mercoledì 22 agosto 2012

Il giusto equilibrio perduto da tempo


VIOLANTE E IL POPULISMO GIUDIZIARIO

Siamo in presenza di un nuovo «populismo giudiziario» impegnato in un attacco frontale contro il presidente della Repubblica come sostiene Luciano Violante in una intervista alla Stampa di ieri? A giudizio dell’ex presidente della Camera, sarebbe entrato in azione «un blocco che fa capo a Il Fatto, a Grillo e a Di Pietro, che sta reindirizzando il risorgente populismo italiano. Quello di Berlusconi attaccava le Procure. Questo cerca di avvalersene avendo individuato in quelle istituzioni i soggetti capaci di abbattere il nemico...».

Violante, ex magistrato e, un tempo, punto di riferimento dei settori militanti della magistratura, ha assunto ormai da diversi anni una posizione critica verso gli aspetti patologici del nostro sistema giudiziario. La sua analisi del conflitto fra la Procura di Palermo e il capo dello Stato, però non convince del tutto. Ne coglie la valenza politica ma ha il difetto di non voler vedere le continuità, il nesso fra la situazione presente e la storia dei rapporti fra magistratura e politica.

Certo, dopo la presidenza di Francesco Cossiga non era più accaduto che il capo dello Stato diventasse, diciamo così, oggetto di attenzione da parte di settori del potere giudiziario. E che ciò si accompagnasse a una campagna politica, a sostegno dei magistrati, contro il capo dello Stato. Però, chi conserva memoria storica, non può condividere la tesi secondo cui il «populismo giudiziario» sia un’acquisizione recente. Il populismo giudiziario, se vogliamo chiamarlo così, ci accompagna da più di un ventennio. E la sinistra politica e intellettuale, nelle sue componenti maggioritarie, lo ha sempre giustificato e coperto.

Che cosa è cambiato ora, provocando quelle lacerazioni a sinistra di cui ha parlato ieri su questo giornale Antonio Polito? Di sicuro non è cambiato il costume: ora come in passato la bussola, per tanti, resta sempre l’antico detto secondo cui «le leggi si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici ». A cambiare è stato il quadro politico: fin quando c’era Berlusconi e l’azione dei magistrati si concentrava su di lui la sinistra era sostanzialmente unita nel sostenere anche le più spericolate iniziative giudiziarie. Adesso che c’è Monti, premier di un governo del presidente, un intervento giudiziario che tocca il Quirinale produce lacerazioni e rotture.

Da un male può nascere un bene, penserà qualche ottimista: questo conflitto potrebbe essere l’occasione per una nuova politica della giustizia. Potrebbe permettere di varare una legge adeguata sulle intercettazioni. Potrebbe poi porre fine al mal costume dello sfruttamento del circuito mediatico-giudiziario per la costruzione di carriere politiche. E ristabilire rapporti corretti fra istituzioni rappresentative e ordine giudiziario. Potrebbe infine portare a un maggior coordinamento fra Procure, evitando gli accavallamenti delle inchieste, rendendo così anche più efficace il contrasto alla criminalità.

Ma è possibile che, ancora una volta, gli ottimisti si sbaglino. Come ha chiarito l’Associazione nazionale magistrati, polemizzando con Monti, ci sono cose che in questo Paese non si possono fare e una di queste è rendere i rapporti fra politica e magistratura meno squilibrati di quanto non siano da venti anni.Gli ottimisti rischiano delusioni soprattutto perché non è mai diventato patrimonio condiviso il principio liberale secondo cui il potere corrompe ma il potere assoluto corrompe in modo assoluto. Il che significa che siccome noi uomini siamo da questo punto di vista tutti uguali (non importa quale mestiere facciamo), se ci troviamo ad avere troppo potere saremo facilmente portati, prima o poi, ad abusarne. È per questa ragione che il potere, sia esso politico, amministrativo, giudiziario, o di altro tipo, deve essere sempre soggetto a divisioni, vincoli, paletti e bilanciamenti. È la debolezza del sistema di bilanciamenti del potere delle Procure il vero problema. Finché non verrà affrontato, senza spirito punitivo ma con realismo, non usciremo dalla trappola in cui la storia e il costume ci hanno fatto cadere.

di Angelo Panebianco, dal Corriere
21 agosto 2012 |

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