mercoledì 30 marzo 2011

Cosa fare se l'Europa non ci aiuta?
Il problema c’è e soprattutto si vede. Dall’inizio delle rivolte nel Nord Africa sono arrivati in Italia 20.000 immigrati e altri ne arriveranno. La cifra è straordinaria, l’allarme giustificato. Ma non è cosa del tutto nuova: nell’agosto ‘91 arrivarono a Bari dall’Albania in 22.000, la guerra del Kosovo del 1999 portò 50.000 rifugiati. Se ci spostiamo anche in tempi più recenti osserviamo un’immissione di irregolari poco vistosa, ma ampia e costante.

Non fanno notizia perché arrivano a rivoli e non su sgangherati battelli, ma con visti turistici destinati a scadere. Lo dimostrano i dati dell’ultima regolarizzazione, rivolta alle sole badanti, che nel 2009 ha raccolto 300.000 domande. Anche i decreti sui flussi, che fingono di importare immigrati, di fatto regolarizzano quelli già presenti. Si stima che circa i due terzi degli immigrati oggi legalmente presenti in Italia siano stati per qualche tempo senza un permesso di soggiorno valido. Questo vuol dire che l’Italia ha assorbito milioni di irregolari. E il bacino si riempie continuamente. L’ultimo decreto prevede 98.000 «ingressi», e sono state già presentate più di 400.000 domande. E i romeni, come i neocomunitari in genere, non entrano più nel computo. Quindi, da un punto di vista statistico, gli sbarchi a Lampedusa, per ora, non appaiono come un fenomeno abnorme.

Da un punto di vista politico e sociale, tuttavia, sono un fatto molto serio. La concentrazione nel tempo e nello spazio degli arrivi ha un impatto dirompente anche e proprio perché si verificano in un’Italia che da tempo digerisce con difficoltà un’immigrazione necessaria, ma forte, rapida e sregolata.

Il problema dunque è serio e andrebbe affrontato con serietà. Misure affrettate e contraddittorie, protagonismi incrociati, non sono d’aiuto. L’idea del rimpatrio assistito, ad esempio, è sponsorizzata anche dall’Unione europea ed era già stata proposta in passato, quando Amato era ministro degli Interni. Economicamente la strategia funziona: costa molto meno che detenerli nei Centri. Quindi non sembra una proposta assurda: però non tiene. Proprio in una logica di razionalità economica la misura non funziona perché incentiva a immigrare clandestinamente. Né vale premiare i governi in base al numero di immigrati che accettano di riaccogliere: l’emigrazione per loro è già un business perché alleggerisce il mercato del lavoro e produce rimesse, se a questo si aggiunge il premio in caso di rinvio gli incentivi a lasciar correre l’emigrazione sono davvero troppi. Meglio sarebbe premiare semmai la capacità di riduzione degli arrivi, come in parte previsto in vari accordi bilaterali.

Un’altra soluzione ventilata consiste nel rimandarli indietro a forza. È giuridicamente praticabile purché si individui prima chi ha diritto all’asilo - e si separino quindi i percorsi di rifugiati e clandestini - e purché lo stato verso il quale sono respinti sia un Paese sicuro. L’Italia è già stata oggetto di reprimende per non aver ottemperato a pieno agli obblighi nei confronti dei residenti asilo, meglio evitare altre infrazioni. Ma nella situazione attuale, pur con tutte le cautele giuridiche ed umanitarie del caso, è politicamente opportuno assestare un colpo all’ancora fragile nuovo regime tunisino? È il caso di iniziare con prove di forza le relazioni con i nuovi regimi?

La via maestra è quella già percorsa in passato e che l’Italia è intenzionata a riprendere: intese anche con i nuovi governi del Nord Africa, investendo non solo in strumenti di controllo, ma anche in attività produttive. Certo l’instabilità di quegli esecutivi, la nostra penuria di risorse e la riluttanza a destinarle ad aiuti all’estero rendono accidentata la strada di nuove intese, ma occorre impegnarsi a spianarla.

Distribuire il nostro carico in Europa è un percorso ancora più arduo, ma ciò non vuol dire che non lo si debba percorrere. L’Unione Europea fornisce risorse per il controllo delle frontiere e la gestione degli irregolari. Ma i nostri partner di fatto sono riluttanti a condividere, se non eccezionalmente, il peso dei rifugiati e certo non sono disposti a farsi carico dello smistamento dei clandestini. Se l’Europa può continuare erroneamente a rifiutare solidarietà, non possono invece farlo le varie regioni italiane che in questa occasione mettono alla prova il vantato principio del federalismo solidale. Ed è più che giusto oggi salvare Lampedusa dal collasso: in passato gli isolani hanno dato e fatto fin troppo per gli immigrati. Il governo ha deciso di distribuire gli arrivi sul territorio nazionale, speriamo che glielo lascino fare.

Se a livello internazionale è opportuno ripercorrere e rafforzare strategie già sperimentate, non si può però continuare a farlo con il vecchio stile. I costi morali dello sbarramento affidato al regime di Gheddafi erano troppo alti ed è poco onorevole rimpiangerne oggi il venir meno. Nei campi e nelle prigioni libiche si praticavano stupri e torture. È imbarazzante che si scopra, solo ora che si sgretolano, la inaccettabilità di quello e di altri regimi autoritari. Pensarli con nostalgia mentre si dà una mano a bombardarli è davvero assurdo. Eppure quel sentimento in qualcuno chiaramente aleggia. La crisi del Nord Africa dovrebbe spingerci, al contrario, a fare un salto qualitativo, ad abbandonare per sempre comportamenti contrari al rispetto dei trattati internazionali e alla tutela dei diritti umani, anche quando si tratta di questioni su cui posizioni ciniche possono fornire facili vantaggi elettorali. Parafrasando Talleyrand si può dire che alla fine si può rivelare peggio di un crimine: un errore.

Dalla Stampa
Art. di Zincone

 
 

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