giovedì 30 agosto 2012

NOVA SIRI - Giunta, delega irregolare conferita al presidente del Consiglio Melidoro


giovedì 30 agosto 2012
NOVA SIRI - Giunta, delega irregolare conferita al presidente del Consiglio Melidoro

Non potrebbe avere incarichi


di PIERANTONIO LUTRELLI


NOVA SIRI - Il sindaco di Nova Siri, Pino Santarcangelo, nel tentativo di ricomporre al più presto la crisi politico-amministrativa, inaspritasi dopo le dimissioni dell'assessore alla Cultura, Cosimo Pancaro che "senza inchino" è passato dai banchi della giunta a quelli dell'opposizione, ha cercato di ricomporre alla meglio dal punto di vista organigrammatico, una serie di criticità. Ciononostante le scelte "anomale" balzano all'occhio con un'evidenza che lascia stupiti non soltanto gli addetti ai lavori. Innanzitutto c'è da premettere che Pancaro ricopriva il ruolo di assessore alla Cultura, Spettacolo, Attività produttive, Protezione civile, Innovazione e Politiche europee, ma queste deleghe sono state smembrate e non assegnate al sesto assessore che ha preso il suo posto, ossia Antonio Toscani, al quale è stata data la delega alle Attività produttive e all'Agricoltura, che va a cumulare con la vice presidenza del Consiglio. Così appare dalla lettura del sito ufficiale del Comune. La delega alla Cultura invece è stata assegnata con tanto di ufficializzazione (anche qui basti vedere il sito), al presidente del Consiglio comunale, Antonio Melidoro. Orbene, un ufficio di presidenza così impegnato in ruoli amministrativi non si ricorda a memoria d'uomo. È come se il presidente della Camera, Gianfranco Fini o quello del Senato, Renato Maria Giuseppe Schifani ricoprissero anche il ruolo di ministro della Cultura. O come se il presidente del Consiglio regionale di Basilicata, Vincenzo Folino fosse anche assessore alla Cultura. I ruoli di componente dell'ufficio di presidenza vanno sempre separati da quelli amministrativi. Oltre ad essere evidente un conflitto istituzionale appare probabile anche un conflitto statutario. Comunque, buon senso alla mano, il Consiglio dovrebbe rappresentare l'organo di controllo politico dell'operato del governo cittadino, invece qui, addirittura chi lo presiede occupa ruoli diretti nella gestione. Addio organo di garanzia super partes, in quanto il confine tra i due ruoli si estingue nel caso novasirese per confusione. Eppure tempo fa il neo assessore Toscani quando venne eletto vice presidente dell'assise municipale, rinunciò formalmente alla delega alla Manutenzione da due giorni assegnata a Francesco Tarsia al quale è stata revocata la delega prestigiosa dei Lavori pubblici che è andata al potentissimo assessore Enzo Pavese, già detentore della delega all'urbanistica nonché vice sindaco del paese dal 2004 al 2009 sempre con Santarcangelo sindaco. Il prossimo consiglio comunale sarà il primo con Pancaro dall'altra parte, che preannuncia, stando alle indiscrezioni, un'opposizione senza sconti e nel merito delle questioni. Se Santarcangelo ancora può contare sulla maggioranza, lo deve grazie al consigliere comunale Dino Padula, unico "soldato semplice" della compagine, il quale senza un'indennità di carica mantiene il 9 a 8 che tiene in vita sindaco e giunta e lontano il commissario prefettizio. Curioso come, nonostante l'infarcitura generale, solo Padula non abbia deleghe amministrative. Quest'ultimo, svincolato da ogni obbligo o vincolo, pare abbia voluto conservare le mani libere. Il resto è storia che verrà.


(da Il Quotidiano della Basilicata)

venerdì 24 agosto 2012

Se si vota non vince nessuno


di FABIO MARTINI, dalla Stampa

I leader politici già lo sanno e gli italiani lo sapranno presto: con la riforma elettorale in gestazione e oramai vicina al traguardo, tutto è stato calibrato per garantire due obiettivi minimali. Comunque vadano le elezioni, nessuno dei tre partiti di maggioranza avrà molto da perdere in termini di rappresentanza, mentre al più forte di loro sarà garantito un premio, ma non è affatto detto che l’additivo sia sufficiente per conquistare la maggioranza dei seggi in Parlamento. Nella notte delle elezioni, agli italiani potrebbe essere negata l’istantanea ormai rituale in tutte le democrazie del mondo: la consacrazione del leader vittorioso.

Per sapere chi governerà il Paese occorrerà attendere che le forze politiche trovino in Parlamento l’equilibrio «giusto». Un esito da «no contest» che i leader dei partiti già conoscono, per effetto delle simulazioni riservate che hanno condotto in queste ultime settimane e che ora è confermato anche da uno studio indipendente, realizzato dall’Istituto Cattaneo. Dunque, se alla fine si dovesse andare a votare oggi col sistema sul quale si è trovato un compromesso, nessun partito vincerebbe. E diventerebbe obbligatoria una qualche coalizione, anche se in campagna elettorale se ne fosse negata l’opportunità. In vista del traguardo, in queste ore, si stanno moltiplicando i segnali di fumo, le indiscrezioni pilotate, le polpette avariate. E si capisce perché: nelle prossime quattro settimane si deciderà il destino di questa legislatura e anche della prossima.

E indirettamente si determinerà anche la platea che sarà chiamata ad eleggere il nuovo Capo dello Stato. Tutto è intimamente intrecciato: la trattativa sulla legge elettorale, il destino del governo, il possibile scioglimento anticipato della legislatura. Ogni segmento tiene l’altro. Questa mattina, nella convinzione che la legislatura si concluda in modo naturale, il governo si riunisce per lanciare il rush finale, avviando e implementando dossier che vanno ben oltre l’ordito dei «compiti a casa», imposti nove mesi fa dall’Europa e dalla signora Merkel. Anche i partiti, nei giorni della formazione del governo Monti, ebbero subito chiaro quali sarebbero stati i loro compiti a casa. Compiti da ripetenti: scongelare quel pacchetto minimo di riforme istituzionali di cui si chiacchiera da decenni e scardinare finalmente il Porcellum.

Nella storia delle democrazie, le leggi elettorali sono quasi sempre l’espressione di un assetto sociale, di un’idea di Paese. Così è stato nell’Inghilterra dei collegi uninominali, nella Francia della Quinta Repubblica e anche nell’Italia del 1993, quando la prima riforma elettorale dopo 47 anni, il Mattarellum, fu chiamata a fronteggiare il crollo della Prima Repubblica. E’ nel 2005 che cambia l’approccio: Berlusconi fa una riforma, il Porcellum, finalizzata ad un calcolo preciso, sgonfiare il più possibile il probabile successo dell’Unione di Prodi. In sette anni quella legge, intimamente anti-democratica per via del sistema dei nominati, è diventata indigeribile per tutti. Il Capo dello Stato si è incaricato di ricordarlo spesso, pungolando i partiti, fino a costringerli ad agire. Pd, Pdl e Udc - lasciate cadere le suggestioni maggioritarie dell’ispano-tedesco del «Vassallum» e quella del semipresidenzialismo - stanno per partorire un marchingegno che, in prospettiva, possa consentire di liberarsi delle coalizioni eterogenee e rissose di questi anni e costruire un nuovo bipolarismo attorno a due grandi partiti.

Con un inconveniente: sul breve periodo, Pd e Pdl sono diventate due forze «bonsai», politicamente incapaci di essere i partiti-guida del sistema. Nei prossimi giorni si capirà se il minimo comune denominatore raggiunto tra i partiti corrisponderà anche al miglior compromesso possibile. Se avremo cioè una legge da più legislature, oppure, come ha riconosciuto un professore in politica come Gaetano Quagliariello, si andrà verso «una legge di transizione». In questi anni si è molto sorriso sugli esotici modelli elettorali via via proposti dai partiti - l’ungherese, l’israeliano, l’australiano - e forse proprio per effetto di questi precedenti nessuno ha avuto ancora il coraggio di battezzare il sistema in arrivo.

Eppure, gli impianti che lo ispirano sono chiari: il proporzionale «personalizzato» nei collegi è mutuato dalla legge tedesca; il premio al primo partito è lo stesso in vigore in Grecia. Se non interverranno significativi ripensamenti, l’Italia sta per adottare un sistema «greco-tedesco»: originale mix ispirato al Paese più solido e a quello più sofferente d’Europa.

PULIZIE CASA ECOLOGICHE


PULIZIE CASA ECOLOGICHE: COME FAR SPLENDERE IL BAGNO A COSTO ZERO

Con la crisi, la spesa per la cura della casa si è ridotta all’essenziale. Pochi prodotti e più attenzione nei confronti della salute. Ecco allora qualche consiglio per pulire il proprio bagno con detergenti e sgrassanti naturali e a portata di tutte le tasche. Iniziamo dal pavimento, con una ricetta valida anche per le piastrelle della cucina: basta munirsi di succo di limone, o di un po’ di aceto di vino bianco, di bicarbonato (da non miscelare con l’aceto) e di sapone liquido neutro, preferibilmente biodegradabile. Riempite un secchio con dell’acqua (regolatevi in base all’ampiezza della superficie), aggiungete mezza tazza di aceto - o in alternativa succo di limone con mezzo bicchiere di bicarbonato -, e mezzo bicchiere di sapone liquido. Se desiderate una maggiore profumazione, aggiungete alla miscela ottenuta una decina di gocce di olio essenziale alla lavanda, all’eucalipto, al cipresso o al limone, tutti con poteri disinfettanti, contro gli insetti e anti-muffe. Ottimo anche quello di Tea Tree, potente anti-fungo e killer di germi, disponibile in erboristeria.

Passando al water, invece, utilizzate l’acqua di bollitura della pasta, aggiungendo aceto oppure limone. Per sbiancare le pareti interne del water, versate sullo scopino del bicarbonato di sodio e strofinate con cura. Il bicarbonato, infatti, oltre alla sua funzione detergente e igienizzante, è efficace anche nel neutralizzare i cattivi odori. Per le macchie più ostinate niente di meglio di due bicchieri di Cola, da lasciare agire per circa un’ora e da toglier via con una tirata di sciacquone. Per doccia, bidè e lavandini il prodotto magico anti-calcare è l’aceto. Diluito con acqua e asciugato subito con carta da cucina è perfetto anche per i vetri. Per uno scrub delicato, sbiancante, e ovviamente naturale, adatto a tutte le superfici, vasca, lavabo e bidè, fate così: in un contenitore di vetro, miscelate 1 tazza di bicarbonato di sodio e 1 cucchiaio di sapone liquido. Aggiungete un po’ d’acqua e mescolate fino a creare una sorta di crema. In ultimo, unite 10 gocce di olio essenziale a vostra scelta.

Per creare un anti-batterico adatto a tutte le superfici lisce e alle pulizie veloci di tutti i giorni, versate in un flaconcino dotato di spray 1/2 tazza di aceto bianco, 3 tazze d’acqua, 10 gocce di estratto di semi di pompelmo (disponibile nei negozi di prodotti naturali), o di olio tea tree, 1 cucchiaino di sapone liquido e 10-20 gocce di olio essenziale di lavanda o limone.

di Flavia Dondolini, da http://casa.ecoseven.net/arredamento/pulizie-ecologiche-come-far-splendere-il-bagno-a-costo-zero

giovedì 23 agosto 2012

Non si contratta lo spread con la natura


di LUCA MERCALLI, dalla Stampa

Ad aprile è stato inserito nella Costituzione italiana il pareggio di bilancio, ovviamente riferito al denaro. Ma c’è un bilancio estremamente più importante per la nostra vita. Vita che prima di essere soggetta ai capricci dell’economia è ferreamente dominata da flussi di energia e materia: è quello delle valute «fisiche» disponibili sul pianeta Terra. Un dato che, per quanto denso di conseguenze per il futuro dell’Umanità, nessuno considera strategico, né lo si inserisce nelle Costituzioni, salvo forse che in quella dell’Ecuador.

In sostanza, non si possono prelevare dal conto terrestre più risorse di quante i sistemi naturali siano in grado di rigenerare né immettere rifiuti e inquinanti più di quanto la biosfera sia in grado di metabolizzare. L’Overshoot Day di quest’anno, annunciato ieri, definisce la data nella quale il nostro conto corrente con l’ambiente è andato in rosso. Abbiamo speso tutti gli interessi in questi primi 234 giorni dell’anno, e da oggi al 31 dicembre dilapideremo una parte del capitale, con conseguenze talora irreversibili, come il riscaldamento globale o l’estinzione di specie viventi.

Il pareggio di bilancio mondiale è stato rispettato più o meno fino alla metà degli Anni 70, quando l’umanità contava 3,5 miliardi di individui. Oggi siamo 7 miliardi, consumiamo e inquiniamo come non mai e preleviamo l’equivalente di una terra e mezza. La biosfera è un sistema resiliente, e per brevi periodi può sopportare uno stress senza collassare, a patto che si rientri nei limiti imposti dalle leggi universali che governano i cicli biogeochimici, il clima, la riproduzione della fauna ittica, la rigenerazione delle foreste. Ma, come accade a un motore lanciato a folle corsa, quando la lancetta del contagiri entra in zona rossa, per non sbiellare bisogna ridurre la velocità.

Stranamente l’economia mondiale appare preoccupatissima del rallentamento dei giri del motore e invoca un’ulteriore accelerazione che secondo i modelli ecologici porterebbe attorno al 2050 alla necessità dell’equivalente di due pianeti, dei quali evidentemente non disponiamo. Ovvero il motore salta e la macchina si ferma di botto con gravi conseguenze per la società e per l’ecosistema. La «spending review» tanto oggi di moda dovrebbe dunque includere anche le risorse fondamentali da cui dipendiamo, suolo, acqua, energia, biomassa, carico inquinante.

Una riduzione dei giri governata con saggezza per riportarci nei limiti concessi dall’unico pianeta che abbiamo è l’unico atteggiamento razionale a cui ricorrere, e sarebbe assurdo non considerarlo proprio ora che la ricerca scientifica ci mette a disposizione tanti dati affidabili su cui costruire gli scenari futuri, scegliendo quelli più favorevoli ed evitando le trappole del sovrasfruttamento. La sfida è enorme, l’uomo deve completamente mutare il proprio paradigma, da un cieco inseguimento della crescita fine a se stessa a un’economia basata su uno stato stazionario, energie rinnovabili e rifiuti riciclabili. È un obiettivo per nulla facile da perseguire, né esistono ricette preconfezionate, tuttavia ciò che la comunità scientifica invoca invano da anni è una disponibilità all’ascolto del mondo economico e politico, alla ricerca di soluzioni nuove e condivise che tengano conto dell’enorme posta in gioco, ovvero la sopravvivenza della specie per un periodo dello stesso ordine di grandezza del nostro cammino evolutivo precedente, diciamo 200 mila anni. Sotto le isteriche oscillazioni dello spread, c’è un debito con la natura che non si potrà contrattare in nessun Parlamento.

mercoledì 22 agosto 2012

Dieci domande scomode per dottor Tannoia,responsabile dell'Eni per l'Europa meridionale


Il colosso ENI non risponde a 10 domande scomode
La Ola, Organizzazione lucana ambientalista, e NoScorie Trisaia, richiedono a Giuseppe Tannoia, di rispondere alle 10 domande formulate una settimana fa e di non sfuggire alle responsabilità del suo ruolo. Tannoia, è responsabile per l’Eni dell’Europa meridionale, dunque è uno dei massimi dirigenti della società petrolifera italiana, pertanto è titolato a prendere decisioni e a dare risposte. Lo deve non alla Ola e a NoScorie, ma alla società civile lucana, che ha bisogno di sapere cosa accade all’interno del proprio sottosuolo, al proprio circuito dell’acqua e al rischio sismogenetico intrinseco alle attività estrattive, soprattutto in aree sismiche come la Basilicata.

La Ola e NoScorie si rendono conto che a Tannoia hanno rivolto domande molto scomode, ma le attività estrattive sono considerate invasive e cancerogene in ogni angolo del mondo, a maggior ragione lo possono essere in un’area antropica come la Basilicata che è ricca di bacini idrici di superficie e di profondità e dove l’Eni, la Shell, la Total e una decina di altre società minerarie minori, legate queste ultime ad aspiranti “petrolieri” lucani, si apprestano a perforare in altura, creando i presupposti per un inquinamento irreversibile delle sorgenti dei fiumi lucani. Agri in testa.

Tra l’altro, come denunciato dal professor Franco Ortolani al convegno tenutosi di recente a Grumento Nova, che ha registrato la vergognosa e inqualificabile assenza dei vertici del dipartimento ambiente della Regione, a partire dall’assessore Vilma Mazzocco, nonostante l’importanza del tema trattato e il ricco parterre di scienziati e ricercatori presenti, oltre a una necessità scientifica e a una sociale, esiste oggi anche una necessità legislativa che obbliga privati e pubblico a cercare di capire cosa accade con le attività estrattive nel sottosuolo lucano. Perché in questo campo, la conoscenza geologica ha fatto passi da gigante, mentre le normative che regolano le attività estrattive sono ferme, in Italia, ai tempi di Enrico Mattei.

Una necessità di capire che è dettata da civili regole di dovere di informazione, di tutela dell’ambiente e della salute umana, che, secondo la Ola e NoScorie (e anche secondo il prof Ortolani), non può prescindere da una reale moratoria di tutte le nuove attività minerarie (la moratoria evocata da Vito de Filippo nel maxi-emendamento è fasulla e sarà annullata dai Tar e dalla Consulta). Ad iniziare da quella pratica tutta italiana che nelle Via, Valutazione di impatto ambientale, obbligatorie e propedeutiche all’ottenimento dei permessi estrattivi, le società minerarie non allegano mai relazioni scientifiche internazionali, ma semplici relazioni e valutazioni personali di tecnici e specialisti. Dei quali, occorrerebbe poi sapere che rapporti mantengono o stipulano con le stesse società minerarie.

Qui di seguito le dieci domande che ripeteremo periodicamente fin quando il dottor Tannoia – che a Viggiano, durante la Copam del 2001 si fermò a tranquillizzare le famiglie di Viggiano che protestavano davanti alla sede del convegno, vietando però a Olachannel di riprendere ciò che stava affermando (affinché non fosse registrato?) -, non degnerà la società civile lucana di una sua esaudiente attenzione.

1 – La legge italiana tollera la presenza di inquinanti nei sedimenti di un bacino idrico?

2 – Se si rilevano idrocarburi nei sedimenti di un bacino idrico, può voler dire che galleggiano in quelle acque da almeno 10 anni?

3 – se la presenza di idrocarburi nel Pertusillo è così marcata lungo il versante delle attività minerarie della Val d’Agri, se la sente di escludere le respondabilità dell’Eni?

4 – perché l’Eni non consegna i piani ingegneristici dei pozzi ai comuni interessati dalle loro attività?

5 – può escludere che l’estrazione in altura, sotto i monti di Marsico Nuovo, non danneggerà le sorgenti del fiume Agri per intere generazioni umane, come da letteratura internazionale sui rischi delle perforazioni in altura e in presenza di sorgenti?

6 – esiste un nuovo progetto di raddoppio del centro olio e della sesta linea della cosiddetta Fase 3, senza la quale non sarebbe possibile portare a 130 mila barili al giorno l’attività di raffinazione del centro oli di Viggiano? E senza la sesta linea autorizzabile, potrebbero essere dichiarati nulli gli incrementi di 40 mila barili al giorno nel centro oli di Viggiano (14 mila dai pozzi esistenti e 26 mila dai nuovi pozzi di Marsico Nuovo) dei famigerati accordi del ‘98?

7 – La filiera del petrolio è cancerogena solo per gli scienziati internazionali, per gli americani e per lo Stato della California che ha varato la rigida “Proposition 65″, cui tutte le compagnie si devono attenere, o è cancerogena anche per i lucani?

8 – Cosa accade in tema di rischio sismico in area sismogenetica come la Val d’Agri, se togliamo dal sottosuolo ingenti quantitativi di petrolio, che ha un peso specifico più leggero dell’acqua, e reimmettiamo, come l’Eni sta facendo in Val d’Agri, acqua reflua di scarto di lavorazione, che non solo è altamente tossica (smaltimento improprio?), ma è immessa ad altissima pressione lungo le faglie sismiche e risulta più pesante del petrolio estratto?

9 – l’Usgs, United States Geological Survey, la rinomata agenzia scientifica del Governo americano, sta oggi studiando e ammettendo l’elevato rischio sismico determinato dalle attività estrattive. Ritiene giusto che l’ENI vada a realizzare un pozzo di reiniezione, come il Monte Alpi 9 or, lungo la faglia sismogenetica di Grumento Nova?

10 – Ritiene istituzionale il comportamento dell’Eni in merito a una intervista su un quotidiano locale a Carlo Doglioni fatta da un dirigente della Fondazione Mattei e poi fatta pubblicare come intervista di un giornalista, con tanto di firma (fasulla ?) del professionista? Intervista che l’eminente professore di geologia italiano ha disconosciuto nella forma e nei contenuti scientifici, denunciando il grave accaduto di disinformazione sul blog di Beppe Grillo e sulla pagina web della Ola. Non ritiene che sia un vergognoso tentativo di disinformare e tranquillizzare le genti di Basilicata?

Il giusto equilibrio perduto da tempo


VIOLANTE E IL POPULISMO GIUDIZIARIO

Siamo in presenza di un nuovo «populismo giudiziario» impegnato in un attacco frontale contro il presidente della Repubblica come sostiene Luciano Violante in una intervista alla Stampa di ieri? A giudizio dell’ex presidente della Camera, sarebbe entrato in azione «un blocco che fa capo a Il Fatto, a Grillo e a Di Pietro, che sta reindirizzando il risorgente populismo italiano. Quello di Berlusconi attaccava le Procure. Questo cerca di avvalersene avendo individuato in quelle istituzioni i soggetti capaci di abbattere il nemico...».

Violante, ex magistrato e, un tempo, punto di riferimento dei settori militanti della magistratura, ha assunto ormai da diversi anni una posizione critica verso gli aspetti patologici del nostro sistema giudiziario. La sua analisi del conflitto fra la Procura di Palermo e il capo dello Stato, però non convince del tutto. Ne coglie la valenza politica ma ha il difetto di non voler vedere le continuità, il nesso fra la situazione presente e la storia dei rapporti fra magistratura e politica.

Certo, dopo la presidenza di Francesco Cossiga non era più accaduto che il capo dello Stato diventasse, diciamo così, oggetto di attenzione da parte di settori del potere giudiziario. E che ciò si accompagnasse a una campagna politica, a sostegno dei magistrati, contro il capo dello Stato. Però, chi conserva memoria storica, non può condividere la tesi secondo cui il «populismo giudiziario» sia un’acquisizione recente. Il populismo giudiziario, se vogliamo chiamarlo così, ci accompagna da più di un ventennio. E la sinistra politica e intellettuale, nelle sue componenti maggioritarie, lo ha sempre giustificato e coperto.

Che cosa è cambiato ora, provocando quelle lacerazioni a sinistra di cui ha parlato ieri su questo giornale Antonio Polito? Di sicuro non è cambiato il costume: ora come in passato la bussola, per tanti, resta sempre l’antico detto secondo cui «le leggi si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici ». A cambiare è stato il quadro politico: fin quando c’era Berlusconi e l’azione dei magistrati si concentrava su di lui la sinistra era sostanzialmente unita nel sostenere anche le più spericolate iniziative giudiziarie. Adesso che c’è Monti, premier di un governo del presidente, un intervento giudiziario che tocca il Quirinale produce lacerazioni e rotture.

Da un male può nascere un bene, penserà qualche ottimista: questo conflitto potrebbe essere l’occasione per una nuova politica della giustizia. Potrebbe permettere di varare una legge adeguata sulle intercettazioni. Potrebbe poi porre fine al mal costume dello sfruttamento del circuito mediatico-giudiziario per la costruzione di carriere politiche. E ristabilire rapporti corretti fra istituzioni rappresentative e ordine giudiziario. Potrebbe infine portare a un maggior coordinamento fra Procure, evitando gli accavallamenti delle inchieste, rendendo così anche più efficace il contrasto alla criminalità.

Ma è possibile che, ancora una volta, gli ottimisti si sbaglino. Come ha chiarito l’Associazione nazionale magistrati, polemizzando con Monti, ci sono cose che in questo Paese non si possono fare e una di queste è rendere i rapporti fra politica e magistratura meno squilibrati di quanto non siano da venti anni.Gli ottimisti rischiano delusioni soprattutto perché non è mai diventato patrimonio condiviso il principio liberale secondo cui il potere corrompe ma il potere assoluto corrompe in modo assoluto. Il che significa che siccome noi uomini siamo da questo punto di vista tutti uguali (non importa quale mestiere facciamo), se ci troviamo ad avere troppo potere saremo facilmente portati, prima o poi, ad abusarne. È per questa ragione che il potere, sia esso politico, amministrativo, giudiziario, o di altro tipo, deve essere sempre soggetto a divisioni, vincoli, paletti e bilanciamenti. È la debolezza del sistema di bilanciamenti del potere delle Procure il vero problema. Finché non verrà affrontato, senza spirito punitivo ma con realismo, non usciremo dalla trappola in cui la storia e il costume ci hanno fatto cadere.

di Angelo Panebianco, dal Corriere
21 agosto 2012 |

Il grande alibi del tempo scaduto


COSA SI PUÒ FARE PRIMA DELLE ELEZIONI

Dalle elezioni ci separano all'incirca nove mesi, quanto basta per mettere al mondo una creatura; ma l'attesa della vita si è trasformata in una morte prematura. Zero riforme, zero leggi in Parlamento. Sicché in questo finale di partita va in scena il Grande Imbroglio, l'alibi usato dai partiti per sabotare qualunque iniziativa.

La legge sulle intercettazioni? Troppo tardi, dichiara all'unisono il Pd. Quella sulla corruzione? Non c'è più tempo, replica a brutto muso il Pdl. Idem per il semipresidenzialismo licenziato dal Senato. Per la responsabilità dei giudici, approvata dalla Camera in febbraio. Per la riforma del fisco, abbozzata in aprile dal governo. Per la revisione dei regolamenti parlamentari, in modo da rendere più impervio il salto della quaglia degli eletti. Per la disciplina dei partiti. Per i temi etici, a cominciare dai diritti delle coppie di fatto. L'unica legge promessa a destra e a manca è quella elettorale: più che una legge, l'estrema unzione della legislatura, e chissà se le verrà mai impartita.
C'è una ragione giuridica dietro questo stallo? Nessuna: le Camere funzionano a pieno regime fino alla scadenza. O anche dopo, finché non si riunisca il nuovo Parlamento (articolo 61 della Costituzione). Difatti per i parlamentari non vale la regola del semestre bianco, come per il capo dello Stato. E la legislatura dura cinque anni, non quattro anni e mezzo. Ma ormai il suo cuore batte piano, il respiro è quasi un rantolo. Nei primi diciotto mesi della legislatura in corso vennero approvate 119 leggi; negli ultimi otto mesi, da quando è scoccato il Capodanno del 2012, sono soltanto 11 i progetti di legge d'iniziativa parlamentare arrivati in porto. Supplisce, per lo più, l'esecutivo (38 provvedimenti). Ma il governo Monti si tiene alla larga dalle materie dove infuriano i contrasti. Un po' perché ha un mandato circoscritto alle questioni dell'economia; un po' perché sa bene che altrimenti può rimetterci le penne.

E allora sbuca fuori l'alibi, la scusa recitata in coro dai partiti: per ogni accordo politico servirebbe tempo, e tempo non ce n'è. Vero? No, falso. Il progetto di Costituzione, ovvero l'ossatura della Carta del 1947, fu scritto e votato in appena sei mesi. Più di recente, il disegno di legge costituzionale che ha introdotto il pareggio di bilancio è stato timbrato in sette mesi. Quanto alle leggi ordinarie, quella di stabilità ha occupato due sole sedute parlamentari (11-12 novembre 2011). A luglio la Campania ha varato una normativa contro la violenza sulle donne, pochi giorni dopo l'ennesimo assassinio. Mentre a suo tempo la legge che appose un titoletto ai referendum venne siglata da Camera e Senato fra la mattina e il pomeriggio del 17 maggio 1995.
Ma in realtà non c'è bisogno di vestirsi da Speedy Gonzales. Non occorrono né accelerazioni né improvvisazioni. Basta raccogliere il lavoro parlamentare già espletato, per mettere a profitto quest'ultimo scorcio della legislatura. Quantomeno sui capitoli della giustizia, della legalità ferita. Urgenze che non possono aspettare. Oltretutto un Parlamento incanutito dovrebbe avere in dote l'esperienza. Invece il nostro Parlamento preferisce un funerale da fanciullo, senza mai essere cresciuto.

di Michele Ainis, dal Corriere
22 agosto 2012 |

martedì 21 agosto 2012

Nonna a me? Mi offendo


di MARGHERITA HACK, dalla Stampa

Sentirsi ancora giovani a 90 anni, credo sia questo l’unico vero segreto della longevità. Ai tanti anni che ho lasciato alle spalle non ci penso, non sono abituata a guardare indietro, ho sempre vissuto alla giornata, lo facevo da bambina e lo faccio ora.

Preferisco volgere gli occhi al futuro, agli impegni che mi aspettano, a breve e a lunga scadenza. Oggi il mio corpo è stanco, sono zoppicante, il respiro è sempre più affannoso e parlare mi affatica, ma la testa è viva, vivissima: i libri, gli aggiornamenti, i convegni, gli incontri di divulgazione, le domande che mi fanno e la ricerca di risposte chiare e puntuali, sono il mio allenamento quotidiano, sono il mio personale elisir di lunga vita. Non esistono medicine miracolose, ma tenere acceso e attivo il cervello ti porta a non spegnerti, a non farti schiacciare dal tempo che passa. Senza rimpianti e senza rammarichi.

Io stessa mi meraviglio del fatto che mi dovrebbe dispiacere e mettere malinconia il non poter più giocare a pallavolo come ho sempre fatto, il non farcela a nuotare in mare o il non riuscire più a fare lunghe camminate: inutile piangersi addosso, il mio fisico è vecchio, mi accontento di quello che mi permette ancora di fare e mi basta così. Sicuramente l’aver fatto sempre tanto sport mi ha mantenuto in forma, così come ha contribuito l’alimentazione sana avuta fin da bambina: già i miei genitori erano vegetariani e io non ho mai toccato un pezzo di carne in tutta la mia esistenza, e i benefici del non nutrirsi con animali ammalati sono smisurati.

La longevità però non è un valore assoluto: non basta vivere a lungo, ma bisogna vivere bene, con consapevolezza. Io non penso mai alla morte, è una dimensione di cui non me ne frega niente, quello che mi spaventa è il soffrire inutilmente: penso che la vita ad un certo punto, per mille motivi diversi, possa stancare, e che le persone debbano essere libere di poter scegliere di spegnere l’interruttore. Per fortuna io mi sento ancora giovane: quando una mamma mi incontra per strada e dice al proprio figlio: «Guarda, c’è nonna Margherita», mi volto anche io a cercare questa nonna Margherita: perché di sicuro non sono io.

Riscaldamento globale tra scienza e ideologia


di VACLAV KLAUS , Presidente della Repubblica Ceca

Il vero problema del nostro pianeta non è il clima o il riscaldamento globale, ma la Dottrina del Riscaldamento Globale e delle sue conseguenze. Questa dottrina, in quanto insieme di credenze, è un’ideologia, se non una religione. Vive indipendentemente dalla scienza della climatologia. Le sue dispute non riguardano la temperatura, ma sono parte dello «scontro fra ideologie». La temperatura entra in gioco solo all’interno di queste dispute. I politici, i media e il pubblico non se ne accorgono. È compito degli economisti aiutarli a distinguere tra ciò che è scienza e ciò che è ideologia. Gli economisti credono nella razionalità e nell’efficienza delle decisioni spontanee prese da milioni di individui.

Essi credono nella «saggezza della gente» piuttosto che nella saggezza dei governi e dei loro consiglieri scientifici. Essi non negano che il mercato faccia errori, ma hanno molte ragioni per credere che gli errori dei governi siano più grandi e con conseguenze molto più gravi. Essi pensano che saltare sul carrozzone della dottrina del riscaldamento globale sia un esempio di serio errore dei governi, un errore che mina i mercati, la libertà e la prosperità del genere umano. Almeno dall’epoca di Frédéric Bastiat, considerano loro dovere mettere in guardia i politici dalle conseguenze involontarie di scelte compiute senza distinguere tra ciò che si vede e ciò che non si vede; Hanno a disposizione una sotto-disciplina piuttosto sviluppata che si chiama «economia energetica».

Sanno qualcosa a proposito della scarsità, e dei prezzi, e devono mettere in guardia i governi dal giocare troppo con queste entità. Non credono nel «principio di precauzione», ma nell’ «avversione razionale al rischio». Sono ben consapevoli degli effetti collaterali (di qualunque movimento di mercato). Ci hanno lavorato su per molto tempo. È un concetto loro, e di sicuro non l’hanno scoperto gli ambientalisti. Considerano anzi pericoloso che sia maneggiato da mani inesperte. Dopo decenni di studi, non vedono il mondo come un luogo di effetti collaterali negativi a priori. Basano i loro ragionamenti sugli eventi intertemporali e su raffinate tecniche relative ai tassi.

È stata l’applicazione equivoca dei tassi nei modelli climatologi ad avermi portato a riflettere seriamente qualche anno fa sul riscaldamento globale. E quindi bisognerebbe cominciare dal costo-beneficio di una riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Gli economisti non vedono la cosa con lo stesso favore degli aderenti alla dottrina del riscaldamento globale. Gli economisti sanno che i numeri della domanda e dell’offerta di energia cambiano molto lentamente. Essi vedono l’alto grado di stabilità che esiste tra le emissioni di anidride carbonica provocate dall’uomo, la loro intensità e l’attività economica, e non hanno nessun elemento per aspettarsi un radicale cambiamento in questi rapporti. L’intensità delle emissioni si modifica molto lentamente e senza miracoli di nessun tipo.

La relazione tra emissioni di anidride carbonica e tasso di crescita economica è forte, e resta forte. Chi vuole ridurre le emissioni di CO2 deve anche mettere nel conto una rivoluzione nell’efficienza economica oppure cominciare a organizzare il declino dell’economia mondiale. Di rivoluzioni nell’efficienza economica – prendendo un orizzonte temporale sufficiente - non se ne conoscono nel passato. E non ce ne saranno nel futuro. È stata la crisi economica di questi anni a provocare una riduzione nelle emissioni di anidride carbonica (probabilmente temporanea) e non i miracoli tecnologici o le preghiere dell’Ipcc.

Gli adepti della dottrina del riscaldamento globale dovrebbero spiegare al popolo che mettere in atto i loro piani garantisce il declino planetario. Le relazioni studiate dalle scienze naturali non vengono influenzate da valutazioni soggettive o da comportamenti irrazionali o da scelte compiute dalla gente. Nelle scienze sociali o comportamentali la cosa è più complicata. Fare scelte razionali significa porre attenzione alle relazioni intertemporali e ai costi. È evidente che ipotizzare un tasso di sconto eternamente vicino allo zero elimina dai discorsi degli adepti del riscaldamento globale l’influenza del tempo e una quantità di alternative.

Nei modelli costruiti dagli adepti del riscaldamento globale si immagina di operare con un tasso di sconto molto basso, un modo per colpire le generazioni di oggi e per sottostimare i danni allo sviluppo economico inferto alle generazioni future. Economisti che rappresentano diverse scuole di pensiero, da W. Nordhaus a Yale a K.M. Murphy a Chicago, dicono in modo convinto che il tasso di sconto – indispensabile per qualunque calcolo intertemporale – dovrebbe essere prossimo al tasso di mercato, un 5%, un tasso prossimo al ritorno atteso sui capitali investiti, perché solo quel tasso riflette le reali opportunità offerte da un cambiamento climatico.

Per concludere, sono d’accordo con quello che dicono molti seri climatologi e cioè che il riscaldamento prevedibile sarà molto piccolo. Sono d’accordo con Bob Carter e altri scienziati che è difficile «provare che l’influenza dell’uomo sul clima può essere misurata» perché «questo effetto si perde nella miriade di variabili che determinano i cambiamenti climatici». Fermo restando che non si possono mettere in atto tentativi irrazionali di mitigare l’effetto umano sulla temperatura globale, le perdite economiche connesse col riscaldamento globale saranno prevedibilmente molto basse. Le perdite generate da una lotta senza quartiere al riscaldamento globale sarebbero molto, molto più grandi.



Poco cibo, tanta curiosità


di UMBERTO VERONESI, dalla Stampa

La longevità è un patrimonio insostituibile ed è una delle conquiste più importanti della nostra epoca. Nei ranking mondiali dell’aspettativa di vita il nostro Paese ha una posizione di tutto rispetto: non stupisce che sia italiana la famiglia più longeva del Pianeta.

Non si tratta di un caso isolato ed è questa la buona notizia, perché significa che l’Italia ha garantito uno sviluppo sociale e ambientale globalmente adeguato. Dal 1921 al 2004 i centenari in Italia sono passati da 49 a 7.700. Sono la fascia di popolazione in più rapida espansione. Certo, emergono differenze marcate da regione a regione. Perché esiste una geografia così diversificata della longevità? I fattori genetici hanno certamente un ruolo.

Abbiamo scoperto (all’Istituto europeo di oncologia, grazie al team di Pier Giuseppe Pelicci) che la durata della vita è regolata da un gene, il P66. Non si spiegherebbe, se non con il Dna, perché la durata media della vita di un uomo è di 80 anni, quella di un cane 15 e quella di un elefante 120. Ma i geni da soli non bastano a svelare il segreto: contano gli stili di vita e per dimostrarlo porto ad esempio il caso dell’isola giapponese di Okinawa.

Il Giappone è, con l’Italia, la nazione più longeva al mondo, con 20 centenari ogni centomila abitanti, ma l’isola è un record in sé: la durata media della vita è 81,2 anni e centenari sono il 20% della popolazione, con tassi di malattia - tumori, malattie cardiovascolari e perfino osteoporosi - inferiori rispetto al resto del mondo. La loro ricetta si basa su due pilastri: lo «Ishokudoghen», che significa il cibo è la tua medicina, e lo «Yuimaru» che indica il senso di appartenenza alla comunità. L’alimentazione degli isolani è basata su frutta, verdura, soia e i suoi derivati, pesce, il tutto integrato da curcuma e dall’alga konbu. Dunque seguono una dieta povera di calorie (circa 1100 al giorno) e ricca di aminoacidi, vitamine, sali minerali. La prima regola è quindi mangiare poco e vegetariano, per mantenere in forma il corpo. Ma altrettanto importante è mantenere in forma la mente, con la consapevolezza di essere necessari e importanti per la famiglia e la società.

A Okinawa gli anziani non conoscono la solitudine: gli ultranovantenni continuano ad avere un ruolo sociale e sono così rispettati da essere invogliati a sviluppare spiritualità e pensiero. Sono i saggi, amati e onorati. Molti studi dimostrano che mantenere interessi culturali, suggestioni intellettuali e artistiche aiuta la mente a rimanere vigile e attiva e, salvo casi di malattie neurodegenerative, salvaguardare la sua salute. Io sono convinto che proveremo scientificamente che parte della longevità è legata alla capacità di essere curiosi e mantenere le passioni intellettuali e le relazioni umane; oltre che all’alimentazione frugale.

Del resto i dati di Okinawa sono chiari: i benefici sulla longevità si perdono quando i suoi abitanti emigrano. Per vivere a lungo e bene, allora i geni hanno un’influenza limitata: occorrono condizioni di vita generali, comportamenti individuali e cultura. Lo ripeto: credo che la longevità sia un patrimonio, qualunque sia la nostra convinzione su ciò che accade dopo la sua fine. È un peccato sottovalutare il periodo che trascorriamo in questa vita.

A tavola con Salvador Dalì


A tavola con Salvador Dalì

di LORENZO CAIROLI*, dalla Stampa
Sulle coste catalane, aspre e frastagliate, infierisce un vento persin più perfido del meltemi greco, una tramontana che ti fa atramuntat, ossia andare fuori di testa. Il mare muggisce per giorni, il vento sibila come bestie mandate al macello, scuote le case, fa vacillare i passanti, dicono anche faccia venire idee di suicidio. Su queste coste, sulle rocce di Cap de Creus fino a quelle di Cadaques anche le vigne andavano fuori di testa. Attecchivano, non si sa bene come, su frammenti di terra a picco sul mare e davano sempre pochi sudati grappoli per un vino che sapeva di salso e che si vendemmiava quasi sempre sulle barche. Poi dalla Spagna, con le consuete cattive notizie arrivò anche la filossera e addio filari. I contadini si riciclarono nel contrabbando. Di quel vino maledetto oggi restano solo i muretti di pietra nuda eretti per proteggere le piante dalla tirannia della tramontana.

Quando il giovane Salvador Dalì vinceva un concorso di disegno, suo padre lo premiava accompagnandolo alle garotades di Cadaques, grandi abbuffate collettive di ricci di mare
Dalì amava mangiare i ricci togliendo la polpa con un cucchiaino e adagiandola sul pane tostato.Il pane fu una sua ossessione. Sulla nave che lo portava a New York, Dalì si fece fare una baguette lunga due metri e per alcune settimane la portò sottobraccio per Manhattan. " …per prima cosa occorreva fare un pane di 15 metri di lunghezza. Poi si doveva costruire un forno abbastanza grande per cuocerlo. Questo pane non doveva essere insolito sotto nessun aspetto, doveva essere esattamente uguale a qualsiasi altro pane francese, ad eccezione delle sue misure…". La sua teoria era che quel pane di dimensioni abnormi, abbandonato in un luogo pubblico, come una grande piazza, un parco o una strada, avrebbe dato luogo alle domande della gente, allo stupore, alla riflessione. E quando la gente si fosse chiesta il perché di quel pane, la Società Segreta del Pane ne avrebbe fatto preparare un altro ancora più lungo, di 20 metri, poi un altro di 30. E poi sarebbero apparsi pani lunghi di 40 metri in altri luoghi dell’Europa e poi dell’America. E tutti si sarebbero domandati il perchè e infine in tutto il mondo si sarebbe prodotto uno stato di panico, confusione, isteria collettiva.

Dalì preferiva i ricci di mare e le sardinas asadas agli impressionisti (Coco Chanel, nel suo memoir, rivela che Dalì puzzava spesso di sardine perchè le mangiava con le mani e poi si toccava i capelli senza essersele lavate) e gli era più cara la butifarra con le fave che non la compagnia dell’amico Buñuel. La persona a lui più cara a Cadaqués era Lidia, cuoca formidabile e moglie di un anziano pescatore che portava il pesce alla famiglia Dalì fin da quando Salvador era un bambino. Il suo risotto all’aragosta e il suo dentice alla marinara li trovava ‘piatti omerici’

" Per quest’ultimo piatto – annota Dalì nei suoi Diari – aveva trovato una formula culinaria degna di Aristofane : ‘Per fare un buon dentice alla marinara occorrono tre tipi di persone : un pazzo, un avaro e un prodigo. Il pazzo deve tener vivo il fuoco, l’avaro mettere l’acqua e il prodigo l’olio. In effetti , per il successo di questo piatto ci volevano un fuoco violento e molta quantità d’olio, mentre bisognava usare l’acqua con parsimonia’.

Un’altra locandiera gli suggerì di assaggiare il suo coniglio in salsa riscaldato, con cipolle e prosciutto. Dalì accettò e, più tardi, annotò nei suoi Diari: "Quanta ragione aveva! Con l’intelligenza sensuale che posseggo nel sacro tabernacolo del mio palato, riuscii a capire subito i misteri e i segreti del piatto ‘riscaldato’. La salsa aveva acquisito un punto di elasticità, peculiare del piatto riscaldato, che la faceva aderire delicatamente all’interno della bocca: sembrava che vi distribuisse il gusto uniformemente fino a obbligare la lingua a emettere un suono di piacere. E mi credano i lettori, questo suono prosaico, che tanto somiglia a quello orribile di un tappo che salta, è lo stesso suono di quel che raramente accade e che si chiama ‘soddisfazione’. Riassumendo, quel modesto coniglio mi aveva prodotto una enorme soddisfazione" .

La sua ossessione per il pane fu tale che nel suo bel museo di Figueras è esposto un quadro in cui è dipinta una pagnotta così perfetta, ma così perfetta, che pare una fotografia. Casomai al visitatore i dubbi rimanessero accanto al quadro c’è una lente.

*Scrittore, sceneggiatore, blogger giramondo, racconta il mondo di oggi e le sue contraddizioni

lunedì 20 agosto 2012

La dissociazione tra politica e democrazia rappresentativa



Una volta l'arena politica era occupata dai partiti e i politici erano, di conseguenza, gli eletti dai cittadini. Ora i parlamentari si sono mascherati da "gente comune". Senza esserlo veramente. Così sono divenuti sempre più impopolari
di ILVO DIAMANTI,da Repubblica

LA DISSOCIAZIONE fra politica e democrazia rappresentativa. Si è ormai consumata. Anche se si continua a parlare "come se". Tutto fosse come prima. Quando l'arena "politica" era occupata dai partiti e i "politici", di conseguenza, erano gli eletti dai cittadini. Nelle liste promosse e proposte dai "partiti". Eppure non è così. Oggi in modo particolarmente esplicito ed evidente. Basta riflettere sulle vicende al centro del dibattito "politico" in questi giorni. Anzitutto, la polemica intorno alla presunta trattativa fra Stato e mafia, che vede coinvolto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, "intercettato" durante le indagini, da un lato. I magistrati di Palermo, titolari dell'inchiesta, dall'altro. Accanto ad essi, altri soggetti istituzionali importanti. La Corte Costituzionale, chiamata a esprimersi sulla legittimità dell'intercettazione e, soprattutto, del suo uso ai fini dell'inchiesta. Inoltre, il capo del governo, Mario Monti, il quale ha parlato di "abusi" nell'ambito delle intercettazioni. E, ancora, l'Anm, intervenuta a sostegno dell'azione della Procura di Palermo. Ma potrei elencare altri nomi, di altre figure, titolari di altre cariche istituzionali. Uno per tutti: Mario Draghi. Protagonista delle vicende relative all'economia e ai mercati. Le questioni che attraggono maggiormente l'attenzione pubblica. Il discorso non cambierebbe di significato. Per l'assenza, pressoché totale, di leader e soggetti di partito. "Eletti" in assemblee "elettive". Segno che oggi la politica, in Italia, è guidata e influenzata da soggetti non direttamente espressi dai canali della rappresentanza democratica. Della democrazia rappresentativa.

Naturalmente, i magistrati (inquirenti, giudicanti e costituzionali) interpretano istituzioni e poteri "costitutivi" della democrazia. Che concorrono a "garantire" e sorvegliare. Il Presidente della Repubblica e il Capo del governo: hanno un ruolo di primo piano, nel sistema politico. E sono, ovviamente, espressi dagli organismi rappresentativi. Per primo: il Parlamento. I giornali e i giornalisti, gli intellettuali: sono gli attori protagonisti dell'Opinione Pubblica. Prerogativa e condizione essenziale della democrazia rappresentativa. A conferma, però, che i partiti, oggi, partecipano al "campo politico" in misura laterale e subalterna. Questa situazione è stata provocata, anzitutto, da comportamenti e situazioni di privilegio che la crisi economica ha reso ancor più inaccettabili, per i cittadini. Ma anche dall'importanza assunta, sulla scena politica, da altri ambiti e canali. Anzitutto i media e la televisione. I teleschermi hanno, infatti, sostituito le piazze, la comunicazione e l'immagine hanno rimpiazzato il rapporto diretto con il territorio e la società. I "politici", cioè gli uomini di partito, eletti nei parlamenti nazionali e anche locali, per conquistare il consenso, si sono mascherati da "gente comune". Senza esserlo veramente. Così sono divenuti sempre più impopolari.

Per conquistare voti, per vincere le elezioni, i "politici" si sono presentati come "antipolitici". Cioè: contro i partiti e i politici eletti nei partiti. Anche se, per essere eletti, hanno formato e fondato nuovi (anti) partiti. Un'altra importante causa di delegittimazione della politica e dei politici è di tipo "tecnologico". Questa, infatti, è l'epoca della Rete e del Digitale. Che influenzano tutto. L'economia, la politica, la vita quotidiana. I mercati: sono sempre aperti, dovunque. Scossi da emozioni e sentimenti a ciclo continuo. Fiducia e Sfiducia si propagano in tempo reale. E, si sa, Fiducia e Sfiducia sono il fondamento dei Mercati. Ma anche della Politica. Visto che la Politica, oggi, si fonda sull'andamento dei Mercati. Ed essa stessa, a sua volta, è un "mercato".

Le tecnologie della comunicazione: hanno trasformato anche e soprattutto le nostre abitudini quotidiane. Noi siamo in contatto con tutti, dovunque, in qualunque momento. Attraverso i computer, i telefoni cellulari, i tablet. E ora gli smartphone. Che sono computer, telefoni cellulari e tablet al tempo stesso. Tutti comunicano in tempo reale. Su Fb e Twitter. D'altronde, ciò che prima era custodito in immensi giacimenti cartacei oggi è digitalizzato. Conservato in archivi immateriali. Siamo nell'era dell'Opinione Pubblica sempre in Rete. In cui tutti possono parlare ed essere ascoltati. Intercettati. In cui ogni documento, anche il più segreto, può essere scrutato, captato e divulgato. In Rete. Dove le Democrazie temono l'eccesso di trasparenza e di libertà. Dove Assange e WikiLeaks diventano la peggiore minaccia per le Patrie della Democrazia e dei diritti, come gli Usa e l'Inghilterra. Dove una band di ragazze diventa un rischio inaccettabile per un potere centrale e centralizzato, come quello della Russia. Che, più della protesta in piazza, teme il "ridicolo" diffuso in Rete. E si ribella alla ribellione "pop". Pardon: punk.

In Italia, la rivoluzione digitale, la Rete, insieme alla degenerazione della Democrazia del Pubblico  -  portata alle estreme conseguenze da quasi vent'anni di berlusconismo  -  hanno minimizzato il ruolo e l'importanza dei "politici di partito". E dei "partiti politici". Oscurati dai Tecnici, dai Magistrati, dai Professionisti della Comunicazione. Non a caso, i soggetti politici di maggior successo, oggi, sono un Professore senza Partito, come Mario Monti (accolto con entusiasmo all'inaugurazione del Meeting di Rimini) e un protagonista della Rete e della Comunicazione (con grandi competenze nello spettacolo), come Beppe Grillo. Inseguito, a fatica, da un Magistrato Politico, come Di Pietro.

Personalmente, mi preoccupa l'eclissi della democrazia rappresentativa e dei soggetti che, tradizionalmente, la interpretano. Tuttavia, ritengo la democrazia diretta, che corre in Rete, utile a correggere e arricchire la democrazia rappresentativa. Non a sostituirla. Così, ci attendono tempi insidiosi. Perché non vedo futuro per la democrazia rappresentativa "senza" partiti. Ma neppure "con questi" partiti. Rischiamo altrimenti di assuefarci a una politica che si svolge fuori, oltre e sempre più spesso contro. I partiti.
(20 agosto 2012)

Siamo un popolo di santi, navigatori e furbi



di FRANCESCO MERLO, da Repubblica

Non sappiamo se compatirlo o fargli i complimenti, se Mario Monti è un illuso o e se il vero furbo è lui che, con un'astuzia semantica, aggredisce la furbizia che fa fessi gli italiani. Il presidente del Consiglio vuole che mai più in radio e in televisione vengano chiamati furbi gli evasori fiscali.

Che sono invece delinquenti, malfattori, mascalzoni e fondamentalmente ladri. E se è difficile dargli torto, è forse ancora più difficile dargli ragione. Si può infatti sorriderne, ripassando la lunga storia della lotta alla furbizia come natura italiana prima ancora che umana, e dunque paragonare Monti a Marinetti che propose di abolire gli spaghetti, a Mussolini che pretendeva il voi al posto del lei, a Cavour che si proponeva di 'fare' gli italiani, a San Francesco d'Assisi che li immaginava tutti innamorati di Madonna Povertà, a Dante che li spingeva ad essere fieri e ghibellini, a Mazzini che indicava come antidoto all'astuzia il pensiero e l'azione, a Garibaldi che li voleva tutti garibaldini. E Berlinguer ci voleva austeri, Pannella ci vuole libertari e libertini....

Solo Machiavelli pensava che non si può abolire la malizia italiana ma che bisogna domarla con il terrore; il bastone del comando contro il sotterfugio e l'intrigo; il timore al posto dell'amore per scansare tutte le trappole e le miserie della furbizia, tra le quali oggi c'è certamente l'evasione fiscale. E mi viene in mente quel film di Dino Risi che smonta 'i mostri' della furbizia non con la semantica ma con l'immagine terribile di Tognazzi che accompagna su una sedia a rotelle Gassman pugile suonato. Gassman fu suonato come gli evasori beccati a Cortina, come i divi dello spettacolo che nascondono il cachet, come i finti imprenditori che predicano il liberismo ma esibiscono la volgarità gaglioffa alla Briatore e intanto nascondono il gruzzolo nei caveau svizzeri o del Lussemburgo.

Sappiamo che Mario Monti, con la Guardia di Finanza, ha dichiarato una guerra militare all'evasione fiscale e dunque ora, come sempre accade ai generali combattenti, sogna di militarizzare l'informazione imponendole di rinnovare anche il linguaggio. Quel che manca all'Italia sono i soldi e quei pochi che ci sono se li godono illecitamente gli evasori. Sono furbi? Dobbiamo ancora chiamarli furbi?

Diciamo la verità: è impossibile non condividere il senso di un appello che svela l'inghippo di un linguaggio che non è innocente perché con la sua potenza è servito e serve a far crescere il pelo sullo stomaco a generazioni di italiani e a far credere che sia quella - appunto, la furbizia - la vera virtù da perseguire, in luogo del senso civico. Monti ha ragione: se non siano mai riusciti a diventare cittadini la colpa non è del cattolicesimo o della disomogeneità dell'Italia o della mancanza di senso dello Stato, o del familismo e delle mamme....

Noi siamo marchiati perché ci siamo innamorati di questa natura ribalda della furbizia italiana che è una potentissima ideologia con un solo comandamento: amare Dio e fottere il prossimo. E però la guerra semantica non funziona perché il linguaggio non muta per decreto e lottare contro le parole è inutile oltre che ridicolo e mi vengono in mente le veline di 'Striscia la notizià che vorrebbero dare all'espressione velina il significato di virtuosa, e la lotta che fu lanciata nel Pd contro il sostantivo compagno, e le ridicolaggini della lingua al femminile: ministra sì ma meglio 'signora segretario' dell'ancillare segretaria, e "dal nostro inviato/a" scrisse una volta l'Unità di Veltroni che sullo stesso argomento aveva un giornalista e una giornalista.

Giorgio Manganelli, per combattere la natura italiana, pensava di abolire i concorsi. Prezzolini, nelle sue 'modeste proposte', proponeva di abolire le tesi, Pasolini la scuola, il gruppo 63 la sintassi e Nanni Balestrini addirittura la 'à e la 'b'. Secondo Natalia Ginzburg, gli italiani hanno sempre cercato di sostituire le parole vive con cadaveri semantici che ne attenuino i significati. Tra gli orrori del politicamente corretto ci sono il cieco che diventa 'non vedente' e lo spazzino 'operatore di pulizia'. In 'Amici miei' questo vezzo dell'eufemismo viene preso in giro così: "Non si dice impotente ma 'non trombante'".

Berlusconi, che è maestro di commedia all'italiana, ha inventato per noi 'utilizzatore finale', 'cena elegante', 'burlesque' e sono, per dirla con la Ginzburg cadaveri semantici che sostituiscono parole vive che invito il lettore a indovinare. E stavo per dimenticare la 'escort' al posto di ... e che dire dei furbetti del quartierino: per gli italiani sono eroi o malfattori, oprure eroici malfattori?

E però vero che certe invenzioni linguistiche, come la goccia cinese, hanno bucato la roccia dura del significato e modificato i più radicati punti di vista. Ci sono parole politicamente corrette che sintetizzano rivoluzioni epocali. Il negro per esempio è diventato davvero nero. E non è stata solo semantica la trasmutazione alchemica del frocio in gay. Persino il velleitario Mussolini riuscì a ribattezzare per sempre i pompieri in vigili del fuoco.

Diamo dunque a Monti la solidarietà, ma anche la sferzante ironia degli italiani. Forse, per sfasciare la retorica del furbo, Monti dovrebbe restare nel codice italiano invece di dare alla sua guerra linguistica l'urto e l'impeto tedesco, lo Sturm und Drang. Insomma, anziché chiamare l'evasore gaglioffo e ladro (in tanti ancora sceglierebbero Barabba) potrebbe ispirarsi al genio italiano e fregarlo elevandolo ad un'altra nobiltà, quella di Ettore Petrolini. Con la furbizia dei suoi ragionieri e dei suoi tecnici potrebbe scovarlo e intrappolarlo, smontarne tutte le astuzie e alla fine dimostrare non che il furbo è un malfattore ma che gli evasori non sono furbi perché, come diceva appunto Petrolini, appartengono alla nobile razza dei cretini.
(20 agosto 2012)

Una nazione vera o un mostriciattolo


IL BIVIO NELLA COSTRUZIONE EUROPEA

Ci «serve» un'Europa politica. Lo ripetono in molti, aggiungendo che essa deve essere costruita soprattutto con realismo all'insegna dei sacrosanti interessi nazionali mediati da una giusta dose d'integrazione. Questa è l'Europa politica che utilitaristicamente «ci serve»: un termine che non deve farci paura.

Bene. Ma a tanta ragionevolezza (virtù che apprezzo, sia chiaro) vorrei porre una domanda: è davvero così che possono nascere, che nascono, i soggetti politici? Perché sono utili, perché «servono»? Ne è mai nato qualcuno a questo modo? Mi permetto di dubitarne.

La storia non dimostra quasi nulla. Ma se c'è una cosa che perlomeno essa sembra indicare è che i soggetti politici veri - cioè quelli dotati di sovranità (precisamente ciò che oggi è indispensabile alla Ue) - non nascono da una costellazione di interessi. Altrimenti non si capirebbe, tra l'altro, perché non sia mai riuscita a diventare un autentico soggetto politico quella elefantiaca costellazione di finanziamenti, contributi, fondi di ogni tipo - cioè di interessi, appunto - che è stata finora proprio l'Europa di Bruxelles.

In realtà, l'europeismo finora dominante è andato a sbattere contro un muro non già a causa del suo utopismo e dei suoi miti, ma semplicemente perché il suo è stato un utopismo sbagliato. Sbagliato precisamente in quanto utopismo degli interessi, fondato sul mito pervadente dell'economia (donde Maastricht e l'euro), anziché essere un vero utopismo politico: vale a dire fondato su un'«idea», su una grande speranza mobilitante, l'unica capace d'alimentare sogni ed energie, di animare valori antichi e di crearne di nuovi. Mi dispiace per i real-materialisti («volgari», avrebbe aggiunto qualcuno), ma alla fine anche le sovranità politiche nascono da quella che Shakespeare chiamava la «materia di cui sono fatti i sogni» (e certamente di tale materia era fatto il Manifesto di Ventotene; peccato che esso accozzasse miti politici senza fondamento e una lettura assolutamente irreale dell'imminente dopoguerra europeo. Ciò che spiega, tra l'altro, perché il Manifesto di cui sopra sia sempre rimasto lettera morta, nonostante i salamelecchi universali).

Le sovranità, in altre parole, rimandano sempre, non agli interessi, ma a una lettura alta e forte del momento fondativo della politica, del «politico» in quanto riassunto di visione storica e d'intensità etica convergenti in un'appassionata determinazione. Solo ciò si è rivelato storicamente capace di dare vita a quelli che, non già il filonazista Carl Schmitt, ma il liberale Raymond Aron - e proprio a proposito dell'Europa, come ha ricordato un recente articolo di Commentaire - considerava i due elementi essenziali per l'esistenza di qualunque aggregato politico. E cioè, a) il senso di appartenenza, la necessaria coesione collettiva all'interno, in grado di mettere capo, b) a un'adeguata capacità di azione all'esterno. Secondo una prospettiva, come si vede, che da un lato afferma l'importanza dell'identità, dall'altro sottintende una scena mondiale inevitabilmente agonistico-conflittuale. Una prospettiva secondo la quale - cito ancora da Aron - un'unità politica è «una collettività umana cosciente della propria originalità e risoluta ad affermarla di fronte alle altre collettività».

Ben diversa, invece, è l'idea che hanno avuto fino ad oggi le classi dirigenti del Continente e la burocrazia di Bruxelles, convinte dall'europeismo ufficiale che la sostanza della politica sia solo quella di assicurare l'esercizio regolare e tranquillo delle attività indifferentemente di tutti e di ciascuno; e che per far ciò non serva alcuna identità storica né alcun particolare legame tra gli individui se non quello di regole comuni. Dunque l'Europa come dispiegata vocazione al multiculturalismo, e insieme come «area della democrazia e dei diritti», nonché abitatrice di un mondo felicemente avviato dalla Provvidenza al ripudio della guerra e alla composizione pacifica d'ogni conflitto. Ma davvero può essere questa l'Europa politica? Potrà mai essa nascere domani su queste basi (anche se finora, chissà perché, non l'ha fatto)?

Certo non è alcun vertice che a questo punto può decidere. A questo punto sono le opinioni pubbliche, sono gli Europei, che devono prendere la parola: dire se vogliono continuare sulla strada attuale degli «interessi», continuando a sperare non si sa in che cosa, o se invece vogliono, come io credo sia necessario, mettere in moto una dinamica nazionale europea.

Un'Europa politica, per essere tale, deve avere un'autorità sovrana capace di adottare decisioni vincolanti per tutti, e proprio perciò, dunque, legittimata democraticamente. Decisioni difficili, che comportano rischi e incognite, con prezzi da pagare per molti, e per giunta distribuiti in misura ineguale tra Stato e Stato. Perché queste due cose siano possibili - la legittimazione di un'autorità unica, e il consenso alle sue decisioni - è necessario però che il sentimento nazionale degli Stati nazionali europei, spesso antico di secoli e vivo specialmente nelle classi popolari, e pronto a far lega con il populismo, trovi un adeguato contrappeso in un autentico sentimento nazionale europeo. Altrimenti esso finirà necessariamente per rivoltarsi contro il nuovo assetto.

L'obiettivo al quale cominciare a lavorare già da oggi, dunque, deve essere la Nazione europea. Cioè un'Europa che sia consapevole di tutto il suo passato, della portata e del significato dei valori e delle potenzialità di questo; che sia decisa a far valere gli uni e le altre nell'arena mondiale. Per costruire la quale serve forse una vera e propria rivoluzione culturale, sì: innanzi tutto contro il vecchio europeismo e i suoi feticci «politicamente corretti». Ma non è proprio dalle rivoluzioni che tanto spesso sono nate per l'appunto le vere sovranità? L'alternativa, mi sembra, è un mostriciattolo politico in sedicesimo, nato per tutelare gli «interessi» ma destinato inevitabilmente, prima o poi, a vedere andare al diavolo anche quelli insieme a tutto il resto.

di Ernesto Galli della Loggia, dal Corriere
20 agosto 2012 |

domenica 19 agosto 2012

All'Italia serve l'import di cervelli


di GIOVANNA ZINCONE, dalla Stampa

Non sono tempi felici. La crisi colpisce l’occupazione e si restringono le prospettive di nuove assunzioni, non solo per gli italiani, ma anche per gli stranieri. Gli stranieri, però, se la cavano relativamente meglio. Questo almeno è quanto emerge dalle previsioni per il 2012 dell’indagine Unioncamere–Ministero del Lavoro. La domanda complessiva di lavoratori immigrati (stagionali inclusi) dovrebbe diminuire quest’anno del 18% rispetto al 2011, quella degli italiani del 31,6%. Quindi l’incidenza degli stranieri sulle assunzioni complessive dovrebbe salire ulteriormente (dal 16,3% dello scorso anno al 17,9% di quest’anno).
Si consolida, insomma, il carattere strutturale della forza lavoro immigrata nella nostra economia: si tratta di una componente che anche di fronte alla crisi perde colpi, ma resiste relativamente meglio. Le sue caratteristiche confermano, però, alcune pesanti debolezze del sistema Italia, che è bene non continuare a trascurare. La nostra economia attrae un’immigrazione meno istruita rispetto a quella che raggiunge altri paesi europei. Nel 2010 i laureati rappresentavano solo il 10% degli immigrati in età lavorativa residenti in Italia.

Decisamente meno non solo delle incidenze che troviamo in Francia, Inghilterra e Svezia, ma anche in Portogallo e Spagna. In compenso questi ultimi paesi, i soliti nostri compagni degli ultimi banchi, «battono» l’Italia per la consistenza di lavoratori con livelli di istruzione minimi. Ma la cosa non consola. Perché anche se i nostri immigrati sono nell’insieme abbastanza istruiti, sebbene non quanto quelli che si dirigono verso economie più solide della nostra, lo sono meno degli italiani. Quindi non arricchiscono il nostro capitale di competenze. Come se non bastasse, la quota di stranieri con un titolo di studio più elevato è diminuita tra il 2001 e oggi. Si aggiunga che l’investimento formativo degli stranieri, quando c’è, spesso non è messo a frutto. Specie le lavoratrici straniere - mediamente più qualificate delle loro controparti maschili - fanno lavori assai poco qualificati rispetto alle loro capacità.
Il fatto è che in Italia la domanda di addetti con alte competenze è scarsa in generale. Non solo: come ci segnala il Rapporto Isfol 2012, è pure in calo. Nel nostro paese la quota di professioni ad elevata specializzazione rappresenta solo il 18% del totale, contro il 23% della media Ue. E, mentre in Europa la percentuale di occupazione in quel tipo di professioni aumenta costantemente, in Italia invece negli ultimi 5 anni si è contratta dell’1,8%, contro un aumento che ha raggiunto il 4,3% in Germania, il 4,4% nel Regno Unito e il 2,8% in Francia.

Insomma, non solo aumenta la disoccupazione e diminuiscono le opportunità di nuove assunzioni, ma la qualità della forza lavoro presente sul nostro territorio nel suo insieme peggiora. Certo, la crisi degli ultimi anni contribuisce ad accentuare il problema, ma non lo ha creato. È lo stesso sistema produttivo italiano, fatto di piccole imprese in molte delle quali si investe poco in innovazione e sviluppo, dove si fa scarso uso di lavoro specializzato, che spiega sia l’impoverimento qualitativo della nostra forza lavoro, sia la sua scarsa e decrescente produttività, sia la complessiva debolezza e inadeguata competitività della nostra economia. È apprezzabile il tentativo di attrarre lavoratori super specializzati, ma – rebus sic stantibus, cioè con questa economia reale – non sappiamo quanto successo possa avere.

A favorire l’ingresso di immigrati istruiti mira il decreto, entrato in vigore da pochissimi giorni, che attua la Direttiva Europea sulla cosiddetta «carta blu», un permesso speciale attribuito proprio ai lavoratori stranieri specializzati (almeno una laurea triennale): per loro non si prevedono limiti di quote, purché dispongano di un’offerta di lavoro. Ma quanti ne faranno uso per venire a lavorare proprio in Italia? Temo pochi.

Si può presumere che, invece, numeri più consistenti siano il risultato di un altro provvedimento; anch’esso recente. A metà luglio 2012, partendo dall’attuazione di una Direttiva Europea contro lo sfruttamento del lavoro immigrato irregolare, è stato votato un decreto legislativo che in pratica consentirà un’altra sanatoria. Assai probabilmente questa misura farà emergere un’ulteriore quota di lavoro immigrato destinato per lo più a mansioni poco qualificate. A completare questo quadro poco roseo per le prospettive del sistema Italia, si inserisce non solo un generico aumento (+4%) dell’emigrazione italiana, ma la costante perdita di giovani qualificati e di ricercatori. Secondo il centro studi «La fuga dei talenti» il 70% degli oltre 60.000 giovani che lasciano ogni anno l’Italia è laureato. Come porvi rimedio? Qualche anno or sono, una ricerca finanziata della Commissione Europea aveva messo in evidenza il fatto che non bastano incentivi monetari o fiscali per evitare fughe di cervelli e invogliare rientri: il più efficace rimedio all’esodo è costituito da centri di eccellenza, dove i ricercatori possono lavorare con profitto, in ambienti che si confrontano con i migliori standard. La stessa logica si dovrebbe applicare alle imprese. Occorre premiare fusioni o reti tra imprese che consentano di raggiungere economie di scala tali da incentivare investimenti in ricerca e sviluppo; si devono, al contrario, evitare trattamenti che disincentivino il superamento di un certo numero di addetti. La riforma Fornero si è mossa in questa direzione, ma non senza difficoltà, ostacoli e forzosi arretramenti.

Il governo Monti sta facendo molto per evitare il disastro nei nostri conti pubblici. Non si può negare che stia pure tentando di riformare il sistema economico nel suo insieme, impresa non facile dato il contesto politico. Ma è necessario che continui con maggiore decisione su questa strada. Non si evita il disastro vivacchiando nel vecchio, come troppi pseudo innovatori politici vorrebbero. Abbiamo bisogno di riforme tali da rassicurare i mercati e i partner europei perché possano diminuire interessi sul debito, onerosi quanto ingiustificati. Ma non bisogna mai dimenticare che al centro della nostra attenzione e dell’azione dei governi italiani deve restare l’economia reale. Per non restare intrappolati in un presente ansiogeno, abbiamo bisogno di regalarci un futuro economico credibile.

sabato 18 agosto 2012

Dopo tre anni di amministrazione non sono riuscito ad avere la fiducia del sindaco"




 L'assessore si è dimesso "senza inchino" con una lettera garbata ma pungente. "Dopo tre anni di amministrazione non sono riuscito ad avere la fiducia del sindaco"  

 - Si è dimesso. Lo ha fatto con stile e alla sua maniera. Lo ha fatto da signore. Cosimo Pancaro è uscito dalla giunta comunale di centrodestra che amministra il Comune di Nova Siri, in cui ricopriva l'incarico di assessore alla Cultura, Spettacolo e Attività produttive, protocollando le dimissioni giovedì mattina dopo averle anticipate via fax. Di fatto ha sbattuto la porta ed anche con molto rumore. Un rumore destinato ad amplificarsi una volta smaltita la sbornia ferragostana che una località balneare qual è Nova Siri, giustamente, deve concedersi. Il sindaco, Pino Santarcangelo, per la prima volta durante il suo secondo mandato iniziato nel 2009, si trova dinanzi ad un fatto politico nuovo: un suo assessore "gli ha tolto la fiducia", quando invece lo stesso primo cittadino, in altre situazioni, era stato lui a revocare le deleghe di giunta a Michele Laddomata e Giuseppe D'Armento con la motivazione che "si era interrotto il rapporto di fiducia". Politicamente il gesto di Pancaro è molto grave. Pancaro chiedeva un'inversione di rotta che a suo dire non solo non c'è stata, ma non potrà mai esserci. Così dopo aver portato a termine il compito di allestire con buon successo il cartellone estivo, ha rimesso le deleghe, passando di fatto all'opposizione, lui che non si era mai iscritto al Pdl. Questa la lettera. «Gentile sindaco, è con grande rammarico che Le comunico la restituzione delle deleghe da Lei assegnatemi e le conseguenti dimissioni dalla carica assessorile. Un atto meditato ormai da tempo e che oggi mi accingo a fare con tristezza visto l’entusiasmo,la voglia,il desiderio e le energie con cui avevo iniziato questa esperienza. Purtroppo mi rendo conto che, a distanza di tre anni di vita amministrativa al suo fianco, non sono riuscito ad instaurare con Lei un rapporto di fiducia. Rapporto fiduciario di vitale importanza quando due o più persone decidono di intraprendere un percorso insieme, condizione inevitabile che non ho mai ottenuto da Lei e da una parte del gruppo che rappresenta e che ancor oggi non mi avete regalato. Si, regalato, poiché la fiducia, nel suo caso la carica e le deleghe conferitemi, si regala, non si assegnano cariche e deleghe solo ed esclusivamente perché dettate da condizioni costrittive. Non mi dilungo e Le pongo una sola domanda: “dopo essere stati preferiti dal popolo, al primo incontro di maggioranza, lei conferì le varie cariche sulla scorta della quantita’ delle preferenze singolarmente ottenute e quindi della “classifica” di arrivo; dopo aver incaricato i primi sei (assessori), quando toccò al settimo “classificato” (la carica di presidente del consiglio comunale), cioè il sottoscritto, disse: "come presidente Pancaro" (ero il settimo naturalmente in graduatoria) e poi aggiunse rivolgendosi a me: "pensavi non te lo dessi?" La domanda è: perché avrei dovuto pensare di non avere quella carica se il criterio era la classifica di arrivo? La mia risposta alla domanda è nelle quattro righe di sopra, ma la domanda è al sindaco, non all’ex assessore Pancaro. A lei i miei più cordiali saluti, ai colleghi (che ci leggono per conoscenza) saluto tutti senza inchino e vado via cantando». Lo stesso ex assessore su facebook nella giornata di ieri ha voluto motivare ancor più la sua decisione: «Non ho interessi privati e/o singolari. È una provocazione ad uno stagno ormai duraturo ed eccessivo. Spero tanto che diventi un incentivo alla rottamazione».
sabato 18 agosto 2012     di Pierantonio Lutrelli

venerdì 17 agosto 2012

Vigili d'Autunno. A letto d'Estate!!!


Vedo pubblicato in data 13/08/12 sul Sito Istituzionale del Comune di Nova Siri un avviso per l’assunzione a tempo determinato di 8 operatori di Polizia Locale , un provvedimento che fa seguito a delibera approvata dal Sindaco e dagli Assessori in Giunta Municipale il 07/08/12.

Anche negli anni passati si era sempre provveduto, e reputo sia stato giusto farlo, al reclutamento di un’aliquota di personale ausiliario  che ha efficientemente affiancato il personale in organico per far fronte alle numerose problematiche connesse con l’intenso afflusso turistico estivo. Quest’anno pero le condizioni sono cambiate:  il Sindaco intende assumere in forza ben 8 unita’ da impiegare in un periodo che non e’ quello estivo, ma autunnale ,  cioe’un periodo in cui le condizioni del traffico e le esigenze di controllo del territorio non sono tali da giustificare un tale ampliamento di organico.

Si puo’ facilmente comprendere la ragione per cui la dotazione in risorse umane non sia stata effettuata in concomitanza con la stagione estiva : le dinamiche governative nazionali in tema di Spending Review e di redigende normative di austerity finanziaria  hanno imposto agli Enti Locali di vagliare con ritardo il Bilancio di previsione dell’anno corrente , impedendo di fatto, a causa della opportuna e continua rivalutazione delle poste contabili dell’Ente,  l’adozione del provvedimento in oggetto nei tempi che sarebbero stati piu’ consoni.

Questo non e’ contestabile al Sindaco , ma è contestabile, invece, la sua volonta’ di assumere comunque la stessa quota di personale impegnando una posta di circa 60.000 euro. A meno che non sussistano precise e urgenti esigenze che lo richiedano (esigenze che a me, come a tanti Novasiresi, non risultano),  è impensabile arruolare ben 8 operatori .  

I soldi pubblici vanno gestiti oculatamente e in modo mirato : e’ vero che i pochi operatori di Polizia Locale  a tempo indeterminato sono stati, in estate, “spremuti come limoni” e non hanno goduto ferie, ragion per cui e’ giusto reclutare un po’ di personale a tempo determinato , ma 8 unita’ mi sembrano francamente  eccessive; sarebbe piu’ ragionevole e piu’  utile alla comunita’ novasirese assumere  4 unita’   e utilizzare il resto dell’investimento finanziario (circa 30.000 euro) in opere connesse al miglioramento della circolazione stradale ( ripianamento di buche, bitumazione di strade, riparazione dei marciapiedi  etc..) di cui Nova Siri ha tanto bisogno.

In tempo di vacche magre spendere 60.000 euro  per assumere personale in esubero sarebbe un’operazione di becero e demagogico assistenzialismo da Prima Repubblica, ipotesi a cui non voglio credere; voglio credere piu’ ad una “svista”, a una di quelle “sviste” a cui ormai siamo stati abituati dall’Amministrazione Santarcangelo, torpida e disattenta, avvezza ad “andare avanti alla giornata”, come scrissi gia’ in passato.

Mi auguro che il Sindaco possa rimediare a questa “svista” intervenendo con immediatezza e rimodulando il bando, prevenendo anche un eventuale bacchettata della Corte dei Conti : se l’assunzione di un “alta” quota di personale in “bassa “ stagione andasse ad effetto,  l’organo di controllo suddetto potrebbe determinarsi addirittura nella  configurazione di un danno erariale

Dr Giuseppe D’Armento (PDL) cons. com. indipendente di Nova Siri

Latronico su porto Nova Siri: “Coinciliare qualità ambientale e infrastrutturale”





“Vorrei tranquillizzare quanti hanno sollevato preoccupazioni sui rischi ambientali connessi alla possibile realizzazione di un approdo turistico alla foce del torrente Toccacielo di Nova siri.

Intanto per precisare che le infrastrutture vanno valutate nel loro concreto impatto senza pregiudizi ideologici, nel caso dell’approdo turistico di Nova siri si tratta di una infrastruttura che dovrebbe sorgere in un sito che, a prima vista, si presta alla messa in opera di un servizio per la nautica”. Lo ha dichiarato il senatore del Pdl, Cosimo Latronico. “ Gli archivi storici di una importante famiglia del posto hanno confermato che già in epoca borbonica vi era l’esistenza di un attracco per attività’ di commercio.

Naturalmente le analisi di impatto del progetto andranno compiute con rigore e tenendo conto che l’obiettivo dell’iniziativa e’ quello di valorizzare il potenziale turistico della nostra costa. Il turismo senza infrastrutture (attracchi, porti, aeroporti, campi da golf) non si può fare se vogliamo competere con sistemi e distretti di altre regioni di Europa.
Qualità infrastrutturale e qualità ambientale debbono costruire una possibile alleanza per fare delle risorse naturali un attrattore di sviluppo economico e sociale. Senza lo sviluppo lo stesso equilibrio ambientale rischia di saltare. Peraltro l’idea di una struttura per la nautica al lido di Nova siri, immaginata da uno studio di fattibilità’ degli anni Novanata redatto dalla Fiatengenering e recepita nel piano regolatore del comune, oggi si e’ fatta più concreta per la realizzazione di una offerta turistica alberghiera che solo a Nova siri ha raggiunto i 4.700 posti letto.
Una capacità ricettiva che deve essere in grado di sprigionare le sue potenzialità in termini di presenze turistiche con tassi di utilizzazione degli impianti alberghieri che devono tendere al massimo impiego.
Una struttura anche minima per accogliere le domande del turista di tipo nautico non può che esercitare un concreto effetto attrattivo.
Gli studi condotti nel passato dal Genio civile ed anche le esperienze di altri distretti turistici ci confermano nell’idea che la distribuzione di quattro infrastrutture per il turismo nautico sui 32 chilometri di costa (Metaponto e Nova siri, oltre che Pisticci e Policoro) non potrebbero che giovare, creando un sistema che si integra e che accresce le capacità attrattive della costa ionica anche da un punto di vista nautico.
La difesa della costa, anche dai fenomeni erosivi potrebbe far parte di un progetto unitario di assetto del litorale che comprenderebbe il nuovo equilibrio determinato delle attuali e nuove infrastrutture nautiche a servizio del turismo marino.
Immagino che i porti turistici di Marinagri e quello degli Argonauti abbiano tenuto conto dei fenomeni in questione con specifiche azioni di riequilibrio ambientale e territoriale. E comunque progetti, autorizzazioni ed effetti per la realizzazione delle opere in questione, con il carico di responsabilità, sono sempre verificabili da chiunque volesse.
Quanto ai costi per la realizzazione e gestione delle nuove infrastrutture nautiche sono del parere che debba nascere una utile alleanza tra pubblico e privato per rendere possibile il perseguimento di obiettivi di rafforzamento della rete infrastrutturale e di accrescimento dei tassi di utilizzazione della ricettività turistica disponibile un quadro di valorizzazione e di tutela ambientale”.
Fonte Basilicatanet


Dal Sen. Latronico ci saremmo aspettati: 

In una zona dove non si poteva costruire neanche un porto (costa jonica lucana) si parla ora di costruirne uno anche a Nova Siri, dopo quelli di Pisticci (Argonauti) e Policoro (Marinagri) che già tanti danni hanno fatto alle spiagge di Metaponto e Scanzano e altri ne faranno.

Dal senatore Latronico ci saremmo aspettati richiesta di chiarimenti alla Regione Basilicata per il monitoraggio da effettuarsi durante la costruzione dei due porti e della fidejussione prevista per i danni che la costruzione dei porti stessi potevano arrecare alle spiagge, cosa che poi puntualmente è accaduto e che è stato confermato anche dal prof. Longhitano lo scorso 15 luglio a Pisticci.

 Dal senatore ci saremmo aspettati che facesse uscire dagli scantinati della Regione Basilicata lo studio effettuato dall’Università di Ferrara e che riguarda l’incidenza dei porti nella costa jonica lucana.

 Dal senatore ci saremmo aspettati che avesse fatto rispettare semplicemente dei deliberati della Regione Basilicata.

Queste cose potrebbero chiederle, comunque, gli attuali consiglieri regionali Castelluccio e Sarra, anche loro presenti all’incontro, e che hanno fatto rilevare gli effetti benefici che l’attracco porterebbe sul tessuto sociale e occupazionale.

 Chissà perché tutti parlano sempre degli effetti positivi dei privati e nessuno degli effetti negativi che poi vengono pagati dal pubblico e cioè da noi.

 Prima di avventurarsi in nuove opere sarebbe utile fermarsi e verificare cosa è successo con i due porti che si sono costruiti.

 Sarebbe utile, inoltre, che i costi delle opere e dei ripascimenti (soldi letteralmente buttati a mare) non ricadessero più sul pubblico ma su chi ha causato il danno, su chi non ha vigilato o che siano a carico degli operatori turistici.

 Di queste cose però non si deve parlare e, nessuno, tecnico o politico, deve dar conto dei propri atti e delle proprie omissioni.

giovedì 16 agosto 2012

Israele, i piani segreti di guerra all'Iran



Un blogger svela e mette tutto online
Il blogger Richard Silverstein rivela un sofisticato piano di attacco al regime di Teheran


«Sarà un’aggressione coordinata» e con un attacco cibernetico «senza precedenti» che metterà ko in pochi minuti «Internet, i telefoni, la radio, la tv, le comunicazioni satellitari, le connessioni in fibra ottica degli edifici strategici del Paese». L’obiettivo? «Non far sapere al regime iraniano quello che sta succedendo entro i suoi confini». I piani di guerra d’Israele contro Teheran rivelati a Ferragosto da un blogger. Non uno qualsiasi, ma l’israelo-americano Richard Silverstein che viene da molti soprannominato il «WikiLeaks d’Israele». E quel che ne viene fuori, a dire il vero, somiglia più a un film hollywoodiano che alla realtà. Anche se, in Israele, i tamburi di guerra iniziano a sentirsi molto più prima. Silverstein ha pubblicato sul suo sito «Tikun Olam» (Riparare il mondo, in ebraico) un estratto del documento, ufficialmente riservato, da sottoporre al gabinetto di sicurezza dove si prendono le decisioni vitali per il Paese. Il dossier – racconta il blogger – gli è stato passato soprattutto perché, secondo la sua fonte, «Bibi (Netanyahu, premier d’Israele, ndr) e Barak (ministro della Difesa, ndr) fanno maledettamente sul serio».
MUNIZIONI IN FIBRA - Il piano, allora. Stando al documento ricorrerebbe, nella prima fase, alla tecnologia più sofisticata per mettere fuori uso l’infrastruttura dell’Iran e le basi missilistiche sotterranee di Khorramabad e Isfahan. Le centrali elettriche, poi – sempre secondo a quel che c’è scritto nel dossier –, «saranno paralizzate grazie a corto circuiti provocati da munizioni in fibra di carbonio più sottili di un capello che di fatto renderanno i trasformatori inutilizzabili». Quindi la seconda fase: «Decine di missili balistici, in grado di coprire una distanza di 300 chilometri, saranno lanciati contro la Repubblica islamica dai sottomarini israeliani posizionati vicino al Golfo Persico». Missili «non dotati di testate convenzionali», precisa il documento, «ma con punte rinforzate, progettate per penetrare in profondità».

CENTRALI SOTTERRANEE - Le informazioni in possesso degl’israeliani, infatti, parlano di centrali nucleari sotterranee, come quella di Fardu, nei pressi della città di Qom, molto difficili da raggiungere con un semplice bombardamento e ormai isolate dalla Rete usata dall’autorità centrale. Finita qui? Non ancora. Perché poi toccherebbe alla terza fase. Altri missili – questa volta da crociera – «saranno lanciati per mettere ko i sistemi di comando e controllo, di ricerca e sviluppo e le residenze del personale coinvolto nel piano di arricchimento» dell’uranio. «Subito dopo», scrive il dossier, «il nostro satellite di ricognizione TecSar passerà sopra l’Iran per valutare i danni agli obiettivi. Le informazioni saranno trasferite ai nostri aerei in volo» verso Teheran, «velivoli dotati di tecnologia sconosciuta al grande pubblico e anche al nostro alleato americano», «invisibili ai radar» e inviati in Iran per finire il lavoro, «colpendo un elenco ristretto di obiettivi» che hanno bisogno di ulteriori assalti per essere disinnescati definitivamente. L’obiettivo sembra chiaro: annientare da un lato le capacità di sviluppo nucleare del regime islamico. Dall’altro evitare una controffensiva iraniana in territorio israeliano distruggendo le installazioni missilistiche. In realtà, il documento è solo la fase più semplice dei piani di guerra di Gerusalemme. Il governo di Benjamin Netanyahu, per ora, è in minoranza dentro il gabinetto di sicurezza. E gli Usa, oltre a ribadire il loro no al conflitto, iniziano a sottolineare che lo Stato ebraico «può solo rallentare il programma nucleare iraniano, non eliminarlo».

LO SCENARIO - Sempre a Ferragosto, sulle colonne del quotidiano ebraico Ma’ariv, Matan Vilnai, ex generale e prossimo ambasciatore in Cina, anticipa lo scenario «interno» al conflitto. «Israele ha preparato la popolazione a un eventuale conflitto che potrebbe durare trenta giorni su diversi fronti contemporaneamente», rivela Vilnai. E in questo mese di guerra «nelle città israeliane la replica dell’artiglieria di Teheran potrebbe provocare almeno 500 vittime, qualcosa meno o qualcosa di più». Lo Stato ebraico, aggiunge l’ex militare, «dovrà far fronte anche ai missili lanciati da Hezbollah dal Libano e dal braccio armato di Hamas dalla Striscia di Gaza». Israele ha fretta. Entro ottobre – secondo gli esperti dell’intelligence – l’Iran avrà arricchito grandi quantità (circa 250 kg) di uranio al 20%, il minimo per costruire poi testate micidiali. E a dare ragione ai timori israeliani c’è il blitz di una novantina di agenti federali tedeschi, sempre a Ferragosto, in alcune case di Amburgo, Oldenburg e Weimar. Azione speciale nel quale sono stati arrestati un cittadino con passaporto della Germania e altri tre con doppia cittadinanza tedesca e iraniana. Tutti accusati di aver esportato in Iran valvole per la costruzione di un reattore nucleare, violando così l’embargo in vigore. I sospetti – Rudolf M., Kianzad Ka., Gholamali Ka. e Hamid Kh. – tra il 2010 e il 2011 avrebbero fornito le componenti a Teheran servendosi di compagnie di faccia in Turchia e Azerbaigian in cambio di milioni di euro.

di Leonard Berberi , dal Corriere

martedì 14 agosto 2012

Strage delle nuove imprese create dai 'figli della crisi'


Su dieci aziende neonate, quattro sono aperte da ex impiegati, operai o manager
Hanno perso il lavoro e avviano una nuova attività: 9 su 10 chiudono entro un anno
di ALESSANDRA CORICA, da Repubblica

Guadagnano 1.500 euro al mese. E la loro impresa ha una vita media di soli seisette mesi, al massimo un anno, contro i due anni e mezzo raggiunti dalle altre aziende. Sono i nuovi imprenditori lombardi, i 'figli della crisi' secondo la Camera di commercio di Monza e Brianza: il 39 per cento delle imprese nate in Lombardia nel 2012 sono state aperte da uomini e donne che, dopo aver perso il lavoro, provano a giocarsi l’ultima carta. E tentano la strada imprenditoriale, aprendo un negozio o una piccola azienda nella speranza di inserirsi di nuovo nel mondo del lavoro.

Un riscatto tentato da giovani che hanno meno di 35 anni e non riescono a trovare un’occupazione stabile, ma anche da cinquantenni che si giocano il tutto per tutto. E che investono liquidazione e indennità di disoccupazione in quella che diventa l’impresa della vita. Con rischi imprenditoriali, però, che sono altissimi: «Queste imprese - spiega Renato Mattioni, segretario generale della Camera di commercio brianzola - spesso non riescono ad arrivare a un anno di vita, visto che i costi per farle sopravvivere sono duri da sostenere. Senza contare che in pochi riescono a ottenere un prestito bancario regolare: la maggior parte, per raggiungere la liquidità necessaria, ricorre al vecchio metodo delle cambiali».

Nei primi sei mesi del 2012 i tassi di crescita imprenditoriale di Milano e della Lombardia hanno mostrato una timida  timidissima  ripresa: più 0,9 per cento in città, più 0,3 a livello regionale. Numeri
positivi, certo. Ma molto risicati, e che per gli esperti sono soprattutto da attribuire al fenomeno tutto nuovo degli imprenditori 'figli della crisi'. Un fenomeno in crescita che si specchia nel boom della cassa integrazione registrato degli ultimi mesi: secondo i dati dell’Inps, rielaborati dalla Cgil, dall’inizio del 2012 a oggi in Lombardia si è arrivati a quota 117.922 lavoratori a zero ore. È il primato italiano. Da qui i 'nuovi imprenditori': su dieci imprese neonate quattro sono state aperte da ex impiegati, operai o manager. Nella metà dei casi si tratta di persone che hanno perso il lavoro di recente; uno su quattro, invece, è un precario che non riesce a trovare un’occupazione stabile.

«Abbiamo notato - dice Mattioni - che a fronte di un calo dell’1,4 per cento del prodotto interno lordo c’è stata una leggerissima ripresa delle imprese. Da qui l’inizio dell’indagine che ha permesso di delineare la figura di questi nuovi imprenditori». Ma chi sono? A Milano nel 73,4 per cento dei casi si tratta di uomini. Il 43 per cento ha tra i 35 e 49 anni, sette su dieci sono italiani. Affrontano i costi iniziali di tasca propria, investendo la liquidazione o  nel caso dei più giovani  chiedendo un contributo alla famiglia. «La costante - denunciano alla Camera di commercio brianzola, che ha avviato il progetto 'Start' proprio per sostenere le imprese figlie della crisi - è la difficoltà di ottenere un prestito: molti ricorrono così al 'welfare familiare'».

Le storie sono tante: «Si va dal dipendente che decide di mettersi in proprio alla casalinga che apre un asilo nido e fa fruttare l’esperienza maturata in famiglia, fino allo straniero che, soprattutto nel campo dell’edilizia, crea la propria azienda. E magari inizia a collaborare con il titolare della ditta con cui lavorava prima, creando una sorta di 'rete'». I settori più dinamici sono l’edilizia, i servizi (il boom è quello delle imprese di pulizia, per le quali in un anno si registrano 865 ditte in più) e le attività commerciali. «Attenzione, però - avverte Giorgio Montingelli, dell’Unione del commercio di Milano - quello delle vendite è un settore difficile, che soprattutto in tempi di crisi richiede esperienza. Nell’ultimo anno abbiamo perso il 20 per cento degli incassi: solo chi ha capacità e risorse da parte sopravvive».
(14 agosto 2012)

lunedì 13 agosto 2012

La corsa a ostacoli contro il "digital divide"


Il governo prova ad accelerare per portare la diffusione di Internet veloce nella media europea. A settembre sarà presentato il decreto Digitalia


ROMA
Il 30 settembre 2012 verrà pubblicata la Relazione Strategica che fornirà un quadro più chiaro degli obiettivi che il governo si prefigge. Secondo le richieste dell’Ue entro il 2013 tutti i cittadini dell’Ue dovranno disporre di collegamenti a Internet di almeno 2 megabit. Ed entro il 2030 la velocità deve salire ad almeno 30 megabit. Che cosa sta facendo l’Italia? Qualcosa, ma non abbastanza. Il decreto Digitalia, che doveva definire obiettivi e stanziamenti per la banda larga, da giugno è stato rimandato a settembre.

Gli investimenti programmati
Il governo italiano ha ricevuto finora fondi europei per 440 milioni di euro che arriveranno a 700, secondo il ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera, e dovrebbero permettere di azzerare le differenze infrastrutturali fra le varie regioni italiane. F2i Tlc-Metroweb ha annunciato un piano da 4,5 miliardi di euro nei prossimi anni per coprire le 30 città maggiori con fibra a 100 Mbps. Per gli operatori privati: 10 miliardi di euro (di cui 4 già investiti) per le reti di nuova generazione mobile e 500 milioni di Telecom per la banda larga. Il totale potrebbe coprire il costo dei 20 miliardi necessari per la copertura totale.

Il ritardo della banda larga
Il presidente di Telecom Franco Bernabè ha però specificato che non ci sarà alcuna accelerazione per la fibra ottica dato che «le indicazioni dell’Unione europea sono soltanto programmatiche». Il piano della società è di portare Internet ultraveloce in 99 città entro il 2014, che nel 2018 diventeranno 250, ma la velocità nelle case degli utenti potrebbe non superare i 50 Mbps. In molti sono convinti, quindi, che tra alcuni anni appena il 20% degli italiani viaggerà ultraveloce, mentre solo un terzo delle famiglie italiane arriverà a 50 Mbit. Eppure il ritardo nello sviluppo della banda larga costa all’Italia tra l’1 e l’1,5% del Pil. Al momento copre soltanto il 10% del territorio, mentre in Svizzera arriva al 90% e in Francia dovrebbe arrivare al 37% entro il 2015 e al 100% nel 2025.

L’Italia e le infrazioni Ue
L’Italia si è adeguata da poco alla direttiva imposta da Bruxelles per garantire mercati più competitivi, diritti per i consumatori come la possibilità di passare a un altro operatore telefonico in un giorno senza dover cambiare numero di telefono o di essere informati tempestivamente in caso di violazione di dati personali online. E così, al contrario dell’anno scorso, non ha subito alcun tipo di punizione a differenza di Belgio, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo e Slovenia deferiti alla Corte di giustizia dell’UE, poiché non hanno ancora recepito nel diritto nazionale le norme europee riviste in materia di telecomunicazioni.

Ue, lavoratori tlc cercansi
Rischia di avere gli stessi effetti di una carestia la carenza di competenze informatiche nell’Unione Europea. Un report della Commissione Europea diffuso in primavera spiega come nel 2015 il 90% dei posti di lavoro richiederà competenze informatiche ma mancano all’appello almeno 700mila professionisti in questo settore. Nel 2020 è previsto un aumento di 20 milioni di posti di lavoro legati all’Information Technology e una riduzione di 12 milioni di posti a bassa qualifica: l’Information Technology rappresenta il 5% del Pil europeo e ha continuato a crescere ad un tasso annuo del 3% anche dopo il 2008 e l’aggravarsi della crisi economica. La Commissione ha chiesto un reindirizzamento degli investimenti dei Paesi Ue dai settori tradizionali allo sviluppo delle competenze informatiche.

L’Italia e deficit informatico
Gli ultimi dati Eurostat sulle capacità informatiche individuali non forniscono un quadro esaltante dell’Italia. Nella fascia tra i 16 e i 74 anni poco più del 60% dei cittadini è in grado di sfruttare un computer per operazioni base. Più incapaci di noi soltanto Grecia, Bulgaria e Romania. Il risultato è anche peggiore se si considera la fascia dei giovani tra i 16 e i 24 anni, i cosiddetti nativi digitali, gli smanettoni nati. È vero, la percentuale di chi è in grado di sfruttare un computer per le operazioni base sale al 90% ma in questo caso anche la Grecia ci batte. Diverso invece se si considera chi programma con costanza per lavoro. L’Italia ha un 15% di esperti ed è ai primi posti, superando anche Inghilterra, Germania e Francia.

Il ritardo delle infrastrutture
La media Ue delle famiglie connesse a Internet è del 73% mentre l’Italia raggiunge a malapena il 62%, una condizione simile a quella della Lituania. Molto diverso anche il tasso di crescita: in Spagna siamo su aumenti del 5%, in Italia del 3%. Stesso quadro anche per diffusione della banda larga fissa: in Italia ci sono 21 linee ogni 100 abitanti contro le 27 dell’Europa, ma anche per numero di famiglie connesse a Internet veloce (52% contro 67%), e negli acquisti e per il commercio on line. Per le esportazioni mediante l’ICT l’Italia è fanalino di coda in Europa; solo il 4% delle piccole e medie imprese vendono on-line, mentre la media UE-27 è del 12%.

LE PERCENTUALI DELL'ITALIA
400 milioni alla banda larga
Per le regioni del centro-nord che vedono 2 milioni di cittadini esclusi dal servizio. Per le 8 regioni del Sud già reperite tutte le risorse necessarie. Il piano darà lavoro a 8000 persone.

50% e-commerce cittadini
L’obiettivo è far sì che il 50 per cento dei cittadini facciano acquisti online entro il 2015.

33% e-commerce imprese
Entro il 2015 il 33 per cento delle piccole e medie imprese dovrà comprare e vendere online.

26,3% compra in Rete
Poco più del 26 per cento delle persone compra online contro il 40,4 della media Ue.

41,7% senza internet
La percentuale delle famiglie che non usa Internet perché non ne ha le competenze. In alcuni casi l’uso della Rete è inibito dalla mancanza di collegamenti.

90% didattica su carta
Nelle aule scolastiche praticamente tutti i contenuti per gli insegnamenti sono su carta e solo il 10 per cento è digitale.

16% studenti «digitali»
Solo il sedici per cento degli studenti utilizza a scuola contenuti e strumenti digitali.

93% ragazzi in Rete
Alta la percentuale nelle giovani generazioni che usa Internet e il 92, 1 per cento degli studenti usa un computer.





dal BLOG Diritto di cronaca  di FLAVIA AMABILE