LIBIA,conciliare interessi e valori MARTA DASSU' | |
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La partita è appena cominciata. Si svolge nel nostro cortile di casa. Coinvolge interessi essenziali del nostro Paese, dalle forniture energetiche al controllo dei flussi migratori. Non sarà una partita breve: come dice la sua storia personale, Muammar Gheddafi giocherà una serie di mosse e cercherà di farcela pagare, prima di cedere. Ha cominciato subito, a poche ore dalla Risoluzione con cui il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha autorizzato «tutte le misure necessarie per proteggere i civili sotto minaccia di attacco in Libia». E’ la formula standard (tutte le misure necessarie) per il ricorso alla forza: il preludio ad attacchi mirati, non solo a quella «no fly zone» decisa quasi fuori tempo massimo. Come ha risposto il Raiss di Tripoli? Ha dichiarato, attraverso la voce del ministro degli Esteri libico, un cessate-il-fuoco unilaterale, invitando la comunità internazionale a verificarlo sul terreno. La scommessa di Gheddafi è che una mossa del genere complichi le scelte occidentali, gettando una manciata di sabbia nei motori, già accesi, dei bombardieri francesi e inglesi. Facciamo - per capire meglio le regole della partita e i suoi giocatori - un passo indietro. La decisione di picchiare duro sulle forze del Raiss, prevenendo così un attacco finale a Bengasi, è stata trainata dalla Francia: Nicolas Sarkozy ha deciso di puntare tutte le sue carte sulla caduta del Raiss, per recuperare prestigio domestico e per fare dimenticare i legami fra il suo governo e il regime di Ben Ali in Tunisia. La foga di Parigi ha scosso anche Londra, rimasta su una posizione più cauta; accettata la linea interventista, David Cameron ha cercato a sua volta di smuovere Washington dall’attendismo delle ultime due settimane. Il resto lo hanno fatto le minacce di Gheddafi; quando il Raiss di Tripoli ha annunciato che avrebbe azzerato l’opposizione di Bengasi, Barack Obama ha capito di non potere più esitare. Pena una perdita secca della credibilità degli Stati Uniti, già messa duramente in discussione nel Golfo: l’intervento saudita in Bahrein, senza concertazione con Washington, è stato un campanello di allarme. E’ un’America riluttante, insomma, quella che ha appena deciso, contro il parere dei suoi militari, di intervenire di nuovo in un Paese arabo. Riluttante al punto da lasciare in modo esplicito la «guida» - così ha detto ieri Obama - ai due Paesi europei del Consiglio di sicurezza e a nazioni arabe. La Germania, da parte sua, ha deciso di restare defilata: l’astensione in Consiglio di sicurezza, insieme a quella di Cina, Russia, India, Brasile, conferma le priorità tutte elettorali di Angela Merkel e dimostra che Berlino non sa o non vuole esercitare una leadership internazionale. Al di là della grande partita sull’euro, la visione tedesca del mondo sembra a tratti mercantilista, a tratti isolazionista. Vicina alla Cina nelle discussioni G-20 sugli equilibri commerciali e monetari; vicina alla Russia sui problemi della sicurezza europea, vicina ad entrambe sulla Libia: Berlino gioca in proprio. L'Italia ha, in questa vicenda, una posizione molto più delicata di quella tedesca. Ha alle spalle il peso della storia coloniale; ha interessi economici in gioco molto più sostanziali; è direttamente esposta alle ritorsioni di Gheddafi; ha molto da perdere, e poco da guadagnare, da una spaccatura fra Tripolitania e Cirenaica. E ha in casa le basi da cui partiranno i raid militari. Sono fattori che dovrebbero spingere il nostro Paese verso l’intervento attivo o verso una posizione passiva? Una discussione onesta su questo punto - sui costi e benefici di una scelta cruciale di politica estera - sarebbe salutare. Per troppo tempo, siamo stati abituati a ragionare solo in termini di allineamenti: con l’America o contro, con la Nato o fuori, con la Germania o con la Francia, e così via. Oggi, il gioco internazionale è diventato più libero: una condizione che aumenta, con i rischi, anche le responsabilità nazionali. Se ragioniamo in questi termini - gli interessi dell’Italia e le sue responsabilità come Paese democratico - esiste una domanda essenziale a cui rispondere, di tipo real-politico; ed esiste un atteggiamento a cui tendere, di tipo idealistico. La domanda è sempre la stessa: la traiettoria politica di Gheddafi è finita? Ma la seconda risoluzione dell’Onu modifica la risposta: probabilmente sì. Potrà volerci tempo, come è stato nel caso di Milosevic o in quello di Saddam Hussein, ma la fine del Raiss è cominciata. E se è davvero così, l’Italia non ha nessun interesse a lasciare che siano la Francia e la Gran Bretagna a disegnare il futuro della Libia. Una linea di disimpegno alla tedesca, nel nostro cortile di casa, non sarebbe pagante. Del resto, lo scenario peggiore, per l’Italia, sarebbe un Gheddafi apertamente «nemico» ma ancora in sella, con i rischi e i costi (sanzioni petrolifere) della situazione. Anche lo scenario di una guerra protratta fra tribù, con la frantumazione della Libia, sarebbe pessimo per il nostro Paese: avremmo una Grande Somalia appena al di là del Mediterraneo. L’intervento internazionale, per essere utile, dovrà riuscire a evitare il primo scenario senza lasciarsi alle spalle il secondo. L’atteggiamento a cui tendere è quello richiamato da Giorgio Napolitano, nelle sue parole di ieri a Torino: «Nelle prossime ore dovremo prendere decisioni difficili, impegnative, rispetto a ciò che sta accadendo in Libia… Se pensiamo a ciò che è stato il nostro Risorgimento, innanzitutto come movimento liberatore, non possiamo rimanere indifferenti rispetto alla sistematica repressione di fondamentali libertà e diritti». Per un caso della storia, il 150° anniversario dell’Unità d’Italia avviene nel pieno della crisi libica e 100 anni dopo la spedizione coloniale di Giolitti. Un’occasione giusta per cercare di conciliare, nella politica estera dell’Italia, interessi e valori. | |
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Fonte:la stampa
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