di MARCELLO SORGI, dalla stampa
Con una simultaneità mai vista prima, dai vertici di Pd e Pdl sono uscite due proposte simmetriche e contrapposte: primarie e liste civiche.
In autunno quindi, secondo se lo scioglimento delle Camere sarà ordinario o anticipato, prima o poco prima delle elezioni, il popolo del centrosinistra e quello del centrodestra saranno convocati separatamente per decidere sui loro candidati premier, sui confini delle coalizioni che li sosterranno e sui programmi. E su questa base, subito dopo Pd e Pdl si rivolgeranno agli elettori, chiamati a votare per il nuovo Parlamento e per il nuovo governo. Contemporaneamente però - ed ecco la novità - sarà dato pieno riconoscimento alle liste che, pur non riconoscendosi negli stessi partiti, ritengono di concorrere nei due campi aggregandosi alle rispettive coalizioni.
Apparentemente, sembra un espediente abbastanza logico, mirato dichiaratamente a ottimizzare la raccolta dei consensi, in un’elezione in cui più forti s’annunciano le contestazioni e la forza d’urto dei movimenti dell’antipolitica, usciti vincitori dalla recente tornata di amministrative. Ma di fatto, è inutile nasconderlo, c’è un’evidente contraddizione tra primarie e liste civiche. Le prime, infatti, puntano a unire gli elettori di un campo e a contrapporli a quelli del campo opposto. Le seconde, al contrario, nascono per dividere o comunque per segnare delle differenze.
Facciamo un paio di esempi per chiarire. Se a Palermo le primarie del centrosinistra non si fossero concluse come sappiamo, con almeno due candidati dello stesso Pd in campo e l'intervento abbastanza dichiarato di pezzi di centrodestra per condizionarne il risultato, non sarebbe nata la lista Orlando che ha portato alla vittoria l’ex nuovo sindaco per la quarta volta. E se a Napoli un anno fa il Pdl avesse organizzato le primarie come adesso dice di voler fare, sarebbe stata scelta una candidata come Mara Carfagna piuttosto che Gianni Lettieri, l’uomo dell’ex sottosegretario Nicola Cosentino che poi risultò sconfitto. Magari De Magistris, candidato di Di Pietro uscito a sorpresa come personaggio di rottura contro le primarie del centrosinistra che avevano designato il prefetto Mario Morcone, avrebbe vinto lo stesso. Ma certo la Carfagna gli avrebbe dato più filo da torcere.
Esempi come questi dimostrano che la forza dei ras locali - quelli che una volta, con disprezzo, D’Alema definì «cacicchi» - si misura sempre con le designazioni che vengono dal centro o dall’alto. Quando non riesce a prevalere, vedi i casi di Palermo o di Napoli, sfocia appunto in liste civiche. Le quali, se possono, cercano di vincere a dispetto di tutti, oppure negoziano i loro voti per ottenere vantaggi. Sono evidenti e ormai sperimentati i limiti, sul piano locale, di un simile meccanismo - sia pure perfettamente democratico, dal momento che per candidarsi basta raccogliere le firme, e che i partiti alle volte purtroppo si presentano con firme false. Ciò che finora non era stato provato, e invece lo sarà la prossima volta, è cosa possa accadere spostando le liste civiche, dalle contese cittadine e strapaesane, a quella nazionale per il governo.
Si può solo provare ad immaginare le conseguenze. Poniamo, anche se finora su questa materia Bersani s’è tenuto sul vago, che il Pd decida di far rispettare il limite dei tre mandati per le ricandidature dei deputati e dei senatori uscenti: cosa impedirebbe, magari non ai dirigenti importanti che in un modo o nell’altro saranno recuperati, ma agli altri che si sentono ingiustamente esclusi, di formare le loro liste civiche e correre nel proprio territorio accanto, ma anche contro, il partito che li ha esclusi? E poniamo - ma anche qui siamo nel campo delle ipotesi - che il segretario del Pdl Alfano, che aveva esordito con lo slogan del «partito degli onesti», decida di far seguire agli enunciati i fatti e introduca una regola per cui gli inquisiti devono restare fuori dalle liste del suo partito. Cosa vieterebbe ai numerosi parlamentari berlusconiani coinvolti in inchieste giudiziarie (a cominciare dal Cavaliere, leader maximo) di farsi le loro liste, e colorarle tra l’altro di venature garantiste a cui l’elettorato di centrodestra è sempre stato più sensibile?
I due esempi possono essere capovolti ed applicati - anche se non indifferentemente - all’uno o all’altro dei due partiti, entrambi alle prese con problemi di rinnovamento generazionale, di gruppi dirigenti usurati e litigiosi, di indagini di magistrati che hanno colpito esponenti molto importanti di una parte e dell’altra, oltre che di forte concorrenza di nuovi movimenti e della cosiddetta antipolitica. Ma la conseguenza comune e più diretta, destinata a colpire la coalizione vincente - ammesso che dalle prossime elezioni ne esca una che si possa definire così e sia in grado di ridare un governo politico al Paese - sarà che chiunque vinca si ritroverà alle prese con i problemi già emersi in passato di divisioni interne e scarsa governabilità, moltiplicati per il numero di radici locali delle numerose liste civiche che, in nome della nuova dottrina annunciata ieri, saranno associate al centrosinistra e al centrodestra.
Per questo, prima di aprire la strada a un’evoluzione così pericolosa della nostra già claudicante democrazia, occorrerebbe pensarci bene. Basterebbe riformare seriamente la legge elettorale, per evitarlo. Invece, al posto di rinnovarsi davvero, per gareggiare con i nuovi movimenti, nati e prosperati sulla loro crisi, i due maggiori partiti si preparano a legittimare tutto il «nuovo» (e spesso anche quello autodefinitosi tale) che non riescono a portare al loro interno e tutta la monnezza che non possono trattenere, a rischio di intossicazione, ma che temono, una volta espulsa, faccia perdere voti. Come coronamento della legislatura della Grande riforma (mancata), che doveva concludere finalmente l’interminabile transizione italiana, non c’è male.
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