sabato 29 settembre 2012

La politica : da Berlusconi a Berlusconi.


Sostiene Lavitola
di MASSIMO GRAMELLINI, dalla Stampa
Se questa lettera è falsa, mette spavento. Se è vera, molto di più. Fra i documenti sequestrati dalla magistratura al faccendiere Valter Lavitola spunta un appello chilometrico e accorato a Berlusconi. Il cosiddetto direttore del fu «Avanti!». Lavitola appunto, lo avrebbe scritto alla vigilia dell’ultimo Natale dal rifugio di Rio de Janeiro, prima di rientrare in Italia e consegnarsi alla giustizia. Parole in libertà, anche dalla grammatica, che raccontano gli ultimi anni di questo disgraziato Paese meglio di un trattato politico o di una gag di Cetto La Qualunque, dando corpo ai sospetti, alle angosce e alle vergogne che hanno tratteggiato il crepuscolo del regimetto silviesco. Riporterò un’antologia di brani scelti, limitandomi a qualche commento in corsivo che dedico al fustigatore dei Lavitola di ogni epoca: Totò.

«Sig. Presidente, La prego di scusarmi se, con la consuetudine che lei mi ha concesso, Le scrivo con estrema chiarezza (In quel mondo di maneggi fumosi la chiarezza è una colpa da dichiarare preventivamente). Leggere che Lei mi accomunava ad un mafioso mi ha fatto molto male e ha rischiato d’avvero (licenza po’etica) di farmi impazzire. Io mi sono fatto da solo senza il suo benché minimo contributo. Lei invece era in debito con me per avere io comprato De Gregorio, tenuto fuori dalla votazione cruciale Pallaro, fatto pervenire a Mastella le notizie della Procura da dove erano arrivate le pressioni per il vergognoso arresto della moglie e “lavorato” Dini. (Lavitola sta rivendicando come meraviglie da Nembo Kid una serie di manovre corruttive per far cadere il governo Prodi nel 2007).

“Lei mi ha promesso più volte di entrare al governo, di mandarmi al Parlamento Europeo, di entrare nel cda Rai (questa ce la siamo risparmiata), che il primo incarico importante che si fosse presentato sarebbe stato per me, di collocare la Ioannuci nel cda dell’Eni (Claudia Ioannuci, ex senatrice di Forza Italia amica sua), di nominare Pozzessere almeno direttore generale di Finmeccanica (almeno).

“Mi ha concesso: la Ioannuci nel cda delle Poste (l’Eni ringrazia, le Poste meno) e il commissario delle dighe, ruolo inventato da me con Masi quando era a Palazzo Chigi. (Chiudete gli occhi e liberate l’immaginazione: Lavitola e Masi, il futuro dirett-horror della Rai, chiusi dentro Palazzo Chigi mentre su concessione del Capo si inventano il commissario delle dighe. Per la cronaca si chiama Guercio, e qui la realtà supera i Vanzina). “Ho ottenuto da lei anche: che Forza Italia concedesse all’Avanti! un finanziamento di 400 mila euro nel 2008, altro non era che il rimborso che Lei mi aveva autorizzato a dare a De Gregorio nel 2007 (per fare secco Prodi), 400/500 mila euro, non ricordo (100 mila più, 100 mila meno: pinzillacchere) per la casa di Montecarlo (qui Lavitola, commissario delle bufale, allude ai soldi spesi per andare a Panama e rastrellare documenti che comprovassero i maneggi edilizi dell’odiato Fini nel Principato, carne fresca per le mandibole dei giornali berlusconiani).

“Quando mio cugino (ci mancava, il cugino) editava il giornale dell’Italia dei Valori, Gianni Letta su Sua richiesta fece pressione sull’Avvocato dello Stato per sbloccare il finanziamento pubblico. Mi accusano di averle insistentemente raccomandato il maresciallo La Monica, la fonte che ha contributo a salvare Bertolaso e che ci ha coperti nell’indagine sull’acquisto dei senatori, ha datto (doppia t, alla sarda) una mano sul serio nelle indagini su Saccà e Cosentino e ha elliminato (doppia l, alla cinese) alcune foto che la vedevano ritrato (una t, alla romana) assieme a Bassolino e ad alcuni mandanti della Camorra per la vicenda rifiuti: sono certo che lei non sapesse chi fossero (però intanto glielo ha ricordato).

“Non è mia intenzione rinfacciarle nulla, ma Lei mi diede la Sua parola. (benedett’uomo, Berlusconi ne ha date talmente tante, di parole, che oramai in tasca gli sarà rimasta solo qualche vocale). “Si trata (vedi alla voce: ritrato) dell’escussione di un credito morale che sono convinto di avere. Le cose fatte tra noi le ho fatte scientemente e come tale da uomo. Lei non sarà mai coinvolto. Mai e poi mai!!! (Sottotesto: sempre che apra il borsellino. E infatti…).

“Ho bisogno che si trovi lavoro ad alcuni di quelli che lo hanno perso con l’Avanti! (I più deboli e meritevoli, immagino). Si tratta di mia moglie, 3/4mila euro mese, giornalista; mia sorella, laureata in psicopedagogia., 2/3 mila euro mese; il mio ex autista, 2 ragionere (impiegate di colore?) , 1 giornalista (almeno uno, finalmente) . Ho poi bisogno che si paghi una società cinese, 900 mila dollari, che mi ha fornito i servizi necessari alla definizione del piano di sfruttamento della mia concessione di taglio in Amazzonia (pure distruttore dell’ecosistema, dài!).

“Il clamore della vicenda giudizziaria (ma una bella terza elementare, no?) sta determinando un comprensibile ma odioso ostracismo nei miei confronti (meno male che se n’è accorto). Si restituiscano a Capriotti 500 mila dollari da lui spesi a vuoto a Panama, dei quali mi ritiene forse giustamente responsabile. Ha una sala bingo, non è difficile pagarlo perdendo un po’ di soldi al bingo, così saprebbe come giustificarli. (Bingo!).

“Tranne che le assunzioni, per le quali la prego di impegnarsi al massimo, si tratterebbe di un prestito. Assieme alla somma prima elencata (900.000 $ + 500mila$ + 5 milioni di euro), ovviamente le restituirò anche i 225 mila euro residuo dei 500 mila affidatimi da Tarantini (mi è venuto il mal di testa).

“Ho in programma di costituirmi a Napoli per tentare un patteggiamento subito dopo le vacanze natalizie, se Dio vuole che non mi catturano prima con un allarme rosso dell’Interpool (un pool di poliziotti nerazzurri?).

“La prego di far contattare mia moglie per farmi sapere a chi emettere le fatture dello studio di avvocati esteri e della società cinese. E di farle sapere come procedere per le assunzioni. E’ la prima volta che Le chiedo un aiuto, mentre io per lei non mi sono mai risparmiato. Ne approfitto per augurarle un Natale sereno, anche se capisco che tra problemi, famiglia e fidanzate non sarà semplice neppure per lei. Dopo i casini devono arrivare soddisfazioni proporzionali. Vorrà dire che ci divertiremo da morire e molto a lungo. Senza il suo prestito mi ridurrei, Dio non voglia, alla fame.” (Dio non voglia, ma mentre i maneggiatori di denaro pubblico si divertivano da morire, alla fame si sono ridotti i loro inconsapevoli finanziatori: gli italiani).

martedì 18 settembre 2012

Non esiste un programma Bersani, un programma Renzi o un programma Berlusconi ma esiste solo il programma Ue-Bce-Fmi-mercati.


di Michele Mendolicchio, da Rinascita
Le polemiche di questi giorni sulle primarie, nella sfida tra Bersani e Renzi e sul ritorno di Berlusconi ci coinvolgono molto poco. Lo scenario non è nuovo. E’ dalla nascita della seconda Repubblica che assistiamo a questo balletto tra l’uno e l’altro schieramento, con rovesciamento delle colpe bipartisan. Non è questione di programma perché come abbiamo visto alla fine le differenze sono molto poche o quantomeno vengono poi livellate dai padroni di Bruxelles e dei poteri forti.
Non esiste un programma Bersani, un programma Renzi o un programma Berlusconi ma esiste solo il programma Ue-Bce-Fmi-mercati. E la cosa buffa è che stiamo ancora a dividerci tra destra e sinistra, tra rossi e neri, tra berlusconiani e antiberlusconiani mentre sulle nostre teste passa di tutto.
Passa la riforma del lavoro: un peggioramento all’infinito fatto di precarietà e salari miseri; passa la riforma delle pensioni con tagli e prolungamento lavorativo; passa il fiscal compact con ripercussioni pesanti sulle nostre tasche e sulla crescita; passa l’idea che stare in Europa porti dei benefici. Di diversità nei programmi e di promesse su questo e quel tema ne sentiamo tante ma come al solito si mena il can per l’aia. Lo fa Renzi, lo fa Bersani, lo fa Di Pietro, lo fa Berlusconi, lo fa Casini, lo fa Fini ma poi l’ultima parola spetta sempre ai padroni di Bruxelles, di Francoforte, di Wall Street e della City. Non c’è nulla che passi liberamente senza il capestro dei poteri internazionali. Un governo di centrodestra o di centrosinistra o dei tecnici si muove solo nel solco tracciato dalla grande finanza e dai padroni stelle e strisce. Solo tornando alle politiche nazionali si può imporre una propria ricetta a difesa dei nostri interessi e soprattutto dei cittadini. Per il resto sono balle. Se poi l’antiberlusconismo è l’antidoto per coprire tutte schifezze che passano sulle nostre teste, allora ve lo lasciamo tutto. La rottamazione dell’uno o dell’altro serve a ben poco se non si cambia il modello di riferimento. Se il modello continuerà ad essere quello liberista dove a dettare legge sono le multinazionali, la grande finanza e i poteri burocrati dell’Ue è chiaro che da questo stato di sfruttamento, ormai quasi a livello schiavista, non ci solleveremo mai. Forse la novità passa nei matrimoni gay? O forse passa attraverso politiche migratorie senza limiti? O forse gli steccati sociali si azzerano con la semplice cittadinanza? Forme di schiavitù sono sempre più presenti nella vita di tutti i giorni. Che passi dallo sfruttamento degli immigrati di  Rosarno o degli operai della Fiat cambia ben poco. Con l’avvento di Monti poi le gabbie si sono ancor di più chiuse, con tutti noi dentro. Non basta poi dire: cambieremo la riforma della Fornero, ridurremo le tasse, concederemo la cittadina breve e su tutto il resto, come fanno Pd, Pdl, Idv e Sel, per sentirsi diversi l’uno dall’altro. Possono promettere e dire quello che vogliono sia in politica interna che estera tanto poi al vaglio dei poteri internazionali debbono sempre passare. La diversità la possono vedere solo quelli che girano ancora con il paraocchi ideologico. Renzi è una sorta di riedizione dell’esperienza veltroniana e nulla più. Anche il programma di Veltroni era fatto di liberismo, di richiami all’Europa, di meritocrazia astratta, di accoglienza e di simbolismi d’oltreoceano. Poi però è rimasto tutto nell’astrattismo. L’Amerika non può essere presa come un esempio da seguire, anche perché il razzismo e la disuguaglianza sociale sono una delle sue caratteristiche dominanti. Ma davvero crediamo che un governo di centrosinistra possa invertire la rotta? Anche affiancando a Bersani un Di Pietro o un Vendola cambierebbe ben poco. Tutt’al più nella ricorrenza delle carovane gay. Ma questo non porta alla crescita economica, alla dignità dei salari e alla qualità di vita.

domenica 16 settembre 2012

Esiste ancora il dono, oggi?


Un gesto eversivo, che nasce dalla libertà e accende
una relazione non generata dall'utilitarismo

di ENZO BIANCHI, dalla Stampa

Il testo che anticipiamo in questa pagina è uno stralcio della lezione magistrale che Enzo Bianchi, il priore della comunità monastica di Bose, terrà oggi a Carpi (piazza Martiri, ore18) nella giornata conclusiva del Festival Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo. Titolo del suo intervento «”Dono” senza reciprocità». Il programma completo della domenica al Festival sul sito www.festivalfilosofia.it

Esiste ancora il dono, oggi? In una società segnata da un accentuato individualismo, con i tratti di narcisismo, egoismo, egolatria che la caratterizzano, c’è ancora posto per l’arte del donare? Ecco una domanda a mio avviso decisiva: nell’educazione, nella trasmissione alle nuove generazioni della sapienza accumulata, c’è attenzione al dono e all’azione del donare come atto autentico di umanizzazione? C’è la coscienza che il dono è la possibilità di innescare i rapporti reciproci tra umani, qualunque poi sia l’esito?

Da una lettura sommaria e superficiale si può concludere che oggi non c’è più posto per il dono ma solo per il mercato, lo scambio utilitaristico, addirittura possiamo dire che il dono è solo un modo per simulare gratuità e disinteresse là dove regna invece la legge del tornaconto. In un’epoca di abbondanza e di opulenza si può addirittura praticare l’atto del dono per comprare l’altro, per neutralizzarlo e togliergli la sua piena libertà.

Si può perfino usare il dono - pensate agli «aiuti umanitari» - per nascondere il male operante in una realtà che è la guerra. Questa ambiguità che pesa sul donare e può pervertirne il significato non è nuova: già nell’antichità si diceva «Timeo Danaos et dona ferentes», «Temo i Greci anche quando portano doni»... Ma c’è pure una forte banalizzazione del dono che viene depotenziato e stravolto anche se lo si chiama «carità»: oggi si «dona» con un sms una briciola a quelli che i mass media ci indicano come soggetti - lontani! - per i quali vale la pena provare emozioni...

Dei rischi e delle possibili perversioni del dono noi siamo avvertiti: il dono può essere rifiutato con atteggiamenti di violenza o nell’indifferenza distratta; il dono può essere ricevuto senza destare gratitudine; il dono può essere sperperato: donare, infatti, è azione che richiede di assumere un rischio. Ma il dono può anche essere pervertito, può diventare uno strumento di pressione che incide sul destinatario, può trasformarsi in strumento di controllo, può incatenare la libertà dell’altro invece di suscitarla. I cristiani sanno come nella storia perfino il dono di Dio, la grazia, abbia potuto e possa essere presentato come una cattura dell’uomo, un’azione di un Dio perverso, crudele, che incute paura e infonde sensi di colpa.

Situazione dunque disperata, la nostra oggi? No! Donare è un’arte che è sempre stata difficile: l’essere umano ne è capace perché è capace di rapporto con l’altro, ma resta vero che questo «donare se stessi» - perché di questo si tratta, non solo di dare ciò che si ha, ciò che si possiede, ma di dare ciò che si è - richiede una convinzione profonda nei confronti dell’altro.

Donare significa per definizione consegnare un bene nelle mani di un altro senza ricevere in cambio alcunché. Bastano queste poche parole per distinguere il «donare» dal «dare», perché nel dare c’è la vendita, lo scambio, il prestito. Nel donare c’è un soggetto, il donatore, che nella libertà, non costretto, e per generosità, per amore, fa un dono all’altro, indipendentemente dalla risposta di questo. Potrà darsi che il destinatario risponda al donatore e si inneschi un rapporto reciproco, ma può anche darsi che il dono non sia accolto o non susciti alcuna reazione di gratitudine.

Donare appare dunque un movimento asimmetrico che nasce da spontaneità e libertà. Perché? Possono essere molti i tentativi di risposta, ma io credo che il donare sia possibile perché l’uomo ha dentro di sé la capacità di compiere questa azione senza calcoli: è capax boni, è capax amoris, sa eccedere nel dare più di quanto sia tenuto a dare. È questa la grandezza della dignità della persona umana: sa dare se stesso e lo sa fare nella libertà! È l’homo donator. Certo, c’è un rischio da assumere nell’atto del donare, ma questo rischio è assolutamente necessario per negare l’uomo autosufficiente, l’uomo autarchico. E se il dono non riceve ritorno, in ogni caso il donatore ha posto un gesto eversivo: attraverso il donare ha acceso una relazione non generata dallo scambio, dal contratto, dall’utilitarismo. Ha immesso una diastasi nelle relazioni, nei rapporti, fino a porre la possibilità della domanda sul debito «buono», cioè il «debito dell’amore» che ciascuno ha verso l’altro nella communitas. Sta scritto, infatti: «Non abbiate alcun debito verso gli altri se non quello dell’amore reciproco» (Rm 13,8).

La prima possibilità del dono avviene attraverso la parola: parola donata, data all’altro. Oggi siamo forse meno consapevoli di cosa significhi «dare la parola, donare la parola», ma il dono della parola è il sigillo sulla fiducia, sul credere negli altri. Senza fede negli altri non c’è cammino di umanizzazione, ma l’eloquenza della fiducia è proprio il donare la parola, che è promessa e accensione di responsabilità verso l’altro. Nelle più quotidiane e autentiche «storie d’amore», proprio perché l’incontro diventi storia, perché l’attimo diventi tempo, occorre la parola data, la promessa.

Ma dal dono della parola si deve tendere, attraverso una serie di atti di dono, al dono della vita. Questo dono estremo è possibile là dove un uomo o una donna hanno ragioni per cui vale la pena dare la vita, spendere la vita, dedicare tutta una vita a... Sono le stesse ragioni per cui vivono, per le quali la loro vita trova senso. Dare la propria vita è però l’operazione più difficile, che urta contro le nostre fibre e il nostro senso di autoconservazione. Noi siamo abitati dalla pulsione biologica a vivere, a ogni costo, anche senza gli altri e magari contro gli altri... Ma ecco la possibilità di dare noi stessi, la nostra vita per gli altri. Non c’è via intermedia.

La tentazione dell’uomo è quella di dare, piuttosto che se stesso, altre cose a lui estranee: è la logica dei sacrifici offerti a Dio... Ma quello non è un dono, ed è significativo che nel cristianesimo la sola offerta possibile sia quella di se stessi, del proprio corpo, della propria vita per gli altri. Si tratta di non sacrificare né gli altri né qualcosa, ma di dedicarsi, mettersi al servizio degli altri affermando la libertà, la giustizia, la vita piena. Ma cosa significa donare se stessi? Significa dare la propria presenza e il proprio tempo, impegnandoli nel servizio all’altro, chiunque sia, semplicemente perché è un uomo, una donna come me, un fratello, una sorella in umanità. Dare la propria presenza: volto contro volto, occhio contro occhio, mano nella mano, in una prossimità il cui linguaggio narra il dono all’altro.

Ma il dono all’altro - parola, gesto, dedizione, cura, presenza - è possibile solo quando si decide la prossimità, il farsi vicino all’altro, il coinvolgersi nella sua vita, il voler assumere una relazione con l’altro. Allora, ciò che era quasi impossibile e comunque difficile, faticoso, diviene quasi naturale perché c’è in noi, nelle nostre profondità la capacità del bene: questa è risvegliata, se non generata, proprio dalla prossimità, quando cessa l’astrazione, la distanza, e nasce la relazione.

C’è una parola di Gesù - non riportata nei Vangeli, ma ricordata dall’apostolo Paolo nel suo discorso a Mileto riferito negli Atti degli apostoli - che è molto eloquente: «C’è più gioia nel donare che nel ricevere». Esperienza reale di chi sa farsi prossimo avvicinandosi all’altro perché l’altro, anche quando avesse il volto del lebbroso, se è visto faccia a faccia, chiede alle nostre viscere di soffrire insieme, chiede la compassione, chiede il dono della presenza e del tempo, chiede il dono di noi stessi. L’atto del donare provoca gioia al donatore perché è un atto concreto che lega il donatore al cosmo, all’altro: è un atto percepito come speranza di comunione. L’accumulazione che non conosce la logica del dono, invece, accresce sempre la dipendenza dalle cose e separa l’uomo dall’uomo, l’uomo dagli altri. Non c’è vera gioia senza gli altri, come è vero che non c’è speranza se non sperando insieme. Ma la speranza è frutto del donare, della condivisione, della solidarietà.

In questo donare e ricevere, proprio perché l’azione è oltre la giustizia che si nutre delle regole dell’eguaglianza, si fa spazio l’amore che è ispirato dalla sovrabbondanza, come dice Paul Ricoeur, appare cioè il «buon debito dell’amore». L’azione del dare la parola, del donare le cose espropriandole da se stessi, del dare la presenza e il tempo non chiede restituzione, ma richiede che l’iniziativa del dono sia proseguita, continuata. Il donare non può essere sottoposto alla speranza della restituzione, di un obbligo che da esso nasce, ma lancia una chiamata, desta una responsabilità, ispira il legame sociale. Il debito dell’amore regge la logica donativa alla quale è peculiare il carattere della gratuità, l’assenza della reciprocità. Com’è vera la parola di Gesù sull’arte del dono: «Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra» (Mt 6,3)! Ogni vita umana è istituita dal debito dell’amore, grazie al quale l’altro è colui del quale si è responsabili, una persona che, una volta incontrata, ha diritto a essere destinataria dell’amore in virtù della prossimità che si è creata.


sabato 15 settembre 2012

Sardegna vittima di spot elettorali


di MARCELLO FOIS*, dalla Stampa

Lo sprofondo che sta ingoiando la Sardegna non è nient’altro che l’orrendo risultato di una serie impressionante di calcoli sbagliati, di pregiudizi, di errori di valutazione. La piccola patria delle grandi promesse oggi si sgretola di fronte all’impossibilità di mantenerle.

Era solo il 2009 quando, accompagnato dal candidato più anonimo a disposizione: il dottor Ugo Cappellacci, l’onorevole Silvio Berlusconi cominciò a battere palmo a palmo l’isola con l’intento di ribadire nell’ordine che, come Caligola, in Sardegna poteva candidare persino il suo cavallo; e che la stagione Soru, a suo dire funerea e luttuosa, andava immantinente archiviata a favore di una stagione di sorrisi e bengodi. Così iniziò la campagna elettorale più capillare che la Sardegna avesse mai visto. E ad ogni tappa si raccoglievano folle di sardi vessati dall’orrido Mister Tiscali che chiedevano pane e circensi. Le barzellette, come nella migliore delle tradizioni berlusconiane, si sprecarono, e tutti risero. Straordinaria la tappa in cui all’onorevole primo ministro fu consegnata dalle mani del segretario Trincas la bandiera quattro mori; straordinaria la competenza archeologica da lui dimostrata quando si espresse a proposito della vera destinazione dei nuraghi in quanto «magazzini per le merci» e non, come erroneamente sostenuto dagli accademici locali, «case fortificate».

Non c’era da stupirsi, dal punto di vista dell’onorevole Berlusconi nessuno meno degli imbelli sardi ha, aveva, avrebbe mai avuto bisogno di case fortificate. Seguirono pranzi dai vescovi e bagni di folle operaie. Nel Sulcis la parola d’ordine fu «non date retta a Soru che vuole chiudere le miniere e mandarvi a casa, ma a me che ho amici ricchi che sono disposti a rilevarle e mantenere tutti i posti di lavoro». Voti a palate. Di fronte agli operai dell’Alcoa la formula cambiò di poco, «ho appena parlato con i miei amici finanzieri che sono interessatissimi a riqualificare la struttura e renderla nuovamente competitiva». Voti a valanga. Ottana e Portovesme capitolarono grazie alla meravigliosa prospettiva di una nuova, imminente, rinascita sostenuta dall’ottimismo e dal sorriso, contro le prospettive di lacrime e sangue minacciate da Mister Tiscali. A La Maddalena si dovette promettere il G8 come risarcimento per essere stata derubata della Base Nato da quel comunista del governatore precedente. Voti su voti. Intanto la congiura dei Boiardi della sinistra locale festeggiava il ripristino di quello status quo, il massimo del risultato col minimo sforzo, che metteva d’accordo tutti. Ai costruttori, frenati da un Piano Paesaggistico severo, si raccontò di un’isola ciambella dove una città continua di villeggianti avrebbe abitato chilometri e chilometri cubi di nuovo cemento, portando prosperità immensa per tutti quei locali che avrebbero fatto i muratori, i manovali, i giardinieri, i guardiani e le cameriere. Ai pastori si raccontò che la loro situazione dipendeva dalle scelte europeiste dei comunisti. Mangiammo e bevemmo tutto. Segno che, con ogni probabilità, la promessa di una speranza supera il realismo della ragionevolezza. E che per quanto asciutto fosse il modello soriano non poteva attecchire in una società annichilita da decenni di abitudine all’assistenzialismo.

I voti dei minatori, degli operai, delle località costiere dimostrarono che il volto anonimo del dottor Cappellacci era come l’oggetto lasciato in pegno ai sardi per l’avverarsi di tutte quelle promesse. A chi diceva che quelle promesse non si potevano mantenere, risposero che il calvinismo soriano era finito e che ora iniziava l’edonismo berlusconiano. Dimostrarono che ai sardi, quando ringhiano, basta allisciare il pelo come si fa con un cane inquieto. Lo sfascio attuale era scritto a lettere di fuoco nella cronaca della caduta del garante. Il suo rappresentante locale, il governatore Cappellacci, pallidamente ha tentato manovre di affrancamento, ma quelle stesse forze che l’hanno portato al governo oggi abbandonano la nave che affonda.

Siamo stati ingannati e abbiamo amato farci ingannare, ora che le miniere del Sulcis non le vuole nessuno; che l’Alcoa Ottana, Porto Torres, e tutto quel polo industriale trapiantato nell’economia di quel territorio come un parrucchino, marciscono in una irrisolvibile crisi di rigetto; che i soldi del G8 hanno attraversato il mare senza più tornare; che le zone interne sono in un completo stato di abbandono; ora che neanche il metadone del cemento senza regole sembra più tanto consolante si ragiona ancora sul breve termine: sul mese prossimo, sull’anno prossimo, sul principio che ai sardi arrabbiati basta il tozzo di pane di un ulteriore differimento della fine. E viene da dire che solo chi vuole vedere una realtà che non esiste può tacere che noi sardi stiamo pagando molto care le scelte che abbiamo fatto. E’ il prezzo della democrazia.

* Scrittore sardo, finalista dei premi Strega e Campiello. I suoi libri sono editi da Einaudi

venerdì 14 settembre 2012

Latouche: "Così costruiremo una nuova società dell'abbondanza"


Latouche: "Così costruiremo
una nuova società dell'abbondanza"
Anticipiamo una parte dell'intervento che lo studioso farà al 'FestivalFilosofia' di Modena, Carpi e Sassuolo. Il filosofo francese torna su alcune sue tesi più celebri come quella della decrescita felice: "Siamo - scrive - tutti vittime della bulimia del consumo e della dipendenza da lavoro"
di SERGE LATOUCHE, da Repubblica


VIVIAMO In una società della crescita. Cioè in una società dominata da un'economia che tende a lasciarsi assorbire dalla crescita fine a se stessa, obiettivo primordiale, se non unico, della vita. Proprio per questo la società del consumo è l'esito scontato di un mondo fondato su una tripla assenza di limite: nella produzione e dunque nel prelievo delle risorse rinnovabili e non rinnovabili, nella creazione di bisogni  -  e dunque di prodotti superflui e rifiuti  -  e nell'emissione di scorie e inquinamento (dell'aria, della terra e dell'acqua). Il cuore antropologico della società della crescita diventa allora la dipendenza dei suoi membri dal consumo.

Il fenomeno si spiega da una parte con la logica stessa del sistema e dall'altra con uno strumento privilegiato della colonizzazione dell'immaginario, la pubblicità. E trova una spiegazione psicologica nel gioco del bisogno e del desiderio. Per usare una metafora siamo diventati dei "tossicodipendenti " della crescita. Che ha molte forme, visto che alla bulimia dell'acquisto  -  siamo tutti "turboconsumatori "  -  corrisponde il workaholism, la dipendenza dal lavoro. Un meccanismo che tende a produrre infelicità perché si basa sulla continua creazione di desiderio. Ma il desiderio, a differenza dei bisogni, non conosce sazietà. Poiché si rivolge ad un oggetto perduto ed introvabile, dicono gli psicoanalisti. Senza poter trovare il "significante perduto", si fissa sul potere, la ricchezza, il sesso o l'amore, tutte cose la cui sete non conosce limiti. (...)

Anche per questo ci serve immaginare un nuovo modello. Economico ed esistenziale. Così la ridefinizione della felicità come "abbondanza frugale in una società solidale" corrisponde alla forza di rottura del progetto della decrescita. Essa suppone di uscire dal circolo infernale della creazione illimitata di bisogni e prodotti e della frustrazione crescente che genera, e in modo complementare di temperare l'egoismo risultante da un individualismo di massa.

Uscire dalla società del consumo è dunque una necessità, ma il progetto iconoclasta di costruire una società di "frugale abbondanza" non può che suscitare obiezioni e scontrarsi con delle forme di resistenza, qualunque siano i corsi e i percorsi della decrescita. Innanzitutto, ci si chiederà, l'espressione stessa abbondanza frugale non è forse un ossimoro peggiore di quello giustamente denunciato dello sviluppo sostenibile?

Si può al massimo concepire ed accettare una "prosperità senza crescita", secondo la proposta dell'ex consigliere per l'ambiente del governo laburista, Tim Jackson, ma un'abbondanza nella frugalità è davvero eccessivo! In effetti, fintanto che si rimane chiusi nell'immaginario della crescita, non si può che vedervi un'insopportabile provocazione. Diversamente invece, se usciamo da certe logiche, può risultare evidente che la frugalità è una condizione preliminare rispetto ad ogni forma di abbondanza. L'abbondanza consumista pretende di generare felicità attraverso la soddisfazione dei desideri di tutti, ma quest'ultima dipende da rendite distribuite in modo ineguale e comunque sempre insufficienti per permettere all'immensa maggioranza di coprire le spese di base necessarie, soprattutto una volta che il patrimonio naturale è stato dilapidato.

Andando all'opposto di questa logica, la società della descrescita si propone di fare la felicità dell'umanità attraverso l'autolimitazione per poter raggiungere l'"abbondanza frugale". Come ogni società umana, una società della decrescita dovrà sicuramente organizzare la produzione della sua vita, cioè utilizzare in modo ragionevole le risorse del suo ambiente e consumarle attraverso dei beni materiali e dei servizi. Ma lo farà un po' come quelle "società dell'abbondanza " descritte dall'antropologo Marshall Salhins, che ignorano la logica viziosa della rarità, dei bisogni, del calcolo economico. Questi fondamenti immaginari dell'istituzione dell'economia devono essere rimessi in discussione. Jean Baudrillard lo aveva ben visto a suo tempo quando disse che "una delle contraddizioni della crescita è che produce allo stesso tempo beni e bisogni, ma non li produce allo stesso ritmo". Ne risulta ciò che egli chiama "una depauperizzazione psicologica ", uno stato d'insoddisfazione generalizzata, che definisce, egli afferma, "la società della crescita come il contrario di una società dell'abbondanza". La vera povertà risiede, in effetti, nella perdita dell'autonomia e nella dipendenza. Un proverbio dei nativi americani spiega bene il concetto: "Essere dipendenti significa essere poveri, essere indipendenti significa accettare di non arricchirsi".

Siamo dunque poveri, o più esattamente miseri, noi che siamo prigionieri di tante protesi. La ritrovata frugalità permette precisamente di ricostruire una società dell'abbondanza sulla base di ciò che Ivan Illich chiamava "sussistenza moderna". Ovvero "il modo di vivere in un'economia post-industriale, all'interno della quale le persone sono riuscite a ridurre la loro dipendenza rispetto al mercato, e ci sono arrivate proteggendo -  attraverso strumenti politici - un'infrastruttura nella quale le tecniche e gli strumenti servono, in primo luogo, a creare valori d'uso non quantificati e non quantificabili da parte dei fabbricanti di bisogni professionisti ". La crescita del benessere è dunque la strada maestra della decrescita, poiché essendo felici si è meno soggetti alla propaganda e alla compulsività del desiderio.

Molte di queste opzioni implicano un cambiamento della nostra attitudine anche rispetto alla natura. Mi ricordo ancora la mia prima arancia, trovata nella mia scarpa a Natale, alla fine della guerra. Mi ricordo anche, qualche anno più tardi, dei primi cubetti di ghiaccio che un vicino ricco che aveva un frigorifero ci portava le sere d'estate e che noi mordevamo con delizia come delle leccornie.

Una falsa abbondanza commerciale ha distrutto la nostra capacità di meravigliarci di fronte ai doni della natura (o dell'ingegnosità umana che trasforma questi doni). Ritrovare questa capacità suscettibile di sviluppare un'attitudine di fedeltà e di riconoscenza nei confronti della Terra-madre, o anche una certa nostalgia, è la condizione di riuscita del progetto di costruzione di una società della decrescita serena, come anche la condizione necessaria per evitare il destino funesto di un'obsolescenza programmata dell'umanità.
(traduzione di Tessa Marzotto Caotorta), da Repubblica del 14 Settembre 2012

La lunga notte di una riforma


LEGGE ELETTORALE, IL TEMPO SCADE
La lunga notte di una riforma
La tela di Penelope si cuce di giorno, si disfa nottetempo. Ora è di nuovo notte, e nulla ci assicura che la legge elettorale vedrà mai le luci del mattino. I partiti di maggioranza ne avevano promesso il battesimo entro giugno, poi a luglio, poi a settembre; però anche questo mese sta volando via, come una rondine davanti ai primi freddi. E allora meglio prepararci al peggio, meglio attrezzarci per resistere all'inverno della democrazia italiana.

Perché è questa la stagione che ci attende, se i partiti ci costringeranno a votare per la terza volta col Porcellum . In assenza del popolo, ne prenderà le veci il populismo. Avremo due Camere amputate (nell'autorità, non nei posti a sedere: la riduzione dei parlamentari è l'ennesima promessa tradita dai politici). Questo Parlamento dimezzato ospiterà tuttavia un partito raddoppiato, grazie al superpremio di maggioranza: 55% dei seggi, quando attualmente nessuna forza politica supera il 25% dei consensi. Infine verrà delegittimato anche il prossimo capo dello Stato, eletto da un Parlamento ormai negletto.

C'è modo di sventare la sciagura? Uno soltanto: che sia il governo Monti, per decreto, a scrivere la nuova legge elettorale. Una soluzione disperata, ma di speranze ormai ne abbiamo poche. Sicché non resta che la dottrina del male minore, teorizzata da Spinoza come da Sant'Agostino. È un male scavalcare le assemblee legislative? Certo che sì, anche se alle Camere spetta pur sempre la conversione del decreto: e a quel punto niente più gioco del cerino, chi vi s'oppone ne risponde agli elettori. Ma è un male minore, giacché il male maggiore rimane la crisi democratica in cui siamo avvitati. Ed è un male evitabile: se gruppi di cittadini e di parlamentari sosterranno questa stessa soluzione; se l'esecutivo ne verrà corroborato per metterla poi nero su bianco; se i partiti, vista la malaparata, riusciranno infine a scongiurare la mossa del governo, siglando un testo condiviso. Talvolta una minaccia serve più di tanti bei sermoni.

Resta però una duplice obiezione: di forma e di sostanza. La prima chiama in causa l'ammissibilità dei decreti in materia elettorale, negata dall'art. 15 della legge n. 400 del 1988. Che tuttavia è una legge ordinaria, e dunque non può vincolare le leggi successive, né i decreti con forza di legge; tant'è che in questo campo non si contano i provvedimenti del governo, dalla disciplina delle campagne elettorali alle modalità di selezione delle candidature. Senza dire che ogni decreto legge si giustifica - Costituzione alla mano - in nome dell'emergenza, della necessità. Necessitas non habet legem , dicevano i latini: quando la società corre un pericolo, l'unica legge è la salvezza collettiva.

Già, ma spetta a un governo tecnico la più politica delle decisioni? Come potranno Monti e i suoi ministri scegliere fra maggioritario e proporzionale, fra collegi e preferenze? Difatti non possono, non devono. Possono soltanto estrarre dai cassetti l'unico modello già incartato: il Mattarellum . Anche perché dal 1994 al 2001 lo abbiamo usato per tre volte, senza eccessivi danni; l'anno scorso un referendum che intendeva riesumarlo raccolse un milione e 200 mila firme in pochi giorni; ed è la prima scelta per vari dirigenti di partito (Parisi, Vendola, Di Pietro). Poi, certo, si può fare di meglio. Anche di peggio, tuttavia. E in questo caso il peggio coincide col non fare.
michele.ainis@uniroma3.it

di Michele Ainis, dal Corriere

giovedì 13 settembre 2012

"Non posso vedere il mio partito dilaniarsi in una battaglia fratricida per le primarie, diventa una carneficina così. Quante energie stiamo perdendo?".


La corsa di Laura Puppato, terza candidata alle primarie: "Un'anima bella? Eccomi". E racconta: "Non posso vedere il mio partito dilaniarsi in una battaglia fratricida per le primarie, diventa una carneficina così. Quante energie stiamo perdendo?".

di Concita De Gregorio, da Repubblica, 13 settembre 2012

Eccolo, l'altro candidato alle primarie del Pd. Eccola, anzi. Laura Puppato è una bellissima donna di 55 anni, giovane alla politica. È stata eletta sindaco la prima volta 10 anni fa. Ha sconfitto la Lega in Veneto, due volte. Ha amministrato un comune strappandolo al centrodestra e rendendolo tra i più virtuosi d'Italia, d'Europa.

Il suo primo partito è stato il Pd. Ha preso la tessera quando Grillo si è fatto insistente: la voleva con sé come testimonial ai comizi "ma io avevo da lavorare, e poi non mi è mai piaciuto quel tono, quel disfattismo apocalittico. Qui in questa terra impariamo da piccoli che è più difficile e importante costruire che distruggere". Pd, dunque. Fuori dalle correnti e dalle appartenenze. Sessantamila preferenze a sorpresa alle europee del 2009, non ci credeva nessuno. Le hanno sempre preferito altri candidati: per la segreteria, per la presidenza della Regione. Questa Puppato, mah. Poi, alle regionali, ha fatto il pieno un'altra volta: quasi la metà dei voti sono andati a lei. Talmente tanti che non poteva non diventare capogruppo Pd in Regione.

Sorride. Sorride sempre e dentro il sorriso dice cose di granito. Che bisogna avere il coraggio di fare delle scelte, i partiti esistono per questo: darsi un obiettivo, provare a raggiungerlo, se non ci si riesce ritirarsi. Che bisogna pensare a "riparare il mondo", come diceva il suo amico Alex Langer, e non a farci soldi per sé sfruttandolo ora e pazienza per gli altri. Che non è finita la politica, la vecchia politica: è finito il tempo della cattiva politica. Che non siamo in crisi economica, siamo in crisi di un modello economico dal quale nessuno sembra aver voglia di uscire, perché conviene restarci.

Poi fa esempi concreti e luminosi: una scuola, un sistema di gestione dei rifiuti, un modo per ridurre il consumo di energia che genera lavoro e felicità. Poi dice, davanti a una parmigiana di melanzane - "chè anche questa storia che la magrezza è bellezza è una bufala" - che "non posso vedere il mio partito dilaniarsi in una battaglia fratricida per le primarie, diventa una carneficina così, quante energie stiamo perdendo? Abbiamo tutti la stessa tessera, no? Allora possiamo provare a fare una proposta che si rivolga agli elettori e dica: questi siamo noi. Decidete. Mettiamoci in gioco per il bene comune, per quanto possiamo e sappiamo. Io lo faccio".

Lei lo fa. Laura Puppato si candida. "Ma non contro Bersani o contro Renzi. Per un'idea di futuro possibile. Per i nostri figli. Io ne ho una di trent'anni, sto per diventare nonna. Questa discussione sull'età è davvero curiosa. Quando è che abbiamo cominciato a credere che sia l'anagrafe a decidere se hai buone idee e buoni propositi? A me sembra un trucco per distogliere l'attenzione dalla vera posta in palio".

Qual è la vera posta in palio?
"Un'altra idea di mondo, che altro? Questo è alla fine. Non c'è salute, non c'è lavoro, non ci sono diritti. Impera la corruzione, la convenienza privata, l'interesse. Un partito deve indicare un'altra rotta. Dire qual è il suo obiettivo, nominarlo anche a costo di scontentare qualcuno. Dare contentini a tutti è facile. Bisogna avere coraggio e andare altrove anche quando tutti dicono: impossibile".

Riparare il mondo, diceva. Ha conosciuto Langer?
"Eravamo molto amici. Nel movimento ambientalista insieme. Io vengo da lì e continuo a pensare che l'anima verde sarà la salvezza del paese. Non c'è dubbio che sia così, se poi ha tempo le dico perché. Alex ci ha dato una mano quando andavamo in Jugoslavia a portare camion di viveri, durante la guerra. Abbiamo fatto non so più quanti viaggi al fronte. Mio figlio Francesco, che oggi ha 19 anni, è nato in viaggio. Lo ha battezzato un prete croato. Sono cattolica, si".

Poi è arrivata la politica.
"Mi sono candidata a Montebelluna, ho vinto. Abbiamo iniziato a parlare di salute, cultura, di raccolta differenziata dei rifiuti contro le mafie dei megaimpianti al veleno. Abbiamo mostrato che basta cambiare mentalità per sconfiggere certi interessi. Non è stato mica facile. Risparmio energetico, riciclaggio. Ci sono voluti anni. Abbiamo dato lavoro. Le pratiche virtuose creano lavoro. Se non si mettono in atto è perché ci sono interessi economici contrari. Sa quanti soldi sono a disposizione oggi per cambiare modo di vita?".

No, quanti?
"L'Europa mette 14 miliardi di euro per progetti per le smart cities, 180 per l'incremento dell'efficienza energetica. Il futuro è lì, basta tendere la mano. Parchi, mobilità sostenibile, città digitali. In media nel mondo un edificio ha un bisogno energetico di 160 kilowatt per ora. Noi abbiamo fatto un asilo che ne consuma 20, e senza pannelli solari. Solo costruendo con raziocinio. L'energia che costa di meno è quella che non consumi. Ma non parlo di stare a luce spenta, sa? Parlo di sprechi. Certo che l'Enel questo ragionamento non lo vuole sentire, ma il mondo va lì. Deve andare lì, lo dobbiamo a chi verrà dopo. Centinaia di migliaia di persone trovano lavoro nella costruzione di un mondo pulito. Certo servono anche altre riforme: la giustizia, l'amministrazione".

Cosette...
"Noi agli imprenditori dobbiamo dire. La pubblica amministrazione ti deve dare una risposta in 30 giorni. La giustizia deve emettere un giudizio in 180. Noi, partito politico, vogliamo questo: questo è il nostro obiettivo. Se non ci riusciamo avanti un altro".

Le diranno che è un'anima bella.
"Me l'hanno già detto, in effetti. Si vede che loro si sentono brutte, io preferisco stare nel primo gruppo. Li conosco i cinici. Un giorno D'Alema mi ha detto: io non mi sento più un politico, mi considero un intellettuale. Benissimo, c'è posto per tutti. Gli intellettuali sono indispensabili".

Fra Bersani e Renzi chi avrebbe votato?
"No, guardi. Servono l'energia di Renzi, la competenza di Bersani. Ciascuno faccia quello che sa fare e dica quali sono i suoi obiettivi. Mettiamo insieme le forze, non una contro l'altra.. La gente non è interessata alle battaglie di potere. Viviamo un'epoca drammatica, i giovani non hanno lavoro, i loro padri che lo perdono si uccidono. Quale dev'essere lo scopo di un grande partito di sinistra se non indicare un orizzonte di sviluppo possibile? Allora io dico: zero metri quadri. Facciamo una politica urbanistica senza un metro quadro di costruzione in più. Ristrutturiamo, restauriamo. Abbiamo il paese più bello del mondo, proteggiamolo. Creeremo lavoro, cultura, bellezza, felicità. So di cosa parlo, l'ho fatto. Quando Grillo è venuto a premiarmi come primo sindaco a cinque stelle l'ho ascoltato. Le sue denunce sono giuste, quasi tutte. Quello che è sbagliato è la rabbia, il risentimento, l'ansia di abbattere tutto, il disprezzo della politica. La politica è fatta di persone: bisogna affidare il compito nelle mani giuste, avere fiducia in chi la merita, avere coraggio. I partiti, anche il nostro, soffrono di un eccesso di servilismo: i giovani sono scelti dai vecchi non per i loro meriti ma per la fedeltà. Rompiamo questo meccanismo. Andiamo avanti, invece, lontanissimo: rinnoviamo, sì, dando fiducia al merito e al coraggio".

Con questa legge elettorale...
"Appunto. No ai pateracchi. Facciamo le primarie, per far scegliere i candidati ai cittadini. Se si va a votare con la vecchia legge lasciamo l'80 per cento delle liste agli elettori e il 20 per cento, al massimo, per figure tecniche, storiche...".

E le alleanze?
"Quello delle alleanze non può essere il tema della campagna elettorale. Noi dobbiamo essere noi. Dobbiamo crescere, essere credibili, guadagnare la fiducia degli elettori. Questo è un grande partito. Metta da parte i potentati. Abbia il coraggio di rischiare. Dica quello che vuole, e come lo vuole. Sul lavoro, sui diritti civili, sulla salute e sulla scuola, sullo sviluppo. Gli altri verranno da noi, dopo. Se non ci votano è perché non scegliamo. Diciamo parole chiare. Poi sarà su quello, su quel che diciamo che si decideranno le alleanze. Sono stanca, davvero stanca, di vedere invece che il Pd che è anche casa mia è diventato l'autobus di cui si serve chi vuole fare la sua personale fortuna per scendere alla prima fermata. Tutti vogliono vendere la loro merce. Io vorrei partecipare a un mercato comune, invece. Vorrei dire: ho questo da offrire, e voi? Vorrei sconfiggere le destre, vorrei che tutti ci ricordassimo i pericoli che abbiamo attraversato e che corriamo ancora, vorrei proporre un'idea che sia utile ai nostri figli e miei nipoti, non a me. Se serve un'anima bella - ride ordinando il dolce - ho deciso: io ci sono".


(13 settembre 2012)

Monti, il progretto oscuro ora è chiaro


di DON PAOLO FARINELLA

Quello che sapevamo da tempo, cioè dal giorno in cui Mario Monti ha sostituito l’indecente Silvio Berlusconi che una indecente Italia ha mandato al governo, ora è chiaro. Era necessario che l’Italia risalisse dalla sentina dove l’ignobile corrotto l’aveva scaraventata, ma questa necessità fu anche la scusa per abbattere di colpo e «senza colpo ferire» la Costituzione e tutte le conquiste degli ultimi 60 anni. A ciò si aggiunga la «filosofia della crisi», messa in atto e tenuta in caldo permanente in tutto il mondo dalle forze oscure che non vogliono spartire con alcuno i profitti e i beni che producono benessere. Più la giustizia sociale è esigente e più l’oligarchia che detiene i cordoni della borsa, su scala mondiale, scalpita e sferra colpi micidiali. Il capitalismo selvaggio si basa su una regola semplice: senza poveri non c’è ricchezza per pochi eletti. Per mantenere i privilegi di pochi è necessario estendere la povertà che è il fondamento e la garanzia della ricchezza «riservata» al club degli eletti, cioè speculatori e «mercatisti».

Costoro invocano il «mercato» come la soluzione dell’economia, ma di fatto corrompono il mercato perché comprano condizioni di privilegio, pagano tangenti, corrodono per primi le regole del libero mercato: essi sono sempre «più uguali degli altri». Se sono speculatori sono protetti dai politici, se sono banche ricattano i politici, se sono politici si vendono per mantenere il potere, se sono parlamentari si vendono come prostituti senza dignità. Solo i poveri devono rispettare le regole del mercato, perché essi sono indispensabili al mantenimento del «bene comune». Infatti, Monti non ha messo alcuna tassa ai ricchi, ma ha picchiato duro sul reddito fisso, sul lavoro e sulle pensioni. E’ l’equità del cattolico Monti! Chissà chi lo confessa! La sora Fornero, alla quale non si sa chi ha dato la patente di docente, dice con finta ingenuità che «il lavoro non è un diritto, ma bisogna meritarselo»: alla malora l’art. 1 della Costituzione che dichiara «il lavoro, fondamento della Repubblica». Fondamento, sora ministra, non merito per bontà sua! Codesta figura degradante è il punto più basso in cui è caduta la nazione. Monti l’ha scelta consapevolmente e quindi è colpevole di lesa Costituzione.

Ora c’è la novità «vecchia»: dopo le elezioni, Monti succede a Monti. L’interessato nega, e mi pare logico che neghi, perché se anche lui fosse del coro, s’impiccherebbe da sé. Se tutto è già deciso, qualcuno mi spiega perché si deve andare a votare, con una spesa di circa un miliardo e un altro per finanziare i partiti, colpevoli di questo degrado? In quale società decente, gli autori del fallimento societario sono ricompensati con un premio? Lo vediamo: solo nello Stato Italiano. C’è qualcuno che si dimette? Mai, per l’amor di Dio: il parlamento rende, specialmente in tempi di crisi!

Inoltre, se non disturbo, vorrei sapere con quale legge si va a votare, perché mi pare che i partiti stanno facendo i furbetti: la stanno portando alle lunghe per arrivare all’ultimo giorno utile e fare una legge elettorale non per gli interessi della nazione, ma per la loro utilità «immediata», escluso il Movimento 5 Stelle, che è il nemico giurato di tutti. Una legge elettorale deve essere formulata da una commissione costituente, eletta direttamente e indipendente dai partiti perché essa è il fondamento della governabilità e la traduzione in atto del potere popolare. E’ la legge della democrazia (illusione!).

Prendo nota che il berlusconismo, come ormai predico da un decennio, ha corrotto tutti e tutti vanno dietro a colui che non ha interesse alcuno alla modifica che non sia funzionale al suo interesse. Oggi Casini che, fino a ieri gli fu complice, è il paladino del nuovo e l’ago della bilancia di ogni alleanza presente e futura. Dalle parti del Pd, ormai hanno perso la «sindèresi», cioè la capacità di giudizio: governano con Berlusconi, facendo finta di essere diversi e fornicano con Alfano. Inseguono Casini e abbandonano Di Pietro che è contro Berlusconi. Ora c’è Renzi che pare faccia impazzire mezzo Pd e le donne del Pdl, segno che Renzi è il cavallo di Troia della indecenza berlusconiana per scompisciare Bersani. La prova? L’estensore del programma di Renzi è Giorgio Gori, nato, cresciuto e vissuto a tutto campo in Mediaset e nel giornalismo sotto il patrocinio di Vittorio Feltri. Una garanzia!

Dopo le primarie il Pd si spezzerà in due tronconi certi, forse in tre: Letta, Fioroni & C. andranno con Pisanu, Casini e Fini; Renzi farà il suo partito forse alleato con Montezemolo e quello che resterà del Pdl; Bersani con i rimasugli si consolerà chiedendo l’elemosina alle porte delle chiese.

Non credevo di dovere morire fascista (Fini) e mafioso (Casini); non credevo di dovere vedere un rigurgito della natura come Renzi applaudito dalla base operaia (?) del Pd, non credevo di dovere assistere, dopo una vita di lotta intemerata in sua difesa, all’abrogazione materiale e formale della Costituzione Italiana; non credevo di potere vedere il presidente della Repubblica difendere i «trattativisti» con la mafia, schierandosi contro la magistratura, esattamente come Berlusconi. Non credevo, eppure devo credere. Credo, ma non mi avranno e non avranno nemmeno il mio cadavere perché non sarò complice di questo macello istituzionale e morale.

di Don Paolo Farinella, da Micromega

(13 settembre 2012)

L' Anas non onora gli impegni contrattuali.Cantiere S.S. 106 , tratto Nova Siri, a rischio chiusura.


Ieri vertice tra lavoratori e sindacati. L’Anas non onora i suoi impegni. Sindacati e lavoratori chiedono al Prefetto di garantire il futuro delle attività

di PIERANTONIO LUTRELLI


NOVA SIRI – Ieri mattina si è tenuta nel cantiere di Nova Siri, un’assemblea con circa 22 lavoratori dell’Ati “Oberosler – So.ve.co.” impegnati sul cantiere di ammodernamento ed ampliamento dell’ultimo tratto lucano non ancora in sicurezza della strada statale “106” Jonica. Erano presenti i sindacalisti di categoria del settore edile, Franco Pantone, segretario regionale della Filca Cisl, Michele Andrulli, segretario provinciale della Fillea Cgil e Gianfranco De Palo della Feneal Uil. L’assemblea è stata convocata per illustrare ai lavoratori la situazione in cui versa il cantiere e l’impresa appaltatrice. “L’impresa Oberosler – ha spiegato Pantone al Quotidiano - per il cantiere ha prodotto cinque sal (stati avanzamento lavoro) per un importo complessivo che si aggira intorno ai sette milioni di euro. Questa situazione è stata determinata da una situazione ormai palese dell’Anas che non riesce a far fronte neanche agli impegni assunti dal punto di vista contrattuale. Questa è la cosa che più ci preoccupa. Perché qualora l’Anas non dovesse riuscire a mantenere gli impegni, il rischio è quello di veder svanire un’opera strategica per la Basilicata, la Calabria e la Puglia. Ad oggi Oberosler – ha aggiunto - pur avendo la volontà di portare a termine i lavori, ha dovuto rallentare in maniera eccessiva, perché la fornitura del cemento (Sinnica beton srl) e del ferro è venuta meno, così come l’apporto delle imprese subappaltatrici (Cave Sinni srl), queste imprese fino ad oggi hanno fatto da “banca” all’Anas e oggi rischiano il tracollo data l’esposizione senza certezza di rientro. Questa situazione è figlia della crisi generale che sta investendo il Paese, ma mai era successo con l’Anas la cui proprietà è ministeriale. Se tanto mi dà tanto, anche il cantiere della Bradanica non parte per le stesse motivazioni. Pertanto – ha concluso - abbiamo chiesto immediatamente un incontro presso la Prefettura di Matera chiamando a raccolta le imprese impegnate a vario titolo sull’opera nonché l’Anas, per cercare di capire se vi sono le condizioni per una ripartenza o meno del cantiere”. Preoccupato anche Andriulli della Fillea-Cgil. “In questo momento – ha detto - gli interessi dei lavoratori coincidono con quelli delle aziende e del territorio. Ci fa piacere che adesso tutti insieme ci stiamo adoperando affinchè si possa sbloccare la situazione. La crisi di liquidità dell’Anas deriva certamente da un mancato trasferimento del governo nazionale. Ed è del tutto ovvio che in una situazione difficile come questa se anche il governo non è più credibile e non rispetta gli impegni, tutto rischia di andare in malora. Non vogliamo rischiare che i lavori si blocchino, perché, come la Bradanica insegna, a chiudere un cantiere non ci vuole assolutamente niente. Riaprirlo invece costa molta fatica. Circa cinquanta lavoratori dell’indotto sono già stati licenziati. Non vorremmo – ha concluso Andriulli - che nei prossimi giorni possa toccare la stessa sorte anche agli ultimi ventidue lavoratori ancora attivi”.

(Da Il Quotidiano della Basilicata)

Il business del numero chiuso.


Test di ammissione non superati? Non c’è problema. A medicina si entra comunque. L’importante è aver conseguito almeno un anno di università all’estero. Così i furbetti del numero chiuso aggirano l’ostacolo con l’aiuto – lecito – di istituti privati per la formazione. Studiano in Bulgaria o in Romania per un anno, e poi entrano direttamente al secondo anno di qualche facoltà italiana. Dietro a tutto questo non c’è l’idea di qualche buontempone, ma vere e proprie organizzazioni che si stanno arricchendo grazie a norme sempre troppo facilmente aggirabili.

Promesse e volantini. Nei giorni scorsi, all’uscita dalle prove d’accesso di varie facoltà di medicina (equamente distribuite sul territorio nazionale), c’erano ragazzi pronti a distribuire volantini. “Test non passato, realizza comunque il tuo sogno, noi possiamo aiutarti”. E loro, come rivela l’agenzia stampa Dire, ti possono aiutare davvero. Basta pagare.

Il business del numero chiuso. Il trucco sta qui: molte università private straniere spesso non hanno un numero chiuso. Talvolta c’è un colloquio, ma assicurano si tratta di pura formalità. Alcuni noti istituti italiani si occupano dell’intermediazione. A fronte di una tassa di quasi 20mila euro, preparano lo studente ad affrontare l’anno all’estero, per esempio in Bulgaria. A questo, si aggiunge la tassa universitaria di quasi 9mila euro. finito l’anno si può decidere di tornare in Italia (molti scelgono questa formula) oppure si può proseguire fino alla fine degli studi pagando ogni anno la tassa e, facoltativamente l’assistenza dell’istituto italiano che ha fatto da mediatore il primo anno. Insomma, un business che nei casi più clamorosi può valere 120mila euro per l’intero periodo di studi. D’altronde perché rinunciare al proprio sogno?

Le mete più gettonate. Le mete più gettonate sono la Spagna, la Romania, l’Ucraina e appunto la Bulgaria. Qui il business investe anche le università locali che “blindano” di fatto i posti riservati agli studenti stranieri, affidandosi completamente ad istituti intermediari che spesso si occupano anche di reperire il vitto e di organizzare corsi di lingua sul posto.

Ritorno assicurato. Chi decide di rientrare dopo un anno non deve far altro che chiedere l’iscrizione al secondo anno nella facoltà italiana. Poiché il riconoscimento degli esami è praticamente matematico, non ci sono problemi al rientro. Solo in alcuni casi – come a Bari – ci sono test ammissione simili a quelli per il primo anno. Ma non sono realmente selettivi. Si tratta, infatti, di raggiungere il punteggio minimo richiesto, d’altronde “servono standard comuni nell’Unione”, come spiega il rettore dell’Università di Bari, Corrado Petrocelli. Ma ovviamente questo non basta. Oggi siamo in Europa.

Scritto da Paolo Ribichini il 12 settembre 2012 in Società

Vivere sotto ricatto


di Mario Pianta, da il manifesto, 12 settembre

Il Pil italiano nel secondo trimestre è caduto del 2,6%, i consumi durevoli e gli investimenti del 10%. La recessione affonda l'economia ma anche i conti pubblici: ci saranno circa 15 miliardi di euro di minori entrate fiscali, forse altrettanti di maggiori interessi - dovuti allo spread - sui quasi 2000 miliardi di debito pubblico, alcuni miliardi di maggiori spese per l'emergenza sociale. In tutto 40 miliardi di euro che spending review e tenue lotta all'evasione non possono compensare. Per quest'anno il rapporto deficit/Pil resta al 2,2%, ma - per gli impegni del Fiscal compact - dovrà scendere a zero nel 2013: un'altra trentina di miliardi di tagli.

A ottobre, preparando il bilancio 2013, Mario Monti potrebbe non resistere alla tentazione di chiedere l'aiuto europeo dello scudo anti-spread e del Fondo salva-stati (se oggi la Corte costituzionale tedesca non si metterà di traverso). La promessa è portare i tassi d'interesse vicini a quelli tedeschi, e prossimi allo zero in termini reali (l'inflazione italiana è al 3,3%). Una boccata d'ossigeno per pareggiare il bilancio. Ma c'è un prezzo: il Memorandum che il governo dovrà firmare con Bce e poteri europei per rendere permanenti austerità e privatizzazioni. Gli aiuti potranno durare quasi tutta la prossima legislatura. E possono essere interrotti non appena il governo non rispettasse più gli impegni. Un governo di centrosinistra che volesse cambiare politica sarebbe lasciato scoperto dalla Bce, con un crollo della «fiducia dei mercati» e decine di miliardi di euro di spese in più per interessi. Un bel ricatto sulle forze politiche e sull'elettorato.

È questa la forza del progetto di dare continuità alla politica di Monti. Il «soggetto politico» che dovrà ricevere l'investitura elettorale è in frenetica costruzione: ogni giorno nuove «discese in campo», dopo Corrado Passera e la lista Montezemolo-Giannino, ora abbiamo Emma Marcegaglia con l'Udc e la lista di Giulio Tremonti, uno Zelig per tutte le stagioni. Un blocco litigioso al suo interno ma diretta espressione di banche e Confindustria, capace di ereditare notabili berlusconiani e moderati del Pd.

La depressione generata dall'austerità liberista provoca - per le regole che si è data l'Europa «tedesca» - la scelta obbligata di continuare con l'austerità liberista, sotto la minaccia della finanza. È la nuova identità del centro-destra, un colpo durissimo alla democrazia. Ci sono margini per sfuggirne? In Spagna è lo stesso governo conservatore di Mariano Rajoy a dubitare: l'aiuto della Bce potrebbe non avere gli effetti positivi attesi e viene con un prezzo politico troppo alto. In Olanda il voto di oggi registrerà uno spostamento a sinistra, il nuovo governo potrà essere un'alleanza di centrosinistra o una «grande coalizione» socialdemocratici-liberali. In Francia François Hollande affronta l'austerità ma colpisce i ricchi. Le vie del liberismo sembrano esaurirsi dappertutto; in Italia c'è chi vuole farne una strada obbligata.

(12 settembre 2012)

I TEDESCHI NON SONO MICA SCEMI COME NOI


I TEDESCHI NON SONO MICA SCEMI COME NOI


DI CLAUDIO MESSORA - byoblu.com
"Con limitazioni" è un eufemismo per nascondere il fatto che la parte più pericolosa del Mes è stata viceversa inattivata, rimessa al volere del popolo. La limitazione in questione, infatti, è cosa non da poco. Nel trattato originale, di cui vi parlo sin dal 23 novembre 2011, è previsto che i singoli stati membri (gli aderenti al Trattato) versino secondo una certa percentuale di contribuzione. Nel nostro caso si tratta del 17,9%, mentre la Germania ha il 27,1464%: su 700 miliardi di capitale iniziale, le quote si traducono in 125 miliardi per noi e 190 miliardi per i tedeschi.

Noi, per inciso, abbiamo già deciso di pagare: cinque miliardi all'anno di anticipo per i prossimi tre anni.
Ma il MES faceva ben di peggio: attribuiva ai 17 super-governatori un libretto virtualmente infinito di assegni tutti completamente in bianco che, a insindacabile giudizio della costituenda organizzazione Mes, avrebbero potuto essere riempiti con qualunque cifra, da pagarsi secondo condizioni di volta in volta stabilite e inappellabili, da qui all'eternità, senza possibilità di recesso (salvo ovviamente il recesso da tutta l'Unione Europea).

Bene, la Corte Costituzionale di Karlsruhe ha strabuzzato gli occhi e sentenziato che quella possibilità non era "costituzionale". Ovvero: bene per la quota parte tedesca di 190 miliardi, ma solo quella: mai e poi mai la Germania deve ratificare un trattato che concede carta bianca a una organizzazione finanziaria costituenda per prelevare capitali spropositati a piacere. Se il Mes deciderà per nuove ricapitalizzazioni, quella decisione dovrà obbligatoriamente passare per il Parlamento e, dunque, per la volontà popolare. Vi sembra poco?

In Germania, la grande Germania del rigore e dell'austerità, la ratifica del Mes ha sollevato un dibattito pubblico consistente che è arrivato fino alla Corte Costituzionale e che ha prodotto questo ridimensionamento nella volontà di potenza degli ideatori del trattato. Da noi? Non solo l'opinione pubblica non è stata informata dai media mainstream, non solo nessuno ha sentito l'esigenza di chiedersi se fosse compatibile con la nostra Costituzione la cessione programmata di parti della sovranità (residua), ma il nostro Parlamento ha addirittura approvato la ratifica del Mes, nel silenzio generale, senza colpo ferire, senza porre condizioni o sentire l'esigenza di porre un vincolo, un freno a un contratto di impoverimento collettivo senza possibilità di remissione per le generazioni a venire.

Abbiamo firmato senza neppure leggere. Liberamente servi.


Claudio Messora
Fonte: www.byoblu.com

mercoledì 12 settembre 2012

la data di ultimazione dei lavori è fissata al 1° giugno 2013.


NOVA SIRI - Ss 106, sindacati all'attacco



A repentaglio lavori e aziende per il ritardo nei pagamenti dell'Anas. Il cantiere per la variante impiega sessanta unità a rischio licenziamento


di PIERANTONIO LUTRELLI


NOVA SIRI - Si terrà questa mattina alle ore presso il cantiere per la realizza- zione della strada statale 106 Jonica - variante di Nova Siri, una conferenza stampa indetta dai sindacati di categoria del settore edile di Cgil, Cisl e Uil, Fillea Cgil, Filca Cisl e Feneal Uil, per discutere della difficile situazione che si sta iniziando a verificare nel cantiere derivante dai ri- tardi dei pagamenti da parte dell'Anas, all'azienda aggiudicataria dell'opera (Ati Oberosler spa - Soveco Spa).
I sindacati sono molto preoccupati perché i notevoli ritardi rischiano di compromettere definitivamente il futuro di circa sessanta unità lavorative impegnate nell'opera infrastrutturale. L'impresa "Cavesinni srl" di Rotondella che si occupa di movimento terra, nei giorni scorsi ha licenziato 24 lavoratori, mentre la "Sinnica beton srl" di Policoro lo scorso 13 agosto, a causa delle fatture non pagate ha licenziato 22 lavoratori. L’Anas deve sette milioni di euro alla Oberosler - Soveco, la quale Ati si è vista costretta a non poter far fronte alle ditte. Il rischio è che così facendo l'opera potrebbe subire un notevole ritardo nella realizzazione con una preoccupante ricaduta sociale. Oltre al mondo sindacale sulla vicenda è intervenuto anche quello politico.
I consiglieri comunali del Partito democratico al Comune di Nova Siri, Luigi Natalino Maradei, Massimiliano Varasano, Carmela Viccari, Giovanni Dimatteo ed il capogruppo, Pasquale Favale, a seguito dell'avvenuta sospensione dei lavori che riguardano l'ammodernamento e l'ampliamento sulla Strada statale 106 Jonica nel tratto che interessa il Comparto
di Nova Siri, si sono immediatamente mobilitati a mezzo dei propri parla- mentari lucani dai quali - si legge in una nota - hanno avuto immediato riscontro ed attenzione.
«Non può trascurarsi che dopo un primo, timido, intervento del sindaco di Nova Siri - afferma il capo- gruppo consiliare, Pasquale Favale - con un incontro tenuto presso la Prefettura di Matera erano state abbandonate tutte le forme di impegno per incidere sulla società al fine di determinare maggiore occupazione locale di manodopera e che a seguito di costante e determinato impegno dei consiglieri comunali del Pd e dopo incontro presso la Biblioteca Comunale di Nova Siri, si è continuato a sperare per assunzioni nuove di manodopera locale. Ora con la inaspetta- ta sospensione dei lavori tutto questo potrebbe aggravarsi irreparabilmente
da un giorno all'altro. Bisogna intervenire subito - conclude Favale - e con azioni mirate, perché, vista l'importanza della questione non si può più attendere».
Interpellato telefonicamente da Il Quotidiano, il capo compartimentale del- l'Anas Basilicata, ingegner Vincenzo Marzi ha detto di essere «impossibilitato a rispondere» poichè avrebbe dovuto interpellare l'ufficio comunicazione della società.
Il contratto ammonta ad un importo totale di 69.177.443 di euro ed i lavoro sono stati consegnati il 13 settembre 2011 e che per effetto dei 650 giorni contrattuali la loro ultimazione è fissata al 1 giugno 2013. A questo punto ogni certezza viene meno. Non resta che sperare che la politica riesca a "recuperare" i fondi necessari per far fronte agli impegni.


(Da Il Quotidiano della Basilicata)

Un partito allo specchio



Il Pdl rischia di diventare un caso unico nella storia. Ancora oggi è il partito che alle Camere ha più seggi, avendo conseguito quattro anni fa (sia pure insieme a Gianfranco Fini e ai suoi fidi) una clamorosa vittoria elettorale. Ha espresso per vent'anni decine di ministri e sottosegretari. Governa varie Regioni e migliaia di Comuni, nonché una miriade di enti pubblici, e infine il suo capo è da sempre quasi il simbolo della svolta politica rappresentata dalla cosiddetta seconda Repubblica.

Ma proprio questo partito - e proprio in un momento critico per il Paese - è di fatto sparito dalla scena. Essendosi il suo capo ritiratosi da mesi sotto la tenda, anche il Pdl si è dileguato. Sicché sulla nostra scena politica non c'è più la destra, quasi a conferma di una patologica anomalia della vicenda politica italiana nell'età della Repubblica. Del Pdl si stanno perdendo le tracce. Sia sul passato che sul futuro ogni dibattito al suo interno è inesistente. A quale motivo, per esempio, esso attribuisce la fine così ingloriosa della sua esperienza di governo? E che cosa pensa e propone circa il cruciale rapporto dell'Italia con l'Europa? Quale giudizio dà a proposito di un'eventuale prosecuzione post elettorale della linea di rigore incarnata dal governo Monti? E considera più probabile e/o più auspicabile un'intesa (di governo ma non solo) con Casini o con la Lega? Nessuno lo sa.

Intendiamoci. Su questi temi anche il Pd evita di pronunciarsi in via definitiva, stretto com'è tra due opposte necessità: da un lato quella di non sconfessare il rigore del governo che appoggia, e dall'altro il timore che candidarsi a proseguirne l'azione gli faccia perdere voti. Ma almeno a sinistra si discute, ci si divide, si agitano le questioni vitali del futuro, sicché alla fine gli elettori sono più o meno in grado di farsi un'idea, di capire chi, in quel campo, vuole che cosa. Nel Pdl invece niente. Qui tutti appaiono come dei burattini inanimati in attesa che arrivi il Grande Burattinaio a muovere i fili.

Eppure nel Pdl non mancano politici di lungo corso i quali di sicuro hanno opinioni, idee, e magari anche la voglia di provare a metterle in pratica. Politici che verosimilmente pensano che con Berlusconi non si va più da nessuna parte perché con lui non solo vincere le elezioni è ormai impossibile, ma è anche quasi impossibile stabilire un'intesa con chiunque altro. Cioè che con lui è ormai impossibile fare politica, e che dunque per il Pdl è giunto il momento di battere altre strade. Forse simili pensieri li agita dentro di sé anche il mite Alfano, chissà! Ma nessuno parla.

Questa incredibile paralisi che ha colto gli uomini e le donne del Pdl si spiega solo con la paura. Oggi per il Pdl, e nel Pdl, infatti, fare politica davvero non può che significare innanzi tutto prescindere da Berlusconi, andare oltre Berlusconi. Ma proprio qui sta il problema: dal momento che con lui alla testa il Pdl può sempre sperare domani in un 18-20 per cento di voti, il che vuol dire la certezza per tutto il suo stato maggiore allargato di essere rieletto. Invece senza Berlusconi (e le sue risorse di ogni tipo) perfino il 10 per cento è problematico: e dunque per tanti la non rielezione è assicurata. E poi è facile a dirsi «andare oltre Berlusconi»: ma se poi quello decide di ricominciare come se nulla fosse, quale fine possono immaginare di fare i «superatori»? Nei partiti di plastica, si sa, la prudenza non è mai troppa: tra un seggio parlamentare e il cestino della carta straccia non c'è che un passo (falso).

di Ernesto Galli della Loggia, dal Corriere
12 settembre 2012 |

Venezia :"Penso che con questo atto il Partito Regione abbia toccato il fondo della decenza e dell'arroganza”


Nominato il nuovo direttore del San Carlo di Potenza ( fino a pochi mesi fa , segretario cittadino del PD di Lauria).

11/09/2012 18:11Il consigliere regionale del Pdl: “Penso che con questo atto il Partito Regione abbia toccato il fondo della decenza e dell'arroganza”

ACR“Nella peggiore tradizione della peggiore Democrazia Cristiana, il presidente De Filippo ha provveduto a nominare, in data odierna, il nuovo Direttore Sanitario dell'Azienda Sanitaria San Carlo di Potenza, una azienda importante e fondamentale nell'ambito della sanità lucana”. Ad affermarlo il consigliere regionale del Pdl, Mario Venezia che si domanda: “Chi è il nominato? Un Premio Nobel, un illustre scienziato, un personaggio alla Des Dorides, l'ex Direttore Generale della stessa Asl la cui nomina fu annunciata, sempre dal nostro bravo De Filippo, come quella del Salvatore della Patria?
No! Il nuovo Direttore Sanitario è molto di più, infatti è l'ex segretario, fino ma pochi mesi fa, del Partito Democratico di Lauria. Ed in Basilicata basta la tessera o per incarichi più importanti, il ruolo di segretario di un qualcosa ma sempre del Pd, per ottenere un riconoscimento di grande rilievo e responsabilità come quello di Direttore di un'azienda sanitaria”.

“Non entro nel merito delle competenze del dott. Mandarino – aggiunge Venezia - perché non lo conosco e, nonostante vari tentativi di ricerca sul web compreso il sito dell'ospedale di Maratea, non sono riuscito a leggere un suo curriculum ma di certo è che, il neo direttore, è uomo di Folino che, secondo radio regione, insieme ad un suo altro fido, dott. Maroscia già direttore generale dell'azienda sanitaria di Matera ed attualmente Direttore del Dipartimento di Radiologia del San Carlo, avrebbe preteso la nomina. Nel rispetto della tradizione della peggiore Democrazia cristiana, quindi ha ragione Folino quando dice che ‘Pd uguale peggiore Democrazia Cristiana”.

“Penso che con questo atto – conclude l’esponente del Pdl - il Partito Regione abbia toccato il fondo della decenza e dell'arroganza. Oramai il delirio dell'onnipotenza ha raggiunto un tale livello di patologia che questi signori pensano che l'amministrare non sia della cosa pubblica ma di cosa nostra”.
Fonte : Basilicatanet



martedì 11 settembre 2012

VOLETE APRIRE UN'IMPRESA IN ITALIA? SIETE FOTTUTI IN PARTENZA



 In un contesto come quello attuale, dove si sta assistendo allo sterminio di migliaia di imprese, appare del tutto irrealistico poter pensare che le imprese cessate e/o delocalizzate, possano essere rimpiazzate da nuove iniziative imprenditoriali, stando all’ostilità del fisco e all'irragionevolezza della pretesa tributaria.






VOLETE APRIRE UN'IMPRESA IN ITALIA? SIETE FOTTUTI IN PARTENZA

di Paolo Cardenà, dal sito di Informazione Libera

Secondo un rapporto diffuso qualche mese fa dalla Banca Mondiale, emergerebbe che nel nostro Paese è davvero difficile avviare una nuova iniziativa imprenditoriale e l'Italia, in questo ambito, si posizionerebbe addirittura dopo lo Zambia.

Sempre secondo quanto ci dice la Banca Mondiale, le difficoltà che si riscontrano nella creazione di un’impresa sarebbero attribuibili a taluni adempimenti amministrativi che, normativamente, chi avvia un’impresa deve assolvere, ed anche ai costi "amministrativi" per avviare la fase di start up.
Pur condividendo, in toto, quanto affermato dall'istituzione finanziaria, se è vero che in Italia è molto difficoltoso avviare un’impresa, altrettanto vero è che, in taluni casi, è molto difficile mantenerla e farla vivere.
Sebbene l'iniziativa imprenditoriale, almeno sulla carta, non sia negata a nessuno e pur esistendo non pochi cavilli burocratici da assolvere sia all'atto della costituzione, sia durante la vita dell'impresa, talvolta risulta impossibile esercitare un'attività per una serie di fattori che costituiscono la vera e propria discriminante dell'essere imprenditori.


In questo articolo mi limiterò a parlare di alcune problematiche fiscali che, secondo la mia opinione, costituiscono un vero disincentivo nel fare impresa, proponendomi di approfondire in seguito, con ulteriori articoli, altre tematiche comunque rilevanti ai fini del nostro ragionamento.
Al di là del più noto e certamente più discusso tema del livello del prelievo fiscale, che è sicuramente ai massimi livelli, e certamente strangolante per le imprese italiane rispetto ai concorrenti esteri, in questo articolo, mi vorrei soffermare su alcune circostanze ben poco note all'opinione pubblica e neanche troppo cavalcate dai media. In primo luogo va osservato che in Italia vige un sistema di imposizione fiscale e di pagamento di tributi, che rappresenta un vero e proprio disincentivo per chi vorrebbe avviare un'iniziativa imprenditoriale o semplicemente una attività economica. Ciò, poiché, come noto, nel corso di un determinato periodo temporale, peraltro abbastanza ristretto ed individuato dal fisco a ridosso dei mesi estivi, fino ad arrivare ai primi mesi autunnali, ogni imprenditore è tenuto a versare all'erario quanto dovuto in termini di tasse (Irpef, Ires, Irap, contributi Inps) sia a titolo di saldo relativo all'anno passato, sia a titolo di acconto per l'anno in corso. Ebbene, tale pratica, secondo la mia opinione, rende l'inizio dell'attività imprenditoriale particolarmente difficoltosa e ne costituisce un vero e proprio disincentivo per l'impatto che ha il prelievo fiscale, soprattutto nei primi anni di attività. Un esempio potrà aiutarci a ben comprendere di cosa stiamo parlando.
Ipotizziamo che un imprenditore,attraverso la sua ditta individuale, abbia avviato la sua attività all'uno gennaio del 2011 e alla fine dell'anno, il suo bilancio, presenti un utile di 50.000,0 euro, al lordo di imposte.
Ebbene, il nostro imprenditore, nel periodo che intercorre tra giugno e novembre del 2012, stando alle regole fiscali del TUIR, dovrà versare all'erario quasi tutto l'utile realizzato nel 2011. Ciò, in quanto, stando al dettato normativo, egli dovrà versare, entro il 30 novembre, sia il saldo per l'anno 2011 (circa 25000 tra imposte e contributi), sia l'acconto per l'anno 2012 che, con le dovute distinzioni e peculiarità per ogni tipo di imposta e contribuzione, è di circa il 100% dell'imposta dovuta a titolo di saldo dell'anno precedente, e quindi ulteriori 25000 euro a titolo di acconto per il 2012 salvo differirli in avanti ma pagando le relative sanzioni. Stando così le cose, comprenderete agevolmente quanto sia disincentivante, per un aspirante imprenditore, avviare un'attività sapendo, già in origine, che i guadagni realizzati nel primo anno dovranno essere versati totalmente al fisco, già nel mezzo del secondo anno di impresa. Senza considerare poi che, nel secondo anno, le cose potrebbero andare in maniera diversa essere e magari peggiori rispetto al primo esercizio, compromettendo l'esistenza dell'impresa che si troverà comunque a fare i conti con le (non) ragioni del fisco. In tal senso, l'impatto impositivo che si manifesta già nel secondo anno di attività, oltre costituire un vero pericolo per l'esistenza dell'impresa, sottrae cospicue risorse dalla gestione dell'attività, compromettendone anche la possibilità di favorire processi di investimento, basilari soprattutto nei primi anni di vita dell'impresa.
Un ulteriore aspetto disincentivante legato alle tematiche fiscali, che in genere colpisce ogni imprenditore, è costituito dall'aleatorietà di ciò che è dovuto al fisco durante la vita di impresa. Invero, tutti governi fin qui succeduti, ci hanno abituato all'impossibilità di prevedere una corretta pianificazione fiscale nell'impresa che, a parer mio, resta ugualmente importante ed imprescindibile per fare una buona attività di impresa. La mancanza di una normativa chiara, univoca e organica a livello fiscale, unita alla necessità delle finanze pubbliche di poter contare sempre su un maggior gettito fiscale e la ricerca sempre spasmodica di nuove risorse, hanno stimolato la miopia dei governanti che hanno quasi sempre adottato soluzioni dettate dallo stato di bisogno, e comunque non conformi a logiche di certezza normativa e stabilità (nel tempo) della disciplina fiscale, venendo meno, talvolta, a patti con i contribuenti. Insomma, si ha come la sensazione (che poi tanto sensazione non è) che si sia andati avanti arraffando un po' qua e un po' la, dove si è potuto, senza guardare troppo al futuro e senza occuparsi di quali sarebbero stati gli effetti prodotti da tali pratiche. Questo modus operandi, oltre a favorire l'infedeltà fiscale del contribuente, ha reso ancor più complesso orientare i consulenti fiscali e tributaristi nell'interpretazione di norme fiscali in perpetuo mutamento e, talvolta, contraddittorie rispetto all'intero apparato normativo.
Non è un caso, infatti, che dinanzi le commissioni tributarie pendano ormai centinai di migliaia di contenziosi che, stando ai dati forniti della stessa agenzia, il più delle volte, vedono soccombere l'amministrazione finanziaria con un notevole aggravio di costi per lo stato. Senza considerare poi i costi sostenuti dagli imprenditori che, oltre ad anticipare o sostenere - talvolta- le spese di giudizio, patiscono anche un notevole aggravio di tempo nella soluzione della controversia. Tempo prezioso sottratto alla propria attività e allo sviluppo della propria impresa. La mancanza di una visione di luogo periodo nella legiferazione su tematiche fiscali, unita ai livelli di imposizione fiscale ai limiti della sostenibilità e della schizofrenia, ha contribuito, non poco, a favorire fenomeni evasivi ed elusivi. Tanto è vero che, come noto, l'infedeltà fiscale italiana è un primato (in negativo, si intende) in tutto il contesto europeo.
La costruzione di un impianto normativo privo di logiche aderenti a principi di certezza normativa, e universalità di interpretazione della norma, che si sostanzia, di fatto, nella coesistenza di una moltitudine di norme non organiche, talvolta contraddittorie, che lasciano spazio a diversi profili di interpretazione che talvolta sono alla base di contestazioni e giudizi nelle varie corti tributarie, non costituiscono un incentivo a fare impresa. Al contrario, rappresentano un ostacolo alla corretta e normale gestione imprenditoriale, alla pianificazione fiscale, e favorisce fenomeni evasivi e tanto più elusivi. E’ evidente che un'architettura normativa uniforme ed organica, contribuirebbe anche ad una minore spesa in capo agli enti proposti ad accertare e contrastare fenomeni di evasione fiscale. Ad aggravare la situazione appena descritta c'è da dire che il quadro normativo con cui il fisco procede con l'attività di accertamento, non sembra, almeno per il momento, essere rispettoso ed equo nei confronti del contribuente, posto il fatto che, ad esempio, gli studi di settore, determinano i ricavi di ciascuna impresa in modo statistico e talvolta indiscriminato, senza possibilità di considerare le peculiarità tipiche di ciascuna impresa, se non davanti alle corti tributarie; posto che, talune osservazioni, minimamente non vengono accolte durante la fase del contraddittorio. Inoltre, sempre in tema di studi di settore, la valenza probatoria di questo strumento di accertamento è stata più volte smentita anche da una pluralità di sentenze che hanno disorientato l'amministrazione stessa che più volte è intervenuta a riposizionare il modus operandi durante le fasi di accertamento dei propri ispettori.
Il quadro appena descritto, pur sintetizzando in maniera semplice alcune criticità del fisco, ci rappresenta, almeno in parte, un ambiente fortemente disincentivante per la creazione di impresa e sopratutto per la sua sopravvivenza. In un contesto come quello attuale, dove si sta assistendo allo sterminio di migliaia di imprese, appare del tutto irrealistico poter pensare che le imprese cessate e/o delocalizzate, possano essere rimpiazzate da nuove iniziative imprenditoriali, stando all’ostilità del fisco e all'irragionevolezza della pretesa tributaria.

IL GROVIGLIO ELETTORALE


IL VOTO NEI SISTEMI PARLAMENTARI
IL GROVIGLIO ELETTORALE

Un Paese democratico funziona anche perché si è data una buona legge elettorale, una legge che a sua volta produce un sistema politico che funziona.
Noi siamo decollati, nel 1948, da un normale sistema proporzionale che era esposto a due rischi: approdare a un eccesso di frammentazione (troppi partiti), e anche a troppe crisi di governo (troppi governi troppo brevi: «governicchi», secondo Panebianco). Ma la presenza del Partito comunista moderò questi difetti. Il voto si concentrò sulla Dc, e i cosiddetti governicchi duravano sì poco, ma per trent'anni furono sempre nelle mani delle stesse persone, come prestabilito dal ben noto «manuale Cencelli», che curava la rotazione delle cariche interne della Dc.
I nostri problemi cominciano, paradossalmente, con la fine del comunismo. A quel momento per bloccare la frammentazione sarebbe probabilmente bastata una «soglia di esclusione» del 5%, come insegnava l'esperienza tedesca, che in Germania ha anche prodotto la longevità dei governi. Invece abbiamo inventato il Mattarellum, un sistema per tre quarti maggioritario e per un quarto proporzionale. Io mi opposi (si capisce, inutilmente) sin dal primo giorno osservando che il sistema maggioritario avrebbe attribuito, in Italia, un fortissimo potere di ricatto ai partitini, e che quindi avrebbe prodotto una dannosa frammentazione del sistema partitico. Difatti è stato così. Ed era facile, volendo, rimediare. Ma stavano emergendo due nuove «stelle», due imprevisti, che dovevano, per emergere, sparigliare le carte: Berlusconi e Prodi.
La differenza tra i due è che quando Berlusconi si fece avanti nel 1993 aveva già alle spalle una sua televisione a diffusione nazionale (anche con personale dal quale reclutare), mentre Prodi aveva alle spalle un brillante curricolo, a partire dalla presidenza dell'Iri e poi la presidenza della Commissione europea a Bruxelles, ma nessun partito. E così inventò (o lui, o Parisi, o insieme) una strana «primaria» che non era certo il meccanismo inventato dagli americani ma piuttosto uno strumento plebiscitario che stabilì con 4 milioni e passa di votanti che il leader della sinistra era lui. Bravissimo. Ma bravissimo per sé. Come è rivelato dalla intervista di Prodi al Corriere del 3 settembre scorso che merita citare: «A che servirebbe - si chiede - chiamare il popolo di centrosinistra a scegliere il candidato premier se poi la formula di governo, come avviene con la proporzionale, viene delegata alla trattativa tra le forze politiche e solo dopo le elezioni?».
Ma qui si svela che Prodi di costituzionalismo sa poco o anche punto. Il nostro sistema politico è, piaccia o non piaccia, un sistema parlamentare. E finché lo è, è normale che i governi vengano decisi dopo le elezioni, e visti i risultati delle elezioni. Il nome del candidato premier stampato sulla scheda di voto fu un colpo di mano inspiegabilmente avallato dal presidente Ciampi. Infatti quel nome sulla scheda ha consentito al vincitore di dichiararsi eletto direttamente da una maggioranza del popolo (il che non è provato), e perciò stesso di ritenersi inamovibile. Se così, il sistema parlamentare viene snaturato in un sistema pseudo-presidenziale, che è poi un bastardo costituzionale. Almeno questa stortura spero che ci sarà evitata. Ma è ancora tutto in ballo.

di GIOVANNI SARTORI, dal Corriere
11 settembre 2012 |

Perché da noi il salvataggio è impossibile


di LUCA RICOLFI,dalla Stampa

Come si fa a non stare dalla parte dei lavoratori dell’Alcoa? Non è certo colpa dei salari operai se la multinazionale americana sta chiudendo alcuni stabilimenti non solo in Sardegna, ma in Europa (dismissioni sono in corso anche in Spagna).

Ma la vera domanda viene a questo punto: posto che una volta tanto il costo del lavoro, la produttività, l’assenteismo, gli scioperi non c’entrano nulla, che cosa si può fare?

Per rispondere bisogna ricapitolare alcuni dati di fondo della situazione dell’Alcoa. Lo stabilimento sardo di Portovesme finora è rimasto in Sardegna per due ragioni di fondo. Primo, perché la domanda di alluminio non era fiacca come oggi.

Secondo, perché lo Stato italiano, che fa pagare l’energia uno sproposito (+30% rispetto alla già alta media europea) all’Alcoa concedeva tariffe superagevolate, naturalmente facendole pesare sulla bolletta di tutti noi, famiglie e imprese che pagano l’energia elettrica a prezzo pieno. Questo avveniva per ragioni puramente politiche, ossia per salvare voti e posti di lavoro, o meglio per salvare voti pagandoli in posti di lavoro. Ma pagandoli quanto? Un calcolo molto rozzo, basato sulla spesa totale negli ultimi 15 anni e sul numero di posti di lavoro salvati, suggerisce che ogni posto di lavoro sia costato ai contribuenti circa 200 mila euro l’anno. Una follia, vista la leggerezza delle buste paga degli operai.

Ora le autorità europee hanno stabilito che quelli erano aiuti di Stato (si vedeva a occhio nudo, ma abbiamo finto di dover attendere un pronunciamento ufficiale) e la multinazionale americana ha capito che non c’è più trippa per gatti. Smantellerà un po’ di stabilimenti in Europa, e ne costruirà uno megagalattico in Arabia Saudita, ovvero in un posto dove è più conveniente produrre.

Ora torniamo alla nostra domanda di partenza. Che cosa si può fare?

Mi spiace essere crudo, ma la sola risposta che mi sento di dare è: niente. O meglio: molto di assistenziale e nulla di industriale. Siamo in Europa, e gli operai che perdono il lavoro hanno diritto a qualche forma di sostegno del reddito, e a essere aiutati nella ricerca di un posto di lavoro nuovo. Ma non raccontiamoci la fiaba che spingere un’azienda straniera a produrre in perdita sul nostro suolo sia «politica industriale», o sia una scelta razionale. La realtà è che produrre in Europa è sempre meno conveniente, per l’incredibile matassa di vincoli e regolamenti che ci siamo dati negli anni. E in alcuni paesi europei, fra cui l’Italia, l’energia (in particolare elettrica) costa troppo, come ha giustamente fatto notare il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi.

Il guaio, tuttavia, è che quello dell’energia è solo un sovraccosto del produrre in Italia, uno dei tanti. Accanto all’energia ce ne sono innumerevoli altri: tempi della giustizia, tempi di pagamento della Pubblica Amministrazione, adempimenti burocratici, corruzione, prestiti bancari, tasse sul lavoro, tasse sulle imprese. Per questo, a partire da oggi, «La Stampa» - insieme con la Fondazione «David Hume» - proporrà una serie di dossier sui sovraccosti del produrre in Italia, con l’obiettivo di costruire - alla fine - un super-indice che possa dare un’idea quantitativa di qual è il sovrapprezzo che un’impresa deve pagare per operare in Italia anziché in un altro paese appartenete all’Ocse, l’organizzazione che riunisce le 34 economie più sviluppate del pianeta.

Io capisco che, non essendoci un solo euro in cassa e non riuscendo a tagliare né i costi della politica né gli sprechi, i nostri governanti siano affezionati all’idea delle riforme a costo zero. Ma mi permetto di metter loro una pulce nell’orecchio: se vogliamo che la gente torni a trovare lavoro non c’è riforma a costo zero capace di raggiungere l’obiettivo in tempi ragionevoli. Le riforme che costano nulla vanno fatte senz’altro e prima possibile, ma è ingenuo illudersi che possano bastare se non si abbassa - e di molto - il costo del produrre in Italia.

sabato 8 settembre 2012

La salsiccia di Cancellara verso la certificazione Deco


La salsiccia di Cancellara verso la certificazione Deco
08/09/2012 17:45

BAS“Stamane, nel corso di un convegno promosso dall'Alsia, è stato presentato il progetto per l'assegnazione della cosiddetta denominazione comunale (Deco) alla salsiccia cancellarese”. Lo rendono noto gli organizzatori, che tra oggi e domani promuovono, a Cancellara, una manifestazione dedicata a una delle specialità lucane.
“La Deco – si legge in una nota - è una sorta di carta d'identità che certifica il luogo d'origine del prodotto, un modo per legare le produzioni d'eccellenza al territorio e alla sua comunità e tutelarne l'originalità. Attualmente sono quasi 200 le Deco attive in tutta Italia. Il progetto della Deco “Salsiccia a catena di Cancellara” è il frutto della proficua collaborazione tra amministrazione comunale, Alsia e Gal Basento Camastra. L'obiettivo, ha annunciato il sindaco di Cancellara, Antonio Lo Re, è di concludere l'iter di approvazione della Deco entro febbraio e presentarla in occasione della tradizionale sagra della salsiccia”.
“Al progetto di valorizzazione messo in campo in questi anni dal Comune di Cancellara – informa una nota - guardano con interesse anche da fuori regione. Il Comune di Bucine, in provincia di Arezzo, che ospita ogni anno il Festival delle Regioni, è presente con una propria delegazione istituzionale al Salsiccia Festival. Un connubio, quello tra Bucine e Cancellara, che nasce all'insegna della valorizzazione delle produzioni tipiche delle rispettive comunità in una logica di filiera corta.
Di gastronomia d'eccellenza si parlerà anche domani con un doppio appuntamento per il ciclo “Momenti del Sapere”. Il presidente dell'Unione regionale cuochi lucani Rocco Pozzulo parlerà del ruolo della tradizione nella cucina creativa, mentre il giornalista e studioso di trazioni alimentari Beppe Lo Russo illustrerà la figura del gastronomo. La quarta edizione del Salsiccia Festival si concluderà all'insegna del teatro e della musica. Alle 20, nel chiostro superiore del convento dell'Annunziata, spettacolo per voce e violoncello “I racconti del cortile” con Alessandra Maltempo e Giovanna D'Amato e alle 22, in Largo Monastero, concerto del Francesco Citera Quartet.

venerdì 7 settembre 2012

Dal Pdl pressioni sul Cavaliere per andare al voto anticipato


di MARCELLO SORGI, dalla Stampa

Nel Pdl cresce la pressione per convincere Berlusconi a tentare nuovamente la strada delle elezioni anticipate. A premere sono soprattutto gli ex- An, convinti che votare con il Porcellum rappresenti il danno minore e che l’attesa fino a primavera darebbe libero sfogo alle spinte centrifughe nel centrodestra, e fiato ai concorrenti che si preparano, come Montezemolo e Oscar Giannino. I calcoli che gli ex-finiani fanno tra di loro sono molto semplici: stando ai sondaggi, il Pdl con l’attuale legge può arrivare si e no a centoventi deputati, trentatrentacinque dei quali andrebbero alla componente di destra. A questo punto la scelta è se restare insieme o separarsi: ma sul punto non c’è accordo. Il coordinatore La Russa e il vicecapogruppo Corsaro sono per la separazione, convinti che la struttura sopravvissuta dell’ex-partito finiano possa aggiudicarsi sul territorio un risultato migliore di quel che otterrebbe per concessione dal Cavaliere. Mentre Gasparri e Matteoli, convinti che il calo del centrodestra nei sondaggi sia il prezzo pagato - e non più pagabile ancora per molto - del sostegno del Pdl al governo Monti, preferirebbero convincere Berlusconi a staccare la spina e a gettarsi in campagna elettorale per cercare di recuperare.

A tutti quanti Berlusconi ha fatto capire di essere pronto a tornare in campo, ma di voler scegliere il momento più opportuno per l’annuncio. Subito, ovviamente, a partire dalla prossima festa giovanile del partito, se la prospettiva dello scioglimento anticipato delle Camere dovesse riaprirsi. Se invece i tempi si allungano, il Cavaliere vuole aspettare che il quadro sia chiaro.

All’interno del Pdl, le probabilità che si possa davvero arrivare a varare la nuova legge elettorale sono considerate esigue. La tattica scelta è quella di provare un blitz al Senato, dove il centrodestra con la Lega ha ancora la maggioranza, per cercare di ricostruire l’asse con il Carroccio e solleticare Casini con un’apertura alle preferenze. Non perchè Berlusconi si faccia illusioni sull’ex-alleato Pierferdi, che in privato giudica ormai stabilmente collegato a Bersani, ma perchè ritiene che all’interno della pattuglia dei senatori centristi sia forte la tentazione di schierarsi con una riforma di impianto proporzionale.

Il riavvicinamento tra il Cavaliere e Maroni è un altro dei motivi di inquietudine per gli ex-An, che non si fidano e vorrebbero chiudere i giochi al più presto, anche a costo di togliere l’appoggio a Monti. Una prospettiva che divide anche i berlusconiani, con Brunetta e Santanchè favorevoli alla rottura e gli ex ministri dell’ala moderata contrari.


Gli italiani riformisti immaginari


di LUIGI LA SPINA, dalla Stampa

La premessa è doverosa, anche se può sembrare scontata, perché è giusto ricordare certi meriti, soprattutto in un momento in cui il nostro Paese è troppo facilmente messo sotto processo: il welfare sanitario assicurato dallo Stato in Italia è una conquista di civiltà di cui andare assolutamente fieri. Tanto è vero che i cittadini di tutto il mondo invidiano le nostre garanzie di assistenza pubblica.

Garanzie che pur con grandi differenze regionali di qualità e con le inevitabile carenze episodiche, offrono cure adeguate e sostanzialmente gratuite a milioni di italiani.

Il problema, perciò, è quello non solo di preservare i vantaggi di questo sistema, ma di adattarlo ai tempi, correggerne i difetti, uniformare su tutto il territorio nazionale gli standard di efficienza per permetterne la sostenibilità finanziaria nei prossimi decenni. In momenti di crisi della spesa pubblica come quelli attuali, infatti, il livello del nostro welfare sanitario può sembrare un lusso che non ci possiamo più permettere. E’, invece, miope considerarlo solo un costo, perché toglie al cittadino quella paura del futuro che costituisce uno dei più grandi freni allo sviluppo di un Paese. La sicurezza di essere curati adeguatamente, anche nel caso della perdita del lavoro, di una improvvisa emergenza sanitaria che metta a rischio il bilancio familiare rappresenta un importante fattore di coesione sociale e di stimolo al coraggio di investire, di impiegare i propri risparmi nel ciclo produttivo. Ecco perché è proprio nei momenti di difficoltà economica di una nazione che un welfare sanitario efficiente è una importante risorsa, non solo un costo.

Se questo dev’essere l’obbiettivo del nostro Stato in questo settore, occorre riconoscere che il «decretone Balduzzi» individua, con correttezza, i tre principali problemi della sanità pubblica, come si è sviluppata in Italia negli ultimi decenni. Il primo, quello più evidente, è la crescita abnorme della spesa. I bilanci delle Regioni sono occupati, per più dell’ottanta per cento in molti casi, dal finanziamento agli ospedali e, in genere, alle strutture dell’assistenza sanitaria. Con un rapporto, peraltro, prevalentemente inverso tra la spesa e la qualità del servizio. Una osservazione da non trascurare per smentire i tanti luoghi comuni che molti amministratori invocano come alibi alle loro incapacità.

Il secondo importante difetto del nostro welfare sanitario è, tra l’altro, causa principale del primo, con l’aggravante che ricade direttamente sulle spalle degli utenti: la scarsa opera di filtro e di prevenzione costituita dal sistema dei medici di famiglia. Non per colpa loro, perché il loro impegno e la loro preparazione professionale sono, nella maggioranza dei casi, abbastanza adeguati, ma proprio perché gli orari ridotti, le lunghe file negli ambulatori, il sovraccarico della burocrazia finiscono per scaricare sui «pronti soccorso» degli ospedali una quantità di malati, o di presunti tali, da elevare insopportabilmente sia i costi dell’assistenza, sia le inefficienze del servizio. Il ricorso, poi, a indagini diagnostiche «a tappeto», con una moltiplicazione delle spese per lo Stato, viene indotto da quella medicina cosiddetta «difensiva» adottata ormai diffusamente, per paura di un contenzioso legale con i pazienti, logorante sul piano finanziario e umiliante su quello professionale e morale.

L’ultimo principale problema è quello dell’invadenza partitica nella sanità pubblica. Proprio l’elevato livello della spesa ha fatto diventare il sistema uno dei principali centri di potere, di corruzione, di clientelismo politico presenti sul territorio nazionale. Così, è notorio che l’appartenenza a un partito o a una corrente di partito, spesso, prevale sui meriti professionali nelle carriere dei medici. Con ricadute gravi sulla buona organizzazione dei reparti e, magari, sulla salute dei pazienti.

Il «decretone Balduzzi» cerca di affrontare questi mali con una terapia molto meno rivoluzionaria di quanto appaia, poiché, in parte, ricalca leggi e norme già approvate e, quasi mai, applicate. La disposizione che ha fatto più notizia, quella sull’apertura continua degli studi dei medici di famiglia, nei pochissimi casi in cui è già stata sperimentata, dimostra non solo la fattibilità operativa, ma che il solito lamento delle Regioni sulla necessità di maggiori finanziamenti è ingiustificato. Si tratta di un accorpamento delle guardie mediche con gli ambulatori che richiede uno sforzo di buona volontà e di razionalizzazione, sia delle risorse, sia del personale, certamente non impossibile.

La questione vera è un’altra e più generale: in Italia, ormai, qualsiasi riforma, buona o cattiva che sia, rischia l’inapplicabilità. Perché le resistenze degli interessi, effettivamente o presuntivamente colpiti, delle corporazioni, dei privilegi e, persino, delle abitudini e dei vizi sono talmente forti da bloccare, ritardare, vanificare ogni innovazione. Perché siamo un Paese non solo di rivoluzionari «marxisti immaginari», come scriveva, in anni sessantottini, Vittoria Ronchey, ma di riformisti altrettanto immaginari.