di MARIO TOZZI, dalla Stampa
Iniziare la vendemmia nostrana nel giorno più caldo dell’anno, ancora all’inizio di agosto, colpisce il nostro immaginario più del calo della produzione che pure giustamente preoccupa gli agricoltori. Ma già da qualche anno non è più settembre il mese dedicato alla raccolta dei grappoli e la fascia climatica della vite si sta spostando con rapidità verso nord in tutta Europa.
Fra qualche anno anche gli ulivi potrebbero iniziare a migrare più a settentrione e stessa sorte potrebbe toccare a molte coltivazioni tipiche del Mediterraneo meridionale come le palme. Spostamenti del genere non ci dovrebbero sorprendere, basti pensare che, tra l’XI e il XIII secolo, si vendemmiava allegramente perfino in Cornovaglia e lungo il Tamigi, mentre, ai tempi di Erik il Rosso, l’orzo veniva mietuto in Islanda e perfino in Groenlandia.
Fino al 1500 a.C. la temperatura media dell’emisfero boreale era più elevata di circa 3°C (in media) rispetto a quella attuale. Oscillazioni caldo-freddo si susseguirono poi fino alla fine dell’epoca romana (V secolo), quando iniziò un brusco raffreddamento fino all’800 e poi un riscaldamento fino al 1250. Ma già nel 1315 freddo, ghiaccio e carestie diedero un segno di come il clima influiva sulla vita degli uomini: precipitazioni intense riducevano tutto a pantani fangosi, il grano non maturava più e, nel ciclo più freddo (fra il 1680 e il 1730), non si riusciva neppure a riscaldare le abitazioni delle isole britanniche, al cui interno si arrivava a malapena ai 3°C. Dal 1300 al 1850 circa l’Europa e l’emisfero settentrionale furono investiti da un peggioramento climatico senza precedenti. Il Tamigi ghiacciò diverse volte in quei secoli, tanto che poteva esser ridisceso in slitta; nel 1440 la viticoltura scomparve dalla Gran Bretagna. E tutto questo in ragione di solo mezzo grado centigrado in meno nelle temperature medie invernali rispetto al XX secolo: sono sufficienti centesimi di grado per mettere in pericolo intere popolazioni e cambiare la storia, figuriamoci per stravolgere l’agricoltura.
Il clima cambia da sempre, anche se il mutamento attuale ha qualcosa di diverso. Intanto è molto veloce e molto robusto, tanto da risentirsi in poche stagioni su coltivazioni tradizionalmente stabili. Poi è a scala globale, cioè riguarda tutto il pianeta. Infine porta come corollario uno sconvolgimento meteorologico che è ancora più pesante: tempeste fuori stagione e fuori dalle regioni tradizionalmente interessate, bombe d’acqua vere e proprie, trombe d’aria e dissesti generalizzati. Siccome insieme alle fasce climatiche si sposta il mondo vegetale nel suo complesso, tutto ciò ha un impatto micidiale per l’agricoltura, che ancora più ne risentirà nei prossimi anni. Oltretutto le piante, per definizione, non si spostano velocemente, dunque potrebbe accadere che si traslino le tradizionali zone di produzione di vini per portarle più a nord; ma si sa che, oltre al clima, contano il vitigno e soprattutto il suolo: si potrà produrre il Nero d’Avola in Friuli? O l’Aglianico in Piemonte? Per non parlare della possibilità che i vini italiani si ritrovino domani a competere con rinomati rossi magari della penisola scandinava.
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