Perchè il Paese non cresce ? Senza ricerca si resta nani.
«Giudica un uomo dalle sue domande piuttosto che dalle sue risposte», disse Voltaire. E oggi non c'è domanda più importante che questa: perché l'Italia non cresce? Perché quando le cose vanno male da noi vanno peggio e quando vanno bene da noi vanno meno bene? Perché negli ultimi quarant'anni siamo cresciuti meno delle altre aree del mondo, sia quelle lontane che quelle vicine? Perché questo divario di crescita si è ancora allargato negli ultimi anni?
Non c'è domanda più importante, si è detto. Ed è una domanda che dobbiamo porci, insistentemente e ossessivamente, anche se non avessimo le risposte. Perché è la domanda giusta da fare, perché la crescita è una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per risolvere i problemi: con la crescita possiamo affrontarli, senza crescita tutto si aggrava.
Di fronte a questa domanda sono possibili diverse risposte. Sbarazziamo dapprima il campo dalle risposte sbagliate: alcuni mettono la testa nella sabbia, o dicendo che le cifre non sono vere, o rifugiandosi in uno sterile "moralismo economico": noi siamo formiche e gli altri crescono di più perché spendono e spandono come cicale. Quasi che un divario che dura da quarant'anni possa essere spiegato in termini di mezze verità o mezze bugie. Né il divario può essere spiegato in termini di partigianeria politica: quale che sia il colore del governo pro-tempore l'economia italiana ha continuato ad arrancare.
No, ci sono ragioni profonde e strutturali, che affondano le radici nell'humus della società, negli snodi e nelle giunture che presiedono al funzionamento del nostro sistema produttivo. Un sistema produttivo che, come giustamente celebrato da tanti laudatori delle nostre imprese, ci offre tanti esempi di successi e di primazie, tante nicchie di eccellenza, tante figure di duro e ostinato lavoro, tanti innovatori che «si alzano con le allodole e si coricano con le civette». Perché, allora, questo celebrato materiale umano, questo sapere produttivo, questa lunga linfa che risale alle prodezze artigianali delle città-stato del Medioevo non riesce a "fare sistema", a innestare - e, soprattutto, a mantenere nel tempo - un processo autonomo di crescita? Un "fare sistema" che è tanto più necessario in questi anni, quando la concorrenza dei paesi low cost rende di tanto più importante la capacità di un paese di antica industrializzazione di competere nell'arena internazionale con un efficace connubio di pubblico e privato.
Un primo indizio sta nell'osservare che un buon terreno non basta. L'humus può essere fertile e ricco ma rimane vero che migliore è il terreno, più gramigna produce a non coltivarlo. E il "coltivarlo" non è solo compito degli imprenditori. Il sistema produttivo italiano ha due facce: una sottoposta a una feroce concorrenza internazionale, e un'altra che, preoccupata della battuta di George Orwell - «il problema con la concorrenza è che qualcuno vince…» - cerca di proteggersi da questo "problema" con connivenze interne ed esterne. Ma il "coltivarlo", in quella mezzadria fra pubblico e privato che è l'economia di mercato, rimane compito precipuo dell'operatore pubblico. L'atmosfera culturale che deve respirare invece un'impresa italiana è ben esemplificata da una frase di Winston Churchill: «Molti vedono l'impresa come una vacca da mungere, altri come un nemico da abbattere. Io la vedo per quello che è: un cavallo robusto che tira una carretta molto, molto pesante». Il ruolo dello Stato dovrebbe essere quello di lubrificare le ruote della carretta e spianare le strade che deve percorrere. Invece molto spesso in Italia i governi, come accade in questi giorni con il caso Lactalis-Parmalat, si preoccupano più di questioni nominalistiche di onore nazionale, come se il passaporto dei proprietari contasse di più di quelle bravure imprenditoriali e di quelle dotazioni infrastrutturali che sole determinano le convenienze delle localizzazioni produttive.
Il problema principale dell'economia italiana e della sua scarsa crescita sta insomma nei sospetti e nelle incapacità a collaborare che avvelenano i rapporti fra pubblico e privato. Come disse John Maynard Keynes, la politica economica non dovrebbe essere qualcosa che sradica una pianta, ma che la guida lentamente a crescere in una direzione diversa. Di quella "guida", a parte le velleità di una "politica industriale" non degna di quel nome, non vi è traccia. E la politica in Italia è più una politique politicienne che si guarda l'ombelico che una politica alta preoccupata di creare le condizioni di base per il fiorire dell'intrapresa.
Sì, ma - potrebbero obiettare alcuni - non è forse vero che in Italia l'intrapresa fiorisce con una creazione netta di imprese alta e continua? Ma è proprio questa prolifica natalità che sottolinea il contrasto fra la voglia sfrenata di fare e le soffocanti difficoltà del continuare. Confronti internazionali suggeriscono che la natalità delle imprese in Italia può essere alta come altrove, ma le imprese non devono solo nascere: devono crescere. E, per esempio, a parità di natalità, le imprese che rimangono dopo cinque o dieci anni sono meno e meno grandi che altrove. Piccolo è bello ma nano non è bello: non si può rimanere piccoli per sempre. Le imprese nascono ma poi si trovano ad affrontare un ambiente ostile: o si rifugiano nel sommerso o stentano a crescere.
Sì, ma - potrebbero obiettare alcuni - non è forse vero che in Italia l'intrapresa fiorisce con una creazione netta di imprese alta e continua? Ma è proprio questa prolifica natalità che sottolinea il contrasto fra la voglia sfrenata di fare e le soffocanti difficoltà del continuare. Confronti internazionali suggeriscono che la natalità delle imprese in Italia può essere alta come altrove, ma le imprese non devono solo nascere: devono crescere. E, per esempio, a parità di natalità, le imprese che rimangono dopo cinque o dieci anni sono meno e meno grandi che altrove. Piccolo è bello ma nano non è bello: non si può rimanere piccoli per sempre. Le imprese nascono ma poi si trovano ad affrontare un ambiente ostile: o si rifugiano nel sommerso o stentano a crescere.
Il ruolo dello Stato va molto al di là di una "politica industriale" (termine sospetto che spesso si risolve in una soluzione alla ricerca di un problema). Il ruolo principale dell'operatore pubblico è quello di creare due tipi di infrastrutture: una dotazione infrastrutturale fisica che è specialmente importante in Italia, dove la conformazione orografica e le peculiarità idrogeologiche richiedono forti spese in opere pubbliche; e una "infrastruttura regolatoria" che si scrolli di dosso le tante incrostazioni borboniche che appesantiscono di adempimenti burocratici e fiscali la vita delle imprese. In Italia la "riforma della pubblica amministrazione" è stata spesso avviata con grandi annunci, una riforma "orizzontale" che avrebbe bisogno, per produrre effetti, di una continuità amministrativa e di un pungolo politico che vengono negati dall'instabilità dei governi. Sarebbe più produttivo, invece, un approccio verticale volto a creare "isole di eccellenza" per particolari compiti, "isole" che possano poi agire da lievito per altre procedure.
L'Italia tornerà a crescere? La missione non è impossibile, ma per deliberare bisogna conoscere. E Il Sole 24 Ore continuerà nelle prossime settimane a cercare diagnosi e risposte a una domanda che è la più importante che possiamo porre.
Non c'è serie storica che non mostri quanto l'Italia sia rimasta indietro, in fatto di crescita, negli ultimi dieci anni, anche rispetto agli altri paesi sviluppati dell'area euro. Ci sono buone ragioni per spiegarlo. Essendo un paese essenzialmente manifatturiero e abituato alle svalutazioni competitive, l'ingresso nella moneta unica ha traumatizzato temporaneamente i nostri esportatori.
Proprio quando molti di essi stavano adeguandosi alla nuova realtà competitiva, innalzando il valore intrinseco dei prodotti, investendo in tecnologia e ricerca, costruendo presenze stabili all'estero, come dimostrano i dati di commercio estero a partire dal 2005, è arrivata la crisi mondiale che ha messo in seria difficoltà queste iniziative. Tuttavia il divario rimane grande, ad esempio rispetto alla Germania, sia se si osserva la capacità di crescita prima della crisi, sia e soprattutto se si considera la capacità di reazione nella fase di risalita. Le cause sono sicuramente molteplici, ma vorrei concentrare l'attenzione in particolare su una di esse: la struttura dimensionale del nostro sistema produttivo.
In Italia nell'industria in senso stretto più dei tre quarti degli addetti sono occupati in imprese con meno di 250 dipendenti. Una situazione simile si ha negli "Altri servizi", in larga parte finanziari, ma se si passa al settore del commercio, dei trasporti e degli alberghi il limite dei tre quarti lo si raggiunge intorno ai 50 dipendenti e nelle costruzioni si scende sotto i 20. Sono, anche questi, macrosettori portanti di un'economia avanzata e in particolare della nostra: in essi il sottodimensionamento delle imprese provoca gravi inefficienze, ad esempio nella logistica, o mortifica la capacità di attrazione nel settore alberghiero.
Per rimanere al solo settore manifatturiero, in base ai dati Istat (2008) passando dalla classe dimensionale 20-49 addetti a quella 50-249 si osserva un guadagno di produttività, in termini di valore aggiunto per addetto, del 30 per cento. È allora evidente che una differente distribuzione dimensionale delle imprese è di per sé sufficiente, a parità di condizioni, a determinare un divario di produttività del sistema. Purtroppo la distribuzione dimensionale delle imprese manifatturiere italiane è molto più sfavorevole se paragonata a quella francese o a quella tedesca. In Italia abbiamo un'impresa manifatturiera con più di 250 addetti ogni 337 imprese al di sotto dei 20; in Francia il rapporto è di una ogni 119; in Germania una ogni 39.
La dimensione d'impresa è positivamente correlata, oltre che alla produttività, alla percentuale di fatturato esportato, come appare dalla tabella. Molti studi econometrici registrano la connessione positiva tra produttività e capacità esportativa: è ovvio che chi è più efficiente esporta più facilmente, ma molte evidenze sembrano suggerire che è vero anche l'inverso, ossia che il fatto di esportare aiuta a diventare più efficienti. Comunque le due cose vanno insieme e si rafforzano vicendevolmente. Così come è correlata alla dimensione la capacità d'investire in ricerca e sviluppo, sempre più decisiva per la conquista di nuovi mercati. Ebbene, nel 2008 le imprese italiane hanno effettuato investimenti in R&S per 9.453 milioni, pari al 50,9% della spessa totale del paese e pari allo 0,6% del Pil. Nello stesso anno le imprese tedesche hanno investito in R&S 45.822 milioni, pari al 69,8% della spesa nazionale e all'1,84% del Pil; quelle francesi hanno investito 24.837 milioni, pari al 63,0% della spesa nazionale in R&S e all'1,27% del Pil.
In conclusione, la ricerca italiana è quantitativamente limitata, ma è anche sostenuta in misura maggiore da fondi pubblici, quindi presumibilmente meno vicina a prodotti vendibili che non quella effettuata dalle imprese.
Ma perché la distribuzione dimensionale delle nostre imprese si addensa verso il basso, rispetto a quella di paesi così vicini e simili a noi? Una risposta tradizionale è che essa ben si accompagna alla specializzazione del paese. Nel 2009 le esportazioni italiane hanno rappresentato il 3,5% delle esportazioni mondiali, ma in alcuni settori, nei quali siamo specializzati, abbiamo ottenuto quote molto più alte: quasi il 29% nei materiali da costruzione in terracotta, il 17% nelle pietre da costruzione tagliate, il 15,5% nei prodotti da forno e farinacei, il 14% nei prodotti in pelle e cuoio, il 13% nei contenitori in metallo, l'11% nelle calzature, nonché quote intorno al 10% in prodotti quali tubi e cavi in acciaio, mobili, bevande. Si osserva che in quasi tutti questi settori le economie di scala possibili sono limitate e che quindi, per un paese con queste specializzazioni, è naturale e appropriata una distribuzione dimensionale compressa verso il basso.
Ma perché la distribuzione dimensionale delle nostre imprese si addensa verso il basso, rispetto a quella di paesi così vicini e simili a noi? Una risposta tradizionale è che essa ben si accompagna alla specializzazione del paese. Nel 2009 le esportazioni italiane hanno rappresentato il 3,5% delle esportazioni mondiali, ma in alcuni settori, nei quali siamo specializzati, abbiamo ottenuto quote molto più alte: quasi il 29% nei materiali da costruzione in terracotta, il 17% nelle pietre da costruzione tagliate, il 15,5% nei prodotti da forno e farinacei, il 14% nei prodotti in pelle e cuoio, il 13% nei contenitori in metallo, l'11% nelle calzature, nonché quote intorno al 10% in prodotti quali tubi e cavi in acciaio, mobili, bevande. Si osserva che in quasi tutti questi settori le economie di scala possibili sono limitate e che quindi, per un paese con queste specializzazioni, è naturale e appropriata una distribuzione dimensionale compressa verso il basso.
Osservo in primo luogo che l'assunto non è del tutto vero. In diversi dei settori elencati esistono imprese di grandissime dimensioni, da Ikea a Nestlé, da Coca Cola a Ferrero e Barilla. In secondo luogo, credo che la relazione logica vada rovesciata: non è che le imprese italiane sono piccole perché il paese è specializzato in certe industrie, è, al contrario, che quella specializzazione è il prodotto di una distribuzione dimensionale che ci tiene ai margini dei settori industriali a forti economie di scala. Tra i quali, tuttavia, si annoverano tutti i settori a forte crescita, quelli che ogni anno assorbono una quota crescente del potere d'acquisto dei consumatori mondiali: quelli basati sulle nuove tecnologie, quelli che spingono l'espansione di paesi come Corea del Sud, Taiwan, Singapore e così via. Ma non va dimenticato che anche i maggiori tra i paesi in rapida crescita, Cina, India e Brasile, sono largamente presenti nei settori a forti economie di scala, anche con crescenti contenuti tecnologici. Finché non saremo in grado di modificare la nostra specializzazione, non potremo che crescere di meno degli altri. Ma per farlo dovremo superare l'anomalia nella distribuzione dimensionale delle imprese.
Non credo che gli imprenditori e i manager italiani non sappiano gestire imprese grandi, né che la struttura proprietaria ereditata dal passato costituisca un ostacolo insormontabile verso la costruzione di campioni di livello mondiale. Non lo credo perché vi sono imprese e gruppi italiani che sanno gestire quelle espansioni e quelle dimensioni crescendo sui mercati internazionali.
La grande scommessa deve essere quella di aprire analoghe possibilità di crescita dimensionale anche dentro i nostri confini, costruendo posti di lavoro che riescano a coniugare salari e condizioni di lavoro di tipo europeo ed elevata produttività. La formula possibile è quella tedesca: intensità tecnologica, capitale umano di qualità, scrematura delle funzioni da non delocalizzare, massimizzazione delle economie esterne (la rete dei fornitori, tradizionale punto di forza della nostra industria), intenso sfruttamento degli impianti. Se sapremo imboccare questa strada, e l'affiancheremo con i necessari appoggi, per esempio in campo infrastrutturale, potremo tornare a crescere come Paese ai ritmi che alcune nostre imprese stanno conseguendo nei mercati internazionali.
Gian Maria Gros-Pietro
“Sole 24 ore”
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