domenica 15 maggio 2011

Le cerase del desiderio


Le varietà precoci danno il via alla stagione delle ciliegie, i frutti che annunciano l'arrivo imminente dell'estate.
FRANCESCO BENINCASA, dalla stampa
Quando le nostre tradizioni erano indissolubilmente legate alla cultura contadina, era d'obbligo esprimere un desiderio alla loro prima colorata apparizione sulla tavola, con la speranza che lo stesso potesse essere esaudito. Sono infatti il simbolo evidente dell'arrivo della bella stagione le ciliegie, frutti considerati preziosi da quella cultura e ancor oggi molto "preziosi", seppur riferendosi stavolta principalmente alla loro valutazione commerciale. Tra maggio e giugno fanno la loro comparsa sui banchi del mercato, e a seconda della varietà anticipano di un poco o posticipano il momento dell'anno in cui le abbiamo a disposizione.

Le prime notizie della pianta di ciliegio si hanno nell'Egitto del VII secolo avanti Cristo, e l'Italia le conobbe grazie a Lucullo, stando a Plinio il Vecchio, che le importò dalla regione del Ponto, prelevando le piante dalla località di Cerasunte (Giresun, in Turchia), la quale diede anche il nome ai frutti. Se infatti guardiamo all'espressione dialettale "cerasa", ma ad esempio anche al francese "cerise", essa riprende perfettamente il nome romano della località nota fin dall'antichità per la sua fiorente agricoltura. Della pianta di ciliegio esistono due varietà: il ciliegio dolce (prunus avium), da cui nascono le ciliegie che siamo abituati a consumare come frutta fresca, e il ciliegio visciolo (prunus cerasus) che genera le amarene e le marasche.

Guardando al territorio nazionale, la coltivazione del ciliegio si concentra principalmente in 4 regioni: Veneto, Emilia-Romagna, Campania e Puglia, che da sole costituiscono oltre l'80% della produzione italiana di ciliegie. Nel vicentino troviamo la prima varietà in Europa ad ottenere la denominazione IGP, ovvero la plurisecolare Ciliegia di Marostica, dalla forma tendenzialmente cuoriforme, con un calibro minimo di 20 millimetri ed un colore che va dal rosso scuro al rosso fuoco, a seconda delle varietà. Frutto che sarà protagonista di varie celebrazioni nella zona di produzione, a partire dal doppio appuntamento di sabato 28 e domenica 29 maggio nel comune di Pianezze, pronta a tingersi di rosso per la tradizionale festa delle varietà precoci, per finire con la Sagra delle ciliegie di Mason Vicentino, in programma domenica 12 giugno.
Da segnalare anche la varietà siciliana della Ciliegia dell'Etna, una produzione dalle piccole dimensioni ma caratterizzata dall'alta qualità del prodotto, che ha ottenuto a livello nazionale la concessione provvisoria dal dicembre 2006 per l'utilizzo del marchio "Denominazione di origine protetta" (DOP).

Il loro utilizzo in cucina varia dal consumo del prodotto fresco alla preparazione di sciroppi e marmellate, ma con le ciliegie si preparano anche liquori, come maraschino, cherry brandy e kirsch. Le proprietà depurative, energetiche, lassative, disintossicanti ne fanno un alimento prezioso anche per il benessere dell'organismo. Come per tutte le cose belle, il periodo dell'anno dedicato al consumo delle ciliegie è davvero ristretto, e bisogna sbrigarsi prima che arrivino i "Giovannini", ovvero i vermetti bianchi che attaccano le ciliegie, il cui nome deriva dalla concomitanza della Festa di San Giovanni (che cade il 24 giugno), proprio nel periodo "caldo" della raccolta delle ciliegie.

(a cura di Nexta)
FRANCESCO BENINCASA

CAMPAGNA DEBOLE, CONFRONTO STERILE
Quel dibattito che non c'è stato
Per consolare il lettore, dopo alcuni spettacoli offerti dalla classe politica negli scorsi giorni, posso dire soltanto che non ricordo elezioni locali a cui non sia stata attribuita una valenza politica. Predichiamo bene cercando di ricordare a noi stessi che i candidati andrebbero scelti sulla base delle loro capacità amministrative e organizzative. Ma razzoliamo male lasciandoci influenzare da criteri di lealtà e appartenenza. Nulla di nuovo quindi. Anche questa volta l'assordante rumore della politica ha soffocato qualsiasi confronto di idee e di progetti. Ma due circostanze hanno reso l'atmosfera più surriscaldata e l'aria più irrespirabile.

La prima è il clima politico del Paese. Le elezioni hanno coinciso con una delle fasi più litigiose della politica nazionale. Non è facile votare spassionatamente per un sindaco o un consiglio municipale quando la maggioranza e l'opposizione si comportano come se fossero in guerra e sembrano andare continuamente a caccia di temi su cui alzare il volume e dividere maggiormente il Paese. Parafrasando Indro Montanelli non dovremmo, per conservare un po' di buon senso e di equilibrio, turarci il naso ma tapparci le orecchie.

La seconda circostanza, direttamente collegata alla prima, è la decisione del presidente del Consiglio di trasformare queste elezioni in un referendum sulla sua persona. In linea di principio, nulla da eccepire. Tutte le divergenze, da quelle sulla riforma giudiziaria a quelle sulla composizione della maggioranza, ruotano intorno alla personalità e ai casi di Silvio Berlusconi. Tutti i progetti di legge vengono letti e scrutati alla luce degli effetti che potrebbero avere sul presidente del Consiglio. Persino le condizioni della economia sono buone o pessime a seconda delle simpatie politiche di chi le giudica. Se la materia del contendere è Berlusconi non sorprende che un uomo battagliero e coraggioso (due caratteristiche che gli vanno riconosciute) abbia colto l'occasione per mettere se stesso al centro della scena politica e chiedere un voto popolare di fiducia. L'opposizione, dal canto suo, non poteva che accettare la sfida e giocare la partita con le stesse regole dell'avversario. Il risultato, tuttavia, è una campagna elettorale in cui i temi della contrapposizione politica hanno offuscato quelli della buona amministrazione e in cui sono state fatte promesse che sarebbe stato meglio non fare. Non ci è stato chiesto di giudicare se un programma era meglio dell'altro. Ci è stato chiesto di dire col voto se siamo berlusconiani o antiberlusconiani.

Dovremmo evitare che questo accada là dove vi sarà un secondo turno. Vi saranno allora due candidati. Non chiediamo a ciascuno di essi che cosa pensi di Berlusconi e delle sue vicende giudiziarie. Chiediamo piuttosto a entrambi che cosa intendano fare per migliorare la vita delle loro città. Dopo tutto è per questo che andiamo a votare.

Sergio Romano, dal corriere
15 maggio 2011

sabato 14 maggio 2011


La crisi e' anche per i professionisti
Poco autonomi e dipendenti mascherati: ecco le nuove partite Iva

FTAONLINE
Lo chiamano l'esercito delle partite Iva e, nell'immaginario comune, e' composto da persone ricche, in grado di gestirsi il lavoro a proprio piacimento e inclini alla bella vita. Ma, in realtà, come se la passano i liberi professionisti italiani? In tempi di disoccupazione e precariato diffusi, Cgil e Ires avvertono: anche per i lavoratori autonomi i tempi sono duri, con rapporti di collaborazione e consulenza che spesse volte nascondo  "dipendenti mascherati".

Il lavoro che cambia

Autonomi e liberi di gestire il proprio tempo? Secondo uno studio di Cgil e Ires, i liberi professionisti italiani non sono proprio così. Indagando le condizioni diffuse sul mercato del lavoro autonomo all'interno del nostro Paese, Cgil e Ires attestano come sempre più spesso anche chi e' dotato di una partita Iva sia costretto a rispettare uno stringente orario di lavoro, attenendosi a contratti a "tempo" piuttosto che a "risultato".

Professionisti con obbligo pur di conservare il posto da dipendenti? e' questo il sospetto che viene leggendo i risultati dell'indagine "Professionisti: a quali condizioni?" promossa dalla CGIL e dalla FILCAMS. Stando ai dati raccolti sul campione oggetto d'indagine, il 19,6% dei professionisti non ha sufficiente autonomia sul lavoro. Si tratta di un dato rilevante, ma ancora più significativi sono il 24,4% di professionisti che dicahiara di lavorare secondo un orario definito e controllato e il 20,2% dei lavoratori che afferma di avere un contratto legato alla durata e non ai risultati.

Interessante anche il dato riguardante il reddito dei professionisti: il 44,6% degli intervistati dichiara di guadagnare meno di 15mila euro all'anno.

Autonomi: niente e' più uguale

Alla luce dei risultati, sarebbe dunque opportuno aggiornare lo stereotipo del lavoratore autonomo diffuso nella società. Oggigiorno, tra l'esercito delle partite Iva si nascondono molti professionisti per necessità più che per scelta. Il diffondersi della precarietà ha costretto molti, giovani o disoccupati, ad aprire la partita Iva per essere più appetibili sul mercato del lavoro.

Non stupisce, dunque, la scarsa autonomia lamentata da numerosi professionisti. Rispetto al passato, il lavoratore autonomo ha molta più difficoltà nel contrattare con i propri committenti: il 58,4%, infatti,  afferma di avere poca o nulla capacità contrattuale al momento di discutere le condizioni di lavoro.
Fonte: la stampa

Ruggiero sulla sentenza di esclusione dal Consiglio regionale


di PIERANTONIO LUTRELLI



TURSI – “Le sentenze non si commentano, quindi rispetto la decisione della magistratura fermo restando che ricorrerò in Cassazione per vedermi riconosciuto il mio diritto che è anche quello dei miei elettori che democraticamente hanno espresso il loro consenso nei miei confronti”. Queste le uniche dichiarazioni che l’ex consigliere regionale, Vincenzo Ruggiero, ha rilasciato al Quotidiano all’indomani della decisione del giudice del Tribunale civile presso la Corte di Appello di Potenza che ha ribaltato il verdetto di primo grado. Ruggiero che dallo scorso anno ricopriva la carica di capogruppo dell’Udc in Consiglio regionale, continuerà ad avvalersi della difesa dell’avvocato Nicola Gulfo e del professor Vincenzo Caputi Jambrenghi, ordinario presso l’Università di Bari per ricorrere presso la Suprema Corte di Cassazione. Nel frattempo resta commissario liquidatore della Comunità montana “Basso Sinni” con sede a Tursi, della quale è stato presidente eletto per molti anni. La notizia dell’esecutività della sentenza e quindi dell’abbandono forzato del politico di Valsinni (Comune in cui ricopre la carica di consigliere comunale) del banco nel parlamentino lucano, è destinata inevitabilmente a far ancora parlare. Nel frattempo Ruggiero, il cui incarico commissariale scadrà il prossimo 30 giugno (salvo probabile rinnovo), nel partito di Pierferdinando Casini, ricopre da tempo il ruolo di segretario provinciale. Nel 2009 era stato eletto anche consigliere provinciale di Matera, carica dalla quale si era dimesso dopo pochi giorni per far posto alla prima dei non eletti dell’Udc, Giusi Favonio, attuale capogruppo per il suo partito nel Consiglio nell’ente di via Ridola. La notizia ha suscitato subito rammarico e stupore tra i suoi sostenitori concentrati soprattutto nel Basso Sinni e nel metapontino. L’interessato affiderà, come ci ha preannunciato, ad un comunicato stampa, il suo commento più esaustivo riguardo alla vicenda.


(Da Il Quotidiano della Basilicata)

''Caso Ruggiero''. Intervista all'Avv. Vincenzo Montagna

venerdì 13 maggio 2011



Thyssen, l’offensiva dei padroni e la solidarietà perduta tra i lavoratori
Come si fa a tutelare gli interessi di una classe? Premesso che non ho da impartire lezioni a nessuno, e del tutto consapevole di quanto sia difficile, e sovente ingrato, il mestiere del sindacalista, mi sgomenta l’accenno di divisioni interne anche alla Fiom, che si sta delineando negli ultimi giorni. Ormai convinto che l’unità delle tre confederazioni sia un ricordo di un passato irrecuperabile (e in quella unità largamente fittizia v’era sicuramente del buono, ma tanto v’era di assai poco utile ai ceti lavoratori, come gli sviluppi storici hanno dimostrato), penso tuttavia che l’unità rimanga un valore e un valore importante, sovente decisivo, a partire da certe coordinate di base. All’unità si è ispirato, prevalentemente, il pensiero del Gramsci politico; all’unità delle forze del movimento operaio, contadino, socialista, e antifascista, contro un nemico comune, hanno lavorato sempre i leader più intelligenti e sensibili.

Oggi il nemico comune di tutti i subalterni che vogliano emanciparsi, di tutti gli oppressi che ambiscano alla liberazione, di tutti i democratici preoccupati della drammatica accelerazione del processo di involuzione dello Stato di diritto, è il berlusconismo, e il suo volto economico, il marchionnismo; con tutte le differenze tra i due personaggi, naturalmente: tanto glamour e “presentabile” il manager, altrettanto greve, volgare, ormai ben oltre la soglia della decenza minima, il politico, che ha fatto del tuo retroterra di imprenditore (venditore di sogni), il suo cavallo di battaglia per la sua seconda vita di “governante”. Non c’è in Sergio Marchionne l’ignoranza delle regole minime della democrazia, non c’è la misconoscenza dei fondamenti del diritto pubblico, non c’è l’ansia di autodichiararsi il migliore, anzi the best one. Non c’è neppure l’ossessione sessuale (e il  marchio violentemente sessista e “machista”) del cavaliere di Arcore, l’uomo chiamato Papi dalle minorenni da lui “protette”, quell’“uomo malato” di cui aveva fatto un cenno, tra pietà e disprezzo, sua moglie Veronica.

In Marchionne, provvisto di una sua studiatissima eleganza casual (very american), c’è nondimeno una determinata volontà di cancellare il tema stesso dei diritti, trasformandoli in concessioni, spezzettate azienda per azienda, reparto per reparto, lavoratore per lavoratore: in cambio, se si rinuncia ai diritti, si ottiene lavoro; magari sotto forma di straordinario obbligatorio, magari 120 ore, un carico assai pesante, specialmente per le lavoratrici… Marchionne non è “cattivo”, né “buono”; è un dipendente che riceve emolumenti, e benefits, in base a quanto fa risparmiare e guadagnare ai suoi padroni; lo fa in tutti i modi nei quali la politica e il diritto glielo consentono; e i sindacati non sono sempre in grado di frenare la cupidigia dei capitalisti, e a volte si spingono a firmare intese che non sono certo le migliori possibili, ma che talora sono le sole che in una data situazione si possano sottoscrivere.

Certo, se la produttività è il solo faro che deve ispirare il lavoro in fabbrica, se il mercato è il solo giudice (salvo contraddirsi chiedendo condizioni di favore ai governi, o l’intervento diretto dello Stato per salvare aziende pessimamente condotte), se l’accumulazione la sola preghiera possibile e il profitto è la sola legge e gli ad i suoi profeti (parafrasando Marx), allora è chiaro che si possa giungere a mercanteggiare i diritti fino a metterli sotto scacco. Non soltanto i diritti fondamentali, patrimonio acquisito di lotte secolari dei ceti lavoratori, e in specie del proletariato di fabbrica, quelli inerenti, in sostanza, agli orari di lavoro, alle ferie, agli straordinari, ai turni, alle pause (Marchionne è quello che vuole riportare la Fiat agli utili togliendo dieci minuti di pausa agli operai alla catena di Mirafiori e Pomigliano…: la catena di montaggio deve diventare una catena fisica e anche metaforica a carattere generale); ma anche i diritti alle libere rappresentanze sindacali, e i diritti di queste a essere considerate in modo equo e paritario. I recenti applausi dell’assemblea confindustriale, su input della sua presidente Marcegaglia, all’ad della ThyssenKrupp, sono stati una terribile conferma che persino il diritto per eccellenza, il diritto sine qua non, ossia il diritto alla vita, viene messo in discussione: conta di meno del profitto dei padroni, il diritto elementare alla vita del lavoratore. L’ha già notato Giorgio Cremaschi, su questo sito; ma vale la pena di ribadirlo.

E vale la pena di ribadire che le parole della signora Emma che si è permessa di decretare ingiusta la sentenza di condanna dei responsabili della ditta tedesca nel processo di Torino, non hanno suscitato nel mondo politico e sindacale – dunque anche a sinistra – quella riprovazione che ci si sarebbe aspettata. Forse perché intanto erano già arrivati commenti poco favorevoli dai sindacati e dai dipendenti delle Officine Terni, di proprietà Thyssen, timorosi che l’immediata minaccia ricattatrice della proprietà (“a queste condizioni non ci sarà possibile rimanere in Italia”, hanno commentato) avesse seguito. C’è stato poi il gesto rituale di scuse del direttore Galli, ai familiari delle vittime, mentre si annuncia la canonica stretta di mano della Marcegaglia con quelle famiglie così duramente provate. Ma, appunto, si tratta di gesti formali, che, a leggere le dichiarazioni, finiscono per peggiorare il nostro giudizio.

Davanti a tutto ciò, ahinoi, la classe operaia appare disunita, come i suoi rappresentanti sindacali. E il passaggio teorizzato da Marx, da classe “in sé” (ossia non cosciente) a classe “per sé” (ossia che abbia acquisito la coscienza del proprio ruolo storico, e della proprio forza politica), non è vicino. Dov’è finita la solidarietà di classe? Ma persino, ci si potrebbe chiedere, quella tra individui costretti alla stessa “schiavitù salariale”? E com’è possibile che non susciti scandalo, invece della esemplare sentenza del Tribunale di Torino, il commento e l’applauso confindustriale? E, sottolineo, il silenzio generale davanti ad essi? Com’è possibile che non faccia urlare dalla rabbia il mondo intero la scoperta che per non intaccare il margine del profitto d’impresa si sia deliberatamente negletta l’applicazione delle misure minime di tutela degli operai in una situazione lavorativa ad alto rischio? E non si dovrebbe fare uno sforzo supplementare per far capire ai lavoratori e sindacalisti di Terni che nella vicenda Thyssen si è giocata una partita nazionale e generale? Che difendere oggi il lavoro e la sua tutela fisica contro gli  infortuni a Torino, significa diminuire le possibilità di altre possibili Thyssen. E che, davvero, se gli interessi degli operai sono uguali dovunque, da Palermo a Torino, da Terni a Napoli, dobbiamo creare e sviluppare solidarietà, convinti che essa dà forza all’intero movimento, e dà forza ai singoli.

Ma guardando indietro, verso le giornate di lotta per i diritti dei lavoratori a Pomigliano e a Mirafiori – due momenti che con un po’ d’enfasi non esiterei a definire epici –, dobbiamo trarne linfa per resistere, sia ai ricatti padronali, sia all’offensiva generale di questo governo sciagurato; aggiungo, tuttavia, che dobbiamo resistere alla tentazione di spaccare l’unità di quelle forze e di quel sindacato – la FIOM, in primo luogo – che ha tenuto alta tanto la bandiera dei princìpi, quanto quella delle concrete condizioni di lavoro.

Su due fronti, insomma, deve attestarsi la lotta: contro il padronato, che è il soggetto con cui fare i conti, nella maniera più forte possibile, ma anche contro noi stessi, se occorre, ossia, contro l’antico male del movimento operaio, il frammentismo, la tendenza alla divisione davanti all’avversario, che assomiglia troppo spesso a un tragico cupio dissolvi.

Angelo d’Orsi, da Micromega

(12 maggio 2011)

L'ANALISI
Lo statuto della menzogna
di GIUSEPPE D'AVANZO,da Repubblica
È imprudente credere che l'assassinio politico e mediatico acceso da Silvio Berlusconi  -  e riprodotto dai corifei, la Moratti per fare un nome  -  sia soltanto un artificio elettorale, quasi una necessità propagandista che non segnala alcuna eccezionalità o distorsione ma soltanto, e se si vuole tignare, il peculiare carattere animoso del nostro bipolarismo che si nutre di "risse", "veleni", "duelli", "fuochi polemici". Sostenere lietamente quest'argomento, come capita anche a qualche malaccorto progressista, è un abbaglio.

Legittima la filastrocca di Arcore sulla "guerra civile" quando in campo si avvista un solo aggressore, Berlusconi. Quell'argomento più falso che minimalista dimentica che, distrutta la trama della realtà con la menzogna, chi stringe nelle sue mani potere politico, economico e mediatico può ridurre ogni istituzione - come ogni essere umano - a repliche dei suoi slogan ideologici, distruggendo ogni storia e ogni forma personale di vita, non rinunciando ad assassinare caratteri, in caso di ostilità o resistenza. È accaduto, per stare soltanto agli ultimi giorni, alla presidenza della Repubblica, alla Corte costituzionale, alla magistratura tutta, alla procura di Milano in particolare ("un cancro"), poi a Ilda Boccassini ("una metastasi") e ancora ai leader del centrosinistra ("non si lavano") e infine, e per il momento, a Giuliano Pisapia ("un ladro"). Mai un fatto  accertabile,
documentabile, a sostegno di queste accuse. Soltanto menzogne. Il premier si lamenta che non può governare perché le sue decisioni, come le sue leggi, sono annullate dal Capo dello Stato e dalla Consulta. Un falso. È stato ricordato da Michele Ainis che nove volte su dieci la Corte costituzionale lascia in vigore le leggi approvate dal Parlamento mentre, in questa legislatura, il Quirinale ha rifiutato la sua firma a una sola legge, a un solo decreto legge, a un solo decreto legislativo. La procura di Milano è animata da uno spirito "brigatista", dice Berlusconi. Un'infamia per un ufficio investito dalle Brigate Rosse. La Boccassini è "una metastasi"? C'è un solo fatto - uno solo - che possa documentare l'ingiuria e la minaccia (le metastasi si tagliano)? Non c'è, a meno che non si voglia considerare una colpa imperdonabile le prove raccolte sulla corruzione del giudice che ha consegnato la Mondadori a Berlusconi. È "un ladro" Giuliano Pisapia? No, è una menzogna assassina. Fu accusato di "concorso morale in furto". Assolto per insufficienza di prove in primo grado, non volle che il processo si chiudesse per amnistia. Chiese un nuovo giudizio e ottenne un'assoluzione piena "per non aver commesso il fatto". Sentenza definitiva.

Ora ciò che è decisivo in questo dispositivo letale per la realtà e la dignità degli uomini (viene voglia addirittura di parlare di libertà degli uomini) è lo statuto della menzogna nell'èra berlusconiana.
Sappiamo, anche se qualche sapiente ce lo ricorda ogni giorno, che la menzogna è stata sempre impiegata a fini politici, ma la comune menzogna politica utilizzata da istituzioni, leader, ministri, capi partito nella storia, in democrazia e a ogni latitudine è molto diversa dalla menzogna berlusconiana.

La comune menzogna politica vuole nascondere la verità, camuffarla, ma ha sempre chiara la distinzione tra ciò che è vero e ciò che è falso. Non è così per la menzogna berlusconiana per la quale non esiste alcun criterio di verità praticabile eccetto per ciò che viene dichiarato vero in quel momento. Comune menzogna politica è la commemorazione dei Re Magi, ricorda Leszek Kolakowski. Nacque come un'invenzione per rafforzare la dottrina con cui la Chiesa rivendicava la propria supremazia sui poteri secolari. Tuttavia la Chiesa non ha riscritto il Vangelo di Matteo per giustificare la leggenda. La storia dei Magi, dei monarchi in vista a Gesù bambino, è rimasta in vita ma come innocente, folkloristico evento non come "verità". Al contrario, ai fedeli è stato concesso di scorgerne e comprenderne la falsità.
Ammesso che "menzogna" sia qui una parola adeguata, è di altra natura, ha un'altra funzione la menzogna berlusconiana. Essa abolisce l'idea stessa di verità perché, a differenza della comune menzogna politica che ha sempre un obiettivo specifico, la menzogna berlusconiana è sistematica e totalitaria. Pretende di rendere superflua la realtà e di espropriare la memoria delle persone; di cancellare i ricordi di luoghi, fatti, parole in una sorta di sterilizzazione mentale e morale della società che lascia tutti confusi, smarriti, indotti a credere che nulla sia vero in se stesso; che i fatti siano soltanto opinioni e che la realtà politica non sia altro che un caleidoscopio di menzogne, un reticolo di immagini che si possono comporre, scomporre, ricostruire a piacere o secondo convenienza.

La menzogna sistematica è il più autentico nucleo del sistema politico berlusconiano. Senza la menzogna, non ci sarebbe Berlusconi. Senza la menzogna sistematica, Berlusconi non potrebbe rendere "indecifrabile", quasi misteriosa e comunque non giudicabile per l'opinione pubblica la realtà italiana e il suo fallimento politico. Senza una menzogna deliberata, accuratamente studiata, non potrebbe "assassinare" i suoi avversari politici, minacciare i non conformi, costringere al silenzio e all'obbedienza i più deboli.
La menzogna e la verità. I "duri fatti" e la realtà di cartapesta creata in laboratorio da chi dispone il pieno controllo dei "meccanismi della risonanza". Ecco, non c'è questione più squisitamente politica di questa nell'Italia di Berlusconi e appare un impegno preliminare per ogni iniziativa di rilievo pubblico - e dunque soprattutto per l'informazione - misurarsi con questo paradigma di potere che agisce, trasforma, modifica la realtà come se fosse potenzialmente trascurabile, modificabile o negabile nella sua totalità. Diventa sempre più chiaro quel che si deve responsabilmente fare per contenere questa avventurosa negazione della realtà. Bisogna proporre con ostinazione i "duri fatti", rappresentare l'attualità delle cose dimenticando la retorica pilatesca delle "risse", dei "veleni", dei "duelli" che non illuminano la scena, ma la confondono colpevolmente sposando il fondamento menzognero di Berlusconi. Non c'è alcuna "guerra civile" in Italia. C'è un uomo che dichiara guerra a chiunque si dichiara moderatamente critico, costruttivamente in dissenso, dichiaratamente antagonista. Allora, è vero, bisogna parlare proprio di libertà perché "senza un'informazione basata sui fatti e non manipolata - scriveva Hannah Arendt - la libertà d'opinione diventa una beffa crudele".

(13 maggio 2011)


Io, estremista per disperazione

 Letizia Moratti con Silvio Berlusconi
Di Ilvo Diamanti, daRepubblica

Il problema è il dizionario. Le parole: hanno perduto il significato di un tempo. Per cui parliamo senza capire e senza capirci. Non ci è chiaro neppure quel che diciamo noi stessi. Fra noi e le nostre parole c'è un distacco profondo. L'abbiamo detto altre volte: dovremmo ri-scrivere il dizionario della discussione pubblica, ma anche quello della vita quotidiana. Catalogare le parole perdute e le parole ritrovate. A loro volta diverse perché hanno un senso diverso.

Moderato, per esempio. Un tempo non esisteva. Quand'ero giovane, fra gli anni Sessanta e Settanta, le categorie di uso comune erano altre. Il mondo si divideva fra conservatori e progressisti. Tradizionalisti, riformisti, rivoluzionari. La moderazione era un'attitudine, un orientamento sociale e personale, uno stile di vita. Definiva quelli che bevevano, mangiavano, magari tifavano. Indulgevano a qualche vizio. Con moderazione. Cioè: senza esagerare. Oggi invece i "moderati" sono divenuti una categoria politica e culturale. Una (presunta) cultura politica. Il "fronte moderato", in particolare, è quello guidato dal Cavaliere.

Lui, Mister B, lo ripete sempre. I "moderati" sono i militanti e gli elettori del (sedicente) Centrodestra. Al di là e oltre ci sono soltanto i comunisti, i Magistrati e i loro servi. Quelli che perseguitano il Campione dei Moderati e lo vorrebbero eliminare, a dispetto della volontà popolare. Quelli vogliono far pagare le tasse. Quelli che vogliono uno Stato onnipresente e centralizzatore. Quelli che stanno per il Pubblico e odiano il Privato. Quelli che vorrebbero fare invadere l'Italia dagli stranieri e dagli islamici. Quelli brutti, o meglio: quelle brutte. Vuoi mettere il lato B delle parlamentari "moderate"? Quelli che non si lavano. Quelli che si scandalizzano per le gesta erotiche del Cavaliere  -  vere o presunte. Ma anche se fossero vere: che male c'è? Siamo un popolo di maschi guasconi. Chi si scandalizza (i comunisti e i Magistrati), in effetti, finge. Per invidia. È una frattura profonda e invalicabile. Da una parte i Comunisti, dall'altra  -  appunto  -  i Moderati. Quelli che i tunisini, i libici e i marocchini meglio cacciarli fora dai ball (o come si dice, non sono un esperto di lingue padane). Quelli che le BR abitano nelle procure. Quelli che nel pubblico sono fannulloni e la scuola (pubblica) non funziona per colpa dei Professori. Quelle che, nei faccia a faccia, si dichiarano moderate e di famiglia moderata. E attendono l'ultima parola, quando l'avversario non ha più possibilità di replica, per dargli del ladro di automobili (e voi comprereste un'auto da chi le ruba?). Peggio: del complice di estremisti violenti. Quelle che denunciano l'avversario (quando non ha più possibilità di replica) per essere stato condannato e amnistiato. E se il fatto non sussiste, se è palesemente falso, chissenefrega: era amico dei terroristi. Quarant'anni fa. Altro che moderato. E i moderati, si sa, sono decisivi per l'esito del voto. Soprattutto i "terzisti". Quelli che non stanno né di qua né di là. In caso di ballottaggio: non voteranno mica per i comunisti o per gli amici dei terroristi?

Il moderato. Una parola nuova e vecchia. Perduta e ritrovata. Perché oggi è di moda, ma ha cambiato senso, rispetto a un tempo. Perché se questi sono i moderati, il fronte moderato, i segni e i significati della moderazione. Allora io che da giovane non sono mai stato comunista e neppure marxista (al massimo, aclista). Io che nel Sessantotto, quando i miei compagni di liceo erano rivoluzionari, ero un giovane democristiano (e, prima ancora, repubblicano). Io che voto a sinistra (centrosinistra?) perché mi tocca. Non ho alternativa. Anche se, effettivamente, l'alternativa non c'è.  Io che non alzavo e non alzo la voce  -  se non alle partite di calcio e, qualche volta, con i miei figli. Io che ho sempre preferito i mezzi toni e le mezze misure. I colori tenui e il jazz da camera (avete presente Uri Caine?). Se questi sono i moderati, per disperazione, non posso non dirmi estremista. (Comunista proprio no. Mi spiace: ma è troppo).



Avocado e papaia, amici per la pelle
Sono frutti esotici validi non solo per spuntini e a colazione, ma anche come prodotti "dermatologici", per calmare il sistema nervoso e favorire la digestione.
12/05/2011
Sì, è vero, parliamo tanto di km 0 ma poi capita di cadere nella trappola dei frutti esotici. Ma qui non si tratta di togliersi sfizi quanto piuttosto di accogliere alla propria tavola, ogni tanto, degli alimenti gustosi e interessanti: in particolare l'avocado, di cui esistono coltivazioni perfino in Sicilia, e la papaia.

Il primo contiene dal 10 al 30% di grassi, prevalentemente monoinsaturi come quelli dell'olio di oliva. Proprio a questi deve il suo gusto cremoso e gradevole. Ottimo in insalata, nelle zuppe, nelle salse e nei dolci, l'avocado può costituire anche uno spuntino sano: infatti è nutriente e saziante, ricco di vitamine e minerali (tra cui potassio, calcio e ferro). Contiene poi fibre e pochi zuccheri. È un frutto amico del sistema nervoso, nemico delle infezioni intestinali e del colesterolo.

Per gustarlo al meglio occorre scegliere esemplari maturi, riconoscibili perché al tatto risultano morbidissimi e perché la buccia è scura. Dopo averlo sbucciato spruzzatelo con succo di limone, perché annerisce subito. E non scartate la buccia: passata sulla pelle, la rende morbida ed elastica. Interessante anche il profilo della papaia, un vero e proprio alleato dello stomaco. Infatti contiene un enzima che facilita la digestione delle proteine ed è anche in grado di calmare i bruciori di stomaco. Ma non solo di stomaco si occupa questo frutto, capace di disintossicare e sfiammare l'organismo – è infatti ricco di antiossidanti.

La papaia è anche versatile in cucina. Buona per colazione, con una spruzzata di limone o frullata; buona anche a fine pasto, perché come detto favorisce la digestione. Il frutto acerbo, con la buccia giallo-verde (negli esemplari maturi la scorza è aranciata) è invece gustoso in insalata. I neri semi interni sono commestibili ma sono piuttosto piccanti e solitamente vengono scartati. La buccia può essere spalmata sulla pelle, proprio come abbiamo visto per l'avocado. Da scartare invece assolutamente foglie e steli, se vi capitasse di trovarli.
Giuliana Lomazzi, da Famiglia Cristiana

mercoledì 11 maggio 2011


L’esercito dei freelance
di Vittorio Longhi, da Repubblica

Il lavoro sta cambiando, è noto.
Nei paesi industrializzati si trasformano i lavori e i lavoratori, assumendo in modo sempre più dinamico nuove forme e identità, che non necessariamente però corrispondono a condizioni economiche e di vita migliori.

Quello che cresce, in particolare, è il lavoro autonomo legato all’economia della conoscenza, alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ma anche alla continua esternalizzazione dei servizi. È il cosiddetto “terziario avanzato di seconda generazione”, se con “prima generazione” si intende il lavoro delle professioni, degli albi e degli ordini.

Dal traduttore al webmaster, dal formatore all’organizzatore di eventi, dal giornalista al consulente informatico, sono tutti lavori necessariamente flessibili e ad alto contenuto intellettuale e creativo. Tutti parte, comunque, della grande famiglia dei freelance, che abbiamo la partita Iva o un contratto di collaborazione a progetto.

Si tratta di una categoria che le organizzazioni sindacali ancora fanno fatica a rappresentare, se non addirittura a comprendere nella rapida, costante evoluzione. D’altra parte, spesso si tratta di lavori che solo formalmente risultano autonomi e flessibili, perché di fatto sono dipendenti camuffati, pagati poco e con contratti precari. Si stima che questi ultimi, tra contratti a tempo determinato, cocopro e partite Iva, oggi siano circa 4 milioni in Italia.

In occasione del Primo Maggio, il linguista Noam Chomsky ha scritto sul sito Truthout un editoriale dal titolo L’attacco internazionale al lavoro:  “Il termine “precarietà”, coniato dagli attivisti italiani, all’inizio si riferiva alla precarietà esistenziale dei lavoratori ai margini, come le donne, i giovani e gli immigrati”.  In seguito, secondo Chomsky, l’applicazione del termine si è estesa a una condizione di precarietà crescente per la base della forza lavoro, che subisce progressivamente la desindcalizzazione, la flessibilizzazione e la deregolamentazione.

In ogni caso, la novità è che l’esercito dei nuovi professionisti comincia a sentire il bisogno di muoversi per “rivendicare collettivamente ” – tanto per usare un’espressione fordista – tutele e garanzie, quelle contrattuali così come quelle previdenziali, ad esempio. Sono per lo più giovani, molto qualificati ma con poca esperienza e con pochi contatti, anzi spesso isolati e in competizione tra loro, che però oggi sentono il bisogno – detto in chiave post-fordista – di creare coalizioni, di attivare reti.

Nascono così le prime associazioni e organizzazioni. Un buon esempio in Italia è Acta, Associazione consulenti terziario avanzato, che proprio oggi a Roma presenta il Manifesto. “È un nuovo programma per il riconoscimento del valore del lavoro professionale in Italia – si legge nella presentazione – e intende incentivare e rinforzare la coalizione tra chi non gode oggi di un’adeguata rappresentanza sociale”.

L’esperienza di Acta e delle altre associazioni nate in paesi ad alta intensità di lavoro autonomo – come Stati Uniti e Regno Unito – è illustrata nel saggio appena uscito “Vita da freelance” di Sergio Bologna e Dario Banfi, con una ben documentata analisi delle dinamiche che queste professioni stanno seguendo.

Dal testo emerge con chiarezza anche il ritardo della giurisprudenza italiana. “È necessario portare questi lavoratori nella maglie del diritto del lavoro, sottraendoli alla pura esposizione verso il diritto commerciale. I freelance non sono merce, sono sono imprenditori o capitalisti… sono lavoratori”, scrivono Bologna e Banfi. Dunque, aggiungiamo, hanno diritto a condizioni di lavoro dignitoso, per come lo intendono anche le norme internazionali.

In effetti, per quanto inedite nella forma, le condizioni di lavoro autonomo avanzato, specialmente quando questo è frutto di esternalizzazione, non sembrano poi tanto innovative nella sostanza.

“Nel cosiddetto lavoro a domicilio questo sfruttamento diventa più spudorato che nella manifattura, perché la capacità di resistenza degli operai diminuisce quando sono dispersi (…) perché cresce la irregolarità dell’occupazione e perché la concorrenza fra operai arriva di necessità al massimo”. Lo scriveva nel 1867 Karl Marx, nel libro I del Capitale.

Vincenzo Ruggiero è decaduto dalla carica di Consigliere regionale

Vincenzo Ruggiero è decaduto dalla carica di Consigliere regionale

Dl sviluppo: piano arenili e Autorità dell'acqua
Il provvedimento approvato in Cdm contiene alcune novità anche per il settore ambientale. Legambiente denuncia la deregulation pericolosa per il nostro paese

Segnaliamo alcune delle novità contenute nella bozza del decreto sviluppo approvata nella seduta del 6 Maggio in Consiglio dei ministri.

Arriva l'Autorità dell'Acqua: arriva l'Agenzia nazionale per la regolazione e la vigilanza in materia di acqua, organismo indipendente a tutela dei cittadini utenti, con compiti di regolazione del mercato. "Un modo per depotenziare il referendum" dicono i promotori

"L’organismo, sarà autonomo, di nomina parlamentare con maggioranza qualificata dei 2/3, e raccoglierà ampliandola e perfezionandola l’eredità della Commissione “Conviri” che finora ha ben operato presso il Ministero dell’Ambiente - ha spiegato poi il Ministro Prestigiacomo - .

“In un sistema moderno di governance delle risorse idriche in cui la proprietà del bene-acqua resta inequivocabilmente pubblica e dove, già da anni, operano e opereranno sempre più i privati, anche con aziende quotate in borsa – rileva ancora Stefania Prestigiacomo, - era necessario completare la riforma creando un organismo di controllo forte.

Ci saranno più garanzie per cittadini e per l’ambiente, più poteri regolatori sulle tariffe e sanzionatori per perseguire ogni possibile abuso. Essenziale anche l’autonomia da altri organismi similari, perché la gestione dell’acqua non è solo una questione di mercato, ma deve coniugare, anche culturalmente, l’aspetto economico e l’aspetto ambientale, entrambi fondamentali e meritevoli di tutele specifiche».

Piano Casa: Si potrà ampliare casa del 20%.
Scia: Si introduce il silenzio-assenso per semplificare la 'Scia' con la sola eccezione degli immobili nei centri storici.
Bonus 36% e 55%: Inoltre per ottenere gli sgravi per lavori di ristrutturazione (36%) o per il bonus energia (55%) non sarà più necessario comunicare all'Agenzia delle Entrate l'avvio della procedura.

Piano Arenili: Arriva il "diritto di superficie" per gli arenili che durerà 90 anni e potrà riguardare anche "aree già occupate lungo le coste da edificazioni esistenti, aventi qualunque destinazione d'uso in atto alla data in vigore del presente atto, ancorché realizzate su spiaggia, arenile ovvero scogliera".
Il diritto si consolida con il pagamento annuale di un corrispettivo all'agenzia del Demanio "sulla base di valori di mercato" e anche l'accatastamento delle edificazioni.
Gli immobili costruiti dopo saranno abbattuti e il costo ricadrà su chi li ha costruiti. Rimane il diritto al raggiungimento della spiaggia.

Appalti: "Le società pubbliche partecipate da enti territoriali non possono prendere parte ai bandi di finanziamento dei propri azionisti, diretti o indiretti". In caso di violazione di queste disposizioni, le imprese beneficiarie sono tenute alla restituzione del finanziamento erogato".
Sale da 500.000 a 1 milione di euro la soglia per gli appalti di lavori pubblici senza bando di gara. Gli appalti potranno così essere affidati con procedure negoziate.
Snellimento delle procedure per gli appalti pubblici: introduzione delle percentuali fisse per le opere compensative, viene introdotto un tetto del 20% anche ai maggiori costi intervenuti e alle varianti in corso d'opera.

Parole dure di commento sono giunte da Legambiente. “Mai avremmo potuto immaginare di raggiungere un punto così in basso. Il Belpaese smembrato e devastato dal cemento, in mano alla criminalità e agli speculatori con l’avallo del Governo” - ha commentato Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale di Legambiente.

“La deregulation totale introdotta con il nuovo Piano casa – ha continuato Cogliati Dezza – con l’autocertificazione per tutte le nuove costruzioni e col passaggio dalla Dia alla Scia e i vari premi in cubatura,condannano il nostro Paese alla devastazione e all’affermazione delle leggi tribali dove il più forte, in questo caso il più ricco e spregiudicato, vince su tutti e fa quel che vuole del patrimonio comune.

"Principio confermato anche dall’articolo sul diritto di superficie delle spiagge -  incalza il presidente dell'associazione ambientalista - , che, in modo totalmente illogico e anacronistico, di fatto privatizza il patrimonio costiero cedendolo a pochi soggetti più ricchi a scapito dell’intera cittadinanza cui viene alienato il diritto di usufruire liberamente del territorio e delle parti più preziose del nostro paesaggio”.

"Il dl sviluppo approvato oggi, oltretutto, va in tutt’altra direzione rispetto all’Europa che da tempo, ci invita a indire regolari gare per le concessioni demaniali e, invece di ripensare ai motivi del fallimento del precedente Piano casa, introduce ulteriore deregulation. Tutto ciò, nel paese dell’abusivismo edilizio, dell’edilizia di bassa qualità e del lavoro nero".

“Ci appelliamo ai costruttori – ha concluso Cogliati Dezza – e all’Ance in primis, affinché si dissocino da questo ‘Dl sottosviluppo’ che non va nemmeno nell’interesse dei costruttori onesti ma solo degli abusivi e degli speculatori”.

Fonti: Ansa, Ministero dell'Ambiente e della tutela del territorio e del mare e Legambiente

Rabindranath Tagore
Oggi è il giorno di Tagore, uno dei miei poeti preferiti.
Scrittore, poeta, drammaturgo e filosofo indiano nacque a Calcutta nel 1861 da una famiglia nobile, illustre anche per tradizioni culturali e spirituali. Il padre si occupò della sua educazione, gli insegnò il sanscrito (lingua indiana, ha lo stesso ruolo che il latino e il greco hanno per gli europei) e l'inglese, l'accompagnò a Santiniketon, un ritiro religioso da lui fondato. Nella casa del poeta a Jorasanko era vissuta sin dall'età di otto anni, secondo il costume indiano per le spose, Kadambari, la cognata, donna di grande cultura e bellezza. Gli era cresciuta vicino ed era la sua compagna di giochi. Si suicidò quando il poeta, obbedendo all'imposizione del padre, accettò di trasferirsi in un'altra abitazione. Gesto disperato e provocatorio, del tutto incomprensibile per la mentalità e la religiosità induista. Per tutta la vita il poeta porterà il dolore e il  rimpianto di questa perdita, sentendosene responsabile. Nel 1874 morì la madre; anche questo dolore incise, in maniera ancora più forte, sulla sensibilità del poeta. Il suo primo libro, una collezione di poesie, fu pubblicato quando aveva 17 anni. Nel 1877 fu inviato a studiare in Inghilterra, dove rimase tre anni e dove anglicizzò il proprio cognome (Thakur). Qui ebbe i primi contatti con la cultura occidentale. Tornato in patria, raccolse i frutti dell’esperienza europea nelle Lettere di un viaggiatore in Europa (1881) e diede i primi saggi delle sue doti di poeta nei drammi musicali Il genio di Valmiki e Caccia tragica (1881) e nelle liriche Canti del mattino e Canti della sera (1882-1883). Negli anni che seguirono scrisse fra l’altro numerosi drammi, tra cui Citra (1892), considerato il suo capolavoro.
La moglie Mrnalini, gli diede cinque figli, ma muore a soli ventinove anni. Una serie di lutti da questo momento segna profondamente l'esistenza del grande sognatore: muoiono due figli piccoli, il padre ed il segretario,  amato come un famigliare.
Dalla personale esperienza d'amore e di dolore Tagore lascia sgorgare le stupende liriche che hanno nutrito la mente ed il cuore di generazioni di lettori, anche occidentali. Nel 1901 creò presso Bolpur, a 100 chilometri da Calcutta, una scuola in cui diede realizzazione pratica ai suoi ideali pedagogici: gli alunni vivevano liberamente, a immediato contatto con la natura, e le lezioni consistevano in conversazioni all’aperto, al modo dell’ India antica. Lo stesso Tagore vi tenne conferenze di natura filosofico-religiosa, una scelta delle quali pubblicò nel volume Sadhana. La realizzazione della vita(1913). Frattanto la sua fama, grandissima in India, aveva cominciato a penetrare anche in Europa, grazie alla traduzione in inglese, da lui stesso compiuta, delle raccolte di liriche Gitanjali (Offerte di canti, 1912), La luna crescente e Il giardiniere(1913), che attirarono fra l’altro l’attenzione di W.B.Yeats e di Ezra Pound. Nel 1913 gli fu conferito il premio Nobel per la letteratura. Nel 1917 pubblicò la sua autobiografia, Ricordi di vita.  La sua produzione letteraria, ancora non riunita in un'unica collezione, riempì 26 grossi volumi. La sua canzone Our Golden Bengal (Il nostro Bengal d'oro) divenne l'inno nazionale del Bangladesh. Nel 1921, inaugurò "Bisso Bharoti" che era stato formato da una scuola, un college, un centro di ricerche, una scuola d'arte e di musica, una biblioteca di 36.000 volumi in tutte le lingue.                        
Leggendo le poesie di Tagore si trovano continui riferimenti alla cultura, alle tradizioni ed ai costumi orientali, particolarmente indiani. Piccoli grandi momenti della vita quotidiana soffusi di armonia nella poesia intensamente appassionata eppur così delicata di Tagore. Il pensiero religioso-filosofico di Tagore, espresso sistematematicamente soprattutto in Sadhana, ma che sta alla base di tutte le sue opere, è un panteismo mistico che ha le sue radici nelleUpanisad, ma che non è esente da qualche influsso cristiano. Il mondo è, secondo Tagore, manifestazione dell’universale nel particolare: e l’armonia che regna nell’universo egli vuol riprodurre nella sua lirica, che è prima di tutto perfetta e sottile musicalità e che, nella sua fase più matura (Gitanjali), diviene canto gioioso in lode di dio, gioioso ritrovamento dell’assoluto attraverso la strada invisibile dell’intuizione. Tagore usò sempre la lingua bengali, che seppe adattare alle sue multiformi esigenze espressive (da quelle della poesia a quelle della narrativa e della saggistica), svincolandola definitivamente dal sanscrito.
La visione di Tagore della donna, che nel nostro tempo potrebbe apparire quasi negazione al suo diritto di realizzarsi come persona, è invece rivelazione. Per Tagore la donna era portatrice dell'energia vitale che distribuisce vita ed armonia alla famiglia, portatrice e custode della "luce", ella stessa è luce. La donna, nella sua capacità precipua di curare, alleviare, consolare, accudire, amare, svolgendo la sua missione, realizza completamente la vita. Essa ama, cura, accarezza "l'altro"… i suoi cari, le sue piante, i suoi animali con tenerezza e dedizione. Questa immagine di perfezione e di gioia vive nell'animo di Tagore, grande "sapiente" in questo come in ogni altro aspetto dell'esistenza, per tutta la sua vita come fiaccola viva che lo illumina,  suscita ed alimenta in lui il desiderio di migliorare spingendolo a perseguire un ideale di verità realizzato nella semplicità della fede vissuta, della devozione illuminata dall'amore. L'amore non è solo sentimento, ma Persona, è Dio stesso e a lui, l'amante eterno, che incessantemente chiama a sé uomini e donne da ogni sconfinata solitudine, è non solo possibile, ma giusto chiedere sollievo, è naturale ricevere conforto, è infinita e assoluta realtà senza la quale la vita non avrebbe alcun senso, e per questo l'amore stesso prega e diviene preghiera.
Tagore fu il poeta della nuova India, moderna e indipendente, per la quale lottò non solo con le sue opere e con le sue iniziative di carattere sociale, ma anche con il suo fiero comportamento politico. Scrittore di brani musicali, si occupò anche della danza indiana e di pittura riscuotendo notevole successo sia a New York che in Europa. Grande come poeta lirico, il cui pensiero, ispirato ad alti concetti filosofici e religiosi, lo pone tra i più grandi poeti mistici del mondo. Uno degli incontri più celebri di Tagore fu con Einstein nel 1930. Nel 1931, espose in Europa e negli Stati Uniti le sue pitture, rivelando un mondo sorprendente, un aspetto nuovo nella sua personalità. Tagore fu politicamente attivo in India: appoggiò Gandhi, ma avvertì alcuni pericoli nel pensiero nazionalista. Mentre Gandhi, con la disobbedienza civile, organizzò il nazionalismo indiano sino a ricacciare in mare gli inglesi, Tagore si propose di conciliare e integrare Oriente ed Occidente. Opera difficile, cui egli era preparato dall'esempio di suo nonno che nel 1928, fondando il Sodalizio dei credenti in Dio, integrò il monoteismo cristiano ed il politeismo induista. Tagore morì a Santi Niketan, Bolpur, nel 1941.
Alcune delle sue tante poesie:

DAMMI LA FORZA

Di questo ti prego, Signore:
colpisci, colpisci alla radice
la miseria che è nel mio cuore.
Dammi la forza di sopportare
serenamente gioie e dolori.
Dammi la forza
di rendere il mio amore
utile e fecondo al tuo servizio.
Dammi la forza
di non rinnegare mai il povero,
di non piegare le ginocchia
davanti all'insolenza dei potenti.
Dammi la forza
di elevare il pensiero
sopra le meschinità
della vita di ogni giorno.
Dammi la forza
di arrendere con amore
la mia forza alla tua volontà.

 
Preghiera d'Amore

Dammi il supremo conforto dell'amore,
questa è la mia preghiera.
Il conforto che mi permetterà di parlare,
agire, soffrire secondo la tua volontà,
e di abbandonare ogni cosa per non essere
lasciato a me stesso.
Fortificami nei pericoli, onorami con la tua sofferenza
aiutami a percorrere i cammini difficili
del sacrificio quotidiano.
Dammi la suprema confidenza dell'amore,
questa è la mia preghiera.
La confidenza nella vita che sfida la morte,
che cambia la debolezza in forza,
la sconfitta in vittoria.
Innalzami, perché la mia dignità, accettando l'offesa,
disdegni di renderla.


Ogni Alba..

Ogni Alba porta un nuovo giorno,
lavando con la luce della speranza
le macchie e la polvere dello spirito
vuoto di ogni giorno passato.
Vuoi celare te stesso!
Il cuore non ubbidisce,
diffonde luce dagli occhi.
Nella vita non c’è speranza
di evitare il dolore:
che tu possa trovare nell'animo
la forza per sopportarlo.
Cieco, non sai che l'andare e il venire
camminano sulla stessa strada?
Se sbarri la strada all'andata
perdi la speranza del ritorno...
------------

...Alba, vieni in silenzio,
e porta lontano dal cielo
il velo della notte
Vita, porta lontano dal cuore
il velo esterno del boccio.
Mente, svegliati,porta lontano
il pesante ostacolo dell’inerzia.
Animo, porta lontano
il velo dell’illusione,
dalla pallida intelligenza.

Colsi il tuo fiore...

Colsi il tuo fiore, oh cielo !
Lo strinsi al cuore
e la spina mi punse.
Quando il giorno svani' e si fece buio,
scopersi che il fiore era appassito
ma il dolore era rimasto.

Altri fiori verranno a te,
con profumo e con fasto, oh cielo !
Ma per me e' passato
i l tempo di cogliere fiori;
nella notte buia non ho piu' la mia rosa,
solo il dolore e' rimasto


Qui è il tuo sgabello

Qui è il tuo sgabello
e qui riposa i tuoi piedi
dove vivono i più poveri,
i più umili, i perduti.
Quando a te io cerco d'inchinarmi,
la mia riverenza non riesce ad arrivare
tanto in basso dove i tuoi piedi
riposano tra i più poveri,
i più umili, i perduti.
L'orgoglio non si può accostare
dove tu cammini, indossando
le vesti dei più poveri,
dei più umili e dei perduti.
Il mio cuore non riesce a trovare
la strada per scendere laggiù
dove tu ti accompagni a coloro che non hanno
compagni, tra i più poveri,
i più umili, e i perduti.


A lungo durerà il mio viaggio

A lungo durerà il mio viaggio
e lunga è la via da percorrere.
Uscii sul mio carro ai primi albori
del giorno, e proseguii il mio viaggio
attraverso i deserti del mondo
lasciai la mia traccia
su molte stelle e pianeti.
Sono le vie più remote
che portano più vicino a te stesso;
è con lo studio più arduo che si ottiene
la semplicità d'una melodia.
Il viandante deve bussare
a molte porte straniere
per arrivare alla sua,
e bisogna viaggiare
per tutti i mondi esteriori
per giungere infine al sacrario
più segreto all'interno del cuore.
I miei occhi vagarono lontano
prima che li chiudessi dicendo: «Eccoti!»
Il grido e la domanda: «Dove?»
si sciolgono nelle lacrime
di mille fiumi e inondano il mondo
con la certezza: « lo sono! »


Voglio te,solo te!
Lascia che il mio cuore
lo ripeta senza fine.

Tutti i desideri che mi distraggono
di giorno e di notte
in sostanza sono fasulli e vani.

Come la notte tiene nascosta nel buio
l'ansia di luce
così nel profondo del mio cuore
senza ch'io me ne renda conto
un grido risuona:
Voglio te,solo te!

Come la tempesta cerca la quiete
mentre ancora lotta contro la quiete
con tutte le sue forze
così io mi ribello e lotto
contro il tuo amore
ma grido che voglio te,solo te.



Credevo che il mio viaggio
fosse giunto alla fine
mancandomi oramai le forze.
Credevo che la strada
davanti a me
fosse chiusa
e le provviste esaurite.
Credevo che fosse giunto
il tempo
di trovare riposo
in una oscurità pregna
di silenzio.
Scopro invece che i tuoi
progetti
per me non sono finiti
e quando le parole ormai
vecchie
muoiono sulle mie labbra
nuove melodie nascono dal
cuore;
e dove ho perduto le tracce
dei vecchi sentieri
un nuovo paese mi si apre
con tutte le sue meraviglie.

-Da Gitanjali –


Vorrei sedermi vicino a te in silenzio,
ma non ne ho il coraggio: temo che
il mio cuore mi salga alle labbra.
Ecco perche' parlo stupidamente e nascondo
il mio cuore dietro le parole.
Tratto crudelmente il mio dolore per paura
che tu faccia lo stesso.


Afferro le sue mani
e la stringo al mio petto.
Tento di riempire le mie braccia
della sua bellezza,
di depredare con i baci
il suo dolce sorriso,
di bere i suoi bruni sguardi
con i miei occhi.
Ma dov'è?
Chi può spremere l'azzurro dal cielo?

Cerco di afferrare la bellezza;
essa mi elude
lasciando soltanto il corpo
nelle mie mani.
Stanco e frustrato mi ritraggo.
Come può il corpo toccare
il fiore che soltanto
lo spirito riesce a sfiorare?



Chi sei tu, lettore che leggi
le mie parole tra un centinaio d'anni?
Non posso inviarti un solo fiore
della ricchezza di questa primavera,
una sola striatura d'oro
delle nubi lontane.
Apri le porte e guardati intorno.
Dal tuo giardino in fiore cogli
i ricordi fragranti dei fiori svaniti
un centinaio d'anno fa.
Nella gioia del tuo cuore possa tu sentire
la gioia vivente che cantò
in un mattino di primavera,
mandando la sua voce lieta
attraverso un centinaio d'anni.


La coppa della mia vita
trabocca del miele con cui
l'hai riempita.

Tu non lo sai, tu non lo sai.

Come il fiore che, nascosto,
innonda la notte di profumo,
hai colmato il mio cuore.

Tu non lo sai, tu non lo sai.

E' giunto il momento
di separarci. Solleva il tuo
bel viso e guardami;
morendo a me stesso offrirò
ai tuoi piedi la mia vita che
non hai conosciuto.

Possa la silenziosa sera
di segreto dolore,
finire in quest'ora notturna!

- da Passando all'altra riva -

"Vorrei dirti le parole più vere, ma non oso,
per paura che tu rida. Ecco perché mento,
dicendo il contrario di quello che penso.
Rendo assurdo il mio dolore per paura
che tu faccia lo stesso."


Il cuore dell'uomo

Il pesce è muto nel mare,
la bestia è turbolenta sulla terra,
l'uccello canta per l'aria.
Ma l'uomo ha dentro di sé
e il silenzio del mare
e lo strepito della terra
e la musica dell'aria.


O stolto, che cerchi

O stolto, che cerchi di portare
te stesso sulle tue spalle!
Mendicante, che vieni a mendicare
alla porta della tua casa!

Deponi ogni fardello in queste mani
che tutto sanno sopportare,
non voltarti mai indietro a guardare
il passato, con rimpianto.

Il desiderio subito spegne
la fiamma d'ogni lampada che sfiora.
E' empio - non prendere doni
dalle sue mani impure.
Accetta soltanto
quello ch'è offerto dall'amore.









Guadagni e perdite
di Julio Cortazar

Riprendo a mentire con grazia,
mi chino rispettoso allo specchio
che riflette il mio collo e la cravatta.
Credo d’essere questo signore che esce
tutti i giorni alle nove.

Gli dei sono morti uno a uno in lunghe file
di carta e cartone.
Niente mi manca, neppure tu
mi manchi. Sento un buco, però è facile
un tamburo: pelle ai due lati.
A volte torni la sera, quando leggo
cose che tranquillizzano: bollettini,
il dollaro e la sterlina, i dibattiti
delle Nazioni Unite. Mi sembra

che la tua mano mi pettina. Non sento la tua mancanza!
Solo cose minute all’improvviso mi mancano
e vorrei ricercarle: la contentezza
e il sorriso, questo animaletto furtivo
che ormai non vive più fra le mie labbra.


(tratto da:”Le ragioni della collera” Edizioni Farenheit 451, 1995, Roma; traduzione di Gianni Toti)

martedì 10 maggio 2011

E l'Italiano scopre la passione per il seggio!


laricca, tra i comuni più poveri d'Italia, porta un nome che è una beffa. Di una cosa però è ricca davvero: di candidati. Che grondano da 24 liste come i grappoli di glicine ad aprile: sono 378. Uno ogni 80 abitanti. Un primato planetario. Ma dentro una patologia che riguarda tutta l'Italia. Cala il tessile, boccheggia il chimico, arranca il metalmeccanico e fatica l'automobilistico ma il settore della politica non conosce cali di produzione. Lo conferma un'inchiesta del Sole 24 Ore.
L'inchiesta spiega: «Soltanto nei 30 capoluoghi di provincia pronti al rinnovo dei consigli municipali, se si mettono in fila tutti i nomi che compaiono sui manifesti elettorali si arriva alla cifra di 20 mila candidature».

Un delirio. A Torino, come ha scritto Marco Imarisio sul Corriere, hanno impiegato due settimane per concentrare in una sola scheda i nomi dei 12 aspiranti sindaci e delle 37 liste che li sostengono e raccolgono complessivamente 1.500 candidati al consiglio comunale.
Per non dire degli altri 4.500 in corsa per le dieci circoscrizioni cittadine. Misura della scheda: 64 centimetri. Se sotto la Mole pensano d'aver fatto il record, però, si rassegnino: quello resta nelle mani di Messina. Dove alle comunali del dicembre 2005 si candidarono sotto 41 simboli la bellezza di 1.755 cittadini, tra cui 111 medici e il popolarissimo barista del «caffè 'ddu pappajaddu» Pippo Famulari più un'affamata orda di aspiranti consiglieri circoscrizionali. Il che costrinse la tipografia a stampare un lenzuolo elettorale mai visto nella storia: 97,5 centimetri di larghezza, 48,3 centimetri di altezza.
Dice tuttavia l'inchiesta del Sole che, nonostante il taglio dei seggi in palio nelle 11 province (264 invece di 328: 64 in meno) e nei comuni capoluogo in cui si vota (1.032 scranni invece di 1226: 194 in meno) il numero delle liste è aumentato, rispetto a cinque anni fa, del 13%. Arrivando a una quota mostruosa: 629 simboli. Tra i quali alcuni strabilianti. Come quello che troveranno sulla scheda gli elettori di Oria, provincia di Brindisi: il simbolo delle Persone Indipendenti Libere Unite.
In sintesi: Pilu.

Se quel genio di Antonio Albanese deciderà di dar battaglia in tribunale per difendere (come provocazione, si capisce) il copyright del «suo» partito, si vedrà. Certo è che il candidato sindaco di Oria impadronitosi della stralunata creatura di Cetto Laqualunque, cioè il poliziotto in pensione Francesco Arpa (memorabile il suo messaggio: «Arpa sindaco: tutta un'altra musica») è andato oltre.
E ha proposto slogan d'inarrivabile demenza. Un esempio: «Ti piace il P.I.L.U.? Dimostralo: vota Arpa sindaco!». Un altro? «Lista Pilu, che figata!». Parole che resteranno scolpite a ricordare come la lotta politica in Italia, dopo gli scontri epocali del passato tra democristiani e comunisti, abbia preso davvero una brutta china.

Il guaio è che sono rarissimi i Maradona nel calcio, rarissimi i Carreras nella lirica, rarissimi i Fellini nel cinema. Più ancora, rarissimi gli statisti. E più allarghi il numero dei calciatori, dei cantanti d'opera o dei cineasti più, fatalmente, abbassi il loro livello. Con una differenza: i mediocri negli altri settori vengono spietatamente eliminati, in politica no. Anzi, il mediocre fedele, obbediente, disposto a tutto pur di avere un seggio, una poltrona, uno strapuntino, viene sempre più preferito a chi palesa un briciolo di spirito critico.

Spiega lo studio Il mercato del lavoro dei politici di Antonio Merlo della University of Pennsylvania, Vincenzo Galasso della Bocconi, Massimiliano Landi della Singapore Management University e Andrea Mattozzi del California Institute of Technology, studio elaborato sui dati di tutti i parlamentari italiani dal 1948 al 2007, che «la percentuale dei nuovi eletti in possesso di una laurea è significativamente diminuita nel corso del tempo: dal 91,4% nella prima Legislatura, al 64,6% all'inizio della quindicesima. Un crollo di 27 punti». In America, per fare un paragone, i laureati in Parlamento sono invece saliti al 94%. Trenta punti sopra di noi.

Va da sé che quando gli inviati de Le Iene vanno a mettere il microfono sotto il naso dei nostri deputati e dei nostri senatori raccolgono le risposte che conosciamo e che hanno fatto ridere l'Italia: «Che cos'è Al Jazeera?» «Lei cosa pensa che sia... È un movimento dell'estremo... arabo... di carattere islamico, della Jihad... Così mi ricordo, almeno». «Che cos'è il Darfur?». «Sono cose fatte in fretta. Sono cose velocissime...». Per non dire degli strafalcioni su Garibaldi, l'incontro di Teano, Porta Pia... C'è poi da stupirsi se, visto il livello bassissimo di alcuni dei nostri rappresentanti incredibilmente finiti a Montecitorio o a palazzo Madama, una gran massa di persone cerca di uscire dalla propria condizione plebea per dare la scalata alla politica? Non è desiderio di partecipazione democratica: è una febbre di scalata sociale. «Se ce l'ha fatta lui: perché non noi?». Se non ci fossero, in questa turbolenta calca di assatanati, 1300 candidati nella sola Campania sotto osservazione da parte della polizia e dei carabinieri per gli ambigui rapporti con la criminalità organizzata (un candidato su cinque, circa) ci sarebbe da sorridere. Se non ci fossero personaggi come Ciro Caravà, che dopo essere stato candidato alle ultime Regionali nella lista di Anna Finocchiaro, cerca di essere rieletto sindaco di Campobello di Mazara spiegando agli elettori (lo ha scritto su Marsala.it Giacomo di Girolamo) di aver trovato un codicillo del 1971 che gli consentirà di non abbattere mille case abusive destinate alla demolizione, ci sarebbe davvero da sorridere.

I manifesti affissi sui muri sono spesso irresistibili. Alberto Astolfi, in canottiera marinara, declama a Rimini: «Ho sempre remato per la mia città». Paolo Farina si presenta come «un casertano con il verde in testa» e dalla crapa pelata nello spot gli spuntano foglie. Maria Grazia Bafaro spara grande grande una scarpa rossa col tacco a spillo che diventa una penna: «Donna pensante di sinistra». Antonio Gallina, candidato alle Comunali di Terrasini, schiera tre uova: «Gallina sindaco: schiudi il tuo domani». E insomma si buttano tutti in messaggi così strambi, eccessivi o deliranti che alla fine quasi non ti accorgi che sui muri di Bologna ci sono i manifesti anche di un gorilla con la cazzuola: «Un sindaco muratore per ricostruire la giungla banana su banana». Tranquilli, è una provocazione: non è candidato. Almeno lui, no.

di Gian Antonio Stella , dal Corriere
10 maggio 2011

L'Italia che resiste!


di ARRIGO LEVI, dalla "Stampa"

Ma l’Italia, cos’è? Immagini dell’Italia diverse, anzi contraddittorie, mi sono state proposte, per una serie di casuali coincidenze, in questi ultimi giorni. Mi è accaduto di rivivere al Quirinale le giornate tremende dell’assalto delle Br al «nostro Stato».

Ho ritrovato nei discorsi pronunciati dai figli di alcuni dei giudici che furono tra le vittime della violenza terroristica, come nella riflessione del Capo dello Stato, mosso a commozione dai ricordi, quell’istintivo orgoglio che allora ci permise di dire con certezza, anche nei momenti più foschi, «non passeranno».

Il giorno prima avevo partecipato a Trieste ai funerali di Corrado Belci, già profugo istriano, creatore del «Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico», già deputato democristiano, che era stato, accanto a Zaccagnini, uno di quei politici d’una volta, motivati sempre e soltanto da ideali sinceri e senso del dovere, di cui oggi anche chi non ha mai votato Dc o Pci sente una pungente nostalgia. Belci era un cristiano vero, che non aveva mai odiato nessuno, che aveva sempre lavorato per la riconciliazione fra popoli già nemici, e che nel Collegio di Duino, con i suoi duecento studenti provenienti da ogni parte del mondo, aveva dato la sua risposta creativa alla sfida terribile del Ventesimo Secolo. C’eravamo, a dirgli addio, centinaia di amici: per sua volontà, la sua commemorazione non era affidata ad autorità o noti personaggi, ma solo alle sentite parole di un vecchio e solido vescovo, che aveva officiato una cerimonia semplice e intensa, con la forte partecipazione dei presenti. Intanto mi erano giunte da Torino telefonate spontaneamente entusiastiche di quelle che erano state le «giornate alpine» di questa nostra città (si perdoni l’aggettivo a un modenese che l’ha sentita decisamente sua in anni molto difficili, che avevano messo a dura prova - prova assai ben superata - la salda identità torinese). Persone di cui avevo sempre ammirato la piemontese compostezza ammettevano di avere ceduto a entusiastiche acclamazioni e di avere lanciato grida di «viva l’Italia» al passaggio di storiche bandiere di guerra.

E’ poi accaduto che sul «Corriere della Sera» un osservatore non ottimista per natura, ma sicuramente sincero, Ernesto Galli della Loggia, venisse indotto a riflettere sull’entusiasmo e lo spirito identitario forte degli Inglesi, in occasione di un matrimonio reale, e degli Americani, alla notizia che un capo terrorista e pluriassassino era stato rintracciato e giustiziato dopo una caccia durata anni. Confrontando con questi comportamenti di popoli forti della loro identità nazionale e democratica gli atteggiamenti distratti e annoiati che gli era accaduto di osservare, in Italia, in occasione anche di solenni funerali di Stato, l’amico Ernesto si trovava a riflettere, con una nota di sincero accoramento, sulla reale natura di un Paese, il nostro, che «fatica moltissimo a trovarsi unito in un sentire collettivo, che non poggia su alcun patrimonio ricevuto di ritualità e di forme pubbliche consacrate». E amaramente concludeva definendo l’Italia «un Paese senza identità».

Una consuetudine ormai pluriennale di pubbliche cerimonie, fino all’ultima che ho ricordato, non poche di esse fortemente partecipate e sicuramente sincere, mi consentiva di giudicare che il giudizio finale del professor Galli della Loggia fosse per lo meno eccessivo e un tantino pessimista. Mi ha poi ulteriormente confortato un De Rita come sempre assai concreto nei suoi giudizi, fondati su una insuperabile conoscenza dell’Italia di provincia, di quella società «che evolve, che non diventa mai una sola, omogenea, coesa» ma che vive questa sua complessità come «una forza, non una debolezza»: una società «che resiste, una società solida, fondata sulla piccola impresa, sul sommerso, su famiglie strutturate, con un patrimonio immobiliare che è il più alto al mondo». Un’Italia che ho ben conosciuto, e di cui posso garantire l’esistenza, sulla base di un «viaggio in Italia» che mi ha portato, nel corso di alcuni anni, in tutte le province italiane, nessuna esclusa, insieme a due Presidenti.

Si potrà dire che questa «Italia che resiste» può ben essere reale, come l’Italia sinceramente patriottica di Torino, o quella profondamente cristiana di cui ho avuto testimonianza a Trieste, ma che l’una e l’altra possono coesistere con «l’Italia senza identità», e che alla fin fine la definizione migliore dell’Italia può essere, a scelta, quella di un Paese che tutto sommato non è da buttare, o quella di un’Italia insieme di meravigliose contraddizioni.

Ma, suvvia, forse non sono altrettanto ricche di contraddizioni anche quelle democrazie esemplari di cui si diceva all’inizio, certo non prive di tensioni e spaccature interne profonde, nella loro storia ma anche nel presente? Io ho molto amato l’America, e ancor più un’Inghilterra in cui ho trascorso una parte non piccola della mia vita e che sento mia. Ma sono pur sempre ricondotto anzitutto alla convinzione che «un Paese non basta»; rimanendo egualmente convinto che questo Paese in particolare che mi è toccato in sorte, un po’ per caso e un po’ per scelta, è, come diceva Churchill della democrazia, il peggiore che esiste - meno tutti gli altri. Almeno così pare a me.


Per qualche voto in più!


di MARCELLO SORGI, dalla "Stampa"

Neppure la Giornata della Memoria dedicata dal Capo dello Stato ai magistrati vittime del terrorismo ha convinto Berlusconi a fermare la sua campagna contro i giudici. Anzi, a Milano per prendere parte a un’udienza del processo Mills, il Cavaliere ne ha approfittato per chiarire meglio il senso delle sue affermazioni.

Dunque, pieno rispetto per i magistrati caduti sotto il piombo delle Brigate rosse e delle altre formazioni terroristiche negli Anni Settanta e Ottanta, che il premier, davanti ai giornalisti, ha definito «eroi». E anche una chiara presa di distanza dai manifesti in cui si parlava di Br nelle procure. E ancora, parole di rispetto per il presidente Napolitano, dopo gli ultimi attriti relativi alla richiesta di un passaggio parlamentare dopo il rimpasto, che ha visto entrare nel governo deputati transfughi dall’opposizione.

Malgrado ciò Berlusconi non rinuncia alla sua campagna contro la procura di Milano (verso la quale, tra l’altro, a poca distanza da lui, la Santanchè ha lanciato attacchi irripetibili). Il premier insiste a presentarsi come la vittima numero uno di una persecuzione fin qui approdata a ben 24 processi, che lo hanno visto imputato e mai condannato (grazie anche, ma questo si guarda bene dal dirlo, alle numerose leggi ad personam che gli hanno consentito in alcuni casi di salvarsi con la prescrizione).

In realtà, dietro questa particolare contabilità giudiziaria c’è l’obiettivo del premier di focalizzare l’ultima settimana di campagna elettorale su Milano, che rappresenta la posta decisiva di tutta la tornata di amministrative, e in particolare sul potere della magistratura nella Capitale del Nord da cui partì quasi vent’anni fa Mani pulite. Sondaggi alla mano, Berlusconi è convinto che nel suo campo sia forte il timore di uno strapotere dei giudici, e che la coincidenza della ripresa dei processi e dei suoi lunedì in tribunale con la scadenza del voto renda ultrasensibili i suoi elettori a questi argomenti.

Di qui l’impostazione della campagna, non, o non esclusivamente, sullo scontro destra-sinistra o governo-opposizione, ma, appunto, sulla partita aperta con la magistratura e sul preteso potere dei giudici che giungerebbe a mettere in discussione il diritto dei cittadini a farsi governare da chi hanno scelto, e perfino degli imprenditori a muoversi in un regime di libera impresa. Argomento, quest’ultimo, che il premier ha sentito risuonare tra le file dei suoi ex colleghi specie dopo la sentenza sul caso Thyssen a Torino. E che ha subito messo a frutto in questi ultimi giorni di campagna in cui vuol far vestire ai giudici l’abito della vera, reale, opposizione.

Non abbiamo più tempo per vivere la nostra vita.


di Stefano Bolognini* Psicoanalista, presidente della Società psicoanalitica italiana
Mi telefona un collega da Madrid, e il discorso cade sulle polemiche italiane riguardo al 1°maggio: negozi chiusi o aperti? L’amico cade dalle nuvole; in Spagna - mi spiega - se il 1° maggio è una domenica, il lunedì viene reso automaticamente festivo, e nessuno ci trova da ridire. Per gli spagnoli è fuori discussione.

Al di là degli aspetti politici connessi, che spesso sono contingenti, giocati su base nazionale e difficilmente leggibili in contesti molto differenti, i miei pensieri evadono dalla politica (ma ci torneranno), per esplorare il senso della festa e del tempo ad essa collegato. Dunque: pare che «festa» (stessa radice latina di "feriae") derivi dal greco "estiào/festiào"=«accolgo ospitalmente», «festeggio banchettando»; e - ben più anticamente - dal sanscrito "vastya"=«casa, abitazione». La festa dunque nasceva con un riferimento al privato (la casa), reso condiviso con altri, di solito per celebrare tutti insieme qualcosa o qualcuno. In effetti, le feste religiose e civili hanno spesso mobilitato all’incontro grandi masse di persone, chiamate a celebrazioni e a riti collettivi. Eppure, si ha la sensazione che qualcosa sia profondamente cambiato rispetto al passato.

Si percepisce un certo contrasto con la massima aspirazione di molte persone al giorno d’oggi, che è quella di potersene stare finalmente tranquilli per conto proprio o al massimo con poche, selezionate persone (i propri cari, qualche amico). Rispetto agli antichi, viviamo in un’epoca di sovraffollamento e di iper-comunicazione: tra viaggi, cellulari, Skype, meeting e briefing, Ipod e Ipad, Facebook e compagnia cantante, l’individuo raggiunge presto il livello di saturazione sociale e da quel punto in poi non ne può più; desidera stare per conto suo. Ha bisogno della festa, certo; ma non nel senso di re-infilarsi nel gruppone per celebrare qualcosa o qualcuno, bensì per farsi in santa pace i fatti propri.

C’è un prototipo fisiologico di questo bisogno di base (tanto sano da essere letteralmente sacrosanto): è il bisogno universale di ritirarsi e di dormire. Le persone sane percepiscono e soddisfano periodicamente il desiderio di «ritiro» nel sonno: una condizione equivalente al ritorno allo stato intrauterino, con ritiro degli investimenti dalla realtà esterna e con l’avvio di quel naturale reset automatico che è il sognare, volto a digerire, a metabolizzare quello che si è incamerato durante il giorno nelle attività della veglia. È un bisogno ineludibile, che va rispettato: togliere artificialmente il sonno ( e dunque il sogno) agli individui (la cosiddetta «privazione ipnica») significa condurli progressivamente all’impazzimento programmato. In modo meno diretto e meno drammatico, sottrarre il tempo del riposo alle persone significa privarle della possibilità di lasciarsi andare – pur senza dormire – al piacere del funzionamento preconscio, tanto più accessibile quanto meno il soggetto è impegnato in attività che richiedono la sua piena partecipazione attentiva e operativa. Nei giorni di festa le persone si dedicano più facilmente a cose distensive e meno conflittuali; oltre a chi si dedica al dormire, c’è chi va a correre in bicicletta e chi zappa l’orto, chi legge un libro e chi va a trovare un amico, chi armeggia su un motore e chi sistema l’armadio o la cantina. Molto spesso la festa consente un certo grado – parziale – di regressione funzionale: si fanno cose che tengono abbastanza fuori gioco la parte professionale di sé; e i pensieri vanno un po’ per conto loro, fuori dai binari della operatività coatta e della performance competitiva.

Mi tornano in mente le vacanze dell’infanzia e della prima giovinezza, quando l’assenza della scuola (il nostro lavoro di bambini e di ragazzi) generava senza sforzo mattinate e pomeriggi senza tempo. Da piccoli si perdevano (o meglio, si guadagnavano) ore e ore a fare quello che ci pareva, astratti dalla realtà e assorti a leggere giornalini, giocare con le macchinine o i soldatini, correre per il cortile impersonando varie figure (cowboys o altri avventurieri) in base a copioni spontanei nati lì per lì, rudimentali ma del tutto soddisfacenti. Il tempo spariva, per ricomparire ufficialmente solo col richiamo della mamma per la cena.

Pure da ragazzini il tempo della festa era un «non-tempo»: le partite di calcio al campetto dell’oratorio erano interminabili, si andava avanti per ore ed ore fino allo sfinimento, con le formazioni che mutavano di tanto in tanto quando qualche genitore veniva a prelevare un attaccante o un difensore per imperscrutabili necessità famigliari, ma il collettivo non si fermava mai, perlomeno fino a che ci si vedeva. Il tempo era segnalato solo dall’arrivo del buio; e tutto ciò era formidabile. Cosa – ricordo benissimo - di cui eravamo consapevoli anche allora, e non solo adesso per rimpianto idealizzante postumo: eravamo immaturi, sì, ma non scemi. Anche il tempo della lettura (non quello dello studio!...), della lettura libera, nelle feste o nelle vacanze della giovinezza, era un tempo «senza tempo»: la full immersion in un romanzo ci faceva immedesimare con i protagonisti e con l’ambiente, e spesso i genitori si ritrovavano a cena con un ragazzo o una ragazza in stato di semi-trance, con gli occhi persi nella Russia di "Guerra e pace" o nel Borneo di Sandokan e Yanez.

Il preconscio «beveva» quelle storie con avidità assoluta, il preconscio creava e sognava, libero da doveri e da compiti precisi; e il resto del Sé introiettava, elaborava, costruiva silenziosamente; il bambino cresceva, il ragazzo evoluiva, in quelle sane e necessarie atmosfere regressive che anche le lingue straniere hanno connotato con espressioni culturalmente nobili e rispettose: «zeitlos», «timeless», «hors du temp», ecc.

Oggi noi soffriamo, a mio avviso, di una colossale turlupinatura propinataci dalla tecnologia: siamo nella malaugurata condizione di poter OTTIMIZZARE IL TEMPO. Grazie ai mezzi di comunicazione possiamo programmare ogni minuto del nostro tempo organizzandoci in modo da non avere tempi vuoti; possiamo predisporre incontri, attività e impegni a ritmo continuo, stipandoli a forza anche negli intervalli più intimi e privati. Non ci sono più i cosiddetti «tempi morti», ma il sospetto è che a volte quelli fossero i momenti più vivi e più aperti della nostra esistenza, al di fuori dell’imperativo frenetico «Produzione! Produzione! Produzione!» recitato persecutoriamente da Charlie Chaplin in "Tempi moderni.

Ora, per tornare alla politica (beninteso, nel senso dilettantesco e del tutto generico con cui posso farvi riferimento io, che so abbastanza poco di economia complessa): capisco benissimo che oggi i Cinesi o i Coreani o chissà chi altro ci stiano dando dei punti grazie alla loro iper-produttività a basso costo che li rende così competitivi. Non entro nel merito della quantità media di lavoro necessaria al giorno d’oggi per mantenere un buon livello produttivo e commerciale; tengo conto del fenomeno ben noto per cui a certe persone piace più lavorare che riposarsi, anche per sfuggire al contatto con pensieri e rapporti più temuti che desiderati; e arrivo a considerare anche l’esistenza delle cosiddette «nevrosi della domenica», che sono note agli psicoanalisti fin dai tempi di Freud.

Ciononostante, se da psicoanalista dovessi dare un consiglio ai governanti e ai cittadini, direi: rispettate il tempo della festa. È un tempo «sacrosanto», non per motivi religiosi o civili, ma per fondamentali ragioni di sanità del vivere. Gli uomini non sono macchine meccaniche, sono organismi psico-biologici delicati e complessi ed hanno bisogno di riposarsi per poter lavorare, di poter dormire per poter essere ben svegli, di coltivare aree di ritiro benefico per poter re-investire energie sul mondo esterno.

C’è un tempo per il lavoro e un tempo per il riposo, c’è un tempo per gli altri e un tempo per sé, e conviene non perdere il contatto con questa ritmicità del tutto naturale.


3 maggio 2011

DECRETO SVILUPPO
"Ecco come il governo
ha ceduto agli stabilimenti"
Denuncia del Wwf: "Norme sulla privatizzazione delle spiagge scritte sotto dettatura, lo provano i documenti di Assobalneari". Manifestazione nazionale annunciata per il 18 giugno

ROMA - Che cosa succede quando un governo ha un "ministero del Turismo che pare avere solo un nome e un ministro", privo di "linee strategiche", di "potere politico" e "capacità interlocutorie"? Un governo che non sa fare di meglio che organizzare "riunioni scialbe" che conclude "senza presentare alcuna traccia di lavoro"? Succede, denuncia il Wwf, che la politica del turismo la fanno direttamente gli imprenditori, dettando i loro desiderata a palazzo Chigi, ottenendo piena soddisfazione, come è accaduto con la privatizzazione delle spiagge contenuta nel decreto sviluppo appena approvato 1. L'organizzazione ambientalista ha scovato il resoconto di un incontro del gennaio 2010 tra il governo e Assobalneari, l'associazione dei gestori di stabilimenti marittimi che fa capo a Confindustria.

Il documento, ancora disponbile online sui siti di alcuni stabilimenti 2, è quello redatto dalla stessa associazione. Dopo il lungo atto d'accusa contro l'inettitudine del governo, il verbale ricorda che "solo Assobalneari ha presentato al ministro il documento strategico... relativo a cinque precisi obiettivi di lavoro". Può quindi scandalizzare, ma non meravigliare, che in questo vuoto di politica "gli obiettivi di lavoro" siano diventati oggi la sostanza del decreto sviluppo.

"I fatti ed i documenti parlano chiaro - denuncia il Wwf - Il 27 gennaio 2010 in un incontro con il Ministro Brambilla, l'Assobalneari consegna una nota con cui si chiedono sostanzialmente tre cose: la proroga delle concessioni in essere sino al 2015, la previsioni di concessioni demaniali cinquantennali e l'introduzione del diritto di superficie sul demanio marittimo. Il governo ha prorogato le concessioni in essere sino al 2015 con la legge n. 25/2010 ed intende introdurre per decreto legge il diritto di superficie per novant'anni, entrando in aperto conflitto con gli orientamenti della Commissione Europea sulla libera concorrenza e aprendo allo scempio ulteriore delle nostre coste; alla luce di questo poca importanza ha la previsione di concessioni demaniali di cinquant'ani perché chiaramente a il tempo di occupazione demaniale sarà condizionato non dalla concessione ma dal diritto di superficie che garantirà comunque la permanenza degli immobili realizzati".

"Il governo - lamenta ancora l'associazione del Panda - per venire incontro all'Assobalneari non solo ha prorogato anche le concessioni demaniali in scadenza garantendole sino al 2015, ma con la stessa legge (L. 25/2010) ha consentito ai titolari di concessioni di sei anni di fare richiesta, in ragione degli investimenti effettuati o di quelli che intendono fare, di una proroga ventennale. Insomma, indipendentemente dalla modalità di assegnazione della concessione, molti stabilimenti sono oggi garantiti sino al 2035. In questo quadro il governo inserisce il decreto legge sulle concessioni novantennali che evidentemente mirano a nuovi insediamenti perché, come abbiamo detto, gli stabilimenti esistenti già oggi hanno avuto sufficienti garanzie. Il modello che sembra volersi perseguire è quello della cittadelle del divertimento: piscina, palestra, sauna, bar, ristorante, discoteca, negozietti oltre ai soliti spogliatoi, cabine, bagni e docce costituiscono un'insieme dove ombrelloni e sdraio sono l'ammennicolo che giustifica la concessione demaniale".

La denuncia del Wwf arriva mentre la mobilitazione ambientalista 3 contro le norme sulle spiagge contenute nel decreto sviluppo resta altissima. "Abbiamo ascoltato in questi giorni ampie rassicurazioni da parte dei ministri dei Beni Culturali e dell'Ambiente sul fatto che rispetto al Dl Sviluppo e alla concessione in diritto di superficie per 90 anni di edifici e spiagge, varranno in ogni caso i vincoli esistenti. Sono affermazioni - sottolinea Legambiente - purtroppo smentite dal testo, che non prevede in alcun modo la partecipazione dei ministeri alla procedura di costituzione del diritto di superficie. E in ogni caso, i vincoli possono essere aggirati e persino modificati da Comuni e Regioni". "All'articolo 3 - denuncia ancora Legambiente - si prevede il rilascio del provvedimento costitutivo del diritto di superficie, da parte della Regione d'intesa con il Comune e Agenzia delle Entrate, escludendo il ministero dei Beni Culturali, che pure dovrebbe vigilare sui 300 metri dalla battigia, e il ministero dell'Ambiente e della tutela del territorio e del mare".

"Quello del governo è un attacco senza precedenti alle spiagge italiane che con il diritto di superficie daranno invase da una colata di 10 milioni di metri cubiu di cemento", rincara infine il presidente dei Verdi Angelo Bonelli che annuncia "una manifestazione nazionale contro la privatizzazione delle spiagge" per il prossimo 18 giu

lunedì 9 maggio 2011


L’infinita scoperta di Gramsci
"In una situazione babelica di linguaggi e opzioni politiche, di fallimento di tutte le grandi fedi politiche e religiose, Gramsci forse viene riscoperto incessantemente perché ci insegna a non rinunciare alla lotta, proponendo una rivoluzione che sia un processo e non un atto, che nasca da un lungo lavorio di preparazione culturale e pedagogica". Proponiamo il saggio di Angelo d'Orsi contenuto nel volume "Operazione Gramsci. Alla conquista degli intellettuali nell'Italia del dopoguerra" di Francesca Chiarotto di recente pubblicazione per Bruno Mondadori.

di Angelo d’Orsi, da Micromega

Le “scoperte” di Gramsci si sono reiterate, a cicli, nella cultura italiana e, sia pure in proporzione ridotta, in molte culture straniere. Altrettanto numerosi gli usi, talora abusi, del suo pensiero e della sua stessa figura: fondatore del partito, militante antifascista, martire, santo laico. Il suo volto – come lo conosciamo da una delle pochissime immagini che ci sono state tramandate, intenso e fascinoso – è divenuto un’icona che, a guisa di un Che Guevara italiano, orna ormai magliette, borse, manifesti murali, persino cartoline pubblicitarie, che “vendono” prodotti talora del tutto estranei all’universo gramsciano. Spesso, come del resto accade per il “Che”, la diffusione dell’icona è inversamente proporzionale alla conoscenza del suo significato profondo, ma, trattandosi di uomini d’azione e insieme di teorici politici, vuole testimoniare adesione a una proposta politica (ancorché ben conosciuta) e condivisione di una testimonianza giudicata, a ragione, eroica.

L’immagine pubblica di Gramsci ha percorso, dopo la morte, un itinerario che si snoda tra epifanie e disparizioni, disinvolti utilizzi e aspri scontri, interni ed esterni a quel mondo della sinistra che, gramscianamente, avrebbe dovuto lottare unito, pur preservando le differenze programmatiche e non sottacendo le distanze ideologiche. Il che significa che anche la figura ascetica di Gramsci, quasi immediatamente, dopo la sua morte, e per certi versi anche prima, sacralizzata, venne usata a fini di battaglia politica: innanzi tutto da Palmiro Togliatti, che pure fu il primo sostenitore di tutte le iniziative volte a rendere noto «il pensiero di Antonio», ma che certo seppe, in una strategia culturale di eccezionale lucidità, mettere a frutto quel patrimonio ideale, per costruire un partito che fosse comunista, ma italiano, con tutti gli adattamenti che di volta in volta gli sviluppi politici inducevano o obbligavano. In fondo, l’originalità del comunismo italiano, e la sua “diversità” ha a che fare con Gramsci, prima che con Togliatti; e, al di là delle differenze tra i due, che emersero nella clamorosa rottura del 1926, mai più sanata, non v’è dubbio che il secondo seppe riannodare il filo spezzato. Naturalmente, mancava l’interlocutore, ma il rispetto e l’attenzione di Togliatti per il fratello maggiore, come venne considerato e talora chiamato Gramsci, sono fatti assodati.

La vicenda, dunque, delle edizioni e degli studi gramsciani, che si intreccia alla istituzionalizzazione, attraverso la Fondazione ad Antonio Gramsci intitolata, e alle mille iniziative volte a portare il nome di quel Sardo ben oltre i confini del partito, costituisce una traccia forte, e finora non sufficientemente seguita, della edificazione di un blocco intellettuale intorno al PCI: «la costruzione dell’egemonia», appunto. Ora, sebbene intorno a quel nome la battaglia ideologica, in forma residuale, continui (basti pensare alla recente ripresa tardiva di una insulsa diceria che vorrebbe un Gramsci convertito alla religione dei padri, in articulo mortis), [1] non v’è dubbio che, almeno nel mondo degli studi, mentre ancora qualche anatra starnazza sul Campidoglio, per avvertire il popolo e il senato della minaccia “comunista”, Gramsci sia diventato un tassello ineliminabile del mosaico del pensiero universale. E, altrettanto indubbiamente, questo fatto è certificato da una data: la pubblicazione dei Quaderni del carcere, nella nuova edizione critico-filologica, a cura di uno studioso che ha con quel lavoro legato per sempre il suo nome agli studi gramsciani, Valentino Gerratana.

Il momento in cui si collocò quell’avvenimento editoriale, la metà esatta del settimo decennio del XX secolo, oggi ci può apparire un momento di cerniera: si era ancora nel pieno di quelli che Mao Zedong aveva proclamato «I grandi anni Settanta», convinto che sarebbero stati gli anni della rivoluzione proletaria e socialista in Occidente, ma il cambiamento radicale, epocale, si stava già palesando come sogno più che come progetto, e, anzi, da quel sogno le classi operaie, gli studenti, una parte di ceto medio intellettuale, motori della rivolta del decennio precedente, si sarebbero di lì a poco risvegliati, e molti sarebbero precipitati nel ritiro dall’agorà, occupandosi solo del proprio “particolare”; altri, si sarebbero lasciati attirare dalle sciagurate chimere della lotta armata, entrando in clandestinità; e non mancava, chi, come sempre accade nella storia, si apprestava già allora a cambiare bandiera, e i teppisti sarebbero diventati uomini d’ordine, gli ortodossi del comunismo avrebbero conservato la struttura mentale rigida e l’intolleranza di derivazione bolscevico-staliniana, ma rovesciando completamente i propri valori ideali e orientamenti politici.

E Gramsci? In sintesi, il rivoluzionario veniva riletto, grazie alla seconda pubblicazione dei Quaderni, sub specie aeternitatis: in sostanza, dopo letture, e più o meno accorti utilizzi, fino ad allora prevalentemente e direttamente in chiave politica, sia in Italia, sia fuori, Gramsci cominciò a essere guardato nei termini, soprattutto, di un filosofo politico, ma anche di uno storico, di un critico letterario, di un interprete del mondo «vasto e terribile», per riprendere una notissima sua espressione, che ricorre più volte nella corrispondenza con i familiari. Anzi, in particolare, i Quaderni – proposti nella forma più o meno originaria in cui erano stati in parte scritti, in parte già riorganizzati dall’autore – sembravano cadere proprio nel cuore di una fase storica di trapasso, che, nondimeno, a taluni, appariva ancora aperta alle possibilità del socialismo. In Italia, il movimento degli studenti era ancora vivo, il PCI giungeva a esiti elettorali eccezionali, mentre la società aveva introdotto nei propri ordinamenti giuridici notevoli cambiamenti, il costume si era profondamente trasformato, come mostrò il referendum contro il divorzio voluto da una parte della Democrazia cristiana e appoggiato dalla Chiesa e clamorosamente sconfitto. Ma nel contempo, si cominciava a prendere atto, da parte di soggetti politici e intellettuali forse più attenti e realistici, di una nuova, incombente disfatta dell’ipotesi rivoluzionaria.

I testi gramsciani, che ritornavano come nuovi sul mercato delle idee, venivano finalmente colti, non a torto, quali frammenti di un’analisi lucida, ancorché venata di amarezza, della sconfitta del movimento rivoluzionario: si aggiunga che quelle analisi parevano in controluce evocare le successive sconfitte: quella del Vento del Nord, nel post-Resistenza in Italia, e l’altra, appunto, che stava cominciando a definirsi nella seconda metà degli anni settanta. Frammenti, dicevo: sul “frammentismo” gramsciano si erano già impiegati chilogrammi di carta stampata (se ne trova traccia nelle pagine che seguono), e il tema ritornò di attualità davanti alla nuova edizione dei Quaderni, che evitava gli accorpamenti più o meno giudiziosi, secondo linee tematiche variamente individuate, talora convincenti, talaltra meno; ma sempre, comunque, “traditrici” dello stato del testo: dunque, ciò che era stato forzosamente reso organico e compatto, ritornava alla dimensione originaria, nella sua natura di brogliaccio, sia pure nel corso del tempo reso, almeno in parte, più sistematico dallo stesso Gramsci, attraverso quella rielaborazione chiamata «Quaderni speciali». Eppure si scopriva, riprendendo alcune preziose intuizioni dei decenni precedenti, che il frammentismo non esprimeva soltanto la condizione provvisoria e disorganica di quei testi, ma traduceva la natura del pensiero del loro autore.

Le letture e riletture – che erano quasi per tutti letture ex novo – favorite da questa nuova «epifania gramsciana», come viene chiamata efficacemente nelle pagine che seguono, furono dunque influenzate dalla situazione politica complessiva, ossia, dall’affievolirsi delle istanze di cambiamento radicale, anche se non si affacciava allora lo spettro della controrivoluzione, come nell’Europa di mezzo secolo prima, quando lo scontro reazione-rivoluzione propagatosi come un incendio dopo il 1917, aveva visto la vittoria della prima, spesso con dolorosissime conseguenze; e nella stessa immensa “patria del socialismo”, l’Unione Sovietica, dove il gruppo dirigente passava di successo in successo nella lotta contro i “nemici interni”, in qualche modo realizzando i peggiori scenari ipotizzati dallo stesso Gramsci nella lettera del 1926, consegnata a Togliatti e mai recapitata. Scenari che negli anni seguenti, e prima ancora delle purghe su larga scala – che sopraggiunsero nell’anno stesso della morte, il 1937 – il detenuto avrebbe in parte compreso, in parte vagamente intuito, sulla base delle scarne e mutile informazioni che gli erano fatte giungere, clandestinamente, attraverso i canali della comunità carceraria, per il tramite di compagni, ma sovente osteggiati da altri militanti del partito.

Il fatto che la presentazione dei Quaderni, curati da Gerratana, organizzata dalla casa editrice Einaudi, avvenisse a Parigi, può da una parte essere significativa della presenza precoce di Gramsci Oltralpe, ma anche del ruolo della Francia nella guida dei movimenti di contestazione europea degli anni precedenti. Eppure, non ne conseguì un rilancio efficace degli studi gramsciani francesi (ma va segnalato in contemporanea la pubblicazione di un saggio tuttora insuperato nel suo specifico, su di un tema fondamentale come quello dello Stato), [2] né delle traduzioni, paradossalmente, se non in modo assai contenuto, considerando che l’edizione integrale dei Quaderni, avviata più tardi, impiegò un ventennio per giungere a conclusione;3 tuttavia Parigi, grazie a quella iniziativa, che mostrò immediatamente il valore generale dell’impresa editoriale, fu il centro propulsivo di un rilancio della presenza di Gramsci sulla scena culturale internazionale. Se fino ad allora era stata soltanto la sinistra, variamente comunista, a tradurre, studiare o semplicemente leggere Gramsci, da quel momento si realizzò un salto in avanti nella conoscenza e diffusione dell’opera gramsciana, con un significativo allargamento del parco dei lettori e degli studiosi. E altre letture, altre interpretazioni, soprattutto altre focalizzazioni emersero dall’universo del Gramsci “maturo”, restituito alla pur complessa e multiforme natura di quegli straordinari appunti di lavoro che erano i Quaderni, e che finalmente apparivano per ciò che erano, liberati dalla gabbia della tematizzazione imposta da Palmiro Togliatti e Felice Platone.

Che “l’operazione Quaderni”, dell’immediato dopoguerra – più in generale, “l’operazione Gramsci” –, sia stata cosa buona e saggia, è ampiamente dimostrato nelle pagine di questo libro; ma quel tipo di edizione, non tanto per i tagli e le “censure”, quanto proprio per gli accorpamenti delle sparse note gramsciane, si prestava meglio agli utilizzi politico-ideologici. Ora, con il 1975, grazie all’edizione Gerratana, i Quaderni, se non tutto Gramsci, potevano essere affrontati in un altro modo, che non solo si sottraesse al servo encomio e al codardo oltraggio, ma fosse in grado di far emergere insospettate valenze di quel pensiero, ampliandone gli echi, moltiplicandone le risonanze. Il che, puntualmente, avvenne, pur non cessando gli usi politici, che, in un senso o nell’altro, erano comunque facilitati dall’assenza della pubblicazione completa e scientificamente rigorosa di tutti gli scritti e dei carteggi gramsciani.

Ma, ancora in mente dei l’Opera Omnia, in quella fase l’edizione integrale e critica dei Quaderni, giunta a conclusione dopo un paziente e generoso lavoro, fu una tappa fondamentale. Per la prima volta si poteva leggere quel che davvero Antonio Gramsci aveva scritto in carcere, senza le mediazioni togliattiane, sganciandosi da quel lavoro del primo dopoguerra che, con tutti i suoi meriti, aveva l’intento, principalmente, di fondare una pedagogia politica di massa. Fu una sorta di rivoluzione copernicana che costrinse a un benefico bagno nel testo, anche da parte di coloro che i Quaderni li avevano già letti e usati, e che ebbero l’impressione di trovarsi davanti a un altro testo, quasi un palinsesto, di straordinaria vivacità e forza, di enorme spessore, certo di gravi difficoltà, anche per la sua natura interrotta, provvisoria, talora rapsodica, non esente da contraddizioni e aporie... E, altro paradosso, se è vero che liberati dalla gabbia tematica i Quaderni erano restituiti alla polisemia di un cantiere aperto, d’altro canto anche la forma editoriale – in luogo dei sei volumi, apparsi separatamente, acquistabili uno per uno, come opere diverse, un blocco di oltre tremila pagine solo per comodità del lettore diviso in quattro tomi – dava al testo una sorta di omogeneità, ne faceva insomma un’“opera”. E su di essa, per tanti versi “nuova”, ci si pose allo studio, in modo nuovo: la filologia cominciò a essere una chiave importante, in parallelo, d’altronde, con l’acquisizione che stava imponendosi su scala sovranazionale, ancorché non ancora generalizzata, di Antonio Gramsci nell’empireo dei grandi del pensiero. I grandi si studiano, e si studiano con gli strumenti raffinati della critica e ricostruzione filologica del testo, dell’analisi filosofica, ma su quel preciso testo, dell’attenta contestualizzazione storica.

Grazie a questi nuovi approcci, Gramsci non soltanto fu, almeno in parte, sottratto alle dispute ideologiche, spesso di modesto valore, e agli utilizzi politici (almeno quelli più smaccati), ma altresì fu liberato da una interpretazione di fondo, che, con qualche non frequente eccezione, lo collocava nel solco della tradizione italiana, punto d’arrivo di linee continue che ne facevano uno storicista idealista, in buona sostanza. I due elementi erano andati di pari passo: notò nel 1977, assai criticamente, sull’“operazione Gramsci”, Arcangelo Leone de Castris, uno studioso marxista esterno (“a sinistra”) al Partito comunista, che nel momento in cui la cultura italiana del dopoguerra tentava «una sistemazione di quella operazione nella figura del “grande intellettuale”, culmine di una tradizione democratica nazionale e suo ripropositore, capovolgeva nella propria ideologia della continuità, di fatto funzionale a una concezione riduttiva della via italiana al socialismo, il vero centro teorico-politico dell’operazione gramsciana». [4]
Come dire un’operazione Gramsci, ossia su Gramsci, condotta da Togliatti e portata avanti dai suoi intellettuali organici dopo la morte del capo, contro l’operazione gramsciana, ossia di Gramsci. Quanto poi al centro dell’elaborazione propriamente di Gramsci, le opinioni dello studioso erano e rimangono discutibili, e forse attardate su moduli che ci appaiono oggi desueti. Ma il centro del discorso concerneva il fatto che Gramsci stesso si fosse battuto contro quella tradizione, e i suoi rappresentanti, specie nel presente politico.

Tra il convegno del quarantennale della morte (1977) e quello del cinquantennale di dieci anni dopo, furono forniti tutti gli indizi che i tempi stavano cambiando. Dall’apogeo si passò lentamente all’ipogeo: tutti gramsciani negli anni settanta, nessun gramsciano negli ottanta... Nel convegno del 1977 si affrontarono in particolare temi teorici, segno di una piena assunzione di Gramsci nel mondo del pensiero: un mondo dal quale da un lato taluni studiosi, retrivi e misoneisti, intendevano tenerlo lontano, mentre dall’altro alcuni esponenti della generazione più giovane, molto gauchiste, influenzata dall’antico avversario in seno al Partito comunista, Amadeo Bordiga, o da altre correnti marxiste, cercavano di inchiodarvelo come un marchio d’infamia (quasi una riproposizione, senza troppo sforzo immaginativo, delle accuse bordighiane rivolte già al giovane socialista sotto la Mole, di essere a capo di un gruppo, quello de “L’Ordine Nuovo”, «culturalista»). Ciononostante, era precisamente l’inventore o il reinventore di parole chiave del lessico politico, e in specie dell’egemonia, che ormai si era imposto sulla scena internazionale, a livello di mondo accademico: ma nemo propheta in Patria.

Dunque, in Italia, dopo quell’importante raduno del quarantennale, che quasi coincise perfettamente con l’ascesa al potere nel Partito socialista di Bettino Craxi, animato da un furor anticomunista, mentre fuori dei confini appunto Gramsci era oggetto di un processo di universalizzazione, qui veniva di nuovo ripiegato ad usum di cordate politico-intellettuali di modesto respiro, ma di notevole risonanza mediatica. L’intenzione era quella di portare il PCI a Canossa, e Gramsci diventava una sorta di uomo dello schermo: si criticava lui, per sollecitare il partito da lui fondato (pur con intenti polemici, a dispetto della sua dubbia verità, era rimasta dominante, diventando senso comune, l’attribuzione di “paternità”; Gramsci era “il fondatore” del PCI) ad abbracciare la “via democratica”. In particolare la rivista teorica del PSI, “Mondo Operaio”, si distinse in questa campagna, che, naturalmente, ebbe spunti interessanti, in un mare di interventi ideologici, che rivisti oggi appaiono irrimediabilmente datati. Forse, più datati persino del Gramsci “bolscevico” della prima metà degli anni venti.

Quanto alle letture collocate “a sinistra”, emergeva, non di rado, un’altra criticità, che era in parte scientifica, in parte, di nuovo, politica: ossia una svalutazione del Gramsci giovanile, parallela e contraria a quella condotta in seno all’intellettualità comunista ortodossa, e una nuova centratura sui Quaderni, che solo in anni assai recenti si è tentato, da parte di qualcuno, di rompere.

La cosa era comunque comprensibile, in quanto, letti nella loro versione (quasi) integrale, e sub specie voluminis, i Quaderni, insomma, diventati “opera”, accrescevano enormemente la loro forza di suggestione; al di là delle interpretazioni non c’è dubbio che in questo procedimento Gramsci fosse esaminato, da parte di una cerchia di studiosi per certi versi differente da quella passata, anche per ovvie ragioni biologiche, con occhi nuovi, e soprattutto anche con strumenti più raffinati. Non era la nouvelle histoire gramscienne, ma si poteva infine prestare la dovuta attenzione alla filologia, senza il rischio di essere accusati di pedanteria: inediti accostamenti, talora impensate affinità, conferme e modificazioni, si affacciavano nel paniere degli studi dedicati al Sardo. Se ne ricavavano preziose tessere di un mosaico che nel corso degli anni seguenti sarebbe diventato via via monumentale, in termini di quantità e di qualità, con una intensificazione fuori d’Italia a partire dal finire degli anni ottanta, e in Italia, dalla metà dei novanta. I concetti chiave del lessico gramsciano – da “Egemonia” a “Guerra di posizione”, da “Rivoluzione passiva” alla parola magica e forse davvero centrale “Intellettuali” – emersero come stelle luminose di un dizionario generale della teoria politica, ma anche della sociologia, della critica letteraria, della storiografia. E quant’altro. Già, perché si faceva strada un po’ alla volta la realtà di un pensiero multiverso, a volte quasi inafferrabile per la sua stessa ricchezza.

Nello stesso tempo, paradossalmente, il cambio di decennio comportò, di sicuro in Italia, un lento inabissarsi di quel pensiero, prova che l’assunzione di Gramsci nell’empireo non lo aveva emendato dalla “colpa originaria”: il comunismo. Così, dopo un paio di decenni in crescendo, tra le edizioni di testi e la pubblicazione di studi (spesso, è vero, disinvolti sul piano della filologia e sbrigativi su quello della contestualizzazione), dopo una massa di interpretazioni le più varie, che talora contenevano grossolane semplificazioni e talaltra gravi impoverimenti del suo pensiero, mentre ritornavano gli attacchi ideologici (non più di parte cattolica, ma perlopiù, come ricordato, provenienti dall’area intellettuale di riferimento della nuova segreteria del Partito socialista), venne, accanto e dopo, il tempo della rimozione, e dell’oblio. Antonio Gramsci, in patria, insomma, diventava un “cane morto”. Era un altro paradosso, in quanto, contemporaneamente, sull’onda lunga dell’edizione critico-cronologica dei Quaderni, il pensatore (ma anche il rivoluzionario) veniva scoperto fuori d’Italia, in sedi diverse, e con differenti modalità. Vale la pena di ricordare, in margine, che intanto si era avviata, ma riservata al mondo degli studi, una discussione sui criteri dell’edizione Gerratana, con proposte interessanti, di varia radicalità, di una sua emendazione: insomma, la stessa pubblicazione della nuova edizione dei Quaderni diede il via al proprio superamento, in particolare grazie alle suggestioni di uno studioso proveniente da altri ambiti di ricerca come Gianni Francioni; ma il fatto stesso che un filologo settecentista si dedicasse a Gramsci, e ai complessi problemi di ricostruzione del testo, era la prova che quell’autore non era più etichettabile nei termini di giornalista socialista, o di dirigente di partito che si era anche dilettato di pensare la politica. [5]

Ma appunto a tale verità fuori d’Italia si giunse prima, anche se nei decenni antecedenti non pochi erano stati coloro che avevano colto lucidamente la “classicità” di Gramsci. In sostanza, mentre fuori dei patrii confini il nome di Gramsci cominciava a circolare con insistenza, negli ambienti culturali nostrani Gramsci era quasi ritornato a essere lo sconosciuto che era avanti la “scoperta” del 1947, grazie alle Lettere e al premio Viareggio che le aveva, inopinatamente, lanciate sulla scena nazionale. [6] L’inabissarsi della figura, del nome e del pensiero di Gramsci fu impressionante, nell’Italia degli anni ottanta, dominati politicamente dallo pseudoriformismo “decisionistico” del craxismo, e culturalmente da quello che fu chiamato, su scala sovranazionale, “l’edonismo reaganiano”, con un forte ripiegamento sul privato, una esibita volontà di primeggiare, individualisticamente, nella dimensione esistenziale in cui il lato pubblico, politico, veniva cancellato. L’agorà, in ogni sua possibile versione, era dimenticata a vantaggio del salotto di casa, o, peggio, della discoteca, o della birreria, dove nondimeno il discorso pubblico, politico, era del tutto rimosso. Il divertimento, nella sua forma spesso più becera, prendeva il posto dell’impegno. Come avrebbe potuto trovare posto una figura quale quella – rigorosa al punto da apparire rigorista, “calvinista” – di Antonio Gramsci, in quell’universo?

E anche a sinistra, nello scenario che si cominciava a delineare di fuga dal marxismo, e dal suo corrispettivo politico, il comunismo, Gramsci non godé di buona stampa. Basti, come esempio, il convegno organizzato nella “sua” Torino, sul finire del 1988, dal locale Istituto a lui intitolato. Qui si colsero i frutti dell’ambigua interpretazione data da Bobbio al convegno di vent’anni prima, e si dimostrarono non errate le preoccupazioni per le «pericolose conseguenze che essa implicava». [7] Ormai, mentre la cosiddetta “nuova destra”, alla ricerca di parentele nobili, cominciava a guardare al pensiero di Gramsci come a un punto di riferimento, in un patchwork confuso, ma degno di attenzione, bizzarramente le letture che emersero al convegno torinese sembravano andare nella stessa direzione, consegnando quel rivoluzionario, inchiodato da etichette che volevano essere squalificanti, come armonico, gerarchico, produttivista, tendenzialmente totalitario, proprio al paniere ideologico di una destra “colta”. [8]

L’edizione Gerratana ebbe anche l’effetto, certo non positivo, di oscurare gli scritti precarcerari, che ritornarono a essere ciò che in passato erano stati in un’opinione diffusa, alla quale si erano opposti in pochi: una sorta di preparazione della “vera” elaborazione teorica, quella in prigione, per i sostenitori della “continuità”; un immaturo prodotto della giovinezza, poi superato, in direzione piuttosto diversa, nell’età “matura”. Effetto bizzarro, in quanto proprio in quell’ottavo decennio del secolo, ancora Einaudi aveva dato il via a una nuova edizione degli scritti precarcerari (antecedenti dunque al novembre del 1926), che aveva arricchito notevolmente il quadro della biografia intellettuale e politica gramsciana, fornendo ulteriore materiali per studi e approfondimenti. Si trattava di un’edizione che faceva compiere importanti passi avanti, specie in termini di attribuzione: se per i Quaderni il problema fondamentale era quello della datazione, per gli articoli, quasi sempre non firmati, rimaneva quello del riconoscimento di paternità, che, con il trascorrere degli anni, diventava via via più incerto, con il mancare di molti dei protagonisti di quella stagione, la cui testimonianza era stata in passato uno dei criteri per l’attribuzione dei testi alla penna di Gramsci.

Anche in questa tornata editoriale un ruolo importante fu svolto da Gerratana; ma accanto a lui, oltre al redattore einaudiano Sergio Caprioglio, che aveva collaborato con Elsa Fubini alla curatela delle lettere, per la seconda edizione, assai arricchita, del 1965, [9] emergeva uno studioso della generazione successiva, Antonio A. Santucci, che si sarebbe spento prematuramente nel 2006, non senza aver dato contributi significativi agli studi gramsciani. [10] Peraltro, poco prima, era mancato Caprioglio: due perdite gravi per la comunità dei gramsciologi, che ancora non aveva superato la perdita di Gerratana, avvenuta nel 2000. L’edizione degli scritti precarcerari degli anni ottanta fu, nell’insieme, pregevole, malgrado errori e lacune: col senno di poi, si può parlare di un passo verso l’edizione completa degli scritti, che sarebbe stata avviata un quindicennio più tardi; in ogni caso si trattò di un lavoro che contribuì a una conoscenza assai più ricca della biografia di Antonio Gramsci nella Torino che da città fredda e ostile, come gli si era presentata nell’autunno del 1911, andò trasformandosi un po’ alla volta nella “sua” città. [11]

Gli anni ottanta si chiusero con una serie di eventi che sembrarono di nuovo riaprire i giochi, anche se gli impulsi a una Gramsci-Renaissance, onda lunga dell’edizione Gerratana, provennero da fuori d’Italia. Non ci fu “il convegno” per il cinquantesimo della morte (1987), ma una serie di iniziative che mostrarono il divario tra gli ambienti culturali italiani che ricuperavano in modo lento e ritardato una vera ricezione del pensiero del Sardo, e una comunità di studi internazionale che si apriva a Gramsci con attenzione e, talora, persino con autentico entusiasmo: era l’entusiasmo della scoperta, ancora una volta. Era un Gramsci nuovo quello che in una lettura trasversale e multidisciplinare, si palesava, tra manipoli di studiosi europei, americani e un po’ alla volta anche di altri continenti (Asia e Australia): era il Gramsci pensatore critico della modernità, marxista innovatore, comunista capace di riflettere senza ideologismi sul fallimento della rivoluzione in Occidente. Due raduni internazionali, in particolare, dotati di questi caratteri, segnarono tappe significative in tale direzione. [12]

La cultura italiana, dal canto suo, si lasciò lentamente trascinare al seguito, in modo spesso riluttante, talora opponendo resistenza, in varia forma, come rivelò il convegno di Torino di fine 1988. L’anno dopo, il fatidico 1989, a Formia si tenne un raduno internazionale, nell’oggetto e nei soggetti partecipanti; [13] e l’anno prima, lo statunitense John Cammett (mancato nel 2008), in vista proprio di quell’evento, aveva realizzato la prima Bibliografia gramsciana: stampata, in edizione provvisoria, poi ampliata per l’edizione definitiva – ossia provvisoriamente tale – pubblicata per il centenario della nascita (1991). [14] Fu così che, grazie a questo fino ad allora sconosciuto studioso, già militante sindacale, che aveva lavorato da solo, e in modo dilettantesco – nel senso migliore – si scoprì che su Gramsci avevano scritto (articoli, saggi, monografie, voci di enciclopedie) centinaia e centinaia di studiosi, di militanti politici, di opinion makers, in oltre trenta lingue del mondo: si trattava di oltre settemila titoli. Fu un piccolo, salutare choc, che contribuì a produrre, anche per un effetto d’imitazione, una nuova ondata di studi, edizioni, ricerche.

Le edizioni in lingue diverse dall’italiano cominciarono a susseguirsi; e non si trattava più di antologie, ma di ambiziosi tentativi di traduzioni integrali. Negli Stati Uniti nacque la International Gramsci Society (IGS), che presto diede vita a una importante Sezione italiana. E mentre si cominciava alacremente a lavorare all’edizione integrale inglese dei Quaderni, a cura di Joseph Buttigieg, fondatore dell’IGS, il nome di Gramsci si diffondeva soprattutto in America Latina, mentre in Europa la ripresa di interesse fu più lenta, specie in Francia dove era partita per prima l’attenzione a questo italiano, con grandi contese politiche tra gramsciani e gramscisti... Ciò non toglie che in numerose realtà nazionali Gramsci fosse ormai diventato un personaggio di rilievo in seno al dibattito politico e culturale; lo si incominciava a citare anche al di fuori dei contesti scientifici, quasi ad avvalorare un destino di usi politici, ennesimo paradosso: la pratica degli utilizzi a fini di parte o di partito del pensiero gramsciano, cessata in Italia si diffondeva fuori, contemporanea e parallela alla nascita di autentici filoni di studio; questi, proprio come, del resto, gli usi politici erano, in effetti, legati essenzialmente alle principali categorie teoriche dei Quaderni che l’edizione Gerratana stava in qualche modo “liberando”, facendole emergere in piena luce. Insomma, il lessico di Gramsci su cui finalmente si poneva l’attenzione che meritava, si prestava a un doppio uso: strumento di analisi della realtà storico-politica (e non solo, essendo ben presenti in quell’ipertesto gramsciano concetti provenienti da altre discipline), da un lato, e di intervento nella prassi, dall’altro. Ma sempre fuori d’Italia. Doppiato il capo del 1989, nei primi anni novanta, quando nelle università italiane si può dire che nessuno (o quasi nessuno) tenesse corsi su Gramsci, il cui nome era ormai ritornato a essere ignorato o pressoché ignoto agli studenti, e negletto dalla quasi totalità del corpo docente, in Giappone, per fare un esempio, era uno degli autori politici più studiati; così pure, per riferirsi a tutt’altra temperie culturale, nei paesi arabi. [15]

Ma, come ho accennato, di nuovo gli orientamenti culturali stavano, sia pur lentamente, cambiando. Il 1989-1991 (ossia il biennio “rivoluzionario” che, con l’improvviso crollo del “socialismo reale”, aveva sconvolto il mondo, alimentando speranze poi rivelatesi perlopiù ingannevoli e fallaci) [16] aveva d’improvviso fatto emergere dalle macerie del Muro di Berlino, che aveva, nel suo crollo, travolto larga parte della letteratura marxista, proprio il fantasma di Gramsci, accanto a quello di Marx: se questo si presentava come il grande profeta critico della globalizzazione, anticipando le interpretazioni pessimistiche sulla globalizzazione della miseria, Gramsci appariva come il pensoso analista della sconfitta dell’ipotesi rivoluzionaria, ma altresì il pacato e profondo studioso di un altro socialismo possibile, lungo sentieri nuovi di lotta culturale, di costruzione di una egemonia intellettuale, di un uso intelligentemente critico degli elementi portanti del “moderno”. L’ultima riscoperta di Gramsci, quindi, in un paradosso più apparente che reale, si collocava proprio a ridosso del crollo del Muro, dal quale non soltanto non era sfiorato, ma che ne faceva risaltare la figura nello spazio rimasto vuoto. All’inizio degli anni novanta un momento importante, che però non diede luogo all’interesse che avrebbe meritato, fu la pubblicazione, a cura ancora di Santucci, delle lettere giovanili (fino al 1926, ossia fino all’arresto), che confermarono la potenza e l’umanità del Gramsci epistolografo, aprendo anche squarci nuovi e insospettati sulle difficoltà dell’esistenza di un uomo a cui le vicende della vita, da quelle della salute fisica a quelle familiari, a quelle politiche, avevano rubato prima l’infanzia, poi la giovinezza. Gramsci, insomma, fu sempre, da subito, adulto. E un adulto di eccezionale maturità, dotato di un precocissimo senso della responsabilità individuale, provvisto di pazienza e ironia.

Ci vollero, nondimeno, altri anni prima che anche in Italia – ribadisco: sulla scia della rinnovata e perlopiù del tutto nuova fortuna di «Gramsci in Europa e in America» [17] – si ricominciasse, con continuità e sistematicamente, a studiare, pubblicare, tenere corsi universitari; soprattutto ad avviare ricerche sia archivistiche, sia bibliografiche, volte specialmente a rintracciare i segni della fortuna di Gramsci fuori d’Italia: in ciò fu decisivo l’impulso della Fondazione Gramsci e, in non pochi casi, di taluno degli Istituti regionali intitolati al rivoluzionario sardo, che si stavano consorziando. [18]

Assai utile per rimettere in circolazione Gramsci fu la nuova raccolta, la più ampia fino ad allora (e a tutt’oggi), delle lettere carcerarie, curata sempre da Antonio Santucci; la pubblicazione suscitò un contenzioso tra l’editore palermitano che l’aveva mandata in libreria (Sellerio), la casa editrice Einaudi e la Fondazione Gramsci, entrambe reclamanti di essere depositari dei diritti d’autore, al punto che si giunse al ritiro dell’opera dalle librerie. [19] Ma, grazie alla stessa eco mediatica della pubblicazione, si accesero nuovi fari sull’opera gramsciana e comunque si trattò di un nuovo materiale documentario che arricchiva il paniere delle conoscenze sulla vita e sulle sofferenze, private e pubbliche, di quel prigioniero eccellente del fascismo. Di Gramsci si ricominciò dunque a parlare sulla grande stampa oltre che negli ambienti scientifici, e, assai meno, in quelli politici.

Lo dimostrava, ancora nel 1996, la pubblicazione di un saggio che costituiva (dopo un lontano analogo più sintetico lavoro di altro studioso, apparso nell’anno stesso dell’edizione Gerratana) [20] il primo tentativo di ricostruire le contese politiche oltre che scientifiche su Gramsci: libro utilissimo, ancorché con taglio ideologico, che sarebbe diventato una piccola guida per militanti, oltre che per studiosi. [21] Intanto, una nuova messe di edizioni antologiche giungeva sui banconi (non nelle vetrine) delle librerie e, talora, fino agli scaffali delle biblioteche: dopo il Gramsci martire, il Gramsci ortodosso, il Gramsci eretico, il Gramsci nazionale e popolare, il Gramsci fratello maggiore di Togliatti, sembrava riaffacciarsi il “Gramsci di tutti”, prestandosi, suo malgrado, a letture e interpretazioni multiverse, che passavano dalla nuova destra, che insisteva sui suoi tratti nazionali, produttivistici e organicistici, fino alla sinistra postcomunista, che ne faceva un pensatore liberale; mentre quel che rimaneva della sinistra marxista, in non pochi suoi segmenti, volgeva di nuovo il suo sguardo verso quel volto dai grandi occhi profondi, che gli occhialini evidenziavano, sotto la massa dei capelli crespi. Si riscopriva, citandolo e ricitandolo, in tutta la sua drammatica potenza, il bellissimo schizzo che ne aveva disegnato Piero Gobetti nel 1922:

Antonio Gramsci ha la testa di un rivoluzionario; il suo ritratto sembra costruito dalla sua volontà, tagliato rudemente e fatalmente per una necessità intima, che dovette essere accettata senza discussione: il cervello ha soverchiato il corpo. Il capo dominante sulle membra malate sembra costruito secondo i rapporti logici necessari per un piano sociale, e serba dello sforzo una rude serietà impenetrabile; solo gli occhi mobili e ingenui ma contenuti e nascosti dall’amarezza interrompono talvolta con la bontà del pessimista il fermo vigore della sua razionalità. [22]

Infine, il segno decisivo del ritorno di Gramsci sulla scena culturale, fu l’avvio dell’Edizione Nazionale degli Scritti, nel 1996-1997, sotto l’egida della Fondazione Gramsci: non fu senza significato, certo, che il clima politico fosse di una nuova fiducia nella sinistra, appena giunta al governo del paese, dopo la prima breve ascesa e caduta di Silvio Berlusconi. E, tuttavia con l’Edizione Nazionale (che aveva nondimeno un comitato scientifico internazionale, nel quale primeggiava la stella di Eric Hobsbawm, già frequentatore dei raduni gramsciani), se Gramsci era ormai acquisito al Pantheon del Pensiero, la gran parte di coloro che lo studiavano provvedevano consapevolmente, e talora inconsciamente, a neutralizzarlo sul piano politico: la sinistra che governava non solo era lontana da qualsivoglia tentazione eversiva, ma era dichiaratamente lontana dalla stessa tradizione marxista. Gramsci rimaneva, comunque, “un comunista”, anche se da più parti si insisteva, anche riprendendo spunti dei decenni passati, sul carattere “diverso” del suo comunismo, e sul suo marxismo originale. Ciò non toglie che, politicamente, a Gramsci fosse preferito, spesso soprattutto dai militanti del partito da lui fondato, di volta in volta Carlo Rosselli o don Milani, John Kennedy o Karl Popper... Addirittura, nell’anno 2000, nel corso di un convegno celebrativo dei cinquant’anni della fondazione dell’Istituto Gramsci, che pudicamente si volle intitolare a Gramsci e Rosselli, l’allora leader emergente dei DS Walter Veltroni ebbe a schierarsi accanto a Rosselli, cercando di allontanarsi appunto da un ingombrante Gramsci, dimostrando con ciò di non conoscere né l’uno, né l’altro.

Eppure, se politicamente Gramsci non aveva più appeal, per impulso della progettata Edizione Nazionale (nel cui gruppo di lavoro non mancarono e non mancano tensioni) e di tutto quello che cominciava a nascere intorno a essa, gli studi gramsciani conobbero un imponente rilancio e poi via via una decisa accelerazione, dal sessantesimo anniversario della morte (1997), fino al settantesimo (2007), le cui manifestazioni, per numero, intensità e durata, sorpresero gli stessi gramsciani e gramsciologi. Oltre a sancire l’ingresso di Gramsci tra i massimi esponenti della cultura italiana, l’Edizione Nazionale ebbe soprattutto la funzione di stimolo a ricerche, mentre si formava, entro o intorno a essa, una nuova generazione di studiosi. Anzi, guardando a ritroso verso l’ultimo quindicennio, si può affermare che sul piano dell’acquisizione documentaria si sono forse compiuti maggiori progressi che nel mezzo secolo precedente.

E ciò, mentre fuori d’Italia Gramsci veniva scoperto e approfondito, con un salto notevole non solo nella quantità delle traduzioni, ma nella loro qualità e natura, con la prosecuzione o l’avvio di edizioni integrali, con la nascita di “Cattedre Gramsci”, con un nuovo interesse degli editori alla pubblicazione di testi e di studi: difficoltoso in un primo tempo, poi un po’ alla volta più facile. Alcuni convegni latinoamericani (Messico, Brasile, Argentina, Venezuela, in particolare), tra gli ultimi anni novanta e il primo decennio del XXI secolo, testimoniarono, oltre ogni dubbio, la nuova fortuna del pensiero di Gramsci nel mondo e in specie nel subcontinente americano, dove il richiamo a Gramsci appariva soprattutto, ma non esclusivamente, di tipo militante; a differenza che nel mondo anglosassone (dagli Stati Uniti all’Australia, fino al subcontinente indiano), dove Gramsci veniva scoperto e letto e impiegato metodologicamente, quale teorico, o prototeorico dei cultural studies o dei subaltern studies. [23]

Nel sessantesimo della morte, mentre si consolidava l’impresa dell’Edizione Nazionale, e si realizzarono alcuni convegni che fornirono ulteriore prova della presenza di Gramsci ben oltre i confini italiani ed europei, [24] veniva pubblicata una nuova edizione delle lettere dal carcere, concentrata sul carteggio, bilaterale, tra Antonio e la cognata Tatiana Schucht, la persona che più di qualsiasi altra seguì amorevolmente il penoso calvario del prigioniero di Turi. [25] Ben più ricca, e davvero imprevedibile, fu la mole delle celebrazioni del settantesimo della morte, con innumerevoli eventi, da Sidney a Torino, da Roma a San Paolo del Brasile, dalla Sardegna alla Puglia; convegni, ma anche edizioni di testi, pubblicazione di studi, avvio di grandi imprese. Fu quello l’anno, il 2007, dell’uscita dei primi due tomi dell’Edizione Nazionale, dedicata ai Quaderni di traduzione, inediti; a cui, tre anni più tardi, si aggiunse il primo volume dell’Epistolario. [26] A seguire, una cascata di iniziative: seminari, altri convegni, premi, edizioni, altri studi, opere di consultazione, quali la BGR (Bibliografia Gramsciana Ragionata), un repertorio che ricostruisce con schede analitiche tutto quanto è stato pubblicato in lingua italiana su Gramsci, dal 1922 a oggi; e il Dizionario gramsciano, concentrato sull’analisi e l’interpretazione del lessico e delle figure chiave dei Quaderni. [27]

Oggi la bibliografia gramsciana comprende oltre diciottomila titoli, ormai in una quarantina di lingue. Circa duemilacinquecento sono in lingua inglese; e, per fare un esempio lontano, circa seicento in giapponese. Si è annunciato l’avvio dell’edizione cinese dei Quaderni, dopo quella delle Lettere, mentre, giunte a compimento edizioni europee (francese, tedesca, angloamericana), veniva ripresa quella russa, avviata in passato e poi interrotta; e così via, in un profluvio incessante di cui sarebbe impossibile dare conto anche sommario. Il risultato è che Antonio Gramsci è oggi uno dei duecentocinquanta autori più letti, tradotti, citati e discussi di tutti i tempi, di tutti i paesi e di tutte le lingue e di ogni genere (ossia letterati, filosofi, scienziati...). È uno dei cinque italiani più studiati e tradotti e commentati dopo il XVI secolo. E l’interesse per questo pensatore, scrittore, dirigente politico e militante rivoluzionario ha registrato una eccezionale crescita nel corso degli ultimi anni. Da Chávez a Sarkozy, per menzionare due politici di opposta sponda, Gramsci è diventato un autore da citare, oggetto, oggi più che prima, di appropriazioni politiche e strumentalizzazioni ideologiche; le quali, nondimeno, sono il segno di una rinnovata attualità, di una riscoperta vitalità del pensiero di Gramsci, nostro contemporaneo.

Le nuove generazioni che studiano Gramsci (e i convegni per il settantesimo della morte ne hanno fornito un’importante testimonianza), possono farlo con un approccio diverso: appassionato ma senza soverchi ideologismi, partecipe, ma con sufficiente distacco critico; sono assenti da questi nuovi studi, proprio per ragioni generazionali, tanto il rimpianto quanto il rimorso o il rimbrotto; i «nati dopo il Settanta», [28] possono guardare a Gramsci, e alla vicenda politica e culturale in cui l’edizione dei suoi scritti lo ha collocato, in modo nuovo, “leggero”, pur con la serietà necessaria a un lavoro scientifico. [29]

L’Edizione Nazionale, dopo la pubblicazione dei Quaderni curati da Valentino Gerratana, e le nuove sollecitazioni provenienti, copiosissime, da fuori d’Italia, hanno favorito la costituzione di manipoli di nuovi studiosi e studiose della vita, del pensiero, dell’azione politica di Antonio Gramsci, che delle superfetazioni ideologiche dei “favorevoli” e dei “contrari”, nonché degli utilizzi politici togliattiani in fondo poco sanno e poco vogliono sapere, desiderosi, piuttosto, di riaccostarsi direttamente ai testi, e di coglierne le insospettate valenze, di sapore squisitamente umanistico, ma altresì capaci di suscitare nuove sintonie a larghissimo raggio, dalla politica all’ermeneutica.

Rimane nondimeno decisivo lo studio della ricezione del pensiero, lungo il filo delle edizioni dei testi gramsciani, degli studi, delle istituzioni che a Gramsci si sono variamente richiamate: specie se si tratti di studi condotti senza pregiudizi, senza i condizionamenti della militanza o dell’appartenenza, anche se con una forte empatia verso l’autore: del resto, difficilissimo (e, per quanto mi riguarda, anche superfluo) sottrarsi al fascino di un essere speciale, sotto tanti riguardi, quale fu Gramsci. Riaccostarsi, con gli strumenti della filologia storica, ma con una disposizione d’animo aperta e tendenzialmente da allievi ideali di quel maestro ancor più ideale, oggi appare importante, anche per il momento storico che stiamo attraversando. Dinnanzi al crollo dell’utopia e della speranza comunista in Occidente, mentre dall’America Latina giunge la proposta di un nuovo socialismo per il XXI secolo, Gramsci acquista un valore pregnante, proprio per la natura antidogmatica del suo pensiero, per il carattere critico della sua visione del comunismo, per la duttilità intelligente della sua analisi delle possibilità e dei limiti della “Rivoluzione in Occidente”.

In una situazione babelica di linguaggi e opzioni politiche, di fallimento di tutte le grandi fedi politiche e religiose, Gramsci forse viene riscoperto incessantemente perché ci insegna a non rinunciare alla lotta, proponendo una rivoluzione che sia un processo e non un atto, che nasca da un lungo lavorio di preparazione culturale e pedagogica, una rivoluzione internazionale e sovranazionale, una rivoluzione che non sia più la presa della Bastiglia o del Palazzo d’Inverno, bensì una trasformazione “molecolare” a carattere internazionale e sovranazionale. Gramsci, teorico delle situazioni di “crisi”, eccezionale reinventore del concetto oggi imprescindibile di “egemonia”, ci suggerisce, pacatamente, con la fusione dell’ottimismo della volontà e del pessimismo della ragione, qualche percorso per passare dalla crisi alla sua analisi e al suo superamento.

Soprattutto pare utile oggi, a proposito di egemonia, rispondere non con ulteriori polemiche al vituperio corrente, fondato su sciocchezze e menzogne, [30] ma, piuttosto, fare, come si cerca di fare in questo lavoro, con un’attenta ricostruzione del processo di formazione di quella egemonia, che si rivela, con i suoi limiti e le sue contraddizioni, come un grande disegno culturale, del quale Togliatti è il regista, alcuni intellettuali di partito gli attori, mentre l’opera e la figura di Antonio Gramsci rappresentano la trama, la materia prima, il soggetto. Quel disegno, in realtà, non andò completamente in porto, per gli svolgimenti della situazione politica interna e internazionale – il 18 aprile 1948, con la sconfitta delle sinistre, l’ingresso italiano nel Patto Atlantico, l’involuzione del socialismo reale, la morte di Stalin, la rivoluzione ungherese, il XX Congresso del PCUS, la difficile destalinizzazione... –, ma rappresentò il più lucido tentativo di dare un’anima culturalmente profonda, di alto valore, al processo della ricostruzione del paese uscito dalla guerra e dal fascismo. E Gramsci, pur nell’utilizzo, talora spregiudicato, talaltra del tutto legittimo, da parte di Togliatti e dell’intelligencija “organica”, riuscì non solo a non farsi schiacciare dalla politica del momento, ma a resistere come un cristallo di roccia imponendosi come l’autore di cui il Partito comunista, la sinistra e l’Italia tutta avevano bisogno.

Da questo Gramsci dopo Gramsci, pensatore fortemente italiano e “nazionale”, ma, scoperto un po’ alla volta, nei termini universali e globali, possiamo trarre la conferma della necessità di quel cambiamento radicale di rotta per il mondo, reso urgente dalla situazione di guerra permanente, di aggravamento di ingiustizie sociali all’interno delle singole società nazionali, di emergere di disuguaglianze tra un Sud e un Nord del mondo ormai insostenibili... Ma questi elementi della crisi in atto, sottolineano innanzi tutto la necessità della lotta per la verità, filo conduttore della vita e dell’opera, politica e intellettuale, di Antonio Gramsci. E quale dovrebbe essere il ruolo dell’intellettuale, come Gramsci ce lo propone, negli scritti e nell’esempio concreto, di altissimo valore, se non la battaglia «per la verità»? [31] La nuova, ultima fortuna di Gramsci, davanti a un socialismo che si fondò sulla menzogna e su nuove ingiustizie, rovesciando le proprie premesse e promesse, risiede forse innanzi tutto in questa passione per la verità, che lo ricollega da un lato a un Romain Rolland e – sia pur in modo critico – a un Julien Benda, dall’altro a un Edward Said, che più di ogni altro sembra aver raccolto il stimone dalle mani di Antonio Gramsci, attribuendo all’intellettuale il compito supremo di «dire la verità».