione – che può creare le condizioni di nuovi inciampi. Lo ricordano dolorosamente coloro che hanno investito in Parmalat, Cirio, Argentina e che erano tutti titoli che avevano avuto valutazioni di rating a basso rischio. Non fu certo sufficiente la tutela che ci fosse supposto “il bollino blu” di un rating di investment grade, ovvero di una valutazione a basso rischio.
Oggi la banca è legittimata dalla Mifid a consigliare prodotti pur che abbiano rating compatibili al profilo di rischio degli investitori.
Ma il rating è un indicatore sufficiente? Pare di no, per quanto accaduto ed allora quel sistema basato sul rating eppur rimane.

Via di uscita

Per affrontare il Minotauro del sistema bancario e finanziario moderno ed il suo labirinto di parole e concetti non intuitivi, occorre procedere alla identificazione del loro linguaggio e delle logiche che seguono. Sarebbe necessaria un'opera vasta di confronto dialettico e di individuazione e trasmissione dell'esperienza, predisponendo nuovo fili rossi di Arianna, stesi per dare soluzione ragionevole e razionale all'involucro labirintico dove ci cela, e viene protetto, i novelli Minotauri bancari e finanziari.
Un indice di questo percorso deve dare innanzitutto e presto trovare soluzioni:

- alla deregolamentazione bancaria, che ha portato all'odierno sistema delle banche polipo-morfe tuttofare;
al sistema delle cartolarizzazioni, che ha costruito le montagne di prodotti finanziari derivati, inquinatori di tutti i portafogli del mondo;
- alla privatizzazione delle borse in aziende mercato, che hanno logiche e funzionamenti privatistici di massimizzazione dei profitti e che invece storicamente sono state meri luoghi di scambio sotto una tutela paritaria di tutti i partecipanti e non luogo di oligopolio tecnologico di pochissimi attraverso le tecniche del trading HFT;
- a Basilea 2 e Basilea 3, normative nata nel più blasonato e privatissimo salotto della più antica organizzazione bancaria mondiale, la Banca dei regolamenti internazionali – BIS che ha, appunto, sede a Basilea - e successivamente recepita dal sistema bancario mondiale e quindi penetrato nelle normative dei vari paesi;
- alla Mifid, normativa europea che viene presentata al “popolo bruto” come sistema di protezione dei consumatori di prodotti finanziari, ma che si viene manifestando come importante sistema di protezione della responsabilità delle stesse banche rispetto alle responsabilità di una consulenza agli investitori;
- al sistema oligopolistico del rating, un sistema di valutazione del merito creditizio da parte di un oligopolio di tre agenzie private – standard and Poor's, Moody's, Fitch che valutano ed assegnano rating su tutto quanto possa essere compra/venduto sui mercati finanziari;
- al sistema degli strumenti finanziari OTC e ai mercati non regolamentati dove questi strumenti vengono scambiati, vista la loro scarsissima trasparenza e il loro dinamitardo effetto leva;
- ai credit default swap - CDS che vengono creati e compravenduti su mercati OTC fuori da opportune regole e controlli e che influenzano fortissimamente la percezione di rischio dei titoli che assicurano.

Vi sono numerosi altri punti che rendono il labirinto moderno della finanza una trappola. Ma se il labirinto è stata una costruzione umana, c’è da sperare ora che si moltiplichino ed emergano, come nel mito greco, nuovi Tesei concordi nel debellare l'analfabetismo finanziario, l'ignoranza ed il servaggio che ne deriva.
E' buona e sana responsabilità dei singoli, di ogni uomo pensante e raziocinante, non lasciarsi andare allo sbigottimento, ma che ciascuno possa credere nelle proprie capacità di imparare il nuovo linguaggio e di riconoscere in se stesso l'anelito di libertà e coraggio che furono le qualità del mitico Teseo. Superando le proprie paure, ma anche aiutato da un filo di Arianna che consenta di entrare e poi uscire dal labirinto complicato dei tecnicismi e della cultura e del gergo bancario-finanziario per costruirsi una idea personale, razionale ed indipendente dell'effettivo pericolo sociale del mostro bancario-finanziario, che pur camminando da umano ha testa e ferocia di un toro impazzito.
Ed il toro è effettivamente nella simbologia borsistica quello di un listino di titoli in crescita, mentre a contrario l'orso che si accolla l'iconografia dei titoli che calano di valore. Comunque, entrambi animali noti per la loro forza bestiale e distruttiva non per la loro intelligenza creatrice.

Son sempre più numerosi i cittadini che osservano che il sistema attuale che sopporta il gran peso della finaziarizzazione bancaria, stia scontando tutti i vizi di una precedente crescita drogata e di uno scenario infausto di sacrifici lacrime e sangue che comunque non risolvono gli appetiti finanziari.
La missione del cittadino, uomo razionale e moderno, è quella di sconfiggere le sue ignoranze e paure, e nel contempo quella di comprendere verità sgradevoli: ciò fa la differenza tra moderni uomini liberi e moderni schiavi.

* Analista finanziario indipendente. Dal 1997 è iscritto all'AIAF - Associazione Italiana degli Analisti Finanziari, di cui è stato vicepresidente. Ha pubblicato numerosi articoli tecnici sulla rivista Aiaf, organo informativo dell'associazione, in particolare affrontando temi che riguardano la valutazione di impresa, il rating di merito creditizio e l'asset allocation quantitativa. In ambito associativo svolge attività di ricerca nel settore finanziario. Tra le attività svolte vi é anche quella rivolta alla analisi della gestione finanziaria degli enti locali. È recentemente intervenuto durante la trasmissione "Report" su Raitre in merito alle gravi problematiche dell'utilizzo dei prodotti derivati da parte degli enti locali.

(26 aprile 2012)

venerdì 27 aprile 2012

Guardiola addio al Barça


"Ragazzi, me ne vado"
Il tecnico aveva deciso già ieri sera di chiudere la sua avventura al Barcellona ma prima dell'annuncio voleva parlare con i suoi giocatori. "Lascio perchè sono stanco, ma sono orgoglioso di quanto fatto". Nominato già il nuovo tecnico: è l'attuale secondo, Tito Vilanova
di ANDREA SORRENTINO, da Repubblica


BARCELLONA - E' arrivata la notizia che la Catalogna non avrebbe mai voluto ascoltare, ma che era nell'aria da giorni: "Pep se va". Pep Guardiola lascia la panchina del Barcellona dopo quattro anni indimenticabili, che hanno segnato la storia del calcio mondiale. Guardiola, 41 anni, ha comunicato la sua decisione alla squadra intorno alle 11, nello spogliatoio, poco prima di iniziare l'allenamento. Poco prima aveva ufficializzato la sua decisione anche al presidente Sandro Rosell, dopo un incontro iniziato alle 9 del mattino nella cittadella sportiva del Barcellona. Guardiola si era insediato sulla panchina blaugrana il 17 giugno 2008, quando l'allora presidente Juan Laporta aveva annunciato l'ingaggio del Pep come successore di Frank Rijkaard. Si racconta che nei giorni precedenti, quando Laporta era indeciso sul da farsi, Guardiola avesse forzato la mano del dirigente con una provocazione: "In panchina deve andarci io, ma forse tu non hai le palle per consegnarmela". Guardiola del resto non aveva mai allenato una squadra professionistica, fino a quel momento aveva solo diretto la squadra B del Barça e non aveva esperienza ad altissimi livelli, ma alla fine convinse Laporta, anche aiutato dal suo principale sponsor che è sempre stato Johann Cruyff. Pep Guardiola ha guidato il Barça più spettacolare e vincente di sempre, 13 trofei in quattro stagioni cui bisogna aggiungere i tre Palloni d'oro consecutivi vinti da Lionel Messi: Guardiola e il Barcellona insieme hanno vinto tre campionati spagnoli, due Champions League, due Mondiali per club, due Supercoppe d'Europa, tre Supercoppe di Spagna e una Copa del Rey.

Le dimissioni di Guardiola sono state annunciate in conferenza stampa dal presidente Rosell, seduto al fianco del tecnico e del direttore sportivo Zubizarreta, mentre in platea sedevano molti giocatori (ma non Messi). Poco dopo le 13.30, l'annuncio di Rosell: "Guardiola non sarà più il nostro allenatore. Lo ringraziamo per aver migliorato il nostro club, onorando i valori e la bandiera del Barça. La nostra gratitudine va al miglior allenatore della nostra storia". Dopo un bacio col presidente, Guardiola ha spiegato (sempre rigorosamente in catalano, non certo in castigliano): "Non è una situazione semplice per me. Mi dispiace per l'incertezza che si è creata, e se qualcuno ha messo in dubbio il mio impegno e la mia serietà negli ultimi mesi. Ma io sono stato anche un giocatore del Barcellona, questa è sempre stata casa mia e la decisione è stata difficilissima. Ma quattro anni sono un'eternità per un allenatore del Barcellona. A ottobre e a dicembre avevo già comunicato al presidente le mie intenzioni, ma non volevo dirlo ai giocatori e alla stampa, non potevo farlo, c'erano tante competizioni importanti ancora da giocare. Ma rimanere qui vuol dire essere presente ogni giorno, con grande energia per contagiare la squadra e l'ambiente, con grande concentrazione ed enorme passione. Per i giocatori ho una stima infinita, sono stato un privilegiato a poterli allenare, ho cercato di farlo con passione e impegno. Nessuno può immaginare cosa abbia rappresentato per me raggiungere certi risultati e vedere la qualità del gioco che abbiamo espresso. Ma ora devo fermarmi. Il responsabile unico della mia decisione è il tempo. La stanchezza e la fatica, ecco: quattro anni a questi livelli sono un'eternità e adesso sono stanco. La forze e la vitalità di questo club le conoscono tutti e so che continueranno alla grande. me ne vado sapendo di aver dato il massimo, ho una sensazione di pienezza. Ma a un certo punto ho capito che il mio ciclo era finito". Quanto al suo futuro, a domanda precisa Guardiola risponde: "Cosa farò? Non lo so. Non credo di aver voglia di ricominciare subito ad allenare. Non è un obiettivo andare ad allenare all'estero. Non c'è prova più grande di allenare il Barcellona. Arriverà un giorno in cui diro 'cazzo, voglio tornare ad allenare'. E, se sarà possibile, allenerò. Ma nella mia vita non c'è solo il calcio. Ed è quello che dico sempre ai miei giocatori. La vita è anche altro. Il calcio prima o poi finisce".

Rosell ha poi preso la parola per annunciare che "al 99%" il nuovo allenatore del Barcellona sarà Tito Vilanova, cioè colui che è stato il vice di Guardiola in questi anni, e che all'inizio di questa stagione era stato colpito da una grave malattia (un tumore alla parotide) da cui sembra essersi prontamente ripreso dopo un'operazione lo scorso 22 novembre: "Come ogni scelta anche questa comporta dei rischi - ha spiegato il ds Zubizarreta - ma crediamo che Tito sia l'uomo giusto".

La decisione di Guardiola era nell'aria da molti mesi. Già un anno fa, dopo la Champions trionfalmente vinta a Wembley contro il Manchester United, Guardiola aveva pensato a lungo se rimanere o no, poi aveva prolungato il contratto di un altro anno. Ma di recente era emersa la sua stanchezza, e pare che anche i rapporti con una parte dello spogliatoio non fossero più idilliaci come un tempo: normale, dopo quattro anni e tanti successi vissuti insieme, che certe dinamiche interne non fossero più quelle di una volta. Così si è arrivati al passo d'addio, dopo un'avventura che comunque rimarrà ineguagliabile per qualità e spettacolarità del gioco, e che segnerà per sempre la storia del calcio moderno: il modello Barcellona sarà un punto di riferimento negli anni e nei decenni a venire, e come ogni modello perfetto sarà inarrivabile, e vanterà decine o centinaia di imitatori che arrancheranno nel tentativo impossibile di replicare la perfezione.

Ora per Guardiola si apre un'altra parentesi di vita, umana e professionale. E' fin troppo chiaro che mezza Europa lo stia tirando per la giacchetta, reclamandone i servigi. Al momento l'ipotesi più concreta, confermata oggi da lui stesso, è quella di un Guardiola che dovrebbe prendersi un anno "sabbatico", di riposo e di completa lontananza dal calcio, magari dedicandosi alla sua passione più divorante: il golf, di cui vorrebbe diventare giocatore professionista. Poi ci sono le suggestioni che arrivano dall'Inghilterra: gli sceicchi del Manchester City lo hanno contattato da tempo, e lui li sta facendo aspettare in attesa di un sì o di un no; di recente sarebbe arrivata anche una chiamata dalla federazione inglese che cerca un ct per la Nazionale dopo gli Europei, e anche lì tutti sono in attesa di una risposta. Ci sono poi le piste italiane, Inter e Milan ma pare anche la Roma, solo che i nostri club molto difficilmente potrebbero sostenere i costi per l'ingaggio del Pep, cioè una cifra vicina ai 10 milioni a stagione. Senza contare che un interrogativo rimane comunque: riuscirà Pep Guardiola a replicare il suo stesso tipo di calcio, ad applicare perfettamente le sue idee anche in contesti diversi da quello del Barcellona, che rappresenta un modello unico al mondo quanto a organizzazione e senso di appartenenza che riesce a instillare nei suoi giocatori? Il Guardiola catalano e barcelonista, allenatore della squadra in cui ha giocato fin da bambino e con giocatori che nella maggior parte dei casi avevano le sue stesse origini, è esportabile anche fuori dall'amata greppia? Sono questi interrogativi che peseranno sul suo futuro da allenatore, ammesso che ce ne sia uno. Quanto al passato, il calcio mondiale in un giorno come oggi non può che inchinarsi e rendere omaggio a Pep Guardiola, al suo Barcellona e al suo magnifico gioco: per quattro anni ci hanno regalato brividi, emozioni, sussulti, ammirazione, gioia completa, appagamento totale. Il calcio era una cosa bellissima, ai tempi del Barcellona di Pep. (27 aprile 2012)

Il paradosso dell'Italia senza destra


Storicamente debole, divisa, sempre priva di legittimità intellettuale

Per capire le vicende della destra nell'Italia repubblicana conviene, a mio giudizio, prestare più attenzione al panorama ideologico complessivo del Paese che al sistema dei partiti in senso stretto. È innanzitutto sul piano delle idee, infatti, che si è decisa la sorte della destra italiana. La destra ha perso la sua battaglia politica allorché per mezzo secolo, tra il 1948 e il 1994, non è riuscita in alcun modo a disporre delle risorse intellettuali necessarie per rompere con il passato da un lato, e dall'altro per diventare un diverso luogo di formazione e di coagulo di una classe dirigente.

La storia culturale della cosiddetta Prima Repubblica è stata dominata per mezzo secolo da un punto di vista genericamente di sinistra. Dal 1948 al 1994 è quasi impossibile trovare un romanzo di successo, un manuale scolastico, un libro di storia, un film, un programma televisivo di qualche valore che in un modo o in un altro non rifletta un tale punto di vista. All'egemonia della sinistra nella sfera pubblica ha contribuito in maniera molto significativa anche la Carta costituzionale adottata nel 1948, i principi della cui prima parte si ispirano a una visione solidaristica, tendenzialmente egualitaria, di tutela collettiva soprattutto degli interessi più deboli, che rientra pienamente nella tradizione della sinistra e del cattolicesimo democratico.

Come si sa, questi principi costituzionali hanno cominciato ad avere sempre più larga applicazione a partire dagli anni Sessanta del Novecento, con la diffusione nel discorso ufficiale del Paese della cosiddetta «cultura della Costituzione». Si tratta di un orientamento di etica pubblica - politico solo in senso lato, ma niente affatto neutrale - il quale ha avuto l'effetto di diffondere e legittimare un punto di vista - direi qualcosa di più: una vera e propria visione del mondo, ispirata ai valori e alle idee propri della sinistra.

Dunque, durante la Prima Repubblica la destra in senso proprio, la destra politica e i suoi partiti, sono stati di fatto marginali se non inesistenti. Anche su un piano non immediatamente politico i valori definibili di destra non sembrano aver conosciuto miglior fortuna. Va sempre tenuto a mente che in Italia il tempo della Repubblica e della democrazia ha coinciso con un'immensa trasformazione sociale di cui sono ben noti i caratteri. In non più di una ventina d'anni, dal 1960 al 1980, il volto dell'Italia è diventato completamente un altro. Questa grande trasformazione ha significato per milioni di persone soprattutto una cosa: la fine di una povertà secolare. Dunque non può stupire che essa sia stata vissuta come un fatto radicalmente positivo. In tal modo, anche se comportava tensioni e lacerazioni, la dimensione della rottura, del nuovo, acquistò nel Paese un prestigio immediato, quasi ovvio. Tutto ciò che era vecchio, antico - che si trattasse di paesaggi, di fogge di abbigliamento, di rapporti sociali, di abitudini mentali e di vita - apparve indifendibile.

A spingere in tal senso, oltre la natura delle cose, ha contribuito anche una peculiare caratteristica della modernizzazione italiana: e cioè la massiccia politicizzazione con la quale essa è avvenuta. Una politicizzazione cui i vasti movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta diedero - di nuovo! - un forte segno di sinistra, coinvolgendo molta parte dei ceti medi, specie quelli addetti all'istruzione e al pubblico impiego, e non a caso determinando la massima espansione elettorale del Partito comunista. Pur così tuttavia restava ben vivo nel Paese un elettorato potenzialmente diverso ed estraneo rispetto alla vulgata ideologico-politica dominante e ai suoi partiti. E cioè un elettorato di massa che da un punto di vista sociologico era potenzialmente di destra.

Fu solo nel 1994, tuttavia, che questo elettorato, fino allora rimasto nascosto sotto il grande mantello della Democrazia cristiana, ebbe realmente modo di venire allo scoperto. Perché ciò accadesse fu necessario il sovrapporsi di una causa oggettiva e di una soggettiva. Fu necessario, cioè, da un lato, il crollo del sistema politico della cosiddetta Prima Repubblica, con la scomparsa della Dc e della legge elettorale proporzionale, e dall'altro la comparsa sulla scena di una personalità come Silvio Berlusconi. L'avvento di un sistema elettorale maggioritario, voluto da un referendum popolare, decretò la fine del centro e l'obbligo di schierarsi o da una parte o dall'altra, a destra o a sinistra. Il rifiuto dei cattolici reduci dall'ormai disciolta Dc di schierarsi contro la sinistra guidata dai postcomunisti - il rifiuto cioè di schierarsi in questo senso a «destra» - lasciò vuoto, per l'appunto a destra, un enorme spazio elettorale. Uno spazio potenzialmente maggioritario, come stava a indicare tutta la storia del Paese. Precisamente in questo vuoto si infilò Berlusconi, con il proposito di riempirlo. Egli capì che per farlo con una speranza di vittoria era però necessario unificare tutte le forze contrarie alla sinistra. E dunque da un lato bisognava porre fine alla pregiudiziale antifascista e all'uso molto spesso strumentale che ne aveva fatto per 50 anni il sistema politico italiano, e dall'altro era necessario accettare senza batter ciglio la neonata retorica secessionista della Lega. Ciò che è quasi impossibile far abitualmente accettare è l'idea che all'origine del ruolo politico e della vittoria di Berlusconi ci sia stata innanzitutto una fortissima ragione di tipo sistemico. Così come l'idea che senza di lui e la sua azione unificatrice difficilmente si sarebbe potuto formare un competitivo polo politico di destra in grado di vincere tre volte le elezioni.

Tuttavia, pur avendo alle spalle circa dieci anni di governo, la destra italiana non è ancora riuscita a risolvere il problema cruciale di darsi una vera identità. Ancora oggi la sua unica vera ragion d'essere resta quella del 1994, l'anno della sua prima vittoria elettorale: impedire alla sinistra di vincere e di governare. L'obiettivo della «rivoluzione liberale» con il quale essa si presentò venti anni fa è stato totalmente mancato. Bisogna chiedersi perché. Con ogni evidenza le ragioni sono principalmente due. La prima è la presenza tra le sue fila di tre destre molto diverse tra loro, portatrici di culture e interessi contrastanti: la destra postfascista, nazional-statalista e fortemente antiliberale; la destra leghista, dotata di una visione localistica e antinazionale, protezionista in agricoltura ma impregnata di una sorta di anarchismo manchesteriano per tutto il resto; e infine la destra berlusconiana vera e propria, oscillante tra un laissez faire di principio e la rappresentanza di tutti i mille interessi settoriali della società italiana, caratterizzata da una generale indifferenza per qualunque valore etico-politico.

Silvio Berlusconi si è mostrato sorprendentemente incapace di rendere in qualche modo compatibili e nel riuscire a integrare queste tre anime della sua coalizione. Leader plebiscitario per antonomasia, e teorizzatore convinto di un tale tipo di leadership, quando però si è trattato di essere realmente un leader politico, ha dimostrato di non riuscire a esserlo affatto. Ha dimostrato di non avere nessuna predisposizione personale autentica per la politica, per la comprensione dei suoi meccanismi e delle sue esigenze di fondo. La sua leadership si è fondata quasi esclusivamente (e ossessivamente) sul richiamo carismatico personale. Un richiamo senza dubbio vero, effettivo, con quel quid di inspiegabile che ha ogni carisma: ma tanto forte nel momento elettorale quanto singolarmente inefficace nel momento del governo. È indubbio che ad accrescere tale carisma e la relativa presa elettorale sono valse non poco anche la sua smisurata ricchezza e la proprietà della più importante tv commerciale della Penisola. Ma a dispetto di quel che si sente ripetere tante volte, denaro e tv non sono stati gli elementi decisivi dei suoi successi elettorali. Denaro e tv sono stati essenziali, semmai, per un'altra cosa non meno importante: e cioè per assicurargli il dominio assoluto sulla sua coalizione. Per farne il leader incontrastato e incontrastabile della destra.

Venuta meno la carta programmatica, alla destra non è rimasto che giocare poche carte identitarie (ma anche qui non senza qualche contrasto più o meno sotterraneo tra le sue fila): la carta di un forte rapporto con la tradizione cattolica del Paese e con la Chiesa, quella dell'enfasi sulla sicurezza, sul law and order , o la carta del contrasto all'immigrazione clandestina. Evidente, però, è stata l'incapacità, se non addirittura il disinteresse - abbastanza sorprendente dal momento che aveva in mano tutte le leve del potere -, che la destra ha dimostrato nell'affermare e organizzare una propria presenza culturale e intellettuale nella società italiana.

Si è così manifestata ancora una volta la debolezza storica di fondo della destra nell'Italia repubblicana. Essa continua a essere esclusa dal mainstream del discorso pubblico. Un'esclusione che riflette una più generale esclusione della destra e dei suoi esponenti dai centri più importanti del potere italiano. Nei salotti buoni dell'alta borghesia, nei circoli della finanza, tra l'intellettualità, nell'università, nei giornali che contano, è ancora oggi rarissimo imbattersi in chi abbia una riconosciuta appartenenza di destra. Riconfermando la propria subalternità, la destra, d'altra parte, non è riuscita neppure a proporre una sua originale narrazione circa il passato del Paese, né a influenzare in modo significativo il senso comune, non dico producendo ma tanto meno riuscendo a identificarsi con mode, miti, figure simboliche nuove e diverse rispetto a quelle correnti, tuttora fortemente dipendenti da un punto di vista di sinistra.

È invece accaduto paradossalmente che proprio sotto il suo governo l'interdetto antifascista - che durante un breve intermezzo tra gli anni 80 e 90 sembrava ormai in via di superamento - si sia trovato, viceversa, rimesso in auge e rafforzato sotto le nuove spoglie di interdetto antiberlusconiano e antileghista, aprendo una nuova stagione di delegittimazione. Si perpetua in tal modo un duplice pregiudizio che, sfruttato politicamente a dovere da chi ha interesse a farlo, ha nuociuto gravemente al sistema politico italiano e alla vita pubblica del Paese. Il pregiudizio, cioè, secondo il quale: 1) la destra non può che essere qualcosa di radicalmente negativo e ha una natura sostanzialmente estranea o ostile all'ordine costituzionale democratico; e 2) l'idea che di conseguenza il sistema politico italiano debba e possa fare stabilmente a meno di un polo politico di destra.

di Ernesto Galli Della Loggia, dal corriere

Riforme, cresce nel centrodestra il fronte dello status quo


di MARCELLO SORGI, dalla stampa

Caduto in un’altra giornata non facile per il governo, il nuovo alt del Pdl in Senato al proseguimento dell’iter parlamentare della riforma del mercato del lavoro ha un forte sapore preelettorale (la prossima sarà l’ultima settimana di campagna prima del 6 maggio) e un evidente effetto di logoramento di un quadro politico già stressato, se solo si considera il numero di vertici di maggioranza già dedicati all’argomento, sempre conclusi, va ricordato, con l’affermazione, subito smentita, che finalmente era stato raggiunto un accordo su un testo «definitivo».

Quando a frenare sull’articolo 18 erano Pd e Cgil, all’indomani della correzione dell’articolato il Financial Times con un’intervista a Emma Marcegaglia diede il segnale di un mutato atteggiamento rispetto a Monti, e il Wall Street Journal se ne uscì con due editoriali che accusavano il governo di aver ceduto troppo. Ora che è il turno del Pdl - che ha abbracciato buona parte delle ragioni di Confindustria, specie sulla flessibilità in entrata, considerata dagli imprenditori a rischio, nella formulazione attualmente in discussione, di trasformare i precari in disoccupati -, la cosa più probabile è che si perdano un paio di settimane preziose, rinviando in avanti l’approvazione del più tormentato, finora, provvedimento del governo tecnico.

Dietro la mossa del centrodestra, illustrata in termini piuttosto ruvidi dal capogruppo al Senato Gasparri - che ha voluto sottolineare la scarsa efficacia delle misure anticrisi varate finora dai tecnici, e ricordare il sensibile calo di consensi nei sondaggi a cui Monti sta andando incontro nelle ultime settimane -, ci sono anche un paio di ragioni più coperte. La prima è che gli stessi polls segnalano tra gli elettori del Pdl nientemeno che un settanta per cento di contrari all’appoggio al governo Monti: di qui, almeno alla vigilia del voto amministrativo, la necessità per il partito di prendere più esplicitamente le distanze dall’esecutivo.

La seconda è che sempre all’interno del Pdl continuano le divisioni sul tema delle riforme e si allarga il numero di quelli che preferirebbero lasciar tutto com’è, senza metter mano neppure alla nuova legge elettorale e all’annunciato recupero del proporzionale. Questo partito nel partito annovera in blocco gli ex An, di cui Gasparri è uno degli esponenti di spicco: abituati ormai ad essere strategici nella corsa elettorale maggioritaria, con il ritorno al vecchio sistema rischierebbero di diventare in buona parte aggiuntivi. Di qui, in vista di una più esplicita resistenza, la frenata di ieri.

giovedì 26 aprile 2012

Una tassa, dieci contraddizioni.


Ecco uno per uno tutti i punti deboli della nuova tassa sugli immobili che ha visto ufficialmente la luce martedì con il via libero definitivo al decreto legge fiscale che la comprende.
di Andrea Cuomo, dal giornale

1) Ma quale federalismo. Imu è la sigla di Imposta municipale unica, cardine del nuovo federalismo fiscale. Peccato però che, come fatto notare dai sindaci, l’autonomia delle amministrazioni locali si riduca al possibile ritocco dell’aliquota base dello 0,76 per cento entro una forbice fissata tra lo 0,40 e l’1,06. Un eventuale sconto, peraltro, andrebbe a intaccare esclusivamente la quota dell’imposta che finisce nelle tasche comunali, senza incidere su quella destinata allo Stato. Di fatto i sindaci si sentono esattori per conto dello Stato, con la beffa di metterci loro la faccia. Non è un caso che, nei Comuni in cui a maggio si andrà al voto, l’eventuale ritocco dell’aliquota Imu sarà deciso e reso noto dopo il voto, per evitare contraccolpi elettorali.

2) Un rebus quasi insolubile. Un record la nuova Imu l’ha già ottenuto: quello di essere probabilmente l’imposta più complicata e cervellotica della storia, alla faccia della semplificazione fiscale. Intanto per la decisione di pagare l’acconto - calcolo relativamente semplice - prima di sapere l’ammontare totale del balzello, avendo i Comuni e lo Stato la possibilità di modificare l’aliquota entro il 30 novembre i primi e addirittura entro il 10 dicembre il secondo. Poi per la possibilità di suddividere in due o tre rate. Quindi per la difficoltà a calcolare l’ammontare vero e proprio, che renderà l’Imu un’equazione di secondo grado. Considerando che Stato e Comuni sono in possesso di tutti i nostri dati anagrafici e catastali, non potrebbero inviarci un bollettino precompilato con la cifra precisa da pagare evitando di delegarci il lavoro di contabilità che non ci appartiene?

3) Il pasticcio dei Comuni generosi. Un’ulteriore complicazione, che sa di beffa, è che anche nei Comuni che hanno già deliberato per la prima casa un’aliquota più favorevole rispetto al 4 per mille, o addirittura l’esenzione, si dovrà pagare l’acconto a giugno con quest’aliquota, salvo il conguaglio con rimborso di fine anno.

4) Impossibilità di programmare. L’incertezza sull’ammontare finale dell’imposta non ci rende solo più complicata la vita, ce la rende anche più agra. Famiglie e imprese infatti hanno la necessità di programmare il proprio bilancio - piccolo o grande che sia - anche in funzione delle gabelle. E l’incertezza costringe gli uni e gli altri - o almeno i più previdenti - a fare i propri programmi in funzione delle ipotesi peggiori. Ciò che probabilmente finirà per avere un effetto ulteriormente depressivo sui consumi e quindi sull’utopia della crescita economica.

5) Agricoltura in ginocchio. Tra i settori economici più colpiti dall’Imu c’è l’agricoltura, che in Italia dà lavoro a tre milioni di persone. Ebbene, Confagricoltura ha calcolato che la tassazione di capannoni, stalle, fienili, depositi, locali spesso fatiscenti e inutilizzati - tutti beni che fanno parte del patrimonio ma spesso non producono reddito - potrebbe portare a un aumento dei costi per le piccole aziende fino al 300 per cento. Il conto da pagare per l’intero settore sarà di 1,5 miliardi di euro. Ma saranno i più piccoli a essere strangolati. Unica agevolazione prevista in extremis, la misura ridotta del moltiplicatore Imu, pari a 110, per i terreni non coltivati e per i terreni agricoli di proprietà di coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali iscritti nella previdenza agricola.

6) E gli artigiani? Pure. Altro settore strategico per l’economia italiana colpito duro dall’Imu. Il centro studi di Confartigianato ha calcolato che la tassazione di laboratori e capannoni come fossero ville o appartamenti in centro può costare fino a 5mila euro l’anno per le piccole imprese artigiane, quando il conto dell’Ici era circa tre volte più piccolo. Senza nemmeno poter sperare nell’applicazione delle detrazioni spettanti solo alla prima casa e pertinenze.

7) Mercato immobiliare soffocato. È un paradosso economico quello di aumentare, come si progetta di fare, le rendite castali, e quindi il valore teorico degli immobili, nel momento in cui il varo dell’Imu rischia di far crollare del 20 per cento, come ha calcolato il Censis, il valore reale degli immobili.

8) Scompaiono (o quasi) gli affitti. Una delle storture più gravi dell’Imu è la mancata previsione di agevolazioni per le seconde case affittate rispetto a quelle sfitte, come chiesto più volte da Confedilizia. Aliquote più basse potranno essere decise facoltativamente dai Comuni. Eppure agevolare i proprietari che applicano canoni calmierati sarebbe costato solo 40 milioni. In questo modo i proprietari saranno indotti a recedere dall’affitto, oppure ad aumentare il canone o ad affittare in nero o addirittura a vendere le seconde case, creando un effetto a catena mortale per il mercato degli affitti.


9) Vecchietti penalizzati. Uno dei risvolti più odiosi dell’Imu è lo sbianchettamento rispetto alla vecchia Ici delle agevolazioni per gli anziani proprietari che abbiano spostato la residenza in una casa di riposo o per i disabili ricoverati. Eventuali «sconti» potranno essere decisi a loro spese dai Comuni. Un modo per colpire una fascia di popolazione già debole.

10) L’ingiustizia dell’«esproprio proprietario». L’Imu è in qualche modo un’imposta espropriativa, perché erode ogni anno il valore del bene a cui si applica. Gran parte degli italiani ha acquistato la casa in cui vive facendo sacrifici, risparmiando ogni anno sulla parte dei redditi scampata all’Irpef. Tassare il frutto di questo risparmio è in qualche modo una doppia imposta sul reddito. Quanto all’ipotesi che l’acquisto dell’immobile sia un investimento reso possibile dall’evasione fiscale è naturalmente quanto mai reale. Ma darla per scontata è naturalmente aberrante.

L'isolamento dei più forti


SCENARI POLITICI E PRESSIONI SU BERLINO

Sarà di nuovo maggio il mese fatale dell'Europa? Diremo anche dell'euro che «ei fu, siccome immobile/ dato il mortal sospiro»? La sera del sei maggio le urne potrebbero sancire che la maggioranza dei greci non vuole più restare nella moneta unica, premiando la galassia di partiti che sperano di liberarsi dei sacrifici mandando a quel paese la troika, la Bce e la Merkel. E nella stessa sera dovremo prendere atto che anche la maggioranza dei francesi non vuole più stare nell'Europa così come è oggi. Se vincerà Hollande, la sfida è chiara: rinegoziare il patto fiscale appena sottoscritto con la Germania. Ma anche se vincesse Sarkozy, ad ascoltare i suoi ultimi comizi a caccia di voti lepenisti, il futuro non sembra meno tempestoso: «Ora basta, cambiamo o non ci sarà più l'Europa».

Se si aggiunge che a maggio votano anche due Länder tedeschi in un turno che potrebbe affondare la coalizione tra la Merkel e i liberali; e che è in crisi di governo pure l'Olanda, fino a ieri il più arcigno guardiano del rigore teutonico, si capisce l'allarme, ma anche l'ansia e il senso di impotenza, che si sta impadronendo delle élite europee e italiane. Nessuna cura sembra funzionare. I mercati hanno prima punito il poco rigore dei Paesi debitori, poi hanno punito l'eccesso di rigore imposto ai Paesi debitori, e ora sembrano temere che gli elettori fermino la politica del rigore. In Italia stiamo facendo, più o meno bene, tutti i compiti a casa che ci sono stati richiesti, eppure lo spread resta sotto la sufficienza. Lo stesso spirito di salvezza nazionale che aveva spinto Monti al governo sembra smarrirsi: i partiti pensano ai loro nomi e ai loro soldi, i giornali pensano di nuovo a Ruby, e i sindacati pensano a far chiudere i supermercati il 25 Aprile.

Tutti si chiedono che fare. E tutti chiedono alla Merkel di fare qualcosa. È un coro che va da Washington a Madrid, dal Manzanarre al Reno. Il governo tedesco sente la pressione e cerca l'azione. Si spiega così l'annuncio dato ieri dell'incontro svoltosi la settimana scorsa tra il consigliere europeo della Cancelliera e il nostro ministro Moavero. La Germania propone di scrivere un nuovo Patto, con vincoli e sanzioni, dopo quello sul rigore dei bilanci: un altro «Compact», che stavolta dovrebbe riguardare le riforme strutturali (non a caso rilanciate ieri da Draghi) e la competitività. Berlino vorrebbe cioè legare tutti i Paesi dell'area a una maggiore convergenza non solo delle finanze pubbliche ma anche delle economie, nella speranza che questo favorisca la crescita. L'Italia di Monti è ovviamente d'accordo, ma ha ripetuto a Berlino che non basta. Roma vuole due cose, e ora sa che le vuole anche Hollande: bond europei per finanziare grandi progetti (da non confondere con gli eurobond, cioè titoli comuni del debito, sui quali nessuno si illude di convincere oggi Berlino) e nuovi capitali per la Banca europea degli investimenti.

Anche se il governo italiano preferirebbe evitare scossoni politici in Francia, e dunque sui mercati, è evidente che ha già un piano per giocare la carta Hollande. Palazzo Chigi sa bene che non basterà cambiare presidente a Parigi per cambiare politica a Berlino: oggi la Francia non è in condizioni di dettare legge.

Perciò qualcuno dovrà per forza rimettere insieme le due ruote dell'asse carolingio, e quel qualcuno non può che essere Monti. La strategia è: aiutare la Merkel a tenere a freno le bizze di Hollande sul rigore, in cambio di una seria apertura sulla crescita. Cominciando con il chiedere a Berlino di non respingere al prossimo G8 un'interpretazione «dinamica» del rigore. Ne abbiamo bisogno: il nostro pareggio di bilancio nel 2013 sarà «strutturale», ma non «nominale»: verrà cioè corretto al rialzo in ragione del ciclo economico negativo. D'altra parte la Germania, che pure lamenta gli squilibri dell'euro-zona, è essa stessa protagonista di uno squilibrio formidabile quando attrae ingenti capitali pagandoli con tassi di interesse negativi, cioè inferiori all'inflazione. Userà almeno una parte di queste risorse a basso costo per stimolare la sua domanda interna, e così anche le nostre esportazioni?

Finora l'Italia di Monti si è mossa per rendere la vita facile alla Merkel, nella convinzione che ciò la rendesse più facile anche a noi. Ma se così non è, e se Sarkozy ne sarà la prima vittima, Roma dovrà chiedere qualcosa in cambio di una nuova alleanza.

di Antonio Polito, dal corriere
26 aprile 2012

Il rigore di bilancio non basta


di STEFANO LEPRI, dalla stampa

È una bella novità che sia Mario Draghi a suggerire ai governi un «patto per la crescita». Tuttavia il banchiere centrale dell’euro per crescita non intende ciò che intende la gran parte dei politici quando la invoca. Può darsi che una vittoria di François Hollande serva a rimescolare le carte sul tavolo, come in Italia spera oltre alla sinistra anche una parte della destra; purché si abbandonino le chiacchiere da campagna elettorale.

Vale la pena di guardarsi attorno. Non stiamo vivendo solo una crisi dell’euro. La ricetta britannica, austerità di bilancio fondata su tagli alla spesa e politica monetaria spericolatamente espansiva, appariva più efficace; scopriamo adesso che la recessione nel Regno Unito ha andamento e gravità simili a quelli dell’Italia. Né il successo dei partiti populisti è solo conseguenza dell’austerità per salvare l’euro, dato che investe anche Svezia e Danimarca.

Tutti i Paesi avanzati stentano a crescere, oggi. Tutta l’Europa avanzata patisce i traumi dell’immigrazione massiccia e dell’ascesa industriale dei Paesi emergenti. Rivolto ai politici, Draghi insiste: lo sviluppo non arriva né con i deficit di bilancio né con una politica monetaria ancor più espansiva.

Forse il presidente della Bce aveva in mente proprio la sua Italia. Dal Duemila fino alla crisi si sono sperimentati prima gli sgravi fiscali, poi l’aumento della spesa; mentre i tassi di interesse bassi assicurati dall’euro non imprimevano decisivi impulsi a una economia fiacca.

Facile è replicare a Draghi chiedendogli allora che cosa propone. Nelle posizioni del presidente della Bce c’è un inevitabile equilibrismo, stretto com’è tra le pressioni sull’Europa del Fondo monetario (spalleggiato da Usa e Paesi emergenti) e i no della Germania e della Bundesbank. Manca la risposta a una questione chiave posta dal Fmi: l’austerità di bilancio è davvero necessaria anche nei Paesi con i conti in ordine, come la Germania e l’Olanda?

Però è interessante che sia un banchiere centrale a chiedere ai politici di avere più «visione»: di solito, chi svolge quel ruolo esorta a tenere i piedi per terra. Non servono progetti magniloquenti, che a orecchie tedesche suonerebbero «pagherete voi i debiti degli altri»; occorre però indicare una direzione di movimento, verso una unione più stretta, e una politica più trasparente.

E’ spesso la difesa a oltranza di nuclei di potere politico-economico nazionale a rendere i 17 Stati dell’euro più deboli di fronte ai mercati di quanto i dati economici giustificherebbero. Ad esempio, un intervento di fondi europei a sostegno delle banche spagnole potrebbe risultare molto utile; Madrid non lo chiede forse per proteggere consorterie interne, Berlino lo rifiuta per sfiducia nelle altrui capacità di governo.

Anche Angela Merkel ora afferma che il solo rigore di bilancio non basta. L’Italia non può sottrarvisi. Deve casomai evitare un corto circuito letale: il malcontento contro l’austerità potrebbe essere sfruttato dai centri di potere per non applicare l’austerità a sé stessi. Un esempio lampante è quelli dei debiti delle pubbliche amministrazioni verso i fornitori: le imprese giustamente li vogliono saldati, ma una parte corrisponde a denaro che non si doveva spendere, sorge da una diffusa disobbedienza ai tagli.

Nei primi mesi dell’anno non è calata la spesa pubblica, perché burocrati ed amministratori locali tentano di sfuggire ai vincoli. Nuovi scandali in imprese a controllo statale ripropongono l’opportunità di privatizzazioni. Pulizia della politica e revisione della spesa pubblica (o spending review che dir si voglia) non possono procedere l’una senza l’altra: sono le due facce della riforma strutturale oggi di gran lunga più importante.


Un nuovo modo di pensare, agire, fare politica


Articolo di P.Cacciari sulla festa della decrescita di Trieste


Festa della decrescita felice

La giornata di lavoro sulle “buone pratiche”, per come è stata preparata attraverso le schede di autopresentazione (un vero scrigno di idee), per il metodo coinvolgente che è stato seguito con gli otto laboratori e la restituzione dei risultati in plenaria, per la vastissima partecipazione, costituisce una novità importante, non solo per il Friuli Venezia Giulia. L’obiettivo di mettere in relazione la galassia di esperienze in atto di socializzazione del vivere è stato raggiunto. E’ iniziato un lavoro di autoinchiesta e di mappatura che potrebbe già condensarsi in una edizione di “pagine arcobaleno” (così come sono state chiamate in Trentino, a Reggio Emilia e in altre città italiane) dell’economia e dei servizi solidali, cooperanti, sostenibili. Una carta geografica del nuovo FVG che vuole vivere in modo diverso, più ricco di relazioni umane, più consapevole e solidale.

Le esperienze concrete in atto hanno messo a dura prova le “8 R” di Serge Latouche. Le “r” si sono moltiplicate – come lui stesso auspica  – e vi è stato bisogno di ricorrere anche ad altre lettere dell’alfabeto: A, come armonizzare, B e C, come beni comuni,  D, come donare… S, come simpatizzare… Z, come zeri: rifiuti, emissioni, esternalità negative.

Come è stato ricordato il prefisso  reiterativo   “ri/re” indica una ricorsività: fare/rifare, spingere/respingere. Evoca l’idea del life cycle che regola ogni processo naturale; indica l’azione necessaria per  “chiudere il cerchio” della vita, per restituire ciò che abbiamo utilizzato e preso in prestito. Un movimento costante, una rivoluzione, per l’appunto, che è culturale, economica, sociale, scientifica, istituzionale, antropologica. Individuale e sociale; materiale e cognitiva. Perché la decrescita è una direzione di marcia che va praticata, non enunciata. Non è una nuova ideologia, nemmeno una teoria generale che pretende di stabilire quanto grande e luminoso sarà il “sol dell’avvenire”. La decrescita è davvero solo un movimento concreto, misurabile passo dopo passo, verificabile individualmente e socialmente.

Noi sappiamo che è “necessaria” (come è scritto nel documento della ResFVG che convoca questa iniziativa) per evitare all’umanità le gravissime crisi sociali, ambientali, economiche che stiamo attraversando, ma sentiamo anche che è auspicabile e che dovrebbe diventare desiderabile. In fin dei conti è sempre la aspirazione allo stare meglio, la ricerca del buen vivir, della jouà de vivre, della felicità che spinge ogni essere umano ad agire e a tentare di cambiare.

La decrescita, quindi, è un atto di “rottura dell’ordine simbolico e fattuale” (come diceva Cornelius Castoriadis), si declina attraverso le esperienze, le sperimentazioni concrete di socializzazione, di ricostruzione di un fare consapevole e responsabile. L’economia sociale, equa e solidale, alternativa e sostenibile, relazionale , orizzontale, inclusiva, comunitaria, civile, “sostanziale”… (chiamiamola come vogliamo) è contigua alla decrescita. Ha scritto Latouche: “In ogni caso, il progetto di buona economia, se portato avanti seriamente, apre prospettive che non possono non interessare il sostenitore della decrescita e arricchire il suo progetto” (Come si esce dalla società dei consumi, Bollati Boringhieri, 2011).

Lo scorso anno è stato il centenario della morte del grandissimo Leo Tolstoj che amava affermare: “Fa quel che devi, accada quel che può”. Come dire: siamo mossi da una scelta etica, interiore, dobbiamo contare sulle nostre forze, sulla nostra capacità di discernere il bene dal male senza avere alcuna garanzia anticipata del risultato che otterremo. Nessuna teoria generale può assicurarci un avvenire sicuro. Anzi, dovremmo diffidare da coloro che pretendono di avere in tasca evoluzioni lineari e predeterminate. Una signora che è intervenuta in un laboratorio ha detto: basterebbero pochi valori chiari di riferimento capaci di regolare il vivere assieme. Io sono sicuro che noi questi valori noi li abbiamo individuati e che cerchiamo di seguirli. Ma il problema che abbiamo di fronte è duplice: come consolidare le nostre buone pratiche, senza chiuderci in tanti piccoli conventi; b) come espanderle, sapendo che viviamo in un ambiente ostile che non lascia spazi per l’autonomia e l’autogoverno. E non si tratta solo di condizionamenti mentali: spesso, burocrazia statale e finanziarizzazione economica soffocano anche le esperienze più valide.

Dovremmo prendere in mano gli studi sulla gestione collettiva dei beni comuni della Elison Ostrom (premio Nobel per l’economia 2009) per spiegare ai nostri governanti che spesso le gestioni comunitarie sono non solo più democratiche ma anche più efficienti ed efficaci nel creare e distribuire equamente ricchezza. Così come dovremmo prendere in mano il rapporto Stiglitz sul Pil definito “misura sbagliata delle nostre vite” (edizioni Etas) per spiegare al mondo degli affari che l’ossessione per il profitto e l’accumulazione monetaria ci sta portando non ad aumentare la ricchezza per tutti, ma alla all’autodistruzione.

Ma non basta migliorare e consolidare i nostri Gas, le banche del tempo, l’uso dei software liberi, i sistemi di scambio locale, le filiere corte, i last minute market, gli orti urbani, il fair trade, le Mag, le monete locali, la mobilità condivisa, il cohausing, gli eco villaggi, i green public procurement, le transitinon towns, la raccolta differenziata, il vegetarianesimo, i trustee fiduciari, gli usi civici… fino alle (ancora pochissime, però) esperienze di vera cooperazione e autogestione delle produzioni. E’ necessario rivolgere lo sguardo e l’interesse a chi è ancora prigioniero dell’immaginario della crescita, omologato nei comportamenti consumistici, incapace di sottrarsi all’eteronomia totalizzante del mercato. Per riuscirci – come è stato più volte affermato – è necessario che ogni gruppo del mondo dell’altra economia e della solidarietà riesca a fare un doppio movimento: da un lato uscire dall’autoreferenzialità a cui spesso porta il sapere di “sapere far  bene” (dobbiamo liberarci da ogni presunzione di superiorità verso chi non sa o non c’è ancora arrivato, svestirsi da ogni atteggiamento aristocratico, non siamo l’espertocrazia dell’etica) e, dall’altro lato, mettersi in rete, creare sinergie, colleganze, prendere parola nella società, confrontarsi con le istituzioni.

Il valore pedagogico dei buoni esempi è forte, ma non scatta automaticamente. Dovremmo cercare di essere  molto più umili e non perdere il contatto con il mare grande dentro cui è immersa l’umanità. Per “diventare maggioranza” (e solo così, in realtà, potremmo sperare di salvarci) dovremmo comprendere le ragioni profonde che portano gli esseri umani a farsi schiavi inconsapevoli, ma più spesso volontari, di un sistema che produce dosi sempre maggiori di  infelicità, angoscia, insicurezza, precarietà, psicopatie. Lo scorso anno, nel pieno della più grave crisi economica dal 1929, sono diminuiti i consumi di frutta e verdura, ma non quelli per i telefonini. Per le famiglie diventa più “facile” risparmiare sul “necessario” che non sul “superfluo”. Ma chi decide cosa è necessario e cosa superfluo? In realtà ci dimentichiamo che i bisogni sono correlati ai desideri e tutti (sia quelli dettati dalle necessità biologiche, sia quelli immaginati, sia il “pane” che le “rose”) sono sempre socialmente determinati. Pensiamoci: se fosse dipeso solo dal “benessere materiale”, in Russia ci sarebbe ancora l’Unione sovietica, visto che oggi la stessa aspettativa di vita media è diminuita spaventosamente. In realtà nella scala di valori necessari al nostro immaginario anche avere la libertà di scegliere, comunicare e muoversi liberamente, far festa, giocare e, in qualche misura, avere un’eccedenza da poter sprecare,  sono necessità fondamentali per dare un senso alla vita, per superare una condizione di mera sopravvivenza, che è la peggiore delle esistenze possibili.

Sarebbe paradossale che proprio noi, i portatori del pensiero più “anti-economico” che vi sia (la decrescita, appunto), dovessimo sostenere le ragioni del nostro pensiero utilizzando gli argomenti dell’utilitarismo e dell’economicità. La decrescita non è “risparmio” in nome di una maggiore produttività, nemmeno lotta allo spreco in nome di una maggiore efficienza. Non è una questione (solo) di misura, di scala, di equilibrio… ma di indicatori diversi, perché abbiamo bisogno di misurare valori incommensurabili (pensiamo solo al concetto di “sufficienza” quali e quante implicazioni soggettive necessita per definirlo) con gli strumenti che usa correntemente chi ci governa: valori relazionali, estetici, spirituali. Non tutto è quantificabile e, soprattutto, non tutto è quantificabile con il denaro. Quanto vale l’ultimo albero dell’ultima foresta? E la fiducia reciproca? E l’amicizia, in quale banco del mercato la si vende? Siamo sicuri che la coesione sociale sia possibile mantenerla con la retorica nazionale tanto al chilo ogni anniversario dell’Unità d’Italia? Quanti altri esempi (a partire dalla istruzione e dalla salute) potremmo fare di beni e servizi che andrebbero scorporati e resi indipendenti dai sistemi regolatori del mercato e del denaro?

C’è una irriducibilità alla logica del mercato di alcuni valori che riteniamo costituenti di una società civile.

La decrescita la vogliamo per vivere meglio, per migliorare le condizioni materiali e psichiche. Quindi non è “rinuncia” a nulla che ci serve, anzi, è nuove acquisizioni. Non è impoverimento, ma arricchimento personale e collettivo. Non è conservazione, ma cambiamento e innovazione, rifinalizzazione della scienza e della tecnica per “economizzare il tempo di lavoro e il dispendio di energie necessarie al fiorire della vita” (André Gorz)..

In attesa e in preparazione di questo grande processo di trasformazione, dobbiamo quindi essere non solo indulgenti, ma capaci di capire che quella cultura consumistica - che giustamente critichiamo - in realtà copre bisogni profondi. E’ ad essi che noi dovremmo riuscire ad offrire una alternativa, se non vogliamo che la decrescita sia un modo di vita valido solo per esseri umani perfetti, per asceti, per i “dodicimila santi per ciascuna generazione” (il massimo numero possibile di seguaci di Cristo che Dostroevskij  fa dire al Grande inquisitore, in un passo de  I fratelli Karamazov, magnificamente commentato da Franco Cassano in: L’umiltà del male, Laterza, 2011).

La penna biro che faceva andare in visibilio i ragazzi nei paesi del “socialismo reale”,  l’automobile per i cinesi, gli ipermercati outlet da noi... coprono – in luoghi e tempi diversi - un bisogno di riconoscimento sociale e di relazioni che va intercettato e soddisfatto in altro modo. Se ci fermiamo solo a criticarlo, a criminalizzarlo, a esorcizzarlo… non riusciremo  mai ad allargare il nostro piccolo mondo virtuoso. Come diceva madre Teresa di Calcutta: “non serve imprecare contro l’oscurità, accendiamo una candela!”.

La decrescita è un’azione, assieme e contemporaneamente, di decolonizzazione dell’immaginario, di smaterializzazione dell’economia, di demercificazone della società, di destrutturazione degli apparati istituzionali funzionali alla crescita… attraverso cui incunearsi e far spazio ad altri valori di riferimento: relazioni umane fiduciarie, auto-organizzazione (empowerment, ricordava Blasutig) , partecipazione, cooperazione, condivisione, reciprocità, cura, affettività, creatività…

Io penso che noi dovremmo avere più coraggio nel proporre ciò che facciamo e nell’allargare il cerchio delle solidarietà, più consapevolezza del fatto che quello che facciamo è importante davvero e rappresenta l’unica via di uscita dalla decadenza e dalla crisi di civiltà che attraversiamo.

Dovremmo riuscire a mettere tutti i nostri piccoli, malformati, spigolosi, incasinati ma coloratissimi e trasparenti  frammenti  di buone pratiche dentro un caleidoscopio e farli girare in continuazione offrendo al mondo immagini meravigliose di futuro.



di Paolo Cacciari, da www.decrescita.it