L'intervento di Luca Baldissara, docente di Storia contemporanea del nostro ateneo: "Il significato profondo della festa del 1° maggio è quello di combattere l'immagine e l'idea che lo stato di cose attuale sia ‘naturale', affermare che viceversa è storicamente determinato, quindi mutabile con una consapevole azione collettiva criticamente orientata"
Riesce difficile immaginare una situazione in cui la ricorrenza della Festa del Lavoro rivesta pregnanza e centralità maggiori di quest'anno. In primo luogo, perché la crisi sociale in corso ha tra i suoi effetti una drastica riduzione dell'offerta di lavoro, che in talune aree va assumendo contorni talora drammatici. Ma anche perché la discussione politica e parlamentare intorno al cosiddetto "decreto Salva Italia" ha finito con il polarizzarsi intorno alla questione dell'articolo 18 negli sconcertanti termini di un baratto tra diritti e lavoro, quasi che tra i due termini dovesse fluire una corrente di incompatibilità.
Ci avviamo quindi a festeggiare il 1° maggio 2012, da una parte, con l'angoscia generata dalla mancanza di lavoro e dalla difficoltà di difendere e tutelare quello che c'è; dall'altra, con la consapevolezza che essere alla ricerca di lavoro significa sempre più spesso disporsi ad accettare di lavorare in condizioni di precarietà e ricattabilità, di disagio ed inadeguata retribuzione, di concorrenzialità e potenziale antagonismo tra lavoratori.
In questo quadro, il lavoro da valore in sé è ridotto ad essere una - ed una tra le tante - delle variabili del processo economico. Viene sostanzialmente rappresentato nei termini di un problema di costi e forme della produzione: più si contengono salari e stipendi, e tanto maggiore è la flessibilità, quanto maggiore sarà la competitività dell'azienda, quindi la sua tenuta sul mercato e la disponibilità di lavoro. Tale ritornello risuona da trent'anni: ad oggi il risultato è che l'apparato produttivo del paese è stato in gran parte smantellato e frammentato, che quello che resiste è in forte crisi e contrazione, che i salari e stipendi italiani sono tra i più bassi d'Europa, che la forbice sociale e dei redditi si è notevolmente ampliata, che i diritti sociali e dei lavoratori sono rappresentati alla stregua di un freno dell'economia, e dunque che chi si attarda a difendere i primi al più è ritenuto un conservatore illuso, quando non un difensore di privilegi, mentre chi sorregge la necessità di lavorare comunque e a qualunque condizione è un realistico interprete del presente. Con il risultato che il lavoratore viene espunto nella sua soggettività e nella sua dignità, dunque ricompreso nella dinamica produttiva come uno dei fattori della produzione, totalmente sottoposto alla direzione d'azienda e privo di diritti in quanto lavoratore, al più titolare di diritti civili che lo accompagnano sul luogo di lavoro e lo attendono fuori.
Trent'anni di neoliberismo - con il conseguente smantellamento dei progetti politici solidaristici, quelli che rivendicavano di governare il mutamento sociale e di indirizzarlo a fini di giustizia sociale - e l'accentuarsi della crisi di sistema in corso hanno insomma consolidato una visione falsamente realistica della realtà economica e sociale.
Il mutare delle forme e delle condizioni di lavoro diviene la manifestazione di uno sviluppo naturale dell'organismo sociale, di fronte al quale non resta che adeguarsi. Si tratta di una concezione "naturalistica" del mutamento, che giudica della modernità e della adeguatezza tanto dei comportamenti individuali quanto di quelli collettivi e politici sulla base della capacità di adattarsi e di assecondare i processi di trasformazione in atto. Rinunciando dunque a mutarne il corso, a indirizzarne le traiettorie sociali, a governarne l'evoluzione, a riequilibrarne gli assetti. Ma sotto le spoglie del presunto realismo di questo modo di procedere si cela una vera e propria ideologia sociale, che, nell'accettazione dell'esistente e nella celebrazione dei rapporti di forza come di qualcosa di immutabile, di "naturale" appunto, svela il proprio obiettivo politico di conservazione degli equilibri sociali esistenti, e quindi anche delle diseguaglianze sempre più pronunciate che li caratterizzano.
Questo naturalismo - che registra l'esaurirsi di possibili alternative discettando di fine della storia, fine del lavoro, fine della politica, fine del conflitto - funge così da giustificazione dei tentativi e dei provvedimenti di disarticolazione delle acquisizioni faticosamente conseguite dal movimento operaio tra Ottocento e Novecento.
Il significato profondo della festa del 1° maggio, viceversa, consiste nel ricondurre alla storia i processi di trasformazione del lavoro e dei modi di produzione e accumulazione. Ricostruire le fasi e le forme di quei conflitti di lavoro che hanno legittimato il movimento operaio come soggetto politico e sociale, ripercorrere le tappe che hanno condotto ad una cultura giuridica e costituzionale in grado di ratificare e definire il ruolo del lavoro nella società e del lavoratore nella costruzione della democrazia, significa contrastare la rappresentazione ideologicamente connotata dei fenomeni storici come fenomeni naturali, quindi ineluttabili. Significa combattere l'immagine e l'idea che lo stato di cose attuale sia ‘naturale', affermare che viceversa è storicamente determinato, quindi mutabile con una consapevole azione collettiva criticamente orientata.
Luca Baldissara, docente di Storia contemporanea dell'Università di Pisa, dal quotidiano pisanotizie
Nessun commento:
Posta un commento