di Stefano Folli, dal Sole 24 Ore
Tutto si tiene, in una campagna elettorale che ha preso il via in forme molto aggressive. Ognuno gioca le sue carte in un sistema che pretende ancora di essere bipolare, ma che nella sostanza sta diventando quadripolare: al centrosinistra e alla vecchia area Pdl-Lega (oggi in frantumi), si aggiunge il terzo polo di Monti e il vasto spazio dell'antagonismo, da Grillo a Ingroia. Ognuno ha problemi da risolvere in fretta perché si avvicina il momento di presentare i simboli e poi le liste dei candidati.
La maggiore urgenza è senz'altro quella di Berlusconi. Il vecchio leader ha pochissimi giorni per salvare l'alleanza con la Lega maroniana. E se questo obiettivo è per lui irrinunciabile, come tutto lascia credere, non c'è che un passo da compiere. La mossa del cavallo, come si dice in gergo: rinunciare alla candidatura a premier e presentarsi alle elezioni solo come capo politico della coalizione. In fondo Berlusconi ha cominciato a preparare il terreno ieri, quando ha detto: «potrei anche non tornare a Palazzo Chigi». Affermazione che difficilmente basterà al Carroccio, o meglio a una base leghista che oggi non ha alcuna voglia di fare la campagna elettorale avvinta all'antico e ormai inviso alleato.
Ma il patto con Maroni si può salvare se Berlusconi mette un freno al suo orgoglio, accetta il veto e manda avanti una figura terza come candidato premier. Alfano lo ha quasi ammesso, affermando che quel che conta è la leadership politica e non la «formalità» di una candidatura a Palazzo Chigi che non ha rilievo costituzionale ed è imposta da un articolo della legge elettorale. È probabile che questa sarà la conclusione della storia, benché sul nome del "terzo uomo" ci sia ancora da discutere. Poco probabile il ritorno ad Alfano stesso, problematica l'indicazione di Tremonti (gradito ai leghisti, ma non altrettanto a una parte del Pdl). Si vedrà.
Di certo l'alleanza con la Lega è indispensabile per tenere la Lombardia. Non tanto per conquistare la regione, considerando la presenza in campo di un altro terzo uomo, Albertini, sostenuto in modo esplicito da Monti. Quanto per bloccare i seggi senatoriali che potrebbero decidere gli equilibri a Palazzo Madama e con essi il profilo del prossimo governo.
Casini lo ha detto in un'intervista ad "Avvenire" con indubbia franchezza: se Bersani non avrà la maggioranza anche al Senato, potrà scordarsi di fare il presidente del Consiglio. Quindi è intorno alla Camera alta che si combatte la battaglia delle Ardenne. Sui due fronti su cui è impegnato senza mezzi termini il presidente del Consiglio. Anche lui usa argomenti piuttosto netti: «destra e sinistra sono superate. Esiste chi vuole le riforme e chi vuole conservare». La tesi è riferita all'Italia e sembra fatta su misura per accendere gli animi, soprattutto nel campo di Bersani, ma obbedisce a una logica. Scuotendo l'albero, Monti, più che abolire il bipolarismo, vuole sconfiggere il centrodestra berlusconiano e ridimensionare il Pd. Ne deriverebbe un nuovo assetto del sistema, in cui sarà possibile sia negoziare con i democratici un patto di governo, sia contrapporsi a essi e dipingerli come vincolati al carro di Vendola e Fassina.
Si deciderà in base ai rapporti di forza emersi dalle urne. Per questo è cruciale la contesa per il Senato. Ed è indispensabile anche prendere un voto più di Berlusconi (o di chi per lui) su scala nazionale.
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