giovedì 31 maggio 2012

Primum vivere


Il finanzcapitalismo continua a oscillare tra due poli di una falsa alternativa: rigore e crescita. Sempre all'interno di un modo di produzione che è devastazione dell’ambiente e dei beni comuni. E che ormai solo gli ideologi ostinati non vogliono ammettere essere in una crisi sistemica.

di Angelo d’Orsi

Una Giornata di riflessione (Torino, 26 maggio) dell’Associazione Movimento 2 Giugno, dal titolo "Aria Acqua Terra. Per una politica della sopravvivenza", ha affrontato i temi fondamentali dell’inquinamento ambientale, della distruzione del nostro paesaggio, della devastazione idrogeologica, con l’ausilio di scienziati e persone competenti, ma anche di testimoni e di “vittime” e di militanti che hanno raccontato le loro battaglie di questi anni.

Contemporaneamente il deputato Pd torinese Stefano Esposito, uno dei rappresentanti più beceri (e squalificati) dell’estremismo “costruttivistico”, ossia distruggitore, non nuovo a inquietanti iniziative del genere, denunciava i 360 docenti del Politecnico e di altre prestigiose sedi universitarie e di ricerca, che hanno osato, cifre e dati alla mano, dimostrare, inoppugnabilmente, l’assurdità, da ogni punto di vista, del famigerato TAV in Val di Susa, inviando un appello al presidente Monti perché fermasse la macchina e invitasse gli esperti autentici a riesaminare il progetto; appello poi sottoscritto da numerosi altri, tra cui anche il sottoscritto. Non pago, lo stesso personaggino firmava la prefazione a un libercolo di smaccata propaganda, privo di qualsivoglia fondamento scientifico, presentato come la prova della necessità di quest’opera inutile sul piano della mobilità, dannosa su quello ambientale, assurda su quello dei costi attuali e ancor più di quelli prevedibili.

Il tema è stato inevitabilmente al centro della Giornata del Movimento 2 Giugno, nella quale si sono affrontati rischi e realtà di una sistematica devastazione del nostro Paese, per incuria delle istituzioni locali e centrali, per avidità della classe politica, per l’incompetenza o per la corruzione dei “tecnici”, per la connivenza dei media, e l’ignoranza di gran parte della pubblica opinione.
Eppure, non da oggi, dovremmo tutti riprenderci una politica non solo dal basso, ma che si occupi dei bisogni concreti: una politica terra terra, dirà qualcuno; ebbene sì, anche una politica aria aria, acqua acqua e così via. Una politica che ci ricordi che non c’è convivenza senza sopravvivenza.
Insomma, occorre riflettere che la politica, arte della convivenza, deve oggi innanzi tutto essere a scienza della sopravvivenza.

Aria Acqua Terra, appunto: il Movimento 2 Giugno, che lavora nella direzione di una riappropriazione della politica da parte dei cittadini, partecipata e informata, ha voluto focalizzare l’attenzione sulle questioni ambientali, intese nel senso più ampio possibile, comprendendo cioè anche quelle tematiche urbanistiche, relativa al consumo del suolo, agli scempi edilizi, alle manomissioni idrogeologiche, da anni neglette, o cancellate, invece che affiancate, dalle questioni connesse alle varie forme di inquinamento. Riappropriarsi la politica e darle un contenuto legato ai problemi di fondo della nostra quotidianità, dal come ci muoviamo all’interno degli spazi urbani o in quelli extraurbani, ai nostri rifiuti, da quel che respiriamo a quel che mangiamo.

Il capitalismo, divenuto turbocapitalismo, ipercapitalismo, ultracapitalismo, o, ricorrendo al libro di Luciano Gallino, Finanzcapitalismo, rivela oggi tutti i limiti della globalizzazione, certo un elemento positivo per taluni aspetti, ma più che globalizzazione di ricchezze, si è rivelata globalizzazione delle povertà, per dirla con Zygmunt Bauman; o meglio: si è rivelata tale per pochi, e il suo opposto per tanti. Nella cittadella assediata dei super ricchi, il finanzcapitalismo, che continua, sotto la parola magica, spauracchio e insieme specchietto, di “crisi”, a oscillare tra due corni di una falsa alternativa (rigore e crescita), due poli di un modo di produzione, che è modo di devastazione dell’ambiente, del paesaggio, che ormai solo gli ideologi ostinati non vogliono ammettere essere in una crisi sistemica. Un ceto politico ingordo, classi dominanti fameliche, continuano a reclamare rigore e crescita, oscillando dall’una all’altra, entrambi funzionali alla perpetuazione del dominio neppure di classe, ma di cricche, di alcune decine di migliaia di gestori del capitale mondiale (quei trilioni di dollari ed euro, spesso reali, più spesso virtuali, ma rimanendo sempre però incollati alle stesse dita) che sono il Verbo degli assediati nella Torre, da cui comandano, con apparati militari e apparati ideologici. Rigore significa far pagare ai ceti medio- bassi i debiti prodotti dai ceti dominanti, e l’involuzione stessa di un sistema che non funziona più. E il rigore è propedeutico alla crescita, e le forze tradizionalmente della Sinistra hanno abboccato all’amo.

Crescita, altra parola musicale, che dovrebbe indurci a credere che questo se non è il migliore dei mondi possibili, è il solo mondo possibile; indurci a scommettere sulla possibilità di aumento costante del PIL (altro grande feticcio), che significa arricchimento disuguale, ma soprattutto significa depauperamento delle risorse naturali, e conseguente loro accaparramento da parte di grandi potentati economici e finanziari, che una volta acquisite le proteggono con la forza delle armi. Crescita, significa aumento dei consumi, moltiplicazione dei rifiuti, consumo del suolo, inquinamento dell’aria e dell’acqua e della terra. Ma per ottenere tali mirabolanti esiti, non bastano i politici, le classi di governo, centrali e locali, nazionali e internazionali; non sono sufficienti neppure gli ukase che giungono dalle sigle minacciose che incombono (UE, OCSE, BCE, G8, G20, WTO, FED…), o le ormai tristemente familiari pronunce da parte delle famigerate agenzie di rating…

Per convincerci che altro non v’è da fare se non continuare ad aumentare la produzione, per aumentare i consumi, per aumentare i profitti, incuranti delle conseguenze, con una incredibile miopia (e dire che qualcuno aveva definito la politica l’arte di guardare lontano), occorre mobilitare gli spin doctors, occorre il sostegno degli economisti. Si noti che alla finanziarizzazione dell’economia pratica, ha corrisposto una matematizzazione di quella teorica, specie sotto forma di grafici, che ormai costituiscono i 9/10 dei manuali di economia. In effetti, sia a livello accademico, sia nel dibattito pubblico oggi gli economisti provano a convincerci di pseudoverità che corrispondono ad atti di fede. La prima delle quali è che l’economia è una scienza, e una scienza esatta, alla quale non è possibile opporsi né resistere. I suoi teoremi sono leggi universali, cui non ci si può sottrarre; e che le scelte che in suo nome compiono i suoi sacerdoti, che siano “tecnici” o politici, sono inevitabili, necessarie, e oggettive.

Il liberismo più selvaggio, quello che distrugge le vite degli individui, è la sola teoria politico-economica che abbia diritto di cittadinanza: il resto viene bollato come “ideologia”. Ma ideologia è proprio la loro, nel senso marxiano del termine. Il velo che vuole impedirci di vedere la verità, quello che nasconde interessi particolari sotto la falsa coscienza di interessi generali.

All’Università si insegnano baggianate siffatte, dalle pericolose conseguenze. Andatelo a dire al popolo greco che non c’era altra via che affamarlo, e farlo morire per mancanza di medicinali, e vedere i suoi ragazzi svenire a scuola per denutrizione. L’OCSE c’informa che nel 2006 gli affamati, coloro che vivono sotto la soglia di povertà, erano 840 milioni; nel 2012 sono oltre 1 miliardo. Ma evidentemente quelle centinaia di migliaia di vittime di questo sistema, per non parlare delle vittime delle guerre, delle neoguerre, altro portato del turbocapitalismo, per tacere delle migliaia di migranti, uccisi in tanti modi, dalle bombe sul confine tra Messico e Usa ai sepolti nelle acque del Mediterraneo (20000 in meno di vent’anni, secondo i dati della Caritas) – sono “non persone” (Dal Lago), sono “vite di scarto” (Bauman), sono esuberi, sono esodati, sono desplazados, sono i condannati dal destino, che, come si sa, è cinico e baro. Ma colpisce sempre gli stessi, e beneficia quegli altri. Quelli che decidono delle nostre vite, e delle nostre morti.

E mentre si riducono gli esseri umani a scarti, gli altri, i potenti, i decisori, producono (o ci costringono a produrre) scarti, deiezioni, rifiuti: monnezza. D’ogni genere, e si pensa poi di eliminarla bruciandola, e producendo diossina, e quant’altro quell’operazione di incenerimento genera dai suoi forni e fa fuoruscire dai suoi camini, nuovi inferni danteschi. Tutto questo per eliminare rifiuti che sono generati dai consumi: consumi, certo, necessari, ma, nella quantità del nostro mondo, più spesso indotti da assordanti campagne invasive, e pervasive, che ormai hanno occupato anche le stazioni ferroviarie, gli aeroporti e l’interno dei treni e degli aerei, quasi a inseguire coloro che non hanno potuto beneficiare dei preziosi “consigli per gli acquisti” attraverso radio e tv o internet…

Si tratta insomma di un nuovo totalitarismo, che come tutti quelli che l’hanno preceduto, pretende di lasciare un segno indelebile, una traccia imperitura di sé. Al “fascismo di pietra” – come è stata chiamata la voluttuosa tendenza a costruire archi, colonne, statue, e così via, magari con una troneggiante M, allusiva al “duce” – si è sostituita l’ideologia e la pratica (più la prima che la seconda, a dire il vero) delle “Grandi Opere”. Tanto faraoniche, pletoriche, costose, quanto inutili (o utili per esigue minoranze di agiati) e, soprattutto, devastanti. La linea detta Tav in Val di Susa, oggi ne costituisce l’esempio paradigmatico; ma c’è il MOSE di Venezia, e anche se il Ponte sullo Stretto per ora è scongiurato, non è detto che un domani non riemerga nelle pieghe di altri programmi di altri governi. E ciascuna di queste opere, sciagurate sul piano ambientale, è una fonte di profitti per aziende con cui i politici sono collusi, spesso inquinate da mafia ‘ndrangheta e camorra. E i dati ci dimostrano che i consuntivi, sempre, sono cifre di 3-4 (fino a 6, per le linee ad Alta Velocità) volte superiori ai preventivi. Insomma, macchine che divorano risorse finanziarie pubbliche, per distruggere risorse naturali, altrettanto pubbliche. Eccoli, i “beni comuni”: da riconoscere e difendere con le unghie e con i denti.

È ora che la politica, quella autentica, dal basso, affronti seriamente tale novero di questioni: devono farlo direttamente i cittadini autorganizzati in gruppi e associazioni: non aspettiamoci nulla dalla classe politica. Tocca a noi tutti salvare, con la democrazia, l’aria, l’acqua, la terra di questo Paese, contribuendo, nel nostro piccolo, a salvare, l’intero Pianeta.
Fonte : micromega
(31 maggio 2012)

Il bilancio in rosso del governo Monti


A sette mesi dall'insediamento, il bilancio - anche economico - del governo Monti è negativo. E le prospettive future sono perfino peggiori. Occorre quanto prima adottare una visione sociale ed economica del tutto differente in grado di rilanciare le attività e l’occupazione e risanare i conti
Secondo le stime preliminari dell’Istat, il Pil del primo trimestre dell’anno è diminuito dell’0,8% rispetto ai tre mesi precedenti e dell’1,3% rispetto al corrispondente periodo dell’anno scorso. La caduta del prodotto è il risultato di fenomeni macroeconomici contrastanti: da un lato l’attività economica è stata alimentata dalla domanda estera, che ha portato a un aumento delle esportazioni del 4,5% rispetto all’anno precedente, e dalla domanda di sostituzione di prodotti importati con beni nazionali (il calo delle importazioni è stato pari a quasi l’11%, un dato superiore alla contrazione della domanda interna); dall’altro lato l’attività produttiva ha patito il crollo dei consumi e degli investimenti, diminuiti di oltre il 5% rispetto al 2011. Di conseguenza, malgrado la moderazione salariale, la disoccupazione ha continuato a crescere e la situazione di finanza pubblica, a dispetto dell’aumento delle imposte, non è migliorata. Unico elemento positivo è il saldo della bilancia commerciale con l’estero, tornato positivo; a partire da quest’anno l’interscambio di beni e servizi non contribuisce più al deflusso di risorse dal nostro Paese.
Secondo i dati pubblicati dal Dipartimento delle finanze del Ministero dell’Economia, nel primo trimestre le entrate fiscali sono aumentate di solo lo 0,7% rispetto all’anno precedente e sono diminuite del 6,2% nel mese di marzo; gli incassi relativi all’IVA sono addirittura diminuiti dello 0,1% nei tre mesi e dell’1,8% a marzo. Questi ultimi dati sono particolarmente sconfortanti perché costituiscono un indizio di una progressiva caduta della domanda, persino d’intensità superiore a quella stimata dall’Istat, tenuto conto che ci si sarebbe potuto attendere una crescita del gettito per effetto dell’inflazione (i prezzi sono saliti di oltre il 3%) e dell’aumento del carico fiscale con l’innalzamento dal 20 al 21% dell’aliquota base.
La situazione economica delle famiglie italiane va dunque peggiorando e si va diffondendo un sentimento di paura per il futuro, anche per effetto dei pesanti provvedimenti del governo; l’insicurezza sulle prospettive di reddito ha diminuito la propensione al consumo oltre la stessa riduzione della capacità di spesa.
Seguendo il modello greco, anche nel nostro paese si va creando un circolo vizioso in cui l’aumento della pressione fiscale fa cadere la domanda (e l’attività produttiva) che a sua volta contrae il gettito fiscale e contributivo. Questa spirale avversa sta allontanando la prospettiva di risanamento della finanza pubblica e accresce il pericolo che l’obiettivo di riduzione del rapporto tra debito pubblico e Pil non sia raggiunto neppure nel 2013.
Il peggioramento della situazione si è riflesso sui mercati finanziari, dove il rischio sui titoli pubblici italiani ha di nuovo ampiamento superato la soglia dei 400 punti base. Da ultimo, l’aumento della probabilità di ritorno alle monete nazionali nei paesi periferici dell’Eurozona si sta traducendo nell’aumento della preferenza dei cittadini a detenere risparmio sotto forma di contante in euro, con la prospettiva di forti prelievi dai conti bancari. In Italia, le politiche adottate volte a colpire il reddito e il potere dei lavoratori e del ceto medio in favore degli imprenditori e dei manager, sia dell’economia reale sia della finanza, oltre ad essere socialmente inique sono state economicamente irrealistiche: il risanamento dei conti pubblici non può essere raggiunto contando unicamente sul sostegno della domanda estera di beni prodotti avvalendosi di un bassissimo costo del lavoro.
Con la riforma delle pensioni è stata drasticamente ridotta la quota di reddito dei lavoratori procrastinata nel tempo; con l’aumento delle imposte tagliati i redditi disponibili; con la riforma del mercato del lavoro favoriti i licenziamenti. Al contempo sono state ridotte le imposte sul reddito delle imprese e concesse garanzie alle banche per ottenere credito dall’Eurosistema. Inoltre, non è stato preso alcun provvedimento per limitare gli eccessi nella corresponsione di stipendi e bonus dei manager sia delle banche che hanno beneficiato degli aiuti pubblici sia delle imprese non finanziarie a partecipazione pubblica. Non è stata nemmeno reintrodotta un’imposta “liberale” come quella di successione; il bollo sui capitali scudati è di ammontare risibile. Sono stati confermati gli inutili progetti infrastrutturali precedenti e non sono stati presentati programmi di sviluppo. I tagli alla spesa della politica non si sono materializzati.
A sette mesi dal suo insediamento, il bilancio, anche sotto il profilo economico, del governo del professor Monti, nato con i migliori auspici, la massima fiducia dei cittadini e in concomitanza all’ingente immissione di liquidità da parte della Banca Centrale Europea, è per ora negativo. Le prospettive sono persino peggiori: il drammatico calo della domanda interna è la conseguenza dell’azione distributiva operata in senso sfavorevole ai lavoratori e alle classi meno abbienti.
Occorre quanto prima adottare una visione sociale ed economica del tutto differente in grado di rilanciare le attività e l’occupazione e risanare i conti. La vittoria di Hollande in Francia dischiude una prospettiva di trasformazione economica e sociale che probabilmente rappresenta l’ultima possibilità per l’Europa di evitare lo spettro della disgregazione e dei fallimenti a catena. La crisi richiede risposte di alto profilo sul processo di produzione e distribuzione delle ore lavorate e del reddito, sul ruolo della finanza nel riallocare le risorse nel tempo e tra settori, aree, persone.
Più in generale è necessaria una riflessione sulla funzione del mercato e dello stato in un mondo in cui lo sviluppo delle forze produttive rende potenzialmente sovrabbondante la disponibilità di ogni bene rispetto ai bisogni individuali. Occorre interrogarsi su come si può conciliare il valore, negli ultimi decenni intoccabile, della proprietà individuale con il più alto valore del benessere di una collettività di persone.
Questo articolo è uscito anche su "il manifesto" del 24 maggio
 fonte: www.sbilanciamoci.info

lunedì 28 maggio 2012

Una dannosa concorrenza


Una dannosa concorrenza
«Strage semplice» o «strage a scopo terroristico»? Procura della Repubblica di Brindisi o Direzione distrettuale antimafia (e antiterrorismo) di Lecce? E dunque a dirigere le indagini quale dei due magistrati responsabili dei due organismi, Marco Dinapoli o Cataldo Motta? Per 48 ore le cronache sull'attentato di cui è rimasta vittima la povera Melissa Bassi hanno ruotato intorno a questa disputa tra le suddette sedi giudiziarie pugliesi, risoltasi alla fine solo per l'intervento deciso del ministro Severino. Una disputa che ha reso evidente a tutto il Paese alcuni dei mali gravi di cui soffre l'apparato giudiziario italiano.

Innanzi tutto un'estrema, talora parossistica, tendenza alla personalizzazione, che prende la forma della corsa dei singoli magistrati ad accaparrarsi l'inchiesta che «conta». La quale, poi, è sempre e soltanto una: e cioè quella che più colpisce l'opinione pubblica, vale a dire che riguarda clamorosi fatti di sangue o personaggi importanti, e/o ha addentellati con la politica; e di cui perciò si occupano con il massimo risalto giornali e tv. La grande maggioranza dei magistrati italiani, ma come è ovvio in modo specialissimo quelli delle procure, non sembrano quasi mai capaci di resistere alla tentazione della «visibilità», ne sono avidi, la cercano in ogni modo. Più di una volta, ahimè, subordinando ad essa i propri atti istruttori, a cominciare dai provvedimenti di custodia cautelare, vale a dire l'ordine di arresto e di detenzione in carcere a carico dei cittadini.

La visibilità significa principalmente visibilità per la propria inchiesta: da alimentare per esempio anche con l'accorta somministrazione alla stampa di verbali di intercettazioni telefoniche. Somministrazione che sarebbe vietata dalla legge, naturalmente, in quanto quei verbali, come si sa, sono coperti dal segreto istruttorio, ma della quale mai, in anni e anni, a mia conoscenza alcuna procura della Repubblica si è preoccupata di individuare e tanto meno di punire i responsabili.

La visibilità peraltro non serve solo a soddisfare una più o meno ingenua vanità personale. Per chi viene a goderne, essa, infatti, ha conseguenze ben più importanti e concrete. Serve molto, infatti, al proprio futuro professionale e no. È utile, ad esempio, per costruirsi una posizione di forza in occasione delle assegnazioni di sedi e di incarichi da parte del Consiglio superiore della magistratura. Per essere appoggiato in tali richieste dai propri colleghi di «corrente»; per mettere il Csm stesso nella condizione di «non poter dire di no» alla richiesta del «celebre» procuratore, del noto castigamatti del potere, del famoso inquirente che ha dimostrato di non guardare in faccia a nessuno. Ma non solo. La visibilità è utilissima per fare il salto, da molti ambito, fuori dalla carriera: per essere corteggiati dai giornali e dagli editori, per essere invitati ai talk show , a festival e convegni d'ogni tipo. E va da sé per entrare in politica.

La quale politica può essere quella vera e propria che si fa in Parlamento o alla testa di un Comune, ovvero quella diversa ma egualmente importante che si fa negli innumerevoli gabinetti ministeriali, in enti e organismi dalle denominazioni più impensate, ricoprendo incarichi per solito assai ben remunerati (tutti posti assegnati per l'appunto dalla politica): in cambio di nulla? Infine essendo eletti dai propri colleghi nel Csm di cui sopra.

Curiosamente, infatti, nessuna corporazione come quella dei magistrati a parole rifiuta con tenacia ogni rapporto con la politica, proclama a ogni piè sospinto la necessaria lontananza, che dico estraneità, da essa, ma al tempo stesso quasi nessun'altra come quella annovera tanti membri ansiosi, ansiosissimi, di avervi a che fare in un modo o nell'altro. Le polemiche tra i magistrati pugliesi di questi giorni - comprese le conseguenze negative che esse potrebbero avere avuto sulle indagini (vedi la divulgazione delle immagini televisive del supposto colpevole) sono solo l'ultimo capitolo di questa patologia personalistica del sistema giudiziario italiano. Nei cui confronti la classe politica e di governo nasconde la testa sotto la sabbia e non fa niente, nell'evidente paura di dispiacere alle toghe: in parte nella speranza che i propri avversari incappino prima o poi in qualche inchiesta della magistratura; in altra terrorizzata dall'idea che i suoi molti scheletri nell'armadio vengano prima o poi tirati fuori da qualche procura. Mentre ai comuni cittadini - che non hanno né avversari né scheletri nascosti - si continua ancora a chiedere, come se nulla fosse, di votare comunque per coloro che da decenni, anche in questo campo, lasciano andare le cose come vanno.

di Ernesto Galli della Loggia, dal Corriere

domenica 27 maggio 2012

il “Bluff” sulle pensioni d'oro.


Interessante articolo , che in maniera semplice e chiara fa capire il “Bluff” sulle pensioni.

Come Sisifo spingeva un masso dalla base alla cima del monte, per mesi governo e Parlamento si sono impegnati in un compito logorante: mettere un tetto agli stipendi dei supermanager di Stato. Il 16 aprile sembrava cosa fatta, la notizia era certa: chi dipende dall’amministrazione pubblica non potrà guadagnare più di 293.658 euro. Un aiuto al taglio della spesa, quella «spending review» che l’esecutivo annuncia da mesi. E un contributo significativo, in ossequio alla logica che dovrebbe guidare ogni classe politica: come si possono tartassare i contribuenti senza dare l’esempio per primi?
Ma, come il macigno di Sisifo rotolava a valle ogni volta che sembrava avere raggiunto la cima, anche la legge sui compensi d’oro dei dirigenti pubblici va rivista, integrata, riscritta. Le commissioni parlamentari sono già al lavoro per porre rimedio a quello che, seppure in camera caritatis, molti deputati definiscono «un incredibile pasticcio». La norma, infatti,esclude dal taglio i vertici delle agenzie previdenziali, degli enti pubblici non economici, delle regioni. Avete presente il presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua? Guadagna 1,2 milioni di euro all’anno e ha un bel numero di poltrone: salvo. Oppure il capo degli 007 del fisco, quell’Attilio Befera che guida l’Agenzia delle entrate ed Equitalia: illeso anche lui. O il dominus del Coni, Gianni Petrucci: dorma sonni tranquilli, per il momento.
Gli uffici legislativi del Parlamento non hanno dubbi: bisogna rimettere mano ad alcuni articoli. Alla Camera è già stato incaricato Giuliano Cazzola, grande esperto del ramo. Sarà lui il relatore dell’emendamento. «Bisogna mettere una pezza a una norma malfatta» ammette il deputato del Pdl. «È stata forzosamente inserita in un maxiemendamento all’ultimo minuto. Ma il governo doveva e poteva intervenire per correggerla. E non lo ha fatto».
L’intrico nasce poco prima di Natale, il 22 dicembre, quando l’aula approva il decreto Salva Italia. Fra le altre cose, viene fissato a poco meno di 294 mila euro il limite massimo agli stipendi dei manager statali. Cifra mutuata dal compenso che spetta al primo presidente della Cassazione. Il 30 gennaio 2012 il governo recepisce: trasmette alle Camere lo schema del decreto attuativo della norma che, due settimane dopo, il 14 febbraio, finisce al vaglio delle commissioni Affari costituzionali e Lavoro.
E qui si scatenano mille perplessità: decine d’interventi critici di deputati e senatori sono messi a verbale alla presenza del ministro della Funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi. Che viene accusato dal suo predecessore,Renato Brunetta, di fornire «elenchi incompleti». In effetti la lista del governo con «le retribuzioni superiori a 294 mila euro» è scarna: contiene appena 51 nomi. Restano fuori interi settori dello Stato. E soprattutto gli svariati casi di cumulo. Befera, per esempio, è citato solo come direttore dell’Agenzia delle entrate, un incarico da quasi 294 mila euro all’anno. Peccato sia anche il numero uno della Equitalia, e a titolo tutt’altro che gratuito.
Il 29 febbraio le commissioni parlamentari danno parere favorevole allo schema, ma chiedono un intervento correttivo: bisogna estendere la norma ai dirigenti esclusi. I successivi ritocchi del governo, tuttavia, non risolvono il problema. L’ultimo atto è la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale della norma: mai più stipendi a carico dei contribuenti sopra i 293.658.
Sì, magari. Stilare una lista completa dei graziati (a loro insaputa, ci mancherebbe) è come far passare il classico cammello dalla cruna di un ago. Tutti gli enti statali e affini avrebbero l’obbligo di pubblicare sui rispettivi siti i compensi dei vertici, in pochi però lo fanno. Tra i risparmiati, per esempio, c’è la Sace: una società completamente controllata dal ministero dell’Economia che garantisce le aziende italiane nelle transazioni internazionali e negli investimenti. Un compito di grande importanza, tanto da assicurare ad Alessandro Castellano, l’amministratore delegato, 800 mila euro l’anno: quasi tre volte il tetto stabilito dalla legge. Che per lui, al momento, non vale. Sfuggito alla scure è pure Domenico Arcuri, il numero uno della Invitalia, agenzia nata per attrarre investimenti: 750 mila euro. E anche Giovanni Gorno Tempini, alla guida della Cassa depositi e prestiti, che guadagna poco meno di 524 mila euro. Così come Raffaele Ferrara, direttore generale dei Monopoli di Stato: 482 mila euro.
La legge metterebbe in salvo anche gli enti previdenziali, a partire dall’Inps.Mastrapasqua come presidente prende quasi 216 mila euro l’anno. Ma è solo uno dei tanti incarichi che gli permettono di raggiungere 1,2 milioni di euro. E altri cinque dirigenti dell’Inps superano la soglia. Come il direttore generale, Mauro Nori: 377 mila euro.
L’elenco degli enti amnistiati è sterminato. C’è il Coni, guidato da Gianni Petrucci: 400 mila euro l’anno. C’è l’Expo 2015: il suo amministratore delegato, Giuseppe Sala, viene retribuito con 390 mila euro. C’è la Consap, dove è approdato l’ex direttore generale della Rai, Mauro Masi: tra fisso e variabile, può arrivare a guadagnare 440 mila euro. E poi c’è la lunga schiera di manager e burocrati delle regioni. Come Giovanni Tomasello, segretario generale dell’assemblea regionale siciliana: ha uno stipendio netto mensile di 13.145 euro, all’anno fanno più di 400 mila lordi. Oltre 100 mila in più di quanto percepito da Manlio Strano, il suo omologo alla presidenza del Consiglio, cui invece il nuovo limite si applica.
E ora che si fa? Il pastrocchio è doppio: l’unica norma dal sapore anticasta varata finora dal governo Monti va modificata. Anche perché rischia un’ondata di ricorsi da parte di quei dirigenti per cui il tetto è già in vigore. Col rischio di mandare tutto a catafascio. Ipotesi che, vociferano malevoli alcuni onorevoli, non dispiacerebbe ad alcuni tecnici cooptati nel governo. Grand commis che, una volta fissate le elezioni, potrebbero tornare nell’olimpo della burocrazia. In quella giungla statale dove, da che mondo è mondo, tecnico non mangia tecnico.
di antonio.rossitto

                Queste sono le pensioni d'oro
              al cui taglio "i famosi 94 Senatori" 
                         si sono opposti!



Le argomentazioni difensive dei Senatori locali riportate nei manifesti ,affissi sui muri della nostra città, sono semplicemente ridicole.



NO AI PRIVILEGI PER LA CASTA!!!!

La crisi la paghi chi l'ha causata!





Le carte segrete sulla scrivania di Ratzinger



Incontri riservati, nuovi documenti sul caso Boffo, report. Il giornalista Gianluigi Nuzzi ha raccolto i documenti segreti



Le “note riservate” sul presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano per l’incontro privato di Benedetto XVI, le lettere di Dino Boffo al Papa nelle quali l’ex direttore di Avvenire indica i congiurati nell’operazione che lo costrinse alle dimissioni nell’estate del 2009, i consigli della segreteria di Stato al pontefice sul caso Emanuela Orlandi, il conto corrente del Santo Padre, n. 39887, aperto il 10 ottobre 2007 presso lo Ior, la banca del Vaticano. Trame, intrighi, segreti: dalla Curia romana alle diocesi in tutto il mondo, ricostruiti in un’inchiesta che si spinge fin dentro l’appartamento privato di papa Ratzinger. Sveglia alle 6.45, Messa privata e colazione, poi Joseph Ratzinger, con i suoi segretari Georg Gänswein e Alfred Xuereb, vaglia i problemi e le criticità che la Chiesa incontra in ogni angolo del pianeta. Un lavoro su centinaia di documenti riservati tra rapporti, lettere e messaggi cifrati che finiscono poi in archivio per essere segretamente custoditi. Queste carte sono il punto di partenza del nuovo libro di Gianluigi Nuzzi Sua Santità, le carte segrete di Benedetto XVI. Nuzzi non è nuovo a inchieste di questo tipo, era già entrato nella “cassaforte” della Curia con Vaticano SpA (tradotto in 12 lingue), ma oggi, grazie a informatori di cui svela le tecniche ma non i nomi, arriva nell’ufficio del Papa, svelando intrighi di Curia, scontri con la cancelliera Angela Merkel sui negazionisti della Shoah, la clamorosa confessione del segretario storico di padre Marcial Maciel, le coperture in Vaticano del fondatore dei legionari di Cristo, i report riservati al Papa di Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello Ior, sull’ospedale San Raffaele di Milano dopo il confronto con Corrado Passera quando era ad di Banca Intesa. Due Paesi, Italia e Vaticano, i cui interessi s’intrecciano ogni giorno: dalle trattative sotterranee con il governo Berlusconi sull’Ici, ai report difensivi del Cavaliere durante il caso Ruby, sino alle raccomandazioni di Gianni Letta. Né mancano questioni ancor più delicate: il crac delle diocesi Usa dopo i risarcimenti per lo scandalo dei preti pedofili, gestito da quel monsignor Carlo Maria Viganò mandato come nunzio a Washington dopo essersi scontrato con il cardinal Tarcisio Bertone, i messaggi criptati dalle nunziature su omicidi a sfondo sessuale di sacerdoti, sino alle direttive del segretario di Stato sui rapporti con i terroristi baschi dell’Eta per il cessate il fuoco. Passando per le tante anime della famiglia cattolica: le incomprensioni tra Cl e la Diocesi di Milano, le mosse dell’inviato segreto di Bertone per conquistare l’Istituto Toniolo, cassaforte dell’Università Cattolica, la ragnatela della diplomazia per ricomporre lo scisma con i lefevbriani. Quello che emerge è un Vaticano pieno di chiaroscuri e un pontefice impegnato a tenere unite tante anime tra loro a dir poco contrapposte. Abbiamo chiesto a Nuzzi e alla casa editrice Chiarelettere di anticiparci, in esclusiva, alcuni tra i più importanti passaggi dell’inchiesta domani in libreria.

Quella cena con Napolitano
In Vaticano, fin dall’elezione del 2006, Giorgio Napolitano viene riconosciuto sempre più come interlocutore di prestigio e rilievo nelle relazioni con l’Italia. Capace di assumere un ruolo significativo in momenti cruciali, come puntualmente poi accadrà nell’autunno del 2011 con il lento passaggio del testimone da Berlusconi a Monti e la formazione di un primo governo tecnico. Così si è costruito, mese dopo mese, un rapporto solido tra Santa Sede e Quirinale, basato anche su incontri dei quali fino a oggi non si era saputo nulla. Dalle carte riservate emerge come diplomazia e cerimoniale, nei primissimi giorni del 2009, fossero in fermento per preparare un incontro rimasto segreto: una cena privata in Vaticano tra i coniugi Napolitano e Benedetto XVI per il 19 gennaio 2009. L’attività preparatoria nei Sacri palazzi è curata direttamente dal numero tre della segreteria di Stato, ovvero uno dei più stretti collaboratori del cardinal Bertone: monsignor Dominique Mamberti, sorta di ministro degli Esteri della Santa Sede. L’attenzione è rivolta non solo al rango dell’ospite ma anche ai delicati argomenti da sottoporgli, almeno da quanto emerge dall’articolata nota preparatoria indirizzata direttamente a Sua Santità. Il documento apre con una breve biografia privata di Napolitano, che ripercorre le tappe della sua carriera politica, per affrontare, nel secondo paragrafo, quelli che vengono indicati già nel titolo come «alcuni temi di interesse per la Santa Sede e la Chiesa in Italia». Il documento ben esprime la moral suasion sui politici italiani. I toni sono diretti, le indicazioni esplicite. Il primo argomento che si caldeggia è quello della tutela della famiglia fondata sul matrimonio rispetto alle unioni di fatto. C’è allarme. Il rapporto enfatizza e sottolinea i tentativi di porre le due unioni sullo stesso piano, visto che «due esponenti del governo (Renato Brunetta e Gianfranco Rotondi) – si legge nel documento – hanno purtroppo fatto annunci in tal senso». La linea è invece chiara e ferma: «Si devono evitare equiparazioni legislati ve o amministrative fra le famiglie fondate sul matrimonio e altri tipi di unione». In questa ottica, «potrebbe risultare utile un sistema di tassazione del reddito delle famiglie che tenga conto, accanto all’ammontare del reddito percepito, anche del numero dei componenti della famiglia e quindi delle spese per il mantenimento dei familiari». Si passa poi alle numerose questioni pendenti, dalla parità scolastica ai «temi eticamente sensibili », come l’eutanasia. L’interesse della Santa Sede per le iniziative legislative in Italia è pressante: «Riguardo all’ipotesi di un intervento legislativo in materia di cure di fine vita e di dichiarazioni anticipate di trattamento, si avverte anzitutto l’esigenza di una chiara riaffermazione del diritto alla vita, che è diritto fondamentale di ogni persona umana, indisponibile e inalienabile. Conseguentemente, si deve escludere qualsiasi forma di eutanasia, attiva e omissiva, diretta o indiretta, e ogni assolutizzazione del consenso. Occorre evitare sia l’accanimento terapeutico sia l’abbandono terapeutico». Quanto alla parità scolastica, si rammenta a Benedetto XVI che in Italia «il problema attende sempre una soluzione, pena la scomparsa di molte scuole paritarie, con aggravi sensibili per lo stesso bilancio dello Stato. Occorre trovare un accordo sulle modalità dell’intervento finanziario, anche al fine di superare recenti interventi giurisprudenziali che mettono in dubbio la legittimità dell’attuale situazione». Non è dato sapere in quali termini il pontefice abbia sottoposto gli argomenti a Napolitano, di certo l’agenda dei temi è ben diversa da quelle degli incontri ufficiali.

«Santità, ecco i congiurati»
La campagna stampa de Il Giornale nell’estate del 2009 su Dino Boffo, basata su un’ipotetica condanna per molestie e una falsa velina giudiziaria su una sua presunta omosessualità, portò alle dimissioni dell’allora direttore de L’Avvenire. Ma quella che finora è suonata soprattutto come una campagna mediatica contro chi criticava il Cavaliere (il famoso “metodo Boffo”) oggi sembra delinearsi più come una congiura consumata nei sacri palazzi. A sostenerlo è proprio Boffo: non pubblicamente ma scrivendo alcune lettere dopo mesi passati a capire chi aveva ordito l’attacco contro di lui e con quali fini. Una vera e propria indagine difensiva, analizzando la stampa, informandosi presso amici e conoscenti nel mondo dell’informazione e della politica, raccogliendo elementi che lo «sconvolgono». I risultati sono riassunti in tre lunghe missive riservate, due a monsignor Georg, segretario particolare di Benedetto XVI, e una al cardinale Angelo Bagnasco, segretario della Conferenza Episcopale Italiana. Boffo racconta quanto accaduto, ne spiega i motivi, indica con nomi e cognomi gli esecutori, ipotizza i mandanti e spiega i moventi della sua morte professionale. Così il 6 gennaio 2010, poco prima di cena, in un’orario in cui Gänswein si trova solo in ufficio, dalla sua casa di campagna a Oné di Fonte, vicino a Treviso, Boffo infila cinque fogli nella macchina del fax. La missiva è indirizzata direttamente a don Georg. Sul frontespizio la parola «riservatissima» annuncia il tenore dello scritto, un j’accuse che possiamo dividere in tre parti. Nella prima individua i responsabili. Nella seconda indica le motivazioni che avrebbero pro vocato la campagna contro di lui, nella terza cerca una via d’uscita, ricordando che è senza lavoro: «Reverendissimo Monsignore, […] sono venuto a conoscenza di un fondamentale retroscena, e cioè che a trasmettere a Feltri il documento falso sul mio conto è stato il direttore de L’Osservatore Romano, professar Gian Maria Vian. Il quale non ha solo materialmente passato il testo della lettera anonima […] ma ha dato ampie assicurazioni che il fatto giudiziario da cui quel foglio prendeva le mosse riguardava una vicenda certa di omosessualità, che mi avrebbe visto protagonista essendo io – secondo quell’odioso pettegolezzo – un omosessuale noto in vari ambienti, a cominciare da quello ecclesiastico, dove avrei goduto di colpevoli coperture per svolgere indisturbato il delicato ruolo di direttore responsabile di testate riconducibili alla Conferenza Episcopale italiana». Boffo cerca quindi di individuare e indicare anche un mandante, quantomeno morale, di quanto accaduto. Il nome che emerge, con un coinvolgimento dai toni più sfumati, meno diretto, ma comunque dirompente è quello di Tarcisio Bertone. A sostegno del coinvolgimento del segretario di Stato, stando almeno allo scritto, non prove inappuntabili ma deduzioni e indizi: «Non credo, per essere con Lei schietto fino in fondo, che il cardinale Bertone fosse informato fin nei dettagli sull’azione condotta da Vian, ma quest’ultimo forse poteva far conto, come già in altri frangenti, di interpretare la mens del suo Superiore: allontanato Boffo da quel ruolo, sarebbe venuto meno qualcuno che operava per la continuità tra la presidenza del cardinale Ruini e quella del cardinale Bagnasco […]». Don Georg riceve la lettera e si può ipotizzare che si sia confrontato con il Papa, visto che Boffo chiama in causa due strettissimi collaboratori del pontefice. Di sicuro l’11 gennaio, dopo qualche giorno, decide di rispondere. Non con una lettera, dando così ufficialità a una risposta, ma a voce, via filo. Gänswein alza la cornetta e telefona direttamente a Boffo esprimendo «carità sacerdotale» e chiedendo altri dettagli. Ne nasce un carteggio con altre lettere che l’ex direttore invia prima al segretario del Papa, il 12 gennaio, e poi, a settembre, a Bagnasco. Da parte sua Vian ha sempre taciuto, facendo riferimento alla nota della segreteria di Stato che nel dicembre 2009 smentisce qualsiasi voce su un coinvolgimento del direttore del foglio della Santa Sede. Allora, chi ha ragione, chi tace, chi mente? Arriviamo a settembre del 2010, quando Boffo chiede aiuto a Bagnasco. Vuole giustizia. Ma il segreto e la verità sembrano essersi ormai uniti a sigillo per inabissarsi. Poche settimane e in autunno Boffo è riabilitato. Torna direttore di Sat2000, la tv dei vescovi. Lo scandalo è ricomposto. Senza vittime, né colpevoli.

Il delicato caso del tartufo di Alba
Nei documenti ci sono anche fatti culinari e situazioni paradossali. È il caso di un maxi tartufo battuto all’asta di beneficenza di Alba per oltre centomila euro. Il benefattore, un industriale piemontese, vuole regalarlo a Benedetto XVI: offre garanzie di essere un buon cattolico e indica, come garante, il vescovo di Cuneo. Va bene insaporire le tagliatelle, ma quel tartufo è esagerato. Dall’appartamento privato parte il «nulla osta»: le scaglie devono essere destinate ai senzatetto della mensa della Caritas di Roma.

Da Sette - Corriere della Sera n.20
25 maggio 2012 | 19:00

L'incapacità di ricambio di leader


di LUCA RICOLFI, dalla stampa

C’ è un pensiero, o meglio una domanda, che ultimamente mi perseguita quando penso alla politica italiana. Con tutto quel che è venuto fuori su Bossi, sua moglie, i suoi figli, compresa la laurea falsa del «trota» comprata in Albania, come è possibile che Bossi resti al comando? Come è possibile che anche quanti si ripromettono di ripulire e rifondare la Lega prendano seriamente in considerazione l’ipotesi di un partito con un segretario diverso (Maroni) ma con Bossi presidente della «nuova Lega»? Che cosa deve succedere perché un capo-partito venga non dico cacciato, espulso, punito, ma semplicemente archiviato? Che cosa fa sì che non si possa mai assistere a una battaglia politica che porti alla sostituzione di un vecchio gruppo dirigente con uno nuovo e diverso?

Questo genere di domande me le ero già fatte molte volte a proposito di Berlusconi e del suo partito, ma lì avevo una risposta: Berlusconi ha i cordoni della borsa, e ha sempre fatto attenzione a non dare spazio a persone troppo capaci o indipendenti da lui.

Che il Pdl senza Berlusconi rischiasse di implodere (come ora sta succedendo) è sempre stata per me una risposta soddisfacente alla mia istintiva e un po’ moralistica domanda: visto che ne combina di tutti i colori, perché i suoi non se ne liberano?

Ma con la Lega è diverso. Bossi non ha risorse economiche proprie (tanto è vero che usa quelle della Lega a beneficio dei suoi familiari), e inoltre non è circondato da figure chiaramente minori rispetto a lui stesso. Se volessero, i suoi potrebbero benissimo dirgli: caro Umberto, hai abusato della tua posizione, hai 70 anni suonati, ora fatti da parte che la Lega la prediamo in mano noi.

Mentre mi chiedevo perché non succede, ha cominciato però a ronzarmi un pensiero più radicale, una sorta di sospetto più generale. Mi sono venute inmente decinee decinedi situazioni,non solo nella politica, ma anche al di fuori di essa in cui succede la stessa cosa. La resistenza dei vecchi capi al cambiamento, e soprattuttola rinuncia dei giovani a dare battaglia, va molto al di là del recinto del centrodestra. Anche nelle imprese, nelle università, nelle fondazionibancarie, l’età mediadei capiè prossima ai 60 anni, ma soprattutto - questo è il fatto interessante - i quarantenni non danno battaglia. Aspettano. Attendono fatalisticamente che venga la loro ora. Una sorta di «sindrome di Carlo d’Inghilterra», che ormai 65enne non sa ancora se mai ascenderà al trono. Con la differenza che una posizione dirigente nella politica, nell’economia, o nella società non si eredita come un trono, ma si dovrebbe conquistarein base ai meriti guadagnatisul campo.

Ecco, i meriti. Forse questo è il punto. Forse la ragione per cui nessuno dà battaglia, anche quando avrebbe tutte le carte in regola per farlo, è che in Italia i capi beneficiano di un sovrappiù - di un anomalo e perversosovrappiù - di deferenza, di rispetto, di gratitudine. Una sorta di intangibilità, che fa apparire tradimento quella che altrove sarebbe giudicata una normale e fisiologica competizione fra gruppi e generazioni. Ma da dove deriva tale sovrappiù? Come siamo arrivati, un po’ tutti, ad esitare di fronte all’eventualitàdi intraprenderecerte battaglie?

La risposta è che in Italia si va avanti per cooptazione.Anchechi va avanti con pieno merito, ingenere può farlo solo perché qualcun altro - il «capo» - a un certo punto ha dato disco verde. Ha chiamato. Ha promosso. Ha coinvolto. Ha incluso. Ha ammesso nel clan, nel gruppo, nella rete, nel «cerchio magico». A quel punto è naturale per il cooptato maturare un senso di riconoscenza, di fedeltà, di lealtà, che gli fa percepire ogni possibile battaglia futura come un tradimento,una manifestazionedi ingratitudine. Questo meccanismo è così diffuso, così endemico, quasi scolpito nel nostro modo di sentire, che finisce per coinvolgere anche chi - in realtà - avrebbe tutti i numeri per dare battaglia, per promuovereil ricambio, per liberarci di personaggiche, con il passare degli anni, diventano un peso, se non altro perché non possono più dare il meglio di sé. Una singolareincapacità di «uccidere il padre», nel senso freudiano di diventare grandi e maturi, inquina e intorbida la vita del nostro Paese. Il padre non viene ucciso semplicemente perché gli dobbiamo troppo, se non tutto; e chi ha grandi debiti non puòessere libero,non soloineconomia.

Più che i padri che non lasciano il comando, colpisce il fenomeno dei figli che nulla fanno per prenderlo. Come se ereditare fosse l’unica modalità di successione che conoscono. E non si pensi che, in politica, il problema riguardi solo la destra. C’è una controprova clamorosa che non è così. Tu apri Radio Radicale e immancabilmente, quotidianamente, incappi in una esternazione di Marco Pannella. Un fiume di parole disordinato e sostanzialmente incomprensibile,almeno per personenormali.

Perché? Perché nessun politico radicale ha mai seriamente conteso la leadership all’ultra-ottantenne Pannella?

Qui non c’entrano i soldi, non credo che Pannella finanzi il suo movimento politico. Non credo che i radicali abbiano fatto particolare attenzione a escludere persone capaci. Non credo che, ad esempio, a Emma Bonino manchino le qualità per assumere la piena leadership dei radicali. Eppure non è mai successo. Non succede. Non succederà. La deferenza verso i capi, la sottomissione all’autorità dei cooptanti, è così profonda, in Italia, da coinvolgere persino i radicali, ovvero il più anti-autoritario, il più libertario, il più laico fra i gruppi politici italiani. Per non parlare del Pd, dove un gruppo di colonnelli 60enni controlla il partito da un quarto di secolo, i futuri premier vengono decisi a tavolino (ricordate le primarie finte per Prodi?), e i rarissimi casi anomali - come quello di Matteo Renzi, che ha sfidato apertamente il partito - sono visti con un misto di irritazione, insofferenza, fastidio. Né, forse, è solo un caso che le uniche novità importanti e relativamente giovani del panorama politico italiano - il movimento Cinque Stelle e Italia Futura - abbiano avuto bisogno, per venire al mondo, di due levatrici non precisamente giovanissime,ovvero il 64enne Beppe Grillo e il 65enne Luca Cordero di Montezemolo.

Che cosa dobbiamoattenderci,dunque? Forse esattamente quel che potrebbe succedere in Inghilterra,dove ormai è più probabile che il trono della vecchissima regina Elisabetta (86 anni) passi al giovanissimo principe William (30) che non al vecchio Carlo (65), «principe del Galles». La generazione dei Fini, Casini, Maroni,Bonino ha atteso troppo a condurre le proprie battaglie. Quando ricambio ci sarà, è più facile che a imporlo sianoi 30-40ennidi oggi. Specie quelli che hanno meriti e capacità proprie, e non debbono ai vecchi le posizioni che occupano.

sabato 26 maggio 2012

Perchè il Vaticano teme Sua Santità


Intervista a Gianluigi Nuzzi di Mariagloria Fontana, da Micromega

Gianluigi Nuzzi, firma del quotidiano ‘Libero’ e volto del programma televisivo in onda la scorsa stagione su la7 ‘Gli intoccabili’, dopo le inchieste “Vaticano Spa” e “Metastasi”, torna a raccontare i segreti del Vaticano. Questa volta lo fa con il libro "Sua Santità" (ed. Chiarelettere) in cui svela intrighi di potere, corruzione e intrecci tra il Governo italiano e la Chiesa, attraverso carte segrete di Papa Benedetto XVI, inedite e private, al centro di polemiche in queste ore dopo l'arresto dell'uomo che secondo il Vaticano avrebbe trafugato i documenti riservati.

Immediatamente dopo la pubblicazione del suo libro ‘Sua Santità’, il Vaticano ha comunicato che agirà per vie legali.
Questa è una risposta oscurantista da parte del Vaticano. Il giornalista ha il dovere deontologico di rendere pubbliche le notizie che trova. Io ho fatto solo il mio mestiere. Mi fa ridere pensare che il Vaticano chieda aiuto ai magistrati italiani dopo che non ha mai risposto alle rogatorie che ha ricevuto su tante vicende. Gliene indico solo una: l’omicidio del banchiere Roberto Calvi. Lo stesso pm del caso Calvi ha detto che alcune rogatorie sono rimaste del tutto inevase. Da una parte, sulle vicende di sangue, il Vaticano non risponde. Dall’altra, dopo l’uscita del mio libro, ricorre alla magistratura italiana per stanare le mie fonti.

Non c’è stata nessuna violazione della privacy?
Ma sta scherzando? Qui si tratta di dovere di cronaca. Quando si entra in possesso di un memorandum del Papa in occasione dell’incontro con il Presidente Napolitano, credo che il dovere di cronaca sia preminente. Capire chi sono stati i congiurati che hanno fatto fuori Boffo, secondo le sue stesse parole, è prioritario. Sapere che c’è stato un lavoro diplomatico che si è sviluppato tra l’Italia e il Vaticano per evitare che il Vaticano pagasse una multa sugli arretrati della tassa dell’Ici e che questa trattativa si è sviluppata in incontri tra Tremonti e l’ex presidente della Banca dello Ior Gotti Tedeschi, interessa tutti gli italiani che pagano le tasse. Come pure il memorandum sulle leggi da modificare che finisce nelle mani del Santo Padre alla vigilia dell’incontro con il Presidente Giorgio Napolitano. È interessante sapere che il Vaticano è intervenuto perché l’Eta deponesse le armi. Sono storie che non riguardano solo il Vaticano, ma tutta la politica italiana e internazionale, si intrecciano con essa e con le scelte economiche. Ci sono vicende singolari, come quella dell’automobile targata ‘Stato Città del Vaticano’ condotta da alcuni gendarmi del Vaticano che vanno a cena con colleghi dell’Interpol e quando escono ritrovano la macchina crivellata di colpi. Vogliamo rassicurarci dicendo che sicuramente è stato un balordo? Cos’è successo? Non lo sappiamo.

I ‘reati’ imputati dal Vaticano sono furto e ricettazione.
La ricettazione di notizie è un brutto segnale, indica un bavaglio all’informazione. È curioso che in un Paese, il Vaticano, dove hanno introdotto soltanto nel 2009 la legge antiriciclaggio, proprio loro indichino alle autorità italiane il reato di ricettazione. È surreale. Comunque in Italia per la Cassazione non esiste la ricettazione di notizie. Se io avessi dei documenti e li tenessi nel cassetto, farei un altro mestiere. Ancora peggio se tenessi per me una parte dei documenti senza pubblicarli, qualora li reputassi ‘compromettenti’, perché sarei da considerare un ricattatore che distilla notizie per il suo tornaconto. I cassetti dei giornalisti devono essere vuoti.

Si aspettava tanto clamore o è abituato, date le tematiche del suo precedente libro ‘Vaticano spa’?
‘Vaticano Spa’ non ha sortito alcuna reazione del Vaticano. Hanno cercato di far passare tutto sotto silenzio nonostante avessi migliaia di documenti e parlassi di come la maxi tangente Enimont fosse passata per lo Ior, la banca vaticana. Anche lì c’erano tante lettere, ma forse non davano fastidio ad altri.

Perché ‘Sua Santità’ indispettisce il Vaticano?
Per la prima volta abbiamo occasione di conoscere il dietro le quinte delle attività tra l’ Italia e il Vaticano. Sappiamo dei timori del Vaticano rispetto alla situazione economica mondiale, soprattutto in relazione alla crisi delle offerte. Inoltre, veniamo a conoscenza del conto personale del Papa nella banca vaticana, lo Ior. Si sono adirati perché abbiamo una molteplice varietà di notizie e di informazioni. Ma non con me, mi auguro, perché sarebbe un brutto segnale per la libertà di stampa. Ce l’hanno con le mie ‘fonti’. Ora cercheranno di individuare chi ha passato i documenti.

Nel suo libro sostiene che una delle priorità del papato attuale è di tenere unita la Chiesa. Fino a che punto?
È un tentativo dal Santo Padre rispetto alla crisi dei fedeli, che, certo, di questi tempi non aumentano. C’è l’impegno di tenere unite le varie anime della chiesa, tutti i movimenti interni: da Comunione e Liberazione all’Opus Dei e altri. C’è anche un tentativo di dialogo con la chiesa ufficiale cinese. Poi c’è stata un’apertura anche quando il Papa ha revocato la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani. Benedetto XVI cerca di recuperare lo scisma che c’è stato con tutti i gruppi, anche con i Legionari di Cristo emerge in maniera forte il tentativo di non criminalizzarli. Peccato che poi ci sia molto disagio e subbuglio all’interno di questi movimenti.

Lei dedica anche un capitolo alle offerte destinate al Vaticano. Ci sono varie personalità, tra cui Bruno Vespa, che versa un assegna di 10.000 euro.
Trovavo interessante questo viavai di oboli che arriva in Vaticano la vigilia di Natale. Volevo evidenziare il flusso di denaro proveniente da tante personalità. Credo che il fatto che Bruno Vespa ceni a casa sua con il Segretario di Stato Tarcisio Bertone non sia un fatto proprio usuale. C’è un mondo, che non conosciamo, che dialoga con il Vaticano, un mondo di relazioni che è emblematico e che si manifesta anche con quell’assegno. Mi piaceva e mi interessava il fatto che Vespa chiedesse un appuntamento a Papa Benedetto XVI nella stessa lettera in cui versa diecimila euro. Letta, Geronzi, Bisignani, sono tutti uomini che hanno ruotato in quel mondo, tutta quella rete relazionale è stata un pezzo importante del potere politico ed economico in Italia ed era giusto raccontarlo. Vespa rappresenta un’interfaccia mediatica. Mi incuriosiva perché lui chiede un appuntamento con il Papa e c’è un’attenzione che normalmente, se lei scrive al Papa o a chi per lui, certo non le rivolgono, non valutano la sua lettera.

A suo avviso, quali sono le differenze tra il papato di Benedetto XVI e quello del suo predecessore Giovanni Paolo II?
Benedetto XVI cerca di cambiare le cose, al contrario del precedente pontificato, però incontra tante resistenze. La priorità per Giovanni Paolo II era soprattutto far cadere il comunismo nei Paesi dell’Est e liberare la sua Polonia con qualsiasi mezzo, anche finanziario. Benedetto XVI è molto meno simpatico, mediaticamente parlando. Però ha compiuto dei cambiamenti importanti. Durante il papato di Giovanni Paolo II, la pedofilia non era perseguita come oggi. Questo papa ha rimosso cinquanta vescovi, Giovanni Paolo II ha coperto la pedofilia. Inoltre, ho notato da questi documenti che nel precedente papato rivolgersi a Giovanni Paolo II era un fatto raro ed eccezionale, ci si rivolgeva alla Segreteria di Stato. Oggi invece molti scavalcano la Segreteria di Stato e si rivolgono direttamente al Santo Padre. Anzi, indicano nella Segreteria di Stato una sorta di ‘problema’. C’è un’ipoteca sulla Segreteria di Stato da parte di diversi cardinali. Tant’è che andarono a Castel Gandolfo per chiedere al Papa di dimettere Bertone.

Il Segretario di Stato Tarcisio Bertone è una figura chiave.
È Il numero due del Vaticano. La Digos scandaglia anche il rapporto tra lui e Benedetto XVI, è interessante capirne le radici e comprendere che tipo di rapporto c’è tra il Papa e lui. Benedetto XVI lo ha voluto fortemente, si fida di lui, lo ha avuto con sé dal 1995 al 2003 come segretario della Congregazione per la Dottrina di Fede, quando il Papa era ancora prefetto. Bertone è fondamentale per i suoi legami e i contatti con il mondo della politica italiana.

Quali scenari politici ed economici odierni spaventano il Vaticano?
La paura oggi non viene dal patto di Varsavia, naturalmente siamo in un altro periodo storico. Il timore oggi è rappresentato dalla Cina e dai paesi emergenti. La preoccupazione, come si deduce dai documenti che ho pubblicato, è di vedere i paesi occidentali impoverirsi a causa della crisi economica e del sistema che stanno soffocando l’economia americana, italiana, spagnola, tradizionalmente i paesi più generosi nei confronti della Chiesa. Mentre i paesi che sarebbero da evangelizzare, come l’India e la Cina, stanno diventando la locomotiva economica del mondo. L’allarme è che la Cina, oltre a questa sua bulimia finanziaria, economica, industriale, metta le mani sull’estrazione delle materie prime, controlli le borse e i fondi di investimento, compri il debito dei paesi e, oltre a tutto questo, esporti l’ateismo, lo diffonda. Questo spaventa i sacri palazzi.

Il ‘caso Boffo’ rivela scuole di pensiero distinte, all’interno del Vaticano, nei confronti della politica dell’ex governo Berlusconi.
Non riduciamo la questione a pro e contro Berlusconi. Ci sono davvero tante individualità all’interno del Vaticano. Sicuramente c’è Dino Boffo che afferisce alla scuola di Ruini e di Bagnasco, i quali sostengono che la Chiesa deve avere un ruolo attivo nei confronti della politica italiana perché la missione politica e sociale fa parte del compito della Chiesa stessa. Dall’altra parte, c’è una scuola più tradizionale che dice il contrario, cioè che non ci deve essere questa ‘ingerenza’. In realtà, vediamo che i rapporti sono strettissimi. In Vaticano ci sono tante anime che si sovrappongono, non è una partita di calcio. Il caso Boffo è stata un’operazione partita all’interno del Vaticano che è finita sul tavolo di Vittorio Feltri con tanto di documenti. Mi perdonerete, ma io credo che Feltri fosse in buona fede, aveva verificato la sua ‘fonte’, non aveva motivo di dubitarne. Ha fatto il suo ‘scoop’ in una logica per taluni discutibile: Boffo criticava di malcostume Berlusconi, poi lo stesso Boffo era condannato per molestie omosessuali. Essendo il giornale di Feltri di proprietà di Berlusconi, è evidente che questa cosa ha assunto un rilievo politico tutto italiano. Si è detto: Berlusconi e Feltri attaccano Boffo, da lì ‘il metodo Boffo’ e si è vissuta questa vicenda nel solito dramma agrodolce all’italiana, senza chiedersi chi avesse portato questo documento a Feltri e perché. Oggi Boffo indica dei nomi, sono quelli veri? Non lo so, lo dice Boffo. Di certo, lui è stato riammesso all’interno della Chiesa e gli è stato dato un altro ruolo di grande rilievo, la direzione della tv della Cei, Tv 2000. Se io dico delle falsità il mio datore di lavoro non mi promuove, ma nemmeno mi riassume. Dall’altra parte anche le persone che accusa Boffo sono rimaste tutte ai loro posti. È una situazione gemella a quella di Viganò e troviamo le stesse persone coinvolte nella faccenda. I congiurati sono sempre gli stessi.

Quali sono stati gli uomini politici del Governo Berlusconi che hanno mediato con il Vaticano e quali sono quelli del Governo Monti?
Il governo Berlusconi aveva due ‘alfieri’, due diplomatici a cui era legata l’attività di confronto con il Vaticano: Gianni Letta e Giulio Tremonti. Oggi il Vaticano può contare su ministri che prima di dire sì al Governo Monti hanno chiesto il beneplacito all’interno dei Sacri Palazzi. Hanno chiesto a Padre Georg Ganswein se potevano accettare l’incarico di diventare Ministri. Uno su tutti: Andrea Riccardi, il fondatore della comunità di Sant’Egidio, che è esattamente Ministro per la Cooperazione Internazionale e l’Integrazione. Poi ci sono i ministri Lorenzo Ornaghi e Corrado Passera. Per dirlo con una battuta: questo è uno tra i governi ‘tecnicamente’ più filo vaticani che abbiamo mai avuto. Mi riferisco a questo secolo, perché naturalmente Andreotti e la Dc battevano tutti.

Sul caso Emanuela Orlandi lei, fino a qualche tempo fa, diceva che non sarebbe stata mai aperta la tomba del boss della Magliana Renato De Pedis sepolto nella chiesa di Sant’Apollinare.
Sono cambiati gli scenari. Quando ho detto che il Vaticano non l’avrebbe mai aperta, è perché non sapevo che fosse indagato Don Vergari. Il fatto che l’ex rettore della basilica di Sant’Apollinare sia indagato mette il Vaticano in una posizione che non può ostacolare lo sviluppo delle indagini, quindi ha dato un nulla osta, non indispensabile, ma importante, perché venga fatta chiarezza. Quello che emerge dalle carte è che il prelato Giampiero Gloder, capo dei ghotstwriters del Papa, scrive al Santo Padre di non intervenire sulla vicenda durante l’omelia dell’Angelus, perché sarebbe un riconoscimento indiretto del problema. Comunque, credo che si debba sempre ragionare sulla vicenda Orlandi ricordandosi di Mirella Gregori. Entrambe le ragazze sono scomparse a un mese di distanza. Penso che questa sia la giusta chiave di lettura.

Lei racconta di una ‘nota preparatoria’ scritta da monsignor Dominique Manberti, ministro degli Esteri della Santa Sede, per Benedetto XVI in occasione di una cena segreta con il nostro Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Nella nota, Dominique Manberti indica al Papa una serie di appunti relativi all’incontro del 19 gennaio 2009, giorno in cui vedrà Napolitano. Il primo paragrafo è dedicato a una biografia di Napolitano. Ho trovato ‘divertente’ il fatto che sottolinei che Napolitano si è sposato con rito civile e non con quello religioso. Poi si entra più nel dettaglio nel secondo paragrafo, perché si introducono i temi di interesse della Santa Sede e della Chiesa in Italia. Si evidenzia la centralità e il valore della famiglia e, in seguito, i temi eticamente sensibili. In questi appunti è scritto che si devono evitare equiparazioni legislative e amministrative tra le famiglie fondate sul matrimonio e altri tipi di unione. Magari il Papa non li ha neanche usati, ma il fatto stesso che siano stati evidenziati questi temi è grave. Non hanno evidenziato il problema della fame nel mondo, la disoccupazione, le tasse. Hanno sottolineato i problemi legati a temi eticamente sensibili. C’è scritto, inoltre, che riguardo all’ipotesi di intervento legislativo in materia di fine vita e di fine trattamento, si deve evitare che l’eutanasia passi. Poi si parla anche di parità scolastica e di calo demografico. Ci sono indicazioni precise. il Papa deve fare leva su Napolitano. Lei si immagini Napolitano che fa pressione su Obama su delle leggi americane. Perché lo stato vaticano può far pressione sullo stato italiano? Perché uno stato sì e l’altro non può farlo? La mia è una provocazione, ma credo che qui ci sia una rilevanza della notizia.

Il Vaticano ha paura di essere delegittimato dalle rivelazioni contenute nel suo libro?
Ma scusi, sono io che delegittimo le Sacre Istituzioni o sono loro che si autodelegittimano con l’omicidio Calvi, con Emanuela Orlandi, con la strage delle guardie svizzere, con la banca dello Ior?

Vedere le carte, senza pregiudizi



Lì per lì fai un salto sulla sedia. Ma come, ora che la legislatura sta per esalare l'ultimo respiro, mentre anche i partiti politici italiani hanno una flebo incollata all'avambraccio, il partito più ammalato se n'esce con un'idea potente come adrenalina? Il presidenzialismo, addirittura; e sia pure in salsa francese. Quando l'hanno concepita? E dove?
Ma la notizia è che non c'è notizia. Sulla conversione della nostra forma di governo parlamentare in una di stampo presidenziale esistono tonnellate di libri, articoli, convegni. Vi si espressero con accenti favorevoli alcuni fra i maggiori costituzionalisti italiani, in un dibattito pubblicato dalla rivista «Gli Stati» nei primi anni Settanta: Crisafulli, Galeotti, Jemolo, Sandulli. Perfino Mortati, fra i padri della Carta del 1947. E soprattutto l'idea presidenzialista ha un vissuto politico che dura ormai da mezzo secolo. Anche se i primi a suggerire l'elezione diretta del capo dello Stato furono i monarchici, nel 1957. E a seguire i missini, all'alba degli anni Sessanta. Incrociando tuttavia il consenso di alcuni eminenti intellettuali: Salvemini a sinistra, Pacciardi e Maranini a destra.


Insomma non è vero che la proposta di Berlusconi e Alfano sbuchi fuori come un coniglio dal cilindro del prestigiatore. Il coniglio razzola ormai da tempo nel nostro orticello pubblico. Nessuno può obiettare che manchi un'adeguata riflessione. Se è per questo, alla Camera c'è anche un progetto di legge, depositato dal Pdl il 16 dicembre 2011. Ma i testi sono tanti, come le iniziative fin qui regolarmente naufragate. Per esempio il documento presentato nel 1969 all'XI congresso della Democrazia cristiana, dalla corrente che aveva come capofila Zamberletti. Il congresso di Rimini del 1987, in cui i socialisti di Craxi sposarono il modello presidenziale. La Bicamerale di D'Alema, che nel giugno 1997 scelse la via semipresidenziale, con il voto decisivo della Lega.
Sicché il punto di domanda è un altro: c'è davvero una volontà politica dietro quest'ultima proposta? O non sarà soltanto un bluff per alzare la posta, mettendo in fuga gli altri giocatori? Se è così, non resta che vedere le carte. Laicamente, senza pregiudizi. Ma soprattutto in tempi rapidi, perché di tempo non ne abbiamo. In teoria, l'offerta del Pdl coniuga un tema da sempre caro alla destra (l'elezione popolare di chi ha le chiavi del governo) con la legge elettorale che predilige la sinistra (il doppio turno). Dunque uno scambio che potrebbe convincere i partiti, e magari pure gli italiani. In caso contrario, tuttavia, il disaccordo non può trasformarsi in alibi per lasciare le cose come stanno. A cominciare dal Porcellum, una legge che è diventata una vergogna.


Poi, certo, ci sarà da ragionare. Non è detto che l'abito francese calzi a puntino indosso agli italiani. Loro hanno fatto la Rivoluzione del 1789, noi la Controriforma. E negli anni Venti abbiamo consegnato il potere a un dittatore. Queste cose contano. Significa che in Italia c'è urgenza di governi forti ma anche di controlli, d'anticorpi per difendere la democrazia. Bisogna solo mettersi d'accordo sui dosaggi.
michele.ainis@uniroma3.it

di Michele Ainis, dal corriere

La dissolvenza di un partito


PDL IN CRISI, NON BASTA UN MAQUILLAGE

Una delle poche certezze che si hanno sul futuro è che l'area politica denominata «centrodestra», per un ventennio tenuta insieme dalla leadership di Silvio Berlusconi, dopo le prossime elezioni, sarà assai diversa da come è oggi. L'agonia era già cominciata da tempo.

La pesantissima sconfitta del Pdl in questa tornata amministrativa ha assestato il colpo definitivo. Questo significa, come qualcuno ha incautamente affermato, che conosciamo già i nomi dei vincitori delle prossime elezioni politiche, che il centrosinistra le vincerà facilmente grazie all'assenza di un avversario credibile? Non è detto. Tutto dipende da quale sarà l'esito della crisi del centrodestra: la disgregazione, con tutti i topi che, in preda al panico, saltano dalla barca prima che affondi, o una radicale ristrutturazione?
Poiché la natura umana è quella che è, è probabile che ci siano ancora dirigenti del Pdl che sperano di cavarsela con un po' di maquillage : mettere una pezza qui e una pezza là, inventare qualche nuova parola d'ordine, disegnare contenitori nuovi che servano a tutelare l'esistente, eccetera. Ma quei dirigenti, se ci sono, si illudono. Non c'è verso di salvare il centrodestra se non passando per un doloroso travaglio da cui emergano un nuovo assetto organizzativo e una nuova leadership .


Però queste cose non basta volerle. Occorrono anche le circostanze che le favoriscano. E le circostanze, a volte, possono essere create. Ci sono molte ragioni per volere una buona riforma del sistema elettorale. Il centrodestra ne ha una in più, e che lo riguarda direttamente. Le riforme elettorali, infatti, costringono a ridefinire l'offerta politica, obbligano i partiti a rinnovarsi. Che è esattamente l'esigenza del centrodestra.
Per un po' di tempo, il Pdl si era illuso di potersi salvare con una riforma elettorale proporzionale. Nella convinzione che con la proporzionale, ancorché elettoralmente ridimensionato, sarebbe rimasto comunque in gioco. Il ragionamento non era sbagliato in astratto, ma sottovalutava la gravità della crisi che attanaglia quel partito. Forse anche per questo alcuni fra i più lungimiranti dirigenti del Pdl hanno cominciato a capire che un sistema maggioritario a doppio turno potrebbe tornare utile al centrodestra. Sarebbe una riforma sufficientemente radicale da obbligare a un profondo rinnovamento. In più, per sua natura, il doppio turno favorisce le aggregazioni e le alleanze e punisce chi va da solo. E non c'è dubbio che se c'è un'area che ha bisogno di nuove aggregazioni e alleanze questa è proprio l'area del centrodestra.


L'altra settimana Pier Ferdinando Casini, rispondendo a una mia sollecitazione, e a conferma della sua intelligenza politica, ha fatto su questo giornale una prudente apertura sul doppio turno. Casini ha capito che il futuro del gruppo che egli rappresenta ha bisogno di cambiamenti nel centrodestra e si prepara per essere presente all'appuntamento. E, naturalmente, sul doppio turno, da sempre suo cavallo di battaglia, il Pd non potrebbe che concordare. Prima si farà quella riforma e prima inizieranno i lavori di ristrutturazione dei diversi edifici politici.
Contrariamente a ciò che pensavano fino a qualche tempo fa i dirigenti del Pdl, non è il doppio turno a lasciare a casa gli elettori di centrodestra. A lasciarli a casa è solo lo scarso appeal dell'offerta politica.

DI Angelo Panebianco, dal corriere
25 maggio 2012 | 8:33

venerdì 25 maggio 2012

Che cos'è un partito di sinistra?


Che cos'è un partito di sinistra?
Fonte:  da Malpaese
Un partito di sinistra che si ritiene veramente tale non potrà mai e poi mai giustificare il ricorso o anche il suo solo appoggio esterno ad una politica di estrema destra sostenendo che in un’emergenza economica necessiti bloccare le pensioni da 800-1000€ dei poveracci lasciandole senza indicizzazione annuale all’inflazione, tassare con l’IMU anche le prime ed uniche case sempre dei soliti poveracci, creare migliaia di esodati senza stipendo e senza pensione, votare a favore di modifiche dell’art 18 che diminuiscono di fatto i diritti dei lavoratori, opporsi ai tagli delle pensioni d’oro e degli stipendi d’oro di alti manager, banchieri, politici e professoroni della Bocconi ” prestati alla politica “, approvare una legge incostituzionale come il pareggio di bilancio in costituzione, non tassare edifici di ricche fondazioni proprietarie anche di banche, esentare dall’IMU edifici commerciali, alberghi e scuole private appartenenti alla chiesa cattolica che li spaccia per luoghi di culto, non fare una patrimoniale per gli ultraricchi e via dicendo. Il PD col suo ” capo spirituale ” Giorgio Napolitano ed il suo segretario Luigi Bersani guarda l’avanzare della cosidetta antipolitica con spavento e con rabbia e la teme assai  più di quanto non abbia mai temuto ( se poi l’ha davvero temuto ) Silvio Berlusconi. Continuando su questa strada, il PD finirà inesorabilmente rottamato assieme a tutti i partiti ormai asserviti da decenni ai poteri delle banche e della destra massonica nostrana ed internazionale, al Vaticano e alla mafia. Che il governo Monti cada in Ottobre o più tardi, non lascerà comunque molti rimpianti, infatti sempre meno gente ci trova qualcosa di utile o di positivo nel suo operato e sta crescendo invece la convinzione che tutte le tasse e le restrizioni che Monti ha imposto alla gente servano in realtà a coprire più i deficit delle banche causati dalle loro stesse speculazioni truffaldine che non a risanare il deficit nazionale il quale anzichè diminuire sta sempre più aumentando, nonostante tutta la macelleria sociale posta in atto da questo governo di supereconomi laureati alla Bocconi.

La verità sulle pensioni d'oro


PENSIONI D’ORO/ Il taglio non passa: 94 senatori votano contro. Quasi tutti del Pd (Partito della Casta)
Scritto da Carmine Gazzanni
Lunedì 07 Maggio 2012
Qualche tempo fa Gianni Vattimo disse: “non è un caso che il Pd non è più Pds. Non c’è più la ‘s’. In effetti lì c’è sempre meno sinistra”. Come dargli torto. Quanto accaduto il 2 maggione è la riprova.
In Senato, infatti, si è votato un emendamento – presentato dai senatori Idv Belisario, Lannutti, Pardi e Bugnano – con il quale si chiedeva di sopprimere il comma 2 dell’articolo 1 del decreto-legge del 24 marzo 2012, n. 29. Nel decreto in questione si stabilisce che le pensioni di tutti i dipendenti pubblici avranno, d’ora in poi, un termine di paragone, un parametro di riferimento: quello del primo Presidente della Corte di Cassazione. “In nessun caso – infatti – l’ammontare complessivo delle somme loro erogate da pubbliche amministrazioni potrà superare questo limite”. Un parametro questo però che, così come concepito dal Governo, non era valido per tutti. Si leggeva, infatti, nel dl (proprio al comma 2 dell’articolo 1) che “i soggetti che alla data del 22 dicembre 2011 abbiano maturato i requisiti per l’accesso al pensionamento, non siano titolari di altri trattamenti pensionistici e risultino essere percettori di un trattamento economico imponibile ai predetti fini, superiore al limite stabilito dal presente comma”. In pratica per gli alti funzionari nessun taglio. Ma di chi stiamo parlando? Tra gli altri, di Antonio Mastropasqua, presidente dell’Inps, che porta a casa oltre un milione di euro all’anno (benefit e privilegi vari esclusi); Attilio Befera, presidente di Equitalia (oltre 450 mila euro di compenso all’anno); il presidente dell’Agcom Corrado Calabrò (circa 475 mila euro). Il Governo Monti dunque – quello stesso Governo che a dicembre scorso parlava di “equità” – voleva preservare i loro stipendi.
Ora questo comma è stato soppresso in Senato grazie ad un emendamento presentato dall’Italia dei Valori. E votato – strano ma vero – anche dalla Lega Nord e dalla stragrande maggioranza dei senatori Pdl. A votare contro una norma che, in periodo di crisi e di forte pressione fiscale sui cittadini, sarebbe quanto mai ovvia, è stato invece il Pd insieme agli ormai sempre più “alleati” del Terzo Polo. Novantaquattro senatori in tutto. Ben 69 del Partito Democratico (solo sette hanno votato a favore).
E i nomi sono quelli che contano. Anna Finocchiaro (capogruppo Pd al Senato). Mauro Agostini (tesoriere del partito). E poi gran parte del gotha del Pd: Teresa Armato, Antonello Cabras, Vincenzo De Luca, Enzo Bianco, Vittoria Franco, Marco Follini, Pietro Ichino, Ignazio Marino, Franco Marini, Mauro Maria Marino, Franco Monaco, Achille Passoni, Carlo Pegorer, Roberta Pinotti, Giorgio Tonini, Luigi Zanda. Tutti membri del direttivo nazionale del partito.
L’alibi dei democratici? “Ce l’aveva chiesto il Governo”, ha detto sommessa la Finocchiaro. Verrebbe da chiedersi cosa farebbe il Pd se l’equo Monti gli chiedesse di gettarsi da un ponte …

ESODATI, VERGOGNA DI GOVERNO


La lunghissima vicenda degli esodati (i Bartali di oggi) è lo specchio più fedele di quello che è stato il governo Monti fino ad oggi. Lo è innanzitutto perché comincia proprio con il primo provvedimento dell’esecutivo post-Berlusconi, quel decreto Salva-Italia che è stato il biglietto da visita di Mario Monti per i mercati internazionali (da cui era stato invocato e richiesto) e per gli italiani (quando ancora il suo consenso era alto). La vicenda è poi completamente legata alla riforma delle pensioni che Elsa Fornero decidette in poche settimane senza ascoltare alcuna parte sociale. Quelle stesse parti sociali che subito fecero notare come innalzare i requisiti pensionistici di 5-6 anni avrebbe prodotto un dramma, una traversata nel deserto per “decine di migliaia di persone” (rimanendo molto ottimisti rispetto ai numeri reali).
Neanche l’intervento del Pd (ahimè abbastanza timido al tempo) nel decreto Milleproroghe venne accolto. Il governo si limitò ad approvare gli ordini del giorno che chiedevano almeno di posticipare al 31 dicembre l’entrata in vigore della riforma in modo tale da “salvare” i lavoratori di Termini Imerese (anche se su questa data ci sono pareri discordanti che sostengono che l’accordo fu firmato il primo dicembre), di Alitalia e Telecom che avevano firmato accordi di mobilità dopo il fatidico 4 dicembre. Gli ordini del giorno non si sono mai tramutati in provvedimenti concreti.
La richiesta incessante di tutti i sindacati di riaprire il confronto almeno su questo punto ha prodotto solo un finto tavolo in cui il ministro Fornero ha spiegato che le risorse trovate potevano “salvaguardare” solo 65mila lavoratori. E così è finita.

Il governo è stato sordo. Completamente sordo al confronto sociale, alle denunce dei giornali (ecco un nostro articolo di febbraio) e delle tv (l’inchiesta di Report di marzo).

Questa è la cifra di questo governo. Se non ci sono le risorse non si tratta.
Ma le risorse si potrebbero facilmente trovare. Dai risparmi immani, 140 miliardi, prodotti dalla riforma delle pensioni (come chiede la Cisl, ma questi sono già stati messi a bilancio per ridurre il debito statale in futuro) o tassando ulteriormente i capitali scudati (come chiede il Pd, la Cgil e molti altri).

La cifra degli esodati invece la sa solo l’Inps. Che però non l’ha mai resa pubblica, seguendo l’invito di Elsa Fornero. Che quando ci sarà da risolvere il problema dei 200mila esclusi dal suo decreto, sarà (non so se dire “Grazie a Dio”) tornata ad insegnare. Mettendo dunque già una pesante zavorra su chi arriverà a mettere in ordine il conti (morali) lasciati in dissesto da Monti (e Fornero).
FONTE : L'UNITA' DEL 25 MAGGIO 2012


La riduzione dei finanziamenti non ferma l'insofferenza


di MARCELLO SORGI, dalla Stampa

Nel giorno in cui il Tribunale del riesame ribadisce la richiesta di arresto per il tesoriere della Margherita Lusi, accusato di aver sottratto a scopo personale 23 milioni di euro di finanziamento pubblico destinato al partito, la Camera approva finalmente in prima lettura la riforma dei rimborsi elettorali. Alla fine, la decisione presa con uno striminzito voto di 291 deputati, la maggioranza più risicata che si sia manifestata da quando esiste il governo Monti, è di dimezzare i rimborsi, anche se un complicato meccanismo previsto tra le righe della legge prevede che ulteriori contributi dello Stato possano aggiungersi ad eventuali aiuti privati ai partiti.

Se la Camera fosse riuscita a licenziare il testo prima dei ballottaggi, il taglio dei rimborsi avrebbe potuto influire sui risultati del voto? Difficile dirlo. La sensazione è che al punto in cui è giunta l'insofferenza degli elettori aggravata dalle lungaggini a cui la riforma ha dovuto sottostare, con una lunga vigilia di settimane e di mesi in cui si oscillava tra il taglio di un terzo e quello totale -, difficilmente il dimezzamento dei fondi pubblici basterà a far rientrare l'ira di un'opinione pubblica sconcertata dagli scandali della Margherita e della Lega e dall'incapacità dei partiti di trovare rimedi seri alla corruzione. Infatti, anche la legge proposta dalla ministra di Giustizia Severino ha avuto un iter parlamentare molto tormentato ed è ancora lontana dal varo definitivo.

Inoltre i partiti che hanno votato contro la legge in Parlamento, a cominciare dall'Idv di Di Pietro, continuano una campagna tesa a dimostrare che si tratti di una finta riforma, nè più nè meno come sta facendo Grillo da tempo sulla rete. I cittadini hanno così cominciato a prendere confidenza con le cifre assolute del finanziamento statale, che restano enormi. In dieci anni il sostegno ai partiti è passato da cento miliardi delle vecchie lire a quasi mille: si è in pratica decuplicato! Il dimezzamento non fa che portare i miliardi da mille a cinquecento. Ma non esiste in Italia una categoria, pubblica o privata, che abbia potuto vedere i propri proventi moltiplicati per cinque volte nell'ultimo decennio. Anzi, a partire dallo scorso novembre, la necessaria strategia anticrisi del governo ha reso indispensabili tagli agli stipendi e alle pensioni, oltre ad aver allungato la vita lavorativa. Una ragione di più, per la gente, per giudicare il testo uscito ieri da Montecitorio una piccola riforma, lontana da quel che s'aspettava.


giovedì 24 maggio 2012

I tre moschettieri e le pensioni d’oro



Leggo, scusate la franchezza, stronzate su stronzate, su questa storia delle pensioni d’oro, da parte di chi la politica la fa per mestiere, vive di politica ,ma vorrebbe farci credere di essere un tecnico , di ragionare da tecnico , di comportarsi da tecnico e  non da politico, nell’unico luogo dove la Politica con la P maiuscola dovrebbe essere di casa : il Parlamento .
In Parlamento non abbiamo mandato  ragionieri a fare i conti! Abbiamo mandato Politici, i quali hanno avuto un consenso , non attraverso un compitino di ragioneria ma di un progetto politico , dove erano chiari i punti programmatici qualificanti e i valori a cui si ispiravano. A memoria d’uomo ,è Il Politico che fa politica : che indica gli obiettivi strategici da raggiungere. Al  Tecnico spetta poi,di  indicare la strada migliore per raggiungere quella meta. Lo dico, in altri termini, in maniera ancora più banale ma  semplice : al  politico  il compito di indicare  il luogo dove vogliamo  arrivare, al tecnico di studiare  le soluzioni più convenienti per arrivarci ( se : via mare, via aerea, con il treno, con la macchina…). In altre parole, ancora, è il "tecnico" al servizio del "Politico" mai il contrario. Ma è fondamentale la volontà del politico di arrivare a quel luogo che induce i tecnici a trovare la strada migliore.
 Qual’era la volontà politica nel nostro caso ?
La volontà politica avrebbe dovuto essere quella di lanciare al Paese un segnale forte e chiaro che di fronte  a questa crisi , tutti siamo chiamati a fare dei sacrifici. Chi più ha , è giusto che sia il primo a dare, e dia , anche , più degli altri!
Ai dottori sottili, invece, il compito di trovare( esattamente come fanno con tutti i comuni mortali )le soluzioni  tecniche per renderle attuabili, anche nei confronti delle categorie degli intoccabili, dei privilegiati.

La volontà politica  che, invece , viene fuori , attraverso l’appassionata difesa da parte dei nostri tre moschettieri ,è che di fronte a cavilli di natura tecnica, la volontà politica si ferma, indietreggia, giustifica la sconfitta e chiede comprensione per non aver potuto andare oltre.
 La tecnica, insomma ,vince sulla politica.
Oppure, un’altra  forte e chiara volontà politica ( che la casta è intoccabile, che la crisi la devono pagare solo i ceti popolari....)  si è manifestata ed affermata , attraverso la maschera dei cavilli  “tecnici”, l’unica maschera attraverso la quale i politici pensavano di non essere " politicamente responsabili ", riconoscibili ( e se riconosciuti, giustificabili) nel momento in cui tradivano con quel voto : la propria storia politica , il proprio Paese, il proprio elettorato?





martedì 22 maggio 2012

Latronico (Pdl) in risposta a Sel Nova Siri


Latronico (Pdl) in risposta a Sel Nova Siri
22/05/2012 19:10

BAS“La verità incontrovertibile è che con il ‘Salva Italia’ le retribuzioni dei manager di Stato sono state per la prima volta ridotte con la definizione di un tetto ai compensi e che la norma su cui la Sel di Nova Siri fa propaganda a basso prezzo, proposta dal governo, serviva ad evitare l’insorgenza di contenziosi sui diritti previdenziali acquisiti, come certificato dalla ragioneria generale dello Stato e sentenziato da decisioni della Corte costituzionale. Scassare i conti dello Stato non è una preoccupazione tecnica, ma profondamente politica. Spiace constatare che una forza che si ispira a parole ai valori dell'onestà intellettuale, in realtà è pronta a sacrificarla per cieche ragioni di consenso elettorale”. Lo ha dichiarato il senatore del Pdl, Cosimo Latronico, replicando ad una nota di Sel di Nova Siri.

Pubblicare il nome dei 94 senatori non è affatto stilare una lista di proscrizione


Il senatore Latronico, in un comunicato stampa, ha dichiarato di "essere, insieme ad altri senatori della nostra regione, oggetto di una campagna di disinformazione che rasenta l'aggressione personale". Ha denunciato Sinistra Ecologia e Libertà di  "strumentalizzare i fatti e gli atti parlamentari per scatenare una lotta all'uomo, arrivando a redigere liste di proscrizione dei parlamentari che hanno votato".
Non conosciamo i toni che ha usato SEL, ma abbiamo pubblicato anche noi la lista alla quale si riferisce Latronico: la lista dei 94 senatori che hanno votato la più che discussa legge, che gli untori della disinformazione sostengono difenderebbe i privilegi delle pensioni d'oro.
E invece altro che difendere i privilegi, Cosimo Latronico asserisce di aver votato in questo modo per ridurre le super pensioni, stabilendo con quella legge "un tetto alle pensioni dei manager di Stato" e introducendo un aspetto normativo volto ad impedire "l'insorgere di contenziosi previdenziali, che avrebbero addirittura provocato danni alle casse dello Stato".
Si mantengono molto sul vago le argomentazioni del nostro senatore e sono le stesse motivazioni che ha addotto la senatrice PD, Anna Finocchiaro.
Eh già, proprio Anna Finocchiaro! Perchè ciò che Latronico definisce una campagna di "aggressione personale, tramite liste di proscrizione", in realtà non è un'azione lucana. E' una notizia divulgata da tutti gli organi di informazione libera nazionale e rimabalzata di bocca in bocca attraverso i blog, facebook e gli altri social networks.
E diciamo che sulla bontà delle intenzioni e delle vaghe argomentazioni del senatore pidiellino nutriamo qualche ragionevole dubbio.
Infatti il cosiddetto decreto Salva Italia aveva fissato un tetto agli stipendi dei super manager di Stato: stabiliva che nessuno di loro percepisse di più del primo Presidente di Cassazione, cioè 293.658,95 euro l'anno.
Però, come spesso accade nelle stanze in penombra e a porte chiuse della burocrazia, va a finire che qualcuno inserisca nei decreti cavilli e cavilletti che alla fine riescono ad annullare le migliori intenzioni iniziali del legislatore.
Così in un decreto legge successivo (il numero 29 del 24 marzo scorso), veniva inserito un Comma (il Comma 2 dell'art.1), che non toccava il tetto fissato degli stipendi, ma consentiva di mantenere integre le pensioni d'oromaturate prima dei tagli di Monti.
A questo punto l'Italia dei Valori, con Felice Belisario in prima fila, ha chiesto la soppressione di questo comma e il 2 maggio nell'aula del Senato si è votato proprio su questo emendamento.
Su 230 senatori presenti, 124 hanno votato favorevolmente e in 94 si sono opposti alla soppressione del comma. L'emendamento dell'IDV è passato e la maggioranza del senato italiano ha votato lodevolmente a favore di una legge che abolisce alcuni privilegi.
Ora, pubblicare il nome dei 94 senatori non è affatto stilare una lista di proscrizione (metafora alquanto impropria e pericolosa, perchè banalizza una cosa gravissima come le liste di proscrizione), ma è espletare il diritto dei cittadini ad informare liberamente e soprattutto è  far valere il diritto dei cittadini-elettori ad essere informati su come si muovono i loro rappresentanti dentro il Parlamento. Gli elettori infatti devono giudicare il loro operato, non la loro arte retorica durante i comizi o i dibattiti in Tv.
Per questo riproponiamo l'elenco dei 94 senatori (3 dei quali sono nostri diretti rappresentanti: Chiurazzi, Bubbico, Latronico), in attesa che le motivazioni da loro addotte siano meno vaghe. In quel caso siamo pronti a rettificare la notizia, sempre per informare pienamente i cittadini che li hanno delegati per  far valere i propri diritti.

Fonte www.Karacteria.org

Pd, pasticcio sulle pensioni d'oro


Pd, pasticcio sulle pensioni d'oro
di Cristina Cucciniello, DAL SITO ESPRESSO.REPUBBLICA.IT

Quasi tutti i deputati di Bersani votano per mantenere i super privilegi dei boiardi di Stato. La base in Rete si ribella, la Finocchiaro risponde su Facebook. Ma restano un po' di lati oscuri (e una gran figuraccia)(07 maggio 2012)
Anna FinocchiaroIl diavolo è nei dettagli, recita un antico detto. E i dettagli, nelle aule del Parlamento italiano, prendono forma di commi e cavilli, righe di testo astruse, che sfuggono all'immediata comprensione.

A uno di questi cavilli era affidato, fino a pochi giorni fa, il destino delle 'pensioni d'oro', ovvero del trattamento previdenziale dei cosiddetti super-manager di Stato: funzionari come Antonio Mastrapasqua, Presidente Inps, il cui stipendio annuo si è attestato finora a quota 1.206.903 euro, o come Mario Canzio, Ragioniere generale di Stato, 521.917 euro annuali, o come Attilio Befera, a capo di Equitalia, che supera i 450 mila euro l'anno.

Il Decreto Salva Italia aveva fissato, fra le more della sua legge di conversione, un tetto ai salari dei super-manager, parificandoli allo stipendio annuale del primo presidente della Corte di Cassazione, ovvero 293.658,95 euro. Ma un decreto successivo - la cui legge di conversione è tuttora in iter parlamentare - consente di mantenere integre le pensioni d'oro degli stessi manager, nonostante i tagli al loro salari.

Come? Grazie ad un dettaglio, appunto, contenuto nel decreto legge n. 29 del 24 marzo scorso. Il secondo comma del decreto, infatti, stabilisce che il tetto massimo agli stipendi dei super-manager non vale nel computo del trattamento previdenziale: tradotto dal burocratese - che lo indica come "principio pro rata" - questo cavillo consente di mantenere integre le pensioni d'oro maturate prima dei tagli introdotti dal governo Monti.

Al momento, il comma è stato appena soppresso dal testo della legge di conversione, grazie ad un emendamento presentato in Senato da Felice Belisario, Capogruppo Idv, approvato in aula con soli 124 voti a favore su 230 votanti e ben 94 contrari. 

Ma ben 94 senatori - tutti provenienti dalle fila del Partito Democratico e del Terzo Polo - si sono schierati a favore del mantenimento delle pensioni d'oro: dal capogruppo Anna Finocchiaro in giù, fino ai meno conosciuti parlamentari di provincia, il Pd ha votato compatto a sostegno del trattamento pensionistico dei super-manager, tranne uno sparuto gruppo di outsider formato da 8 senatori piddini. Più un voto a sorpresa. Quello dell'ex piddino Luigi Lusi: schieratosi a favore del taglio delle pensioni d'oro.

«Se noi fossimo militanti del Pd chiederemmo al nostro partito: 'Hey Pd perché hai votato contro il taglio alle pensioni d'oro?'», chiede il Popolo Viola, dal suo account su Twitter. Già, perché? All'interrogativo de il Popolo Viola ?€“ che per primo ha pubblicato l'elenco dei 94 senatori contrari all'emendamento ?€“ si sono associati in poche ore decine di migliaia di utenti dei social network, che hanno chiesto spiegazioni soprattutto alla senatrice Pd Anna Finocchiaro, capogruppo dei senatori democratici.

Ed è arrivata proprio dalla pagina Facebook della senatrice Finocchiaro la risposta all'unica domanda rimbalzata da un punto all'altro del Web: «Il Governo ci aveva chiesto di votare secondo le sue indicazioni e noi ci siamo comportati con lealtà nei suoi confronti. Alla Camera, qualora si valuti che si sia trattato di un errore, il Pd cambierà il suo voto». 

Nella nota diffusa in seguito dal capogruppo, si legge che l'esistenza o meno del comma in questione non avrebbe comportato aggravio di spesa: in soldoni, se il comma resta, lo Stato paga pensioni già preventivate, sicché non spende di più di quanto previsto. Non c'è aggravio, ma non c'è neanche risparmio per le casse statali. 

«Si è trattato di un polverone sul nulla, quel comma non modifica il saldo economico dello Stato e previene i contenziosi», rincara il senatore Pd Marco Stradiotto.

Insomma, il Pd avrebbe votato contro l'emendamento per fedeltà al governo Monti, lasciando intatto il saldo delle casse statali e per evitare i ricorsi dei super-manager che si sarebbero visti tarare la pensione non sugli stipendioni pregressi, ma sugli stipendi tagliati dal Decreto Salva Italia.

«Ci saremmo aspettati un comportamento responsabile da parte del Pd», commenta, invece il senatore Belisario, primo firmatario dell'emendamento: «Quella appena ottenuta è stata una bella vittoria. Un comma vergognoso, che con urgenza tutelava il trattamento pensionistico dei Grand Commis di Stato, è stato soppresso dal testo di legge al vaglio del Senato. Un decreto legge, secondo la Costituzione, deve avere, per essere presentato sotto questa forma, i requisiti della necessità e dell'urgenza. Che urgenza c'era di presentare una norma per tutelare le pensioni d'oro?».

La partita, ad ogni modo, non è ancora chiusa: c'è la possibilità che lo stesso comma venga riproposto dal governo al vaglio della Camera, quando il testo di conversione verrà presentato a Montecitorio. Insomma, rischio che le pensioni d'oro vengano, ancora una volta, tutelate c'è ancora.

Bubbico e Chiurazzi (Pd) su taglio "pensioni d'oro"


Bubbico e Chiurazzi (Pd) su taglio "pensioni d'oro"
21/05/2012 16:39

DA BASILICATANET
“Nelle ultime settimane è stata messa in atto una campagna di disinformazione mediatica che mira a sostenere la tesi che i senatori Bubbico, Chiurazzi ed altri avrebbe difeso in Parlamento un provvedimento teso a salvaguardare i benefici degli alti dirigenti di Stato. In questa campagna spicca la posizione della Sel, in ultimo con un suo manifesto del circolo di Nova Siri, che aggiunge alla cattiva informazione anche frasi ingiuriose ed offensive della dignità personale dei parlamentari chiamati in causa”. Lo fanno sapere, in una nota congiunta, i senatori Filippo Bubbico e Carlo Chiurazzi.
“Appare evidente che alcune parti del manifesto della Sel non hanno nulla a che fare con la politica, ma ne alimentano solo la sua involuzione e questo ci rattrista. Serve fare chiarezza e per questo il nostro contributo. Occorre ricordare – spiegano i parlamentari - che la questione si origina dalla norma approvata dal senato nel dicembre 2011 con il cosiddetto decreto ‘Salva Italia’ che ha tagliato significativamente gli alti compensi dei manager di Stato. Si è trattato di un provvedimento epocale che per la prima volta è riuscito a vincere le resistenze delle corporazioni manageriali facendo ricadere anche su esse i sacrifici come richiesto già da tempo dai cittadini italiani. A questo provvedimento – ricordano Bubbico e Chiurazzi - abbiamo dato unitamente agli altri parlamentari un contributo significativo (altro che difensori della casta manageriale!) L'effetto del provvedimento di riduzione degli stipendi dei supermanager aveva fatto registrare una immediata reazione da parte dei soggetti colpiti in età pensionabile (che avevano maturato i requisiti) i quali avevano minacciato l'immediata richiesta di essere collocati in pensione”.
“L'ulteriore azione del governo Monti e della sua maggioranza era riuscita ancora una volta a piegare i manager di stato ad un ulteriore sacrificio. Infatti – spiegano i senatori del Pd - abbiamo continuato a sostenere il governo nel tentativo di evitare per effetto di tali riduzioni, la corsa alla pensione di quanti erano stati colpiti dal provvedimento e temevano che una permanenza in servizio avrebbe avuto ripercussioni sul futuro trattamento pensionistico. La proposta del Governo da noi sostenuta – continuano - prevedeva semplicemente che chi poteva andare in pensione al momento della riduzione dello stipendio avrebbe potuto continuare a rimanere in servizio, pagato molto meno di prima, senza perdere i diritti acquisiti. Questo avrebbe evitato: a) all'Inps di pagare immediatamente ingenti somme per le liquidazioni di fine rapporto degli alti dirigenti, b) allo stesso istituto previdenziale di erogare immediatamente il trattamento pensionistico, c) allo stato di contrattualizzare altri nuovi super dirigenti per sostituire i precedenti, d) di non privarsi all'interno della governance dello Stato di importanti esperienze manageriali, tanto più utili in questo periodo di grandi difficoltà del Paese. Al fine di scongiurare questi rischi abbiamo sostenuto nei lavori parlamentari la norma in questione”.
“In coscienza riteniamo di aver fatto gli interessi del Paese – concludono - e soprattutto di aver consentito un rigoroso utilizzo dei soldi dei cittadini attraverso il sostegno determinante a provvedimenti che nessun governo sinora aveva avuto la forza ed il coraggio di assumere. In questo momento servono al paese amministratori e parlamentari che approfondiscono le questioni per giungere alle migliori scelte. Serve, oggi, una classe dirigente responsabile e competente ripiegata sui problemi concreti. Il Paese non ha bisogno di demagoghi e populisti che usando la menzogna ingannano i cittadini nel tentativo di recuperare con scorciatoie propagandistiche il consenso elettorale”.

bas 07