venerdì 9 marzo 2012

I nemici della speranza


I nemici della speranza
di Telmo Pievani, da MicroMega 1/2012

Non può esservi alcun tipo di speranza di rinascita civile se le classi dirigenti di alcuni fra i maggiori partiti dell’attuale arco costituzionale hanno la spudoratezza di definire un banale controllo tributario come un’offesa alla ricchezza, o addirittura come un’espressione ideologica di giacobinismo e di qualunquismo. Perché è il segno che non siamo in grado di condividere regole minimali di convivenza e di appartenenza alla medesima comunità, oltre che i princìpi di buon senso, di correttezza e di giustizia. E ora gli eredi di questo ventennio di oscenità sono persino disposti, senza vergogna, a rivendicare tale crassa arroganza davanti alle telecamere. La crisi di questa dirigenza politica, e di quella che in questi anni non ha saputo opporsi a essa in modo adeguato, è irrecuperabile e non ci sono finti giovanilismi che tengano. È una vecchiaia mentale, non anagrafica.

Non può esservi alcun tipo di speranza di rinascita civile se l’equivalente in denaro liquido di tre manovre finanziarie all’anno corrisponde all’ammontare del fatturato in mano alla criminalità organizzata e al sottobosco della corruzione dilagante. Perché significa che non c’è partita per chi accetta i vincoli della legalità e dell’onestà dei comportamenti, il che dovrebbe prefigurare di per sé un’emergenza nazionale.

Non può esservi alcun tipo di speranza di rinascita civile se le esternazioni di volgari e impresentabili esponenti di una forza politica xenofoba – la cui visibilità è del tutto sproporzionata sia rispetto alla consistenza elettorale, ovunque minoritaria, sia rispetto alla totale incapacità di realizzare il proprio progetto politico – vengono considerate ormai normali componenti del disperante paesaggio politico italiano, anche quando minacciano ridicole secessioni, inventano geografie inesistenti e insultano le istituzioni repubblicane. Perché se passa questo è il segno che non abbiamo più un linguaggio politico civile, che la brutale quantificazione di un consenso popolare rende immuni dal rispetto verso il decoro, e che i germi dell’odio identitario possono ricominciare a diffondersi silenziosi, per poi eruttare sporadicamente come bubboni purulenti.

Non può esservi alcun tipo di speranza di rinascita civile se il benessere di una nazione è misurato da indicatori anacronistici e antisociali, anziché dalla qualità della vita reale dei cittadini, dalla solidità delle reti sociali, dalla sicurezza di un futuro dignitoso, dalle effettive opportunità di lavoro, di crescita, di emancipazione. Perché significa che non è più al centro degli interessi della politica la difesa della capacità progettuale dei cittadini, il loro diritto di costruirsi una vita serena e soddisfacente che sia la più vicina possibile alle aspettative e alle aspirazioni, anche al di là del lavoro. Non c’è «crescita» se non hai alleati al tuo fianco lavoratori orgogliosi di sé, pieni di dignità e di voglia di fare. Non certo mendicanti un’occupazione o un sussidio, costretti all’umiliazione di una provvisorietà senza senso. Non certo sudditi di consumi drogati, indotti da vent’anni di insopportabile rimbambimento tele-commerciale.

Non può esservi alcun tipo di speranza di rinascita civile se diamo per scontato che vi sia un unico modello, necessario e ineluttabile, di sviluppo e di crescita. Quando le storture di un sistema producono disastri e le soluzioni dei disastri sono peggiori delle cause che li hanno prodotti, quando il tutto viene giustificato come inevitabile sulla base della stessa logica che ha prodotto il disastro, e quando a pagare il conto non sono i responsabili del disastro bensì le vittime, siamo all’incirca nello stesso circolo vizioso che fa crollare tutti i totalitarismi. Ci sono molti modi di crescere, molti modi di consumare, molti modi di interagire con gli ecosistemi che ci ospitano, molti altri modi di concepire le relazioni tra il potere politico e i mercati. Ci sono parole eretiche, da reintrodurre nel dibattito: come «redistribuzione».

Non può esservi alcun tipo di speranza di rinascita civile se i nostri migliori se ne vanno e i migliori di altri paesi non vengono da noi per studiare e per lavorare. Mettersi in cammino per cercare più onorevoli condizioni di vita è un diritto umano fondamentale, e come tale riconosciuto. Creare le condizioni per questa apertura è la mossa di chi davvero ha saputo crescere, anche economicamente. Ed è altrettanto sconfortante che il nostro sistema di istruzione continui a generare giovani brillantissimi che vanno ad arricchire altri paesi, facendo carriere folgoranti che qui erano per loro precluse. Persino nell’ottica di chi vorrebbe monetizzare tutto, è un pessimo affare.

Lottare contro questi ostacoli alla speranza è già un motivo di speranza. C’è una distesa di rovine morali, educative e culturali alla quale mettere mano. Ci sono ancora tanti, nuovi motivi per essere di sinistra, senza rincorrere ogni volta le parole d’ordine degli altri. A cominciare dall’idea che un paese più giusto e più dignitoso è anche un paese più sicuro, più forte, più innovativo. Questo è quanto avevano in mente i padri costituenti, in mezzo ad altre rovine, ed è, questo sì, uno slancio di speranza immaginare che un giorno possa esistere anche una Costituzione europea basata su questi princìpi.

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