Verso il salutismo: nello studio Inran 150 anni di alimentazione in Italia
di VERONICA ULIVIERI, dalla stampa
In 150 anni di Unità di Italia non abbiamo sempre mangiato allo stesso modo. Oggi andare al sushi bar o provare ricette con il tofu ci sembra naturale, ma in realtà si tratta di cibi arrivati nel nostro paese solo recentemente. Anche il caffè non è sempre stato un piacere quotidiano. Nel ventennio fascista, causa embargo e mito dell’autarchia, il regime incoraggiava il consumo di surrogati dell’arabica, dal caffè d’orzo a quello di cicoria.
L’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizone (Inran) ha ripercorso, in uno studio, le abitudini alimentari degli italiani dall’Unità d’Italia ad oggi – 150 anni esatti il 17 marzo scorso. Una storia di scostamenti e riavvicinamenti alle abitudini della dieta mediterranea, dalla scarsità all’abbondanza alimentare. «In 150 anni abbiamo assistito a una diminuzione dei consumi di alimenti quali risone (riso greggio, ndr), segale e orzo, granturco, legumi secchi, frutta secca, vino e carni ovine e caprine», mentre «per tutti gli altri gruppi alimentari si osserva un aumento di consumo, più o meno marcato». Il momento di maggiore cambiamento sono gli anni del boom economico, quando, spiega Aida Turrini dell’Inran, «la carne, il latte, i formaggi diventano accessibili a tutti. Sono gli anni della carne tutti i giorni, della margarina e del burro al posto dell’olio d’oliva, dell’allontanamento dalla dieta mediterranea, della sedentarietà diffusa e di un modello alimentare sempre meno frugale e conviviale». Allo stile alimentare mediterraneo, si torna però nel «primo decennio del nuovo millennio. È la riscoperta del modello alimentare dell’Italia rurale dei primi anni del secolo scorso, declinato però secondo canoni contemporanei». Negli ultimi anni, dunque, si mangia forse di meno, ma meglio. «Dagli anni Settanta ai Duemila – sottolinea Denis Pantini, responsabile Agricoltura e Industria Alimentare di Nomisma – la spesa delle famiglie italiane per i consumi alimentari è diminuita di 13 punti. In compenso, la salubrità è il primo fattore di scelta dei cibi, nel 62% dei casi, prima ancora della marca conosciuta e della convenienza economica».
Considerata la vocazione agricola dell’Italia, parlare di cambiamenti nell’alimentazione equivale spesso a trattare l’evoluzione che nei secoli ha investito la nostra agricoltura. O forse sarebbe meglio dire agricolture, «prodotte – racconta lo storico Piero Bevilacqua – da un’ampia varietà geografica e climatica. Già l’impero romano raccoglieva al suo interno una’ampia varietà di piante e modi di coltivare diversi». Con il risultato che, per usare le parole di Francesca Giarè dell’Inea, «tempo, persone e luoghi hanno dato vita a varietà di piante e di modi di preparazione, conservazione e consumo dei cibi che oggi fanno parte del nostro patrimonio agricolo e culturale». Ne è un esempio il trapianto di specie vegetali e conoscenze che gli Arabi hanno operato in Sicilia nel Medioevo, introducendo, continua Bevilacqua, «diverse specie di agrumi, il riso, il cotone, la canna da zucchero e una notevole varietà di piante da orto prima sconosciute o note in poche varietà, dalla melanzana agli spinaci».
E proprio dall’orto passa oggi il riavvicinamento a un’alimentazione più attenta all’impatto ambientale dei cibi, più salutista, con meno componenti animali e più ingredienti vegetali. «Negli ultimi anni sono usciti molti libri sugli orti, in particolare pensili e da balcone, che assumono un significato simbolico: io non posso risolvere i problemi del sistema nel suo complesso, ma il fatto di coltivare la salvia sul balcone mi qualifica all’interno di questo sistema», spiega Alberto Capatti, docente di Storia della Gastronomia all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. L’orto diventa cioè un simbolo dello stile di vita sostenibile, ma è anche il crocevia delle contraddizioni della nostra epoca: «In una raccolta di ricette con i prodotti dell’orto c’era quella dei cavolini di Bruxelles con la panna. Che senso ha? La tradizione deve reintegrare l’orto, non solo coltivarlo». Riscoprendone cioè i sapori.
E se non abbiamo sempre mangiato allo stesso modo, lo stesso dicasi per quello che beviamo. Sempre secondo l’Inran, il consumo di vino è diminuito negli anni tra il 1941 e il 1950, per poi rimanere stabile. Oggi ne consumiamo meno del caffè, ma molto di più di bevande gassate e succhi di frutta. Il preferito è il vino rosso, seguito dalla birra e dal vino bianco. Un consumo minore, a cui però corrisponde, anche qui, una ricerca di bottiglie più salutari. Una tendenza di cui si è accorta anche Vinitaly, la storica fiera vinicola di Verona (quest’anno dal 25 al 28 marzo), che nel 2012 dedicherà, per la prima volta, un focus ai vini biologici e biodinamici.
Nessun commento:
Posta un commento