martedì 8 marzo 2011

8 marzo, il nostro futuro

Un incremento del tasso di partecipazione femminile nel mercato del lavoro solo dell'1 per cento sarebbe pari a un aumento del Pil dello 0,28: un surplus del 30 per cento della spesa pubblica italiana per la famiglia, ad esempio. Lo dico per sottolineare il peso –anche economico- che la condizione materiale femminile non pienamente espressa impone al nostro Paese. Lo dico perché la nostra è una società in cui viene celebrato il mito dell’avere sull’essere, in cui lo sviluppo della nazione (quindi la sua civiltà, visto il legame naturale esistente fra felicità materiale e spirituale) è ridotto all’andamento del Pil, in cui l’economia (eccessivamente finanziarizzata) detta le condotte etico-morali. Lo dico per usare un argomento che potrebbe fare breccia nei tanti sostenitori del libero mercato senza regole, resistenti all’idea che una società moderna e sviluppata debba essere, prima di tutto, una comunità di uguali (per possibilità e mezzi di partenza).  Lo dico, soprattutto, perché oggi ricorre l’8 marzo e le donne saranno in piazza a testimoniare la loro voglia di partecipazione sociale e politica, oltre alla difficoltà di vivere in un momento storico tutt’altro che lucente. Lo dico perché la televisione irradia modelli pornografici da anni, essendo la testa d’ariete del berlusconismo galoppante come modello antropologico, il braccio materiale della sua presa sulla società nostrana. Ad essa dobbiamo la riduzione della donna a solo corpo e la riduzione del solo corpo a merce, per la politica e il mercato dei consumi, per l’economia e la (in)cultura generale. Lo dico perché mai come adesso il potere (berlusconiano) ha dimostrato la sua trasformazione in vero e proprio sultanato. Nonostante la realtà sia poi diversa. Per fortuna, non esiste un solo modello. Di uomo e soprattutto di donna. Le donne hanno superato gli uomini nei livelli di scolarità, il glass ceiling, il “soffitto di cristallo”, impedisce loro di prendere l’ascensore sociale, quindi lavorare, migliorarsi, apportare il loro contributo alla collettività. L’Italia è il Paese dell’Unione europea con i tassi occupazionali femminili più bassi. Il 63,9% contro il 75,8% della media Ue. Solo Malta è peggiore. E Germania e Francia ci guardano da percentuali dell’81,8% e del 78,7%, comunque lontane dai record che registrano i Paesi scandinavi. Se pareggiassimo la Francia, registreremmo un aumento del Pil pari al 3,6. Abbastanza soldi per costruire asili e realizzare le politiche necessarie per la “conciliazione familiare”. Come il perfezionamento del sistema dei congedi di maternità, le indennità parentali, il potenziamento dei meccanismi di controllo dell’ispettorato del lavoro per evitare il licenziamento “preventivo” e le dimissioni in bianco, attraverso le quali le giovani donne devono scegliere l’antico ricatto, quello in fondo imposto dalla Fiat a Pomigliano e Mirafiori: diritti o inoccupazione. Un aspetto, quello della condizione di pari opportunità sociali e economiche, che alcuni “moderati” fieramente “religiosi” dovrebbero avere a mente quando straparlano di diritti della famiglia: per crearle le famiglie ci vogliono innanzitutto donne che abbiano una condizione economico-sociale favorevole. Anche la destra, così pronta alla retorica del Dio-patria-famiglia, dovrebbe averlo a mente questo aspetto, invece di oscillare schizofreneticamente fra il velinismo dell’utilizzatore finale e l’anelito per il piccolo mondo antico fatto di “angeli del focolare”. Intanto, il successo delle donne nella scuola e nell’università, interrotto purtroppo nel mercato del lavoro, dimostra che l’Italia ha ancora una speranza e questa speranza è in larga parte femminile. Anche culturalmente. Le donne sono una Resistenza vivente al berlusconismo e vogliono rompere quel soffitto di cristallo che le allontana dalla piena realizzazione di se e dalla riduzione forzata al modello delle papi girl. Le donne sono un presidio democratico fondamentale. E’ ora di cambiare. Se non ora, quando? Attenzione a non dimenticare, però, un aspetto che credo sia centrale. Non c’è percorso in questo senso che possa vedere una deresponsabilizzazione di noi uomini. Perché se il sultanato e l’assenza di pari opportunità sociali ed economiche creano alle donne un danno inestimabile e ne mortificano la dignità, a noi uomini non destano minori sofferenze e preoccupazioni. Siamo interconnessi, siamo in dipendenza reciproca. Per questo oggi sono in piazza.

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