martedì 10 maggio 2011

Non abbiamo più tempo per vivere la nostra vita.


di Stefano Bolognini* Psicoanalista, presidente della Società psicoanalitica italiana
Mi telefona un collega da Madrid, e il discorso cade sulle polemiche italiane riguardo al 1°maggio: negozi chiusi o aperti? L’amico cade dalle nuvole; in Spagna - mi spiega - se il 1° maggio è una domenica, il lunedì viene reso automaticamente festivo, e nessuno ci trova da ridire. Per gli spagnoli è fuori discussione.

Al di là degli aspetti politici connessi, che spesso sono contingenti, giocati su base nazionale e difficilmente leggibili in contesti molto differenti, i miei pensieri evadono dalla politica (ma ci torneranno), per esplorare il senso della festa e del tempo ad essa collegato. Dunque: pare che «festa» (stessa radice latina di "feriae") derivi dal greco "estiào/festiào"=«accolgo ospitalmente», «festeggio banchettando»; e - ben più anticamente - dal sanscrito "vastya"=«casa, abitazione». La festa dunque nasceva con un riferimento al privato (la casa), reso condiviso con altri, di solito per celebrare tutti insieme qualcosa o qualcuno. In effetti, le feste religiose e civili hanno spesso mobilitato all’incontro grandi masse di persone, chiamate a celebrazioni e a riti collettivi. Eppure, si ha la sensazione che qualcosa sia profondamente cambiato rispetto al passato.

Si percepisce un certo contrasto con la massima aspirazione di molte persone al giorno d’oggi, che è quella di potersene stare finalmente tranquilli per conto proprio o al massimo con poche, selezionate persone (i propri cari, qualche amico). Rispetto agli antichi, viviamo in un’epoca di sovraffollamento e di iper-comunicazione: tra viaggi, cellulari, Skype, meeting e briefing, Ipod e Ipad, Facebook e compagnia cantante, l’individuo raggiunge presto il livello di saturazione sociale e da quel punto in poi non ne può più; desidera stare per conto suo. Ha bisogno della festa, certo; ma non nel senso di re-infilarsi nel gruppone per celebrare qualcosa o qualcuno, bensì per farsi in santa pace i fatti propri.

C’è un prototipo fisiologico di questo bisogno di base (tanto sano da essere letteralmente sacrosanto): è il bisogno universale di ritirarsi e di dormire. Le persone sane percepiscono e soddisfano periodicamente il desiderio di «ritiro» nel sonno: una condizione equivalente al ritorno allo stato intrauterino, con ritiro degli investimenti dalla realtà esterna e con l’avvio di quel naturale reset automatico che è il sognare, volto a digerire, a metabolizzare quello che si è incamerato durante il giorno nelle attività della veglia. È un bisogno ineludibile, che va rispettato: togliere artificialmente il sonno ( e dunque il sogno) agli individui (la cosiddetta «privazione ipnica») significa condurli progressivamente all’impazzimento programmato. In modo meno diretto e meno drammatico, sottrarre il tempo del riposo alle persone significa privarle della possibilità di lasciarsi andare – pur senza dormire – al piacere del funzionamento preconscio, tanto più accessibile quanto meno il soggetto è impegnato in attività che richiedono la sua piena partecipazione attentiva e operativa. Nei giorni di festa le persone si dedicano più facilmente a cose distensive e meno conflittuali; oltre a chi si dedica al dormire, c’è chi va a correre in bicicletta e chi zappa l’orto, chi legge un libro e chi va a trovare un amico, chi armeggia su un motore e chi sistema l’armadio o la cantina. Molto spesso la festa consente un certo grado – parziale – di regressione funzionale: si fanno cose che tengono abbastanza fuori gioco la parte professionale di sé; e i pensieri vanno un po’ per conto loro, fuori dai binari della operatività coatta e della performance competitiva.

Mi tornano in mente le vacanze dell’infanzia e della prima giovinezza, quando l’assenza della scuola (il nostro lavoro di bambini e di ragazzi) generava senza sforzo mattinate e pomeriggi senza tempo. Da piccoli si perdevano (o meglio, si guadagnavano) ore e ore a fare quello che ci pareva, astratti dalla realtà e assorti a leggere giornalini, giocare con le macchinine o i soldatini, correre per il cortile impersonando varie figure (cowboys o altri avventurieri) in base a copioni spontanei nati lì per lì, rudimentali ma del tutto soddisfacenti. Il tempo spariva, per ricomparire ufficialmente solo col richiamo della mamma per la cena.

Pure da ragazzini il tempo della festa era un «non-tempo»: le partite di calcio al campetto dell’oratorio erano interminabili, si andava avanti per ore ed ore fino allo sfinimento, con le formazioni che mutavano di tanto in tanto quando qualche genitore veniva a prelevare un attaccante o un difensore per imperscrutabili necessità famigliari, ma il collettivo non si fermava mai, perlomeno fino a che ci si vedeva. Il tempo era segnalato solo dall’arrivo del buio; e tutto ciò era formidabile. Cosa – ricordo benissimo - di cui eravamo consapevoli anche allora, e non solo adesso per rimpianto idealizzante postumo: eravamo immaturi, sì, ma non scemi. Anche il tempo della lettura (non quello dello studio!...), della lettura libera, nelle feste o nelle vacanze della giovinezza, era un tempo «senza tempo»: la full immersion in un romanzo ci faceva immedesimare con i protagonisti e con l’ambiente, e spesso i genitori si ritrovavano a cena con un ragazzo o una ragazza in stato di semi-trance, con gli occhi persi nella Russia di "Guerra e pace" o nel Borneo di Sandokan e Yanez.

Il preconscio «beveva» quelle storie con avidità assoluta, il preconscio creava e sognava, libero da doveri e da compiti precisi; e il resto del Sé introiettava, elaborava, costruiva silenziosamente; il bambino cresceva, il ragazzo evoluiva, in quelle sane e necessarie atmosfere regressive che anche le lingue straniere hanno connotato con espressioni culturalmente nobili e rispettose: «zeitlos», «timeless», «hors du temp», ecc.

Oggi noi soffriamo, a mio avviso, di una colossale turlupinatura propinataci dalla tecnologia: siamo nella malaugurata condizione di poter OTTIMIZZARE IL TEMPO. Grazie ai mezzi di comunicazione possiamo programmare ogni minuto del nostro tempo organizzandoci in modo da non avere tempi vuoti; possiamo predisporre incontri, attività e impegni a ritmo continuo, stipandoli a forza anche negli intervalli più intimi e privati. Non ci sono più i cosiddetti «tempi morti», ma il sospetto è che a volte quelli fossero i momenti più vivi e più aperti della nostra esistenza, al di fuori dell’imperativo frenetico «Produzione! Produzione! Produzione!» recitato persecutoriamente da Charlie Chaplin in "Tempi moderni.

Ora, per tornare alla politica (beninteso, nel senso dilettantesco e del tutto generico con cui posso farvi riferimento io, che so abbastanza poco di economia complessa): capisco benissimo che oggi i Cinesi o i Coreani o chissà chi altro ci stiano dando dei punti grazie alla loro iper-produttività a basso costo che li rende così competitivi. Non entro nel merito della quantità media di lavoro necessaria al giorno d’oggi per mantenere un buon livello produttivo e commerciale; tengo conto del fenomeno ben noto per cui a certe persone piace più lavorare che riposarsi, anche per sfuggire al contatto con pensieri e rapporti più temuti che desiderati; e arrivo a considerare anche l’esistenza delle cosiddette «nevrosi della domenica», che sono note agli psicoanalisti fin dai tempi di Freud.

Ciononostante, se da psicoanalista dovessi dare un consiglio ai governanti e ai cittadini, direi: rispettate il tempo della festa. È un tempo «sacrosanto», non per motivi religiosi o civili, ma per fondamentali ragioni di sanità del vivere. Gli uomini non sono macchine meccaniche, sono organismi psico-biologici delicati e complessi ed hanno bisogno di riposarsi per poter lavorare, di poter dormire per poter essere ben svegli, di coltivare aree di ritiro benefico per poter re-investire energie sul mondo esterno.

C’è un tempo per il lavoro e un tempo per il riposo, c’è un tempo per gli altri e un tempo per sé, e conviene non perdere il contatto con questa ritmicità del tutto naturale.


3 maggio 2011

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