giovedì 31 gennaio 2013

I re sono ( sempre di più ) nudi.


di Lelio Demichelis, da Micromega

Mario Monti è nudo, come il re della fiaba di Andersen, che qui rileggiamo con qualche libertà. Ma a differenza della fiaba, nessuna voce dell’innocenza (il bambino), e/o della verità (una scienza economica non più viziata dall’ideologia liberista) lo ha ancora gridato spezzando la maschera del conformismo, dell’ideologia (appunto), della falsificazione e della manipolazione della verità. E sono nudi (ovviamente, anche se a titolo diverso): Silvio Berlusconi, imperatore vanitoso e narcisista, dedito come nessun altro all’apparire e al godimento, proprio e degli elettori/spettatori conformisti; Pietro Ichino e la sua flexsecurity a tutele crescenti, come se i diritti fossero modulabili e non, invece, universali e indisponibili; Mario Draghi, il re che comunque, anche se nudo, si presenta meglio vestito degli altri.

E ancora: Angela Merkel, donna di poche certezze ma tutte sbagliate e ‘regina nuda’ del nichilismo europeo o (ma è la stessa cosa) della ‘volontà di potenza’ tedesca; e Manuel Barroso, grigio burocrate di una grigia Europa che ha tradito il sogno europeista riducendolo allo squallore del vincolo del pareggio di bilancio; e il ministro Vittorio Grilli, secondo il quale l’Italia non poteva fare altro che imporre l’austerità, mentre è sempre più evidente che poteva fare ben altro. E il Fondo monetario e i suoi ‘tecnici’, nudi più di tutti gli altri re/regine (anche se forse, dopo vent’anni di errori disseminati per mezzo mondo cominciano a fare autocritica), quel Fondo monetario dalle ricette sempre uguali e standardizzate come se fossero uscite dalla ‘catena di montaggio del pensiero unico’, perché i ‘tecnici’ amano la standardizzazione, non hanno fantasia, non amano i colori della vita né l’immaginazione e la fantasia delle persone, della politica, dell’utopia e sono convinti (è l’ideologia della tecnica che svaluta la politica) della assoluta bontà della loro razionalità quantitativa, cui la ‘vita’ (individui e società) deve solo ‘piegarsi’ e adattarsi.

Lo sono, nudi. E sempre più nudi. E se qualcuno (come Vendola) pure chiede a Monti di fare autocritica, la risposta è: no, semmai servono ulteriori riforme (ovviamente neoliberiste) ancora più ‘radicali’ (in realtà, non radicali, ma ‘estremiste’) e per Monti conservatore non è lui stesso e la sua ideologia, ma sono la Cgil e Vendola, il premier così applicando la tipica modalità ideologica di rovesciare la realtà accusando gli altri di essere ciò che si è. E conservatore, Monti lo è proprio perché chiuso nella sua ideologia, mentre altri – ultima la Cgil con il suo Piano per il lavoro – sono i veri e radicali (non estremisti) riformisti.

I re/oligarchi del mondo dell’economia e della finanza credono ancora di essere vestiti di un abito bellissimo e straordinario e si presentano così vestiti da ‘tecnici’, da ‘esperti’, da ‘professori’, da ‘troika’ a noi che accettiamo - per conformismo o rassegnazione - tutto ciò che i re nudi decidono ‘per noi’, ma soprattutto ‘contro di noi’. ‘Contro di noi’: se è vero che l’incidenza della povertà relativa, in Italia era del 4,9% nel 2009 ed è salita al 23,9% nel 2011. Che l’incidenza della povertà assoluta era del 3,2% nel 2009 ed è aumentata all’8% nel 2011. ‘Contro di noi’, perché se il reddito reale disponibile delle famiglie era pari a 100 nel 2007 ora è sceso a 93,5. E sarà ancora peggio perché (dati di Rete Imprese Italia), il reddito disponibile degli italiani nel 2013 calerà ancora, arrivando ai livelli di 27 anni fa, mentre i consumi torneranno indietro di quindi anni.

Tutto in nome di un’ideologia che né Giappone né Stati Uniti seguono più. L’Europa liberista invece non cambia strada e somiglia a quei soldati giapponesi che a cinquant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale continuavano ancora a combattere, nascosti in qualche isola sperduta del Pacifico, contro gli Usa (oggi diremmo: contro Keynes, il progresso e la socialità). Un’Europa incagliatasi nella recessione che ha voluto deliberatamente produrre e – se a questa si sommerà la rivalutazione ulteriore dell’euro, mentre Usa e Giappone svalutano le loro monete per recuperare competitività e fanno politiche quasi-keynesiane per sostenere l’economia e innovare – nell’aggravamento ulteriore della crisi.

I re (banchieri, finanzieri, industriali, bocconiani, economisti, fondomonetaristi – e i loro cortigiani/paggi che continuano a lodare il vestito neoliberista) sono assolutamente nudi, ma ci guardano ancora (persino Bersani lo ha notato) dall’alto in basso mentre sfilano per le strade reali e virtuali di una polis ridotta prima a mera agorà-spettacolo-godimento e oggi ad agorà-penitenza-espiazione; una agorà senza polis (come quella prodotta dalla rete), una piazza senza cittadinanza o con una simulazione di cittadinanza (blog, twitter, eccetera). Nudi, i re/oligarchi, anche se vestiti di eleganti loden o di belle giacche grigio-burocrate o grigio professore (la ‘divisa’ dei tecnici). Un vestito che credono adatto ad ogni occasione: alla crescita e all’edonismo degli anni ‘90; alla crisi del 2008; alla conseguente recessione e all’impoverimento di massa e ora alla promessa di una nuova fase di crescita attraverso la ulteriore (sic!) flessibilizzazione del lavoro e della sua svalutazione. Ma è appunto un vestito trasparente, sotto non c’è nulla se non il vuoto intellettuale.

La fiaba, allora: metafora e rappresentazione dell’arroganza del potere, della sua ignoranza: fiaba che appunto narra di un imperatore vanitoso e supponente (l’auto-considerarsi salvatore della patria di Monti, l’accusare gli altri di conservatorismo, su tutto il neoliberismo capitalista e la ‘tecnica’ come unica razionalità possibile); un re/potere economico arrogante e pretenzioso dedito fino a ieri soprattutto alla cura del suo aspetto e in particolare del suo abbigliamento (l’apparire invece dell’essere, l’economia finanziaria invece dell’economia reale, l’edonismo e il principio di piacere invece del principio di realtà, della solidarietà e della socialità).

Alcuni ‘imbroglioni’ (von Hayek, Milton Friedman, ma l’elenco potrebbe continuare a lungo) sono arrivati nelle città del mondo (prima negli Usa e in Gb, poi hanno dilagato ovunque) sostenendo – e facendolo con una abile ‘propaganda’, con ‘parole-chiave’ false come tutte le parole-chiave della propaganda (tipo: libertà individuale, essere imprenditori di se stessi, basta ‘lacci e lacciuoli’ alla libertà d’impresa e ancora: flessibilità, deregolamentazione dei mercati finanziari e del lavoro, capitalismo cognitivo, società della conoscenza, rete) – sostenendo appunto di essere tessitori famosi ed esperti e di avere inventato un incredibile tessuto (la rete? la finanza? il mercato?), tanto leggero da essere invisibile, ma di esserlo solo agli stupidi (i keynesiani, la sinistra, i riformisti sociali) e agli indegni (coloro che vorrebbero regolare e limitare il libero mercato).

I cortigiani del re non sono riusciti a vederlo, questo bellissimo tessuto (invisibile come la mano invisibile del mercato?); ma per non essere considerati stolti e indegni, hanno riferito all'imperatore di averlo visto benissimo e ne hanno lodato (da perfetti conformisti) la magnificenza del tessuto (ancora: la rete? il denaro virtuale? la speculazione finanziaria? la ricchezza per tutti? il godimento e il narcisismo fatti ‘legge economica’?). E così l'imperatore, sostenuto dai suoi consiglieri (bocconiani, giornalisti, politici) incapaci di vedere la realtà e preferendo vederne una di pura fantasia (come credere che il mercato si auto-regoli, che ormai ‘tutto sia economia’ e solo mercato – così come un tempo neppure tanto lontano si credeva che ‘tutto fosse politica’) si è fatto preparare dagli imbroglioni l’abito con questo meraviglioso tessuto.

Quando finalmente l’abito è stato pronto e consegnato per indossarlo, l'imperatore si è sì reso conto di non essere neppure lui in grado di vederlo; ma, conformista tra tanti conformisti, anche il re (i politici, di sinistra o soprattutto di sinistra) ha deciso di accettare una realtà/verità non-reale e non-verità, mostrandosi anzi estasiato (le virtù del mercato!) per il lavoro fatto. E con il nuovo vestito-non-vestito, ovvero accettando di indossare qualcosa di falso ma soprattutto di contraddittorio con la realtà, anche se vero in termini di conformismo e di ideologia, è sfilato per le vie della città globale come unico vestito indossabile non solo dal re in quanto tale, ma da tutti i sudditi del regno/impero neoliberista. E i cittadini (conformisti tra i conformisti) hanno applaudito e lodato l'eleganza del sovrano e hanno sognato di essere anche loro come il re e di vestirsi con vestiti alla moda fatti di questo magico tessuto, hanno sognato anch’essi di poter realizzare il massimo piacere, il massimo godimento di sé e della vita edonistica che il nuovo tessuto sembrava permettere/promettere. Salvo poi – oggi – doversi denudare e spogliare davvero di reddito e di lavoro quando le ‘congetture’ del neoliberismo si sono scontrate con le ‘confutazioni’ della realtà.

Nella fiaba – ma purtroppo solo nella fiaba – l'incantesimo è spezzato da un bambino che, finalmente, grida che ‘il re è nudo’. L’Europa – e gli europei – credono invece ancora nella favola.

mercoledì 30 gennaio 2013

L'agenda c'è ed è già per tutti: la dottrina sociale della Chiesa.


«L’agenda c’è già ed è per tutti: la dottrina sociale della Chiesa. Servono, invece, nuovi agenti e un nuovo sussulto di responsabilità che veda i cattolici protagonisti». Il presidente del Rinnovamento nello Spirito Salvatore Martinez guarda alla prossima campagna elettorale come a «una sfida che il 26 febbraio, all’indomani del voto, inizia, non si conclude».

Da Todi era partito l’auspicio di una buona politica in grado di rispondere alle esigenze di un Paese colpito dalla crisi e lacerato nella sua rappresentazione politica. Prospettiva ancora lontana?
La buona politica nascerà da una nuova identità morale e spirituale, e l’ispirazione cristiana con le sue buone prassi è la soluzione più efficace alla crisi in atto. Con il cardinale Bagnasco, anche noi riteniamo che non sia più tempo di facili e di illusorie promesse, né di proclami di autosufficienza partitica: il Paese reale è molto più piagato e sfiduciato di quanto si racconti.

C’è stata delusione, da parte di taluni, si sperava ci fosse più tempo per approfondire un giudizio e per darsi strumenti nuovi.
La riflessione richiede supplemento di merito e metodo. D’altro canto, come ci ricorda il Papa, la Chiesa non è, né potrebbe mai trasformarsi in un soggetto politico, «perderebbe la sua indipendenza e autorità morale». Essa non è chiamata alla formazione di partiti, ma a formare uomini nuovi, capaci di fare nuova anche la politica. Cattolici adulti, nel senso che il Papa ci trasmise, nel maggio scorso, incontrandoci in Piazza San Pietro.

Come giudica la scelta di quei cattolici che hanno deciso di mettersi candidarsi?
Con grande simpatia. I cristiani impegnati in politica, però, debbono sapersi distinguere per la loro coerenza rispetto ai valori enunciati. A loro guardano soprattutto i tanti giovani sfiduciati che si sentono sempre più estranei alle cose della politica. Ma nessuno da solo potrà farcela. Né c’è un partito in grado di rappresentare da solo la ricchezza dell’Agenda sociale. Urge un nuovo umanesimo politico, fondato su una sincera e duratura alleanza intorno all’uomo.

Un processo che è solo all’inizio?
Ci sono ricchezze morali inespresse, carismi e talenti dei corpi intermedi posti fuori gioco da interessi di parte. Non ci sarà vero rinnovamento - e tutti lo invocano - senza rigore morale e coerenza tra ideali e prassi, specie tra coloro che si appellano alla comune identità cristiana. Per dare vita a un nuovo stato sociale e ad una nuova moralità pubblica occorre rifondare il concetto di giustizia sociale come esigenza di carità. Avranno i nostri politici il coraggio di lasciarsi guidare dagli ultimi, esorcizzando la resistenza ad una condotta  fraterna?

Il rischio di fare da fiore all’occhiello, senza cambiare le cose resta?
Purtroppo sì, non ci sono ancora otri nuovi capaci di contenere tanto vino nuovo che la vigna ancora produce. Siamo il Paese delle ricchezze negate e su di noi incombe il dettato evangelico: partire dall’altro significa non prescindere da nessuno. Vale anche per la politica, per chi vuole sedere in Parlamento o trattare nei mercati finanziari da credente. O si crede che ciò è possibile, o si cede all’insignificanza politica. Solo questa testimonianza può riformare lo spirito dell’errore e dell’inganno che hanno ammorbato la coscienza sociale del Paese.

A volte, i cattolici in politica si sono sentiti poco accompagnati dai laici impegnati nel sociale.
È vero. "Comunità ecclesiale" e "comunità politica" sono realtà distinte e devono conservare la loro virtuosa distanza, ma debbono provare a dialogare in modo nuovo, a partire dai corpi intermedi che ne sono espressione. Un dialogo fecondo, che riponga al centro la questione dello sviluppo del Paese. Non possiamo più permetterci che, in politica, la laicità cristiana sia relegata nella sfera privata. Come dice Sant’Agostino, ridurre il cristianesimo nella sfera privata, significa alla fine esserne privati. E la Nazione sarebbe orfana di solidarietà e di sussidiarietà.

La politica, intanto, sembra avvitarsi solo sui temi economici.
Ma la Chiesa ricorda che se rinunciamo a porre una questione antropologica a partire dai valori non negoziabili anche l’economia perde la sua natura e i suoi fini. C’è un idolo muto a cui molti finiscono con il soggiacere, che è la moneta, diventata il simbolo di un’antropologia mercantile che non è espressione della nostra cultura. Non possiamo dare a Cesare quel che è di Dio, cioè l’uomo e la sua intangibile e impagabile dignità. La moneta e l’economia debbono tornare ad essere al servizio dell’uomo e non più asservirlo.

E il risultato, lo vediamo, è una politica che guarda ai grandi "santuari" della finanzia e si dimentica della famiglia.
Una ripresa morale e politica è possibile solo se capace di ripartire da un progetto sociale e culturale a misura di famiglia. Se la politica terrà per mano la famiglia, la famiglia rialzerà lo Stato.

La "nuova generazione di cattolici" dovrà fare i conti con la laicità che la politica, e i partiti chiedono loro. Come se ne esce?
Il Vangelo è la migliore scuola di laicità possibile, che ci insegna come stare dalla parte della gente, come spendersi per amici e nemici. Nel loro bene è il nostro futuro di pace. Altrimenti sarà egoismo generazionale come inesorabile scuola di crudeltà. Il beato Giovanni Paolo II lo ha insegnato: «Non c’è vera soluzione alla questione sociale senza il Vangelo». Quanto ai criteri per un impegno da cristiani, ce li ricorda Benedetto XVI: "coerenza con la fede, rigore morale, capacità di giudizio, competenza e passione di servizio". Principi che devono cominciare a valere anche fuori dal mondo cattolico.

di Angelo Picariello, da Avvenire

lunedì 28 gennaio 2013

Le bestialità di Berlusconi


Le parole di Berlusconi sul fascismo non sono altro che l’ennesima riproposizione di un vecchio cliché che fa parte di una cultura politica che non è né fascista né antifascista, ma afascista. E’ una cultura condivisa da tanta maggioranza silenziosa italiana. Dietro a tutto questo c’è ignoranza e deformazione dei fatti. Intervista a Giovanni Sabbatucci.

di Giulia Belardelli, da huffingtonpost.it

“Sono bestialità”. Se il professor Giovanni Sabbatucci, uno dei massimi storici italiani del fascismo, potesse dare un voto in storia a Silvio Berlusconi molto probabilmente gli darebbe zero. Il professore quasi inorridisce di fronte alle affermazioni dell’ex premier riguardo a Mussolini e ai motivi che lo spinsero ad allearsi con la Germania nazista. Peggio ancora quelle su come avvenne l’introduzione delle leggi razziali.

Andiamo con ordine. Berlusconi ha detto che “Mussolini preferì allearsi con Hitler per timore che la potenza tedesca vincesse”. Si può dire una cosa del genere?

“No, è un’assoluta stupidaggine: se davvero l’Italia avesse temuto una vittoria della Germania avrebbe evitato di andare a dar manforte a Hitler. Poteva tranquillamente non intervenire o addirittura schierarsi contro la Germania. Certo, Mussolini temeva che una Germania vincente avesse poi una preponderanza schiacciante, e quindi ha cercato di fare, nella prima fase del conflitto, la sua guerra parallela (che però non era in grado di fare). Il piano di Mussolini non era certo quello di contrastare la Germania: lui voleva ritagliare un ruolo da protagonista per l’Italia dentro l’alleanza con la Germania, che era già stata stipulata prima dello scoppio della guerra, nel maggio del ’39 (il patto d’acciaio). Così come è stata detta, quella di Berlusconi è un’affermazione insostenibile.

Insomma, non si può certo dire che Mussolini fu trascinato in guerra…

Mussolini scelse la guerra senza esservi obbligato. E’ una strana teoria quella di dire ‘per contrastare la mafia divento mafioso’. Non è sostenibile e comunque non è una giustificazione. L’obiettivo di Mussolini era di stare insieme alla Germania in un progetto aggressivo e di dominio sull’Europa.

Riguardo alle leggi razziali, l’ex premier ce le presenta come “un’imposizione della Germania”, come fossero state un corollario dell’alleanza con Hitler. Come sono andate invece le cose?

Qui l’errore è doppio. Primo, le leggi razziali furono dell’autunno 1938, l’alleanza è della primavera del ’39. Vengono prima le leggi razziali e poi l’alleanza. C’è un’inversione temporale e quindi anche del nesso causale. Secondo, il primo storico delle leggi razziali italiane (argomento per tanto tempo trascurato), è stato Renzo De Felice, il quale ha detto molto chiaramente e in più occasioni che non ci fu nessuna – e dico nessuna - pressione dei tedeschi per imporre le leggi razziali. Non ci fu nessuna richiesta, nessun ultimatum, niente.
Mussolini decise di introdurre le leggi razziali di sua iniziativa e a freddo, visto che non c’era nessun tipo di movimento popolare che lo richiedesse. Lo fece perché pensava che gli italiani avessero bisogno – soprattutto dopo l’esperienza della guerra di Etiopia, della fraternizzazione, di Faccetta Nera – di sviluppare un orgoglio di razza. Voleva che gli italiani diventassero un popolo guerriero e anche più cattivo. Fu quindi nel quadro di una totalitarizzazione del regime che Mussoli decise – ripeto, a freddo e senza esservi costretto – di introdurre queste leggi.

Non ci fu dunque nessuna “imposizione” da parte della Germania…

No, era tutto parte di un piano di preparazione al conflitto. Già allora Mussolini pensava che ci sarebbe stata una guerra e che l’Italia sarebbe dovuta intervenire, anche se l’alleanza con la Germania non era ancora stretta del tutto. Pensava a fare degli italiani un popolo guerriero, piuttosto che a preparare l’Italia alla realtà della guerra. Quando Hitler brucia i tempi e fa scoppiare la guerra prima di quanto Mussolini voleva, l’Italia non è pronta e Mussolini deve adattarsi a questa fase di non belligeranza che molto gli brucia. Però lui vuole fare la guerra, non vi è trascinato.
La vuole fare perché il suo progetto totalitario prevede un’Italia dominatrice, imperiale, guerriera. Questo dimostra la falsità dell’altro luogo comune che viene sempre tirato fuori (che 'se Mussolini non avesse fatto la guerra eccetera eccetera eccetera'). Anche questa è una stupidaggine perché il Mussolini di quegli anni non poteva non fare la guerra. Mussolini non era Franco, un dittatore clerical conservatore. Aveva un progetto totalitario, anche se mai veramente realizzato. E’ inutile pensare altro. La guerra era dove lui voleva arrivare, era insita in qualche modo nel suo progetto (fin da subito, ma sempre più chiaramente dopo la guerra di Etiopia).

E cosa dice a chi insiste sulle “buone opere” di Mussolini?

Anche Stalin e Hitler hanno fatto bene delle cose. Va riconosciuto a Mussolini il fatto che la sua dittatura fu meno sanguinaria rispetto a quella dei suoi coevi. Detto questo, Mussolini fu fin dall’inizio un dittatore: prima di qualsiasi altra cosa, abolì la democrazia, le libere elezioni, i partiti e la libertà di opinione e di stampa. Tanto basta per condannarlo anche se avesse fatto bene tutto il resto. Questo è il punto.

Cosa c’è dietro una visione così deformata della storia? Ignoranza, pigrizia…?

Queste opinioni di Berlusconi non sono altro che l’ennesima riproposizione di un vecchio cliché che fa parte di una cultura politica che non è né fascista né antifascista, ma afascista. E’ una cultura condivisa da tanta maggioranza silenziosa italiana, che è la stessa dei rotocalchi moderati tipo Oggi negli anni Cinquanta. Una cultura che tende non a rimpiangere il fascismo – in fondo non credo che Berlusconi sia mai stato fascista – però tende a dare dell’esperienza fascista una versione edulcorata e sostanzialmente falsa. Dietro a tutto questo c’è l’ignoranza, una scarsa conoscenza e una deformazione dei fatti. Berlusconi è l’incarnazione di questa cultura – o incultura – afascista.

Che effetto fa, da storico, sentire dichiarazioni del genere proprio in un giorno dedicato alla Memoria?

Un effetto di frustrazione. Si scrive, si studia per tutta la vita... e poi? Ho citato De Felice, un uomo che è stato anche molto attaccato dalla cultura di sinistra italiana. Ha scritto migliaia e migliaia di pagine invano, evidentemente. Questa è la sensazione che prova uno come me: di scoramento. Purtroppo, sono cliché, luoghi comuni diffusi e che ritornano sempre. Si perde di vista il quadro complessivo, che è quello di una dittatura che aveva una tensione totalitaria. E questo è gravissimo. Una bestialità, una sciocchezza.

(28 gennaio 2013)

Non sento da nessuno degli schieramenti politici ,mettere in discussione che si debba dipendere dai banchieri e dall'alta finanza che governa questa Europa.


ROMA (WSI) - Il missionario e giornalista P. Giulio Albanese ha inserito in un articolo del numero di Gennaio della sua rivista "Popoli e missione", un’informazione tanto fondamentale quanto ignorata dalla stampa e che riportiamo qui sperando di aiutare in questo modo a divulgarla.

Vorremmo anche che i nostri governanti, astutissimi banchieri che non trovano mai sufficiente la cosiddetta "trasparenza e tracciabilità" dei nostri miseri redditi, inseguendo con la forza di quella che ormai possiamo considerare la loro particolare Polizia, i militari della Finanza, ogni nostro scontrino, ogni più piccola ricevuta, ci spiegassero quali sono i "loro" interessi a mantenere nell’ombra queste operazioni.

Dei nostri politici è inutile tenere conto: una volta ridotto il Parlamento alla farsa del dire "sì" ai banchieri, sono diventati come le famose scimmiette che non vedono, non sentono, non parlano, impegnati esclusivamente nella salvaguardia della propria carriera.

"Si tratta di un importante studio sul "sistema bancario ombra", lo shadow banking mondiale, pubblicato dal Financial Stability Board(Fsb), l'istituto internazionale di coordinamento dei governi, delle banche centrali e degli organi di controllo per la stabilità finanziaria a livello globale. Leggendo attentamente questo testo, si scopre che qualcosa di aberrante è all'origine della crisi finanziaria planetaria.

Lo studio, incentrato sulla cosiddetta eurozona e su altri 25 Paesi, evidenzia infatti che a fine 2011 ben 67mila miliardi di dollari erano gestiti da una "finanza parallela" , al di fuori, quindi, dei controlli e delle regole bancarie vigenti; una cifra che equivale al 111% del Pil mondiale ed è pari alla metà delle attività bancarie globali e a circa un quarto dell'intero sistema finanziario.

Leggendo questo studio si ha l'impressione d'essere al cospetto di un movimento sovversivo che specula impunemente ai danni degli Stati sovrani e soprattutto dei ceti meno abbienti. In altre parole, se da una parte ci sono i conti correnti con i risparmi dei cittadini e delle imprese, dall'altra abbiamo questo sistema bancario occulto, composto da tutte le transazioni finanziarie fatte fuori dalle regolari operazioni bancarie.

Come spiegato in più circostanze su questa rivista dal 2008, in coincidenza col fallimento della Lehman Brothers e dall'inizio della crisi sistemica dei mercati, si tratta di operazioni fatte da differenti intermediari finanziari, come certi operatori specializzati nel collocamento dei "derivati", quei prodotti finanziari che, in larga misura, hanno inquinato i mercati.

Tutte attività, queste, rigorosamente over the counter (otc), cioè stipulate fuori dai mercati borsistici e spesso tenute anche fuori dai bilanci. Alcuni autorevoli economisti ritengono che il "sistema ombra" sia spesso un'emanazione delle grandi banche internazionali che hanno interesse ad aggirare le regole e i controlli cui sono sottoposte."

Naturalmente nulla di tutto ciò è nuovo: se ne è parlato in libri e articoli (vedi "La Dittatura europea") già diversi anni fa e discusso abbondantemente in molti siti internet, incluso il nostro, ma come è successo sempre per quanto riguarda l’Unione europea e la moneta unica, politici e governanti ignorano qualsiasi domanda, passano sopra con dittatoriale indifferenza alle richieste e ai bisogni dei sudditi, intenti esclusivamente a condurre in porto il proprio progetto di potere: l’unificazione del mondo governato dai banchieri.

Non ha nessuna importanza il fallimento evidente di tante delle loro imprese, inclusa quella dell’euro, visto che se ne sono arricchiti in denaro e in potere, togliendoli ai cittadini. La bilancia, infatti, è proprio questa: tanto hanno perso in sovranità e in denaro i cittadini d’Europa, tanto hanno acquistato in potere e in denaro i banchieri. Come abbiamo già detto, i politici non contano: sono esclusivamente al servizio dei banchieri, forse perché altrimenti perderebbero pure le apparenze del potere e le connesse prebende di cui ancora godono.

Lo spettacolo che le migliaia di pirati all’arrembaggio hanno offerto ai nostri occhi in questi giorni per candidarsi alle prossime elezioni, per appropriarsi, come affamate cavallette, degli ultimi resti del corpo dilapidato dell’Italia, ha dato la misura di una involuzione ormai irreversibile.

Nessuno ha minimamente messo in dubbio che si debba dipendere dai banchieri, dall’alta finanza che governa l’Europa. Nessuno ha detto che, senza la sovranità monetaria, è impossibile ricominciare ad avere un vero mercato e salvare qualche briciola dalla competizione con gli Stati emergenti. Nessuno ha parlato della fine degli Stati nazionali e della loro indipendenza.

Addirittura si è deciso di partecipare ad una guerra (quella in Mali) senza discuterne in Parlamento. Nessuno ha preso in considerazione, in un’Europa che si vanta della propria civiltà, la criminalità di strutture di governo che dominano i sudditi attraverso il denaro, attraverso il fisco, assurto ad unico "valore".

Non parliamo dei "cattolici" visto che si vantano di esserlo anche molti dei governanti banchieri, pur calpestando il Vangelo ad ogni passo. Parliamo, però, della gerarchia della Chiesa la quale non ha mai condannato l’unificazione europea, pur voluta dall’alta finanza e guidata dai banchieri, e non ha neanche mai condannato i governanti banchieri che attraverso il fisco hanno spinto i sudditi alla disperazione fino al suicidio.

Ma soprattutto parliamo della gerarchia della Chiesa che adopera essa stessa il linguaggio del mercato laddove parla di valori "non negoziabili". Formula atroce che fa rabbrividire chi sa che nel Vangelo non esiste nessun valore "non negoziabile" perché soltanto di una specie di peccatori Gesù ha detto che "non entreranno nel regno dei cieli": i ricchi.


Fonte ItalianiLiberi

domenica 27 gennaio 2013

Piccoli e ricchi.




Tra i dieci Paesi più ricchi del mondo (classifica «Forbes» 2012), l’unico di grandi dimensioni è l’America: al settimo posto, con un reddito pro capite di 46.860 dollari. Gli altri nove sono piccoli o piccolissimi. Alcuni, come il Qatar che è al primo posto, devono la loro fortuna a petrolio e gas. Ma per Olanda, Svizzera, il territorio di Hong Kong, Norvegia, Singapore, Lussemburgo, la ricchezza deriva da altri fattori (la Norvegia è una combinazione rara di buongoverno e risorse naturali). Vista da un’angolatura diversa: tra i cinque Paesi più grandi per popolazione — Cina, India, Stati Uniti, Indonesia e Brasile —, solo gli Usa sono ricchi. Vorrà dire qualcosa. Potrebbe anzi volere dire molto: se si provasse una relazione inversa tra la dimensione di un Paese e la sua prosperità,molte certezze che si danno per scontate risulterebbero false. Certe volte il mondo cammina a testa in giù. Per esempio: uno degli architravi argomentativi alla base dell’Eurozona — cioè che nel mondo globalizzato occorre essere grandi per competere, pena il declino economico — vacillerebbe. Non solo: la dimensione di un Paese è spesso correlata al suo grado di apertura e addirittura di propensione democratica.

Aristotele (Politica) sosteneva che «è difficile, se non impossibile, che uno Stato popoloso sia governato da buone leggi». Per lui, la dimensione ideale corrispondeva a una comunità nella quale tutti conoscono tutti. Per Platone (Leggi) la misura esatta per il buongoverno era 5.040 famiglie, numero che consente suddivisioni organizzative precise. E delle «giuste» dimensioni dello Stato, si interessò a lungo Montesquieu, che ne temeva l’eccessiva grandezza. Anche i Padri Fondatori degli Stati Uniti ne discussero in profondità: James Madison, in particolare, condusse una battaglia a favore di una repubblica ampia ed eterogenea, che a suo avviso avrebbe ridotto i pericoli di tirannia dovuti al «sentimento comune» che caratterizza le piccole comunità. La questione, dunque, è tutt’altro che nuova e riguarda il modo stesso di essere dello Stato e della convivenza. Ma non è per nulla risolta, nel senso che non esiste una teoria definitiva degli effetti di uno Stato grande o piccolo sulla democrazia e sull’economia. Ciò nonostante, miti non provati — come appunto la necessità di essere grandi per competere e prosperare al giorno d’oggi — resistono e sono raramente sfidati.

Madison aveva argomenti seri per sostenere la bontà di una federazione ampia e diversificata, vivace al proprio interno, dove idee e interessi differenti si confrontassero. Meno di cent’anni dopo, la guerra civile mise a dura prova le sue teorie, ma certo oggi possiamo dire che gli Stati Uniti sono un Paese di grandi dimensioni e di successo, democratico e con un benessere diffuso. Ma per molti versi sono l’eccezione. Alberto Alesina, professore alla Harvard University, ha condotto ampi studi sulla dimensione ottimale dei Paesi e, tra l’altro, ha notato due cose interessanti nel rapporto tra grandezza e democrazia. Primo, «i dittatori preferiscono grandi imperi a Paesi piccoli, perché possono estrarre rendite totali maggiori da popolazioni più grandi»: non cercano, cioè, una dimensione statuale che massimizzi i benefici economici per la popolazione,ma tendono a espandersi fino al limite di rottura. Il che dà una connotazione non propriamente democratica alla tendenza verso la grande dimensione e soprattutto indica che «democratizzazione e secessioni dovrebbero progredire mano nella mano». Secondo, ha notato che nel periodo tra le due guerre mondiali del secolo scorso, un periodo di totalitarismi, non fu creato praticamente alcun nuovo Stato, benché le aspirazioni nazionaliste fossero forti un po’ in tutto il mondo. In compenso, nei cinquant’anni seguiti alla Seconda guerra mondiale, periodo di apertura e di democrazia, il numero dei nuovi Paesi indipendenti è quasi triplicato. La fine del totalitarismo sovietico ha coinciso con la rottura del grande Stato e la creazione di entità più piccole, non automaticamente democratiche, ma di sicuro più aperte.

Se si passa all’economia, certamente la grande dimensione sembra dare vantaggi. Alesina ne elenca sei: economie di scala nella produzione di beni pubblici (difesa, sistema finanziario, polizia, sanità, numero di ambasciate e via dicendo); maggiore capacità di difendersi da aggressioni esterne; centralizzazione di politiche come quelle sulla riduzione delle emissioni di gas serra; possibilità di mitigare, attraverso trasferimenti, le crisi regionali; capacità di aiutare le regioni più povere; un mercato interno più grande. Non sempre tutto funziona bene, ma in genere è così, se si considerano i Paesi come entità chiuse e isolate. Le cose cambiano però nella realtà, soprattutto quando i mercati sono aperti e il commercio internazionale ha pochi ostacoli. Il vantaggio di essere grandi, sottolinea Alesina, «diminuisce con l’integrazione delle economie». Detto diversamente: i Paesi piccoli beneficiano più di quelli grandi della caduta delle barriere al commercio mondiale, avendo un mercato interno piccolo. «L’integrazione economica è andata mano nella mano con la disintegrazione politica», secondo il professore di Harvard. Nella globalizzazione, insomma, la dimensione statuale conta meno che nell’autarchia: il contrario del sostenere che l’Eurozona (sempre più integrata) si giustifica con il dovere competere nel mercato internazionale.

Rispetto a un’entità grande, un Paese piccolo ha anzi vantaggi in termini di vicinanza, di maggiore omogeneità culturali ed etniche che aiutano le politiche di solidarietà, di democrazia più articolata e legata ai cittadini. E, grazie alla globalizzazione, può operare su mercati molto vasti, più di quelli che avrebbe se fosse di dimensioni maggiori, ma chiuso in una sorta di autarchia. In Europa, ciò dovrebbe significare un mercato sempre più integrato (la cui creazione è invece ferma da tempo); la ricerca di economie di scala nella produzione di beni pubblici (che non c’è); una difesa comune (che manca); trasferimenti verso le regioni povere (in stallo dopo lo scoppio della crisi del debito). Non dovrebbe invece significare — sempre secondo questa lettura — politiche sociali e fiscali centralizzate (che invece tendono a crescere). Preso dal punto di vista dei costi e dei benefici — economici ma anche di democrazia —, non è affatto dimostrato, anzi, che un’Europa sempre più «profonda», politicamente integrata e quindi «grande», sia da preferire a tante entità statuali, integrate laddove ciò crea beneficima indipendenti laddove ciò ne crea altri. Viene il sospetto che la competitività non soddisfacente del Vecchio Continente sia anche legata al malinteso della dimensione — non ottimale — che sostituisce una logica muscolare e tutta politica a una razionale. Anche l’idea di fare l’euro per avere una grande valuta di riserva, con benefici simili a quelli che il dollaro porta all’America, non sembra essere stata del tutto realistica.

Di fronte alla Catalogna che potrebbe separarsi dalla Spagna, alla Scozia che voterà sulla secessione dal Regno Unito, alla crisi istituzionale del Belgio che potrebbe spaccarsi in due, non c’è insomma un modo unico per stabilire se questi eventi possano essere un bene o un male. Allo stesso modo, il timore che la Germania si disamori dell’Europa e vada da sola non è per nulla attuale, ma non può essere eliminato dalla lista delle possibilità, se l’Europa dovesse dimostrarsi per Berlino più una palla al piede che un vantaggio: in fondo, la Corea del Sud, il Canada, l’Australia, lo stesso Giappone e molti altri Paesi non sono giganti; eppure nell’economia globale prosperano. È che i confini non sono mai per sempre.
di Danilo Taino, dal Corriere

sabato 26 gennaio 2013

Cronache dall'Italia in crisi:


Cronache dall'Italia in crisi:
"Così siamo diventati poveri"
Otto milioni di italiani vivono con meno di mille euro al mese. L’ascensore sociale è tornato indietro di 27 anni. La crisi economica ha massacrato la classe media che si ritrova così a fare i conti con le bollette ammucchiate sul frigo, l’assillo dell’affitto da pagare, la retta dei bambini a scuola. Ecco alcune semplici storie di chi per farcela  compra il pane del giorno prima o divide la casa con altre famiglie. Vite di laureati che fanno i baristi e di mariti mandati sul lastrico dal divorzio
di CONCITA DE GREGORIO, da Repubblica

INCHIESTA
I nuovi poveri
I NUMERI non rendono l’idea. Siamo assuefatti, bombardati. Non li tratteniamo neppure il tempo necessario perché si traducano in un pensiero. Sono le storie che parlano. Quelle sì, quelle somigliano tutte a qualcosa che sappiamo. La commessa del super, il fornaio dove vai a comprare le rosette, il ragazzo che ha l’età di tuo figlio, il padre di mezza età, la madre.

Questa è l’Italia, questi siamo noi. Narcotizzati da una campagna elettorale che discute di pensioni e di tasse, di esodati e di aliquote: un mondo politico che parla, provando a farsi votare, a chi il lavoro ce l’ha o ce l’ha avuto. Ma quasi la metà del paese non ha lavoro, lavora al nero, ha redditi sotto i mille euro. La media delle famiglie  italiane guadagna meno di ventimila euro l’anno, dicono i dati ministeriali, con buona pace delle discussioni sulla patrimoniale per chi ha redditi sopra il milione o il milione e mezzo.

C’è differenza fra ventimila e un milione, una differenza così grande che genera, in chi non trova ascolto, rabbia, ostilità, fragilità, disillusione. Siamo tornati poveri, dicono i dati Istat. Più di otto milioni di italiani, una famiglia su dieci spende circa mille euro a testa al mese, la cifra sotto la quale l’Istat stabilisce la soglia di povertà  relativa.

Indietro di 27 anni. Ma nemmeno questo rende l’idea perché ormai sono anni che separarsi è diventato un lusso da ricchi, che il ceto medio è scivolato verso l’indigenza, che i padri che pagano gli alimenti dormono in macchine e vanno a mangiare alla Caritas. La novità, oggi, come queste sei semplicissime storie raccontano, è che nell’indifferenza diffusa comprare a metà prezzo il pane di ieri, fare la spesa al super di carne in scadenza e quindi in saldo, nascondere la laurea per trovare un lavoro da 800 euro o laurearsi per poi servire ai tavoli di un pub, al nero, è diventato assolutamente normale.

Tutto intorno è così. L’ascensore sociale non è solo fermo, guasto, bloccato dal malaffare e dal malgoverno. Torna indietro. Non sale: scende. I figli hanno un destino peggiore dei padri, il giovane laureato in Legge, figlio di operai del Sud, ha vergogna a dire che non sa che farsene del suo titolo, non sa come spiegarlo ai genitori. Non va avanti, non può tornare indietro. È il lavoro che manca. È l’unica cosa di cui parlare, la sola di cui una campagna elettorale dovrebbe occuparsi: offrire un progetto per restituire lavoro al Paese. Senza libertà materiale non c’è libertà politica né democrazia. Il resto sono chiacchiere.

LA CASSIERA
"Vedo tanti pensionati a caccia di super-sconti tra i prodotti in scadenza"
"Può scrivere solo il mio nome? Non vorrei passare un guaio, mi manca solo quello. Giovanna. Faccio la cassiera qui da otto anni, delle prime sono rimasta l'ultima. Ora arrivano tutte ragazze che stanno tre mesi meno un giorno, poi cambiano. Contratti di formazione, li chiamano: ti danno due euro, ti "formano", poi ti mandano a casa e avanti un'altra. Così se ne va la giovinezza e poi dopo a quarant'anni dove lo trovi un impiego? Sì, qui nel nostro "super" facciamo gli sconti last minute. Non li ha visti? Sono quelli con il prezzo in giallo. Se il formaggio, o il latte, o la carne sono a 24 ore dalla scadenza costano fino all'80 per cento in meno. Roba da mangiare subito, la sera stessa, prima che vada a male. Ma ancora buona, eh. Guardi, si fermi a guardare: la comprano tutti. Vede, qui a San Giovanni in Laterano, ci vivono moltissimi pensionati. Vengono col borsellino con la cerniera e dieci euro dentro, la busta di plastica da casa. Che poi uno dice pensionati e pensa agli anziani, ma i pensionati che vedo io hanno anche meno di sessant'anni. A 58 anni non sei vecchio, ma se da un giorno all'altro i duemila euro di stipendio diventano 900 di pensione e se hai ancora i figli a casa... Sapesse quante ne sento. Allora per forza devi comprare la carne che scade. Guardi, guardi. Perché non si direbbe, no? Li vedi ben vestiti, poi arrivano alla cassa e fanno passare tre oggetti. Ormai pagano più in monete che in banconote. Abbiamo anche un accordo con le scuole: i punti della spesa si possono devolvere all'istituto di quartiere per il materiale scolastico. Sì, alla scuola pubblica, perché?"

L'OPERATRICE DI CALL CENTER
"Tre donne, quattro figli: con una casa in comune arriviamo a fine mese"
"Mi chiamo Antonia L. Ho 57 anni, una figlia di 18 che vive con me. Ho cominciato a lavorare al call center quando mi sono separata, tre anni fa. Il mio ex marito non è in condizione di darci niente. Prendo, come tutti, 80 centesimi lordi a chiamata. Il mensile dipende da quanto lavoro. Se sono in salute, se ci metto gli straordinari posso arrivare a 800 euro. Ne pagavo 400 di affitto, più un centinaio di bollette varie. Con i 300 euro che restavano a vivere in due non ce la facevamo. Come me le altre, che al call center siamo soprattutto donne, e tante sole con figli. Con due di loro siamo andate a vivere insieme, un paio di anni fa: un appartamento a Cinecittà. In casa siamo tre donne, una ragazza, la mia, e tre bambini. Ciascuna dorme in camera coi figli. Facciamo la spesa a turno, una volta alla settimana, al discount. A turno laviamo, cuciniamo e assistiamo quelli che si ammalano così se una ha il figlio con la febbre può andare lo stesso al lavoro. Ci prendiamo anche una serata libera, a rotazione. Abbiamo una macchina sola, una tv, un computer. Dividiamo tutto, per orari e per giorni. È una specie di comune anni Settanta: solo che allora lo facevamo per scelta, ora per necessità. Mio padre era impiegato, mia madre maestra. Hanno laureato tre figli, avevamo una casetta al mare. Io la mia laurea ho dovuto nasconderla, sennò ero troppo qualificata per ottenere il lavoro. Mia figlia dice che l'università non serve, non so più cosa risponderle. Da ragazza facevo politica, sono stata anche iscritta a un partito. Ora no, a votare non ci vado più".

IL PANETTIERE
"Vendo a metà prezzo il pane del giorno prima: c'è la fila per comprarlo"
"Abbiamo fatto mettere un cartello fuori: "Il pane di ieri a metà prezzo". Ho raccomandato ai dipendenti discrezione per non urtare le suscettibilità di nessuno. Sa com'è: siamo tutti benestanti fino a prova contraria, il paese è piccolo, la gente parla, la dignità non ha prezzo. Però vedo che lo chiedono in tanti, il pane di ieri. Mi chiamo Luigi Di Ianni, ho 64 anni. Facevo il commerciante, qui a Sulmona. Quando sono andato in pensione ho rilevato il forno "Profumo di pane", che è anche una pasticceria. Un'attività di medie dimensioni: tre punti vendita, mia moglie e mio figlio piccolo che mi aiutano e nove dipendenti. Questo Natale è stato un disastro. I dolci prima si vendevano tutti i giorni, ora a stento per le feste e la domenica. Il pane da noi siamo abituati a comprarlo in forme grandi, e si butta. Uno spreco che non ci possiamo più permettere. Mia madre faceva il pane con le patate che durava venti giorni. Allora ho pensato: ma perché abbiamo smesso di fare così? Se avessimo fatto attenzione, in passato, se fossimo stati più sobri... Io le vedo le persone a negozio, la conosco Sulmona. Sta morendo. Siamo in provincia dell'Aquila, abbiamo passato tristi giorni. Molti sono in cassa integrazione, molti hanno i figli che sono tornati a casa, e tocca mantenerli. Io stesso, se guardassi solo i conti, farei meglio a chiudere. È un impegno verso gli altri, l'impresa. È buono ancora, sa, il nostro pane di ieri? E poi il pane è sacro. Non si butta. Vedo che lo chiedono, infatti. E magari dicono per giustificarsi: sa, ci devo fare le polpette, i ripieni. Che importa se non è vero".

L'IMPRENDITRICE FALLITA
"Noi strozzati dai debiti, mio padre si è ammazzato e l'azienda non c'è più"
"Ho scritto a Monti, a Napolitano. Volevo solo che sospendessero le ingiunzioni di pagamento. Mio padre si è ammazzato per quello. Per rimetterci in piedi ci voleva un po' di tempo, un po' di liquidità, soprattutto avevamo bisogno di non essere in mora coi pagamenti. C'è una legge per i casi come il nostro, ho controllato. Ma non è successo niente. Passavano i mesi e le ingiunzioni continuavano ad arrivare. 200 mila. 180 mila euro a volta. Ma creditori di chi? Papà si è sparato. L'azienda non c'è più. E lo sa poi cos'è che lo ha rovinato? L'amministrazione pubblica. I lavori fatti e non pagati. Fatti, consegnati, con la mano d'opera e i materiali pagati: e i pagamenti delle municipalizzate, delle Asl che non arrivavano mai. A nove mesi, a dodici mesi. E se protesti è peggio, perché poi non lavori più. Ma come fai ad aspettare e intanto pagare i contributi ai dipendenti? Da dove li prendi i soldi? E se ritardi la stessa amministrazione pubblica che non ti paga i lavori ti nega la patente di legalità, non ti dà le carte che ti servono per accedere ai crediti bancari. E così muori, perché poi ci sarebbe da parlare dell'usura bancaria, l'usura legale che ti strozza e ti mette in ginocchio ma io non ne voglio parlare perché sono stanca e non ne posso più. Ho un figlio piccolo devo pensare a lui. Avevo pensato di andare via dal mio paese, dalla mia regione che è il Veneto, certo, il polmone produttivo d'Italia, come no. Ma poi dove vado. Mi chiamo Flavia, lasci stare il cognome. Sono stanca, gliel'ho detto. Tanto qui da noi lo sanno tutti chi sono e sono stanca anche di questo. Vorrei solo sparire".

IL SEPARATO
"Lo stipendio da grafico se ne va per mio figlio: adesso vivo di carità"
"Cosa vuole sapere che non abbia già raccontato? Ora vengono tutti a intervistarci come se fossimo bestie nello zoo: "Le case dei padri separati", scrivono nei titoli, e poi sotto sempre le stesse storie, tutte uguali. Cosa c'è di interessante? Non è normale? E poi perché tutti ora? Sono anni che va così e nessuno si è mai occupato di come vive un uomo che guadagna 1200 euro e si separa, deve pagare gli alimenti e mantenere i figli piccoli. Come vuole che viva? Con 300 euro al mese, vive. Oppure va per strada. Dorme in macchina. Sì, va bene, scriva. Mi chiamo Umberto, ho 52 anni, da otto mesi sto in una stanza dei Padri oblati di Rho. Mio figlio ne ha 11 e sta con me una settimana ogni due. La casa l'ho lasciata alla madre. Quando viene qui dormiamo nello stesso letto, anche se ormai è grandino. Ma non protesta. Prima, quando giravo per i divani letto degli altri, era peggio. Sono diplomato: grafico. Lavoro in una ditta, faccio il materiale pubblicitario. Ho provato a cercare un secondo lavoro, ma è un miracolo se sono riuscito a tenermi il primo. Per un periodo sono andato in depressione. Dopo l'apatia mi è venuta su una rabbia pazzesca. Ma come è possibile, dico, che si debba campare di carità? Ho smesso di guardare la tv, a sentire i talk show politici mi montava la furia, il resto è schifezza per addormentarsi. La macchina l'ho venduta, mio figlio a scuola lo accompagno coi mezzi. Lui si vergogna, vuole che scendiamo alla fermata prima della scuola. Non bisognerebbe separarsi mai. Resistere, ingoiare ma restare. Io non ce l'ho fatta, e ora pago".

IL LAUREATO
"Avvocato sulla carta faccio il cameriere per 400 euro al mese"
"Mi chiamo Giuseppe Minafro, ho 24 anni, la mia famiglia è di Sala Consilina, una frazione. Siamo di origine contadina, i miei genitori operai. Ho due fratelli, un maschio e una femmina. Non ci è mai mancato niente. Ho visto i miei lavorare sempre, tanto, ma la domenica a tavola c'era la torta e il vino dolce, d'estate si andava in vacanza al mare, stavamo bene, noi figli abbiamo studiato tutti. Certo che i miei hanno fatto i sacrifici, per noi, specialmente per me che mi hanno mandato a Roma e mi hanno pagato i libri, l'affitto della stanza, i biglietti del treno per andare e tornare. Io mi sono laureato, ora: Giurisprudenza, con una tesi in diritto penale. Abbiamo fatto una festa a casa. Una festa bellissima, con mezzo paese. Tutti a dire che orgoglio, che bellezza Peppino, ora che sei avvocato ci devi rendere giustizia. Ma io non lo faccio l'avvocato e non lo farò mai. Non sono parente a nessuno, come si dice da me. Concorsi in magistratura non ce ne sono. Io quello che faccio è lavorare in un pub dietro Campo dè Fiori. Cameriere la notte: entro alle sette e stacco alle tre del mattino, e prendo 400 euro al mese. Senza contratto, macché. Se rinuncio io entra un altro. Ho una ragazza, dividiamo il fitto della stanza. Dovrei essere contento, ho avuto bei voti alla tesi e tanti complimenti. Però ho un'angoscia dentro che mi porta via. Io l'avvocato non lo faccio ma al paese mio non lo sanno, e ai miei genitori gli dico ancora un po', non salite, aspettate che mi sistemo. Perché come faccio a spiegarglielo a loro, che hanno la terza media, che la mia laurea non mi serve a lavorare?"

Se questo è un reato


E' andato deserto, questa mattina a Matera,  il secondo tentativo di vendere all'asta i beni della cooperativa Cab di Scanzano. Come già accaduto nel centro jonico poco più di una settimana fa, un presidio di Altragricoltura ha manifestato la propria contrarietà rispetto all'iniziativa che a dire di Gianni Fabbris, leader nazionale del sindacato, rappresenta un "crimine sociale" nei confronti delle aziende agricole. Anzi, Fabbris rispetto all'ipotesi di essere denunciato con l'accusa di turbativa d'asta in una nota ha scritto: "Bene. Vista la solerzia, mi preme rendere noto, per le vie più pubbliche possibili, confidando sul fatto che la stampa presente non abbia paura della possibile chiamata in correo con il sottoscritto, quanto segue:

Mi chiamo Gianni Fabbris, nato a Sant'Arcangelo il 9/7/1958, residente in Policoro in Via Penelope 110 ed ogni altro mio riferimento può essere facilmente riscontrato presso la DIGOS di Matera (ma anche di tante altre parti del mondo e d'Italia per via delle innumerevoli iniziative condotte da molti anni in difesa dei diritti degli agricoltori e dei cittadini) e sono il Coordinatore Nazionale di Altragricoltura (associazione sindacale degli agricoltori e dei cittadini per la Sovranità Alimentare) e sono uno di quelli che era presente davanti all'IVG.

La mia intenzione di stamattina, come quella dei prossimi giorni, è stata e sarà proprio quella di “turbare questa e le altre aste che cercano di vendere i beni degli agricoltori” condannando alla morte le aziende e privando i cittadini del diritto sacrosanto di avere uomini e donne al lavoro nei campi.

Se questo è un reato denunciatemi subito (e con me gli altri complici, sempre più numerosi, di questo gravissimo reato), non vedo l'ora! E come me non vedono l'ora le centinaia di aziende del metapontino che, sotto lo schiaffo delle Banche, degli usurai, degli speculatori commerciali e finanziari, dei parassiti di una buracrazia cieca ed ottusa e degli Enti di riscossione, non sono più disposte ad accettare in silenzio di andare al macello come agnelli sacrificali sull'altare della speculazione e della responsabilità politica.

Il nostro obiettivo è proprio quello di accendere un faro di luce su quanto sta accadendo e non riuscirete a proseguire nel silenzio e nell'ombra. Io ho un nome ed un cognome, vogliamo conoscere quello di coloro che proveranno a comprare all'asta e di quanti si saranno resi complici del crimine sociale della chiusura delle nostre aziende. Lo diffonderemo. Ci vediamo nei prossimi giorni", ha scritto Fabbris. [GianPi]
Fonte : il metapontini

martedì 22 gennaio 2013

Il declino economico dell'Italia e l'articolo 18.


Lavoro sembra essere la parola chiave della campagna elettorale. Ma può essere declinata in chiavi diverse. Per alcuni, come Bersani e il Pd, la questione è come far ripartire l’economia per combattere occupazione e precariato (La Banca d’Italia ha avvertito che anche il 2013 sarà un anno difficile. È vero che nella seconda metà tornerà la crescita, ma questa sarà lenta, e la disoccupazione aumenterà ancora http://bit.ly/W4kQwH). Per altri invece, come Monti e i centristi, vogliono intervenire sul mercato del lavoro, mettendo di nuovo mano alla riforma Fornero e con il rischio di riaccendere le contese ideologiche sull’articolo 18. È l’idea secondo cui il primo problema della nostra economia sono le rigidità e il potere del sindacato.

Il declino dell’economia italiana ha radici profonde e lontane. Gli studiosi ne trattano da tempo, ben prima che scoppiasse la crisi attuale. Siamo alle prese con problemi strutturali che per troppo tempo sono stati rimossi, e che certo l’ultimo anno non ha contribuito a risolvere. Il governo Monti ha messo in sicurezza i conti pubblici, evitando il disastro, ma tutto il resto è ancora lì, in attesa di essere affrontato.

Negli anni scorsi la retorica politica ha trattato questo tema al solito modo: come oggetto contundente da scagliarsi contro a vicenda tra i vari schieramenti (cercando ognuno di scaricare la “colpa” sull’altro), ignorando di fatto gli studi, moltissimi, sull’argomento che invece hanno messo tutti l’accento su una crisi “di sistema”.

La bibliografia è molto ricca e qui elenchiamo qualche testo, nuovo e vecchio, dove per altro si possono trovare i rimandi all’intera produzione sull’argomento. C’è il recente volume  a più mani Il declino dell’economia italiana fra realtà e falsi miti (Carocci, 144 pagine, 17 euro), di qualche anno fa è Miracolo e declino di Giangiacomo Nardozzi (Laterza, 134 pagine 10 euro). Ancora, Il declino economico dell’Italia a cura di Gianni Toniolo e Vincenzo Visco, (Bruno Mondadori, 224 pagine 18 euro).

Bene, raramente gli studiosi individuano nella legislazione sul lavoro il problema numero uno.

Quasi tutti cominciano da un’altra questione: la produttività, in calo da più di un decennio. E questo significa minor competitività delle imprese, menoesportazioni, degrado dell’industria. E proprio tutti, invece, sottolineano come cause i bassi investimenti, la povertà di infrastrutture, la scarsa propensione all’innovazione, la ricerca di mercati “protetti” invece dell’apertura alla concorrenza. Questo se ci si limita agli aspetti economici. Allargando lo sguardo, a frenare gli investimenti (specie esteri) sono l’illegalità diffusa, la lentezza della giustizia, il basso capitale sociale, la condizione depressa della ricerca. È il sistema che non funziona, le cause sono tante e diverse, ma la matassa non si scioglie se si tira per primo il filo della legislazione sul lavoro.

Un sociologo come Carlo Donolo sostiene in Italia sperduta (Donzelli, 76 pagine, 18 euro) che il declino economico è solo uno dei frutti di un declino più generale, della società e soprattutto delle classi dirigenti. Il discorso pubblico, infettato dal populismo, ha negato per anni i problemi veri, e ha taciuto al paese la verità. Innescando una “crisi cognitiva” che impedisce di affrontare la realtà, ormai impossibile da percepire nelle sue forme e dimensioni autentiche. Anche Donolo, come tanti altri sostiene la necessità di spendere nella cultura e nell’innovazione e solo la politica può indirizzare gli investimenti nella direzione giusta.

Dopo anni di sacrifici, speriamo di non dover ricominciare a discutere di licenziamenti e Statuto dei lavoratori.
fonte: Repubblica

Il declino economico dell'Italia è cominciato ben prima di questa crisi.


Il declino economico dell'Italia è cominciato ben prima di questa crisi. E affonda le sue radici in un modello di sviluppo perdente, fatto di precarietà e svalutazione del lavoro. Ecco perché c'è bisogno di più sinistra non solo per difendere i diritti, ma anche per far ripartire l'economia.

di Emilio Carnevali,da micromega

Nel 1870 la Gran Bretagna deteneva una quota pari al 31,8% della produzione manifatturiera mondiale. Nello stesso periodo le sue navi costituivano più della metà dell'intera flotta europea e solcavano i mari portando le merci inglesi in ogni più remoto angolo del pianeta. Dalle sue miniere si estraevano ogni anno 112.203 mila tonnellate di carbone, contro le 34.003 mila tonnellate estratte in Germania e le 36.667 mila negli Stati Uniti. Dagli altoforni delle città industriali del Galles e della Scozia uscivano ogni anno 897 mila tonnellate di acciaio, più del doppio di quelle prodotte in Germania, 300 mila in più che negli Stati Uniti.

Il primato industriale, economico e finanziario della Gran Bretagna sembrava regnare incontrastato dal tempo in cui le prime macchina per la filatura del cotone erano state installate nelle fabbriche di Leeds, l'illuminazione a gas aveva rischiarato le notti nelle strade del centro di Londra e le prime locomotive a vapore cominciavano a viaggiare – a velocità mai viste prime – fra Liverpool e Manchester.

Pochi decenni dopo, alla vigilia della Prima guerra mondiale, quel primato era già un ricordo. La Germania, e sopratutto gli Stati Uniti, avevano già compiuto il sorpasso nei confronti dei sudditi di sua maestà. La leadership economica del mondo – e successivamente anche quella politica – si apprestava a trasferirsi al di là dell'Atlantico. Cosa era mai potuto succedere in un così ristretto arco di tempo?

Il quesito ha fatto riempire agli storici le pagine dei volumi di intere biblioteche. Moltissime sono le teorie formulate, diverse le spiegazioni che colgono almeno in parte i molteplici aspetti di un fenomeno indubbiamente complesso.

Certamente ebbe un ruolo quello che oggi chiameremmo il “modello di sviluppo” adottato dai rispettivi paesi. Negli Stati Uniti la carenza relativa di manodopera comportava un più alto costo del lavoro che spingeva gli industriali americani a investire molto di più in macchinari ed innovativi dispositivi di produzione. L'Inghilterra, per altro, poteva contare su un vastissimo impero coloniale dove riversare i suoi manufatti. Questo la spinse ad attardarsi per molto tempo su produzioni tipiche della prima rivoluzione industriale, senza sentire la necessità di penetrare mercati più sofisticati. In altre parole, non fu “costretta” a tenere il contatto con la frontiera delle tecnologie più avanzate.

Anche il sistema educativo inglese era carente rispetto a quello dei suoi competitori. L'insegnamento di base divenne gratuito solo nel 1891 e un certo “culto dell'esperienza pratica” contribuì a non far tenere in dovuto conto l'importanza della formazione tecnico-scientifica. Con le sue Realschulen e le sue Technische Hochschulen la Germania preparava manovalanza specializzata e quadri tecnici in grande quantità. Fu così che in breve tempo guadagnò la leadership nei settori più all'avanguardia. Multinazionali della chimica come la Bayer, dell'elettromeccanica come la Siemens, della metallurgia come gli imperi dei Krupp e dei Thyssen, tutti marchi ben conosciuti anche oggi, nacquero proprio nella seconda metà dell'Ottocento sotto la spinta di quella poderosa accelerazione industriale.

Già nel 1913 la quota dei manufatti inglesi sulla produzione globale era scesa al 14%, contro il 35% degli Stati Uniti e il 15,7% della Germania. Iniziava il lungo secolo dell'egemonia “a stelle e strisce” (inframezzato dalla tragedia, e dal successivo riscatto, di cui fu protagonista la potenza tedesca).

Quale lezione è possibile trarre dalla storia del “declino economico inglese”? Indubbiamente ci confrontiamo con una distanza temporale considerevole, con condizioni di contesto diversissime. Eppure anche l'Italia negli ultimi anni è andata incontro ad un declino economico cominciato ben prima di questa crisi. Anch'esso ha origine dalla scelta di un modello di sviluppo perdente.

Tra il 2000 e il 2011 – proprio gli anni per i quali Silvio Berlusconi, alla vigila della sua seconda esperienza di governo, prometteva l'avvento di un “nuovo miracolo economico” – il Pil del nostro Paese ha fatto registrare un tasso di crescita medio di appena lo 0,3%, contro l'1,1% di Germania e Francia. E negli anni precedenti la media della nostra crescita era stata dell'1,6% inferiore a quella europea.
Sempre nell'arco temporale 2000-2009 (il cosiddetto “decennio perduto”) la produttività in Italia è diminuita in media dello 0.5% l'anno, un dato che non ha eguali né nella nostra storia né in quella degli altri paesi europei.

Dunque, non solo abbiamo reagito peggio degli altri paesi europei al Grande Crack sistemico sprigionatosi con la crisi dei mutui subprime partita dagli Usa (-5,5% di flessione del Pil nel 2009 a fronte di una media nell'area euro del -4,3%). Ma già venivamo da una fase di grande difficoltà. Già avevamo accumulato un considerevole ritardo.

Quel che è peggio, tanto per indulgere ancora un po' nel pessimismo, è che le prospettive per il futuro sono parimenti fosche. Secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale relative ai famigerati Piigs, l'Italia è il paese che – esclusa la Grecia – recupererà con maggiore lentezza i livelli di produzione precedenti alla crisi: solo dopo il 2018 il nostro Paese dovrebbe raggiungere lo stesso livello del Pil che aveva nel 2007.

Quali sono le ragioni di tutto ciò? Ci sono moltissimi fattori alla base del declino italiano (li affronta nel dettaglio l'economista Mario Pianta nel suo ultimo libro “Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di dici anni fa”, Laterza). Eccone alcuni: una struttura produttiva debole, posizionata su settori tradizionali e poco innovativi come l'alimentare, il tessile, le calzature, il legno, i prodotti in metallo; il nanismo delle imprese (l'84% delle 510 imprese italiane ha meno di 9 addetti e un altro 15% ne ha tra i 10 e i 49); gli scarsi investimenti in ricerca e sviluppo sia da parte dei privati che da parte delle autorità pubbliche (nel 2009 il nostro Paese ha dedicato a questa voce di spesa l'1,26% del Pil, contro la media dell'Europa a 27 dell'1,9%, per non parlare delle irraggiungibili Germania, 2,8%, e Finlandia 3,9%).

Si tratta naturalmente di limiti e difetti che ci portiamo dietro non da ieri. Una volta, però, avevamo anche altre armi per poter far fronte a queste difficoltà, come ad esempio la svalutazione della moneta nazionale. Con l'avvento dell'euro non abbiamo più potuto svalutare, e pertanto è venuto a mancare uno strumento fondamentale che permetteva di riequilibrare i conti con l'estero. Gli aggiustamenti sono stati interamente affidati alla flessibilità di prezzi e salari (o alle variazioni della produttività).

E allora ci siamo inventati una “bella” scorciatoia: quella di scaricare tutto l'onere della nostra competitività sul lavoro. Ecco, in ultima analisi, qual'era il disegno strategico dietro a una serie di controriforme del mercato del lavoro che hanno fatto dilagare la precarietà ben oltre i livelli richiesti dalle necessità organizzative delle nostre aziende. Ed ecco spiegata la singolare “pigrizia” dei nostri imprenditori: con la scelta di questo modello si è persa l'occasione di “costringerli” a raccogliere la sfida della qualità e dell'innovazione, a investire nelle proprie aziende, in quel capitale umano che è l'unico vero volano di sviluppo nelle moderne economie della conoscenza. Si aggiunga che per quanto peggioreranno le nostre condizioni di lavoro, mai potranno competere in termini di costi con quelle vigenti nelle fabbriche del Vietnam o nei capannoni della Romania.

Fossimo l'impero inglese di fine Ottocento, almeno avremmo i domini coloniali dove riversare le nostre merci facendo valere il primato della nostra flotta. Invece siamo l'Italia del terzo millennio, la cui flotta sembra riuscire ad attrarre le attenzioni del mondo solo in occasione di improvvidi “inchini” sulla costa di qualche isola turistica...

Ecco perché è innanzitutto il lavoro, il lavoro e l'economia reale, che dovranno essere messi al centro dell'iniziativa del prossimo governo. E ciò significa difesa dei diritti, ma anche capacità di visione sul lungo periodo. Più prosaicamente: moderne relazioni sindacali (non ottocentesche, come le vorrebbe qualcuno), efficaci politiche industriali, massicci investimenti nella scuola e nell'università, servizi pubblici e infrastrutture adeguati.

Ha ragione il ministro della coesione territoriale Fabrizio Barca quando dice che il problema della crescita e dello sviluppo è in qualche modo, per sua natura, estraneo ad un esecutivo tecnico come quello guidato da Mario Monti. E non solo a causa delle politiche di austerity imposte dall'Europa e di cui lo stesso Monti si è fatto garante. Ovviamente è necessario che queste politiche cambino, che si riavvii un motore della domanda interna europea in grado di rompere la spirale infernale fra recessione, peggioramento del debito e politiche restrittive che aggravano ancor di più la recessione.

Ma lo sviluppo presuppone un idea di destino comune, implica una capacità di immaginazione delle traiettorie che dovrà seguire il Paese per i prossimi 10/15 anni (non per i prossimi 2 o 3 mesi). E questa è materia propria dell'arte della politica. Di una politica forte fatta da soggetti forti. Non da “dilettanti allo sbaraglio” che fanno a gara a chi urla di più per lucrare sulla disperazione sociale di un paese in ginocchio.

(22 gennaio 2013)

martedì 15 gennaio 2013

Il rischio luddismo



Usa, allarme per la marcia dei robot
“Lavoreranno al posto degli uomini?”


L’uso delle macchine invade settori tradizionali un tempo riservati agli umani: negli ospedali della Silicon Valley portano già i pasti ai pazienti, distribuiscono medicine e ferri ai chirurghi. Un robot-operaio costa 20 mila dollari e lavora per 3 anni...
di PAOLO MASTROLILLI, dalla stampa
Vi ricordate “Metropolis”, il film girato da Fritz Lang nel 1927, in cui i robot facevano tutto il lavoro al posto degli uomini? Ecco, ci siamo. L’unico problema è che gli uomini, liberati dalla fatica, non sono in vacanza a godersi la vita, ma in buona parte sono disoccupati, senza un soldo, e forse senza un futuro. I robot sono arrivati, però stanno competendo con noi per il lavoro, e in genere vincono. 

Non stiamo parlando di uno scenario da fantascienza, ma della realtà descritta nell’ultima puntata della famosa trasmissione giornalistica televisiva della Cbs “60 Minutes”. Lo speciale si intitola “March of the Machines”, la marcia delle macchine, ed è andato in onda domenica scorsa. In sostanza sostiene che il ruolo dei robot nelle nostre fabbriche, ma anche negli ospedali o negli uffici, sta crescendo in maniera epocale. Purtroppo, però, prendono il posto di persone che poi non trovano più un lavoro. Non esistono ancora numeri precisi sulla disoccupazione provocata dalle macchine, ma un fatto è chiaro: dall’inizio della crisi economica ad oggi, molti posti sono stati bruciati e mai rimpiazzati. Le compagnie sono sopravvissute e in troppi casi, superate le difficoltà della recessione, sono tornate a fare profitti, ma i disoccupati sono rimasti fuori dalla porta. La teoria degli scienziati intervistati da “60 Minutes” è che parecchi di loro hanno ceduto il posto ai robot, e non lo riavranno più indietro.  

In parte, è un problema legato alla dimensione tecnologica del nuovo lavoro. Basti pensare che Apple, Amazon, Facebook e Google valgono insieme circa un trilione di dollari, eppure impiegano in totale meno di 150.000 persone, ossia meno dei lavoratori che ogni mese entrano sul mercato americano. Sono aziende nuove, diverse, che hanno semplicemente bisogno di personale limitato. La questione, però, tocca anche diversi settori tradizionali. A Devens, in Massachusetts, ci sono i magazzini del grande centro di distribuzione Quiet Logistics, che impiega fianco a fianco 100 esseri umani e 69 robot. Gli ordini dei clienti vengono trasmessi direttamente alle antenne dei robot, che grazie ai codici a barre vanno a prenderli negli scaffali, li impacchettano e li spediscono. Inutile sottolineare che sono molto più efficienti, ubbidienti e meno costosi delle persone, che a breve rimpiazzeranno del tutto. 

Nei corridoi di El Camino Hospital, nella Silicon Valley, i robot non si limitano a portare i pasti ai pazienti, ma distribuiscono anche le medicine e i ferri ai chirurghi: quanto dureranno ancora gli infermieri? E poi ci sono i robot che sostituiscono gli impiegati negli sportelli delle banche, o quelli che fanno ricerche di archivio per gli avvocati, avvertendo che nemmeno i lavori intellettuali sono più al sicuro dalla “marcia delle macchine”. 
Un robot di nome Baxter, capace di svolgere varie funzioni manifatturiere, costa 22.000 dollari e dura circa 3 anni, ossia 6.500 ore lavorative. In pratica costa 3,4 dollari all’ora, ossia grosso modo la paga di un operaio cinese: di questo passo, i posti esportati all’estero con la globalizzazione e l’outsourcing torneranno negli Usa, ma se li prenderanno le macchine invece delle persone.  

Il rischio luddismo, così, riappare all’orizzonte, carico di una nuova rabbia. Infatti la costruzione di questi robot sta creando lavoro, ma è molto specialistico e riguarda un numero ridotto di esseri umani. Magari in futuro la crescente domanda per realizzare macchine sempre più sofisticate farà aumentare l’occupazione anche fra le persone. A patto di evitare il rischio di far nascere Hal, il computer super intelligente di “2001 Odissea nello Spazio”, diventato così ambizioso da mettersi in testa di fare a meno degli uomini. 

Gli equivoci dell'antipolitica


PARTITI E LA SOCIETÀ CIVILE

Tutto cominciò con «Mani Pulite». Poi Berlusconi terminò l'opera. Fu nel 1992-93, infatti, che in Italia, sull'onda della protesta contro la corruzione dei partiti, iniziò a diffondersi fino a dilagare un sentimento di disprezzo per la classe politica in quanto tale, un sentimento di avversione profonda per la politica come professione, direi per la dimensione stessa della politica e per la sua naturale (e aggiungo sacrosanta) pretesa di rappresentare la guida di una società. Giunto il momento di tirare le fila alle elezioni del '94, l'uomo di Arcore cavalcò l'onda da par suo. Mise insieme tutti gli ingredienti appena detti; li miscelò con il confuso antistatalismo ideologico prodotto dalla globalizzazione; e si presentò come il profeta di quella società civile che nel biennio precedente era stata osannata da tutti (in Italia qualunque idiozia, purché di moda, può contare quasi sempre su adesioni unanimi: il federalismo è un altro caso), osannata come la matrice per antonomasia del «nuovo» e dell'«onestà».

Da allora tutto il fronte antiberlusconiano non si stanca di denunciare l'«antipolitica» che rappresenterebbe l'anima del «populismo» del Cavaliere, di denunciarne ad ogni occasione i pericoli. Ma ciò nonostante proprio da allora, e forse non per caso, esso sembra spinto irresistibilmente a imitarlo. Da allora anche gli avversari di Berlusconi sono diventati sempre più inclini a vellicare i luoghi comuni dell'antipolitica. Come si vede bene oggi, tanto al centro che a sinistra, con l'inizio di questa campagna elettorale.
Dietro un omaggio di facciata (per carità, non sia mai detto «scendere», bensì «salire», in politica), in realtà l'intera piattaforma centrista di Monti si fa un vanto esplicito, ripetuto, insistito, della propria (reale?) estraneità alla politica: estraneità che neppure si sforza di nascondere la sua effettiva ostilità alla politica. Ne è espressione eloquente il bando comminato a chiunque abbia seduto alla Camera o al Senato per più di un certo numero di anni.

Monti e i suoi collaboratori hanno aderito all'idea - questa sì tipica di ogni populismo - che la politica non ha bisogno di persone esperte dei suoi meccanismi, persone pratiche del funzionamento delle amministrazioni, conoscitrici dei regolamenti delle assemblee parlamentari. No. Il nostro presidente del Consiglio - parlano per lui le procedure con cui ha voluto formare le liste dei candidati - sembra aver fatto proprio, invece, il pregiudizio volgare secondo cui il professionismo politico sarebbe il peggiore dei mali. Mentre un industriale, un economista, un professore universitario - loro sì, espressione della celebrata «società civile» - sarebbero invece per ciò stesso non solo onesti e disinteressati, e capaci di scelte giuste nonché di farle attuare presto e bene, ma anche in grado di soddisfare quella condizione non proprio tanto secondaria che è il consenso.

Pure per questa via, insomma, affiora nell'insieme del montismo, se così posso chiamarlo, quell'opzione irresistibilmente tecnocratica che, se ne sia consapevoli o no, rappresenta essa pure un esito classico dell'«antipolitica».
La quale antipolitica poi, a ben vedere, alla fine non è altro che politica con altri mezzi. Lo dimostra quanto sta accadendo sempre in queste settimane stavolta a sinistra, nel Pd. Qui pure tutta l'operazione della designazione «dal basso» delle candidature elettorali è stata condotta - in maniera perlopiù non detta, ma comunque chiarissima - facendo leva sull'ostilità verso il professionismo politico, verso chi occupava da troppo tempo la fatidica poltrona. Come appare ormai evidente, si è trattato di una versione per così dire dolce della renziana «rottamazione», guidata però dall'abile regia della segreteria Bersani. La quale, facendosi forte del mito della «società civile» e del «rinnovamento» - reso in questo caso più perentorio dal comandamento del «largo ai giovani e alle donne» - se ne è servito per fare fuori buona parte della vecchia rappresentanza, a lei estranea, e sostituirla con «giovani turchi» e dirigenti interni vicini al nuovo corso. E quindi per rafforzarsi.

Ma naturalmente poche cose sono così sicure come il fatto che, al centro come a sinistra, coloro che risulteranno eletti con il crisma salvifico della società civile, anche loro, alla fine, si adegueranno disciplinatamente ai vincoli e agli obblighi della politica. Anche loro obbediranno a quella regola suprema della politica che chi ha più forza, più potere, comanda: e poiché la gran parte dei cosiddetti esponenti della società civile di forza propria ne hanno poca o nulla, proprio essi - c'è da scommetterci - risulteranno in definitiva i più obbedienti.

di Ernesto Galli Della Loggia, dal Corriere

lunedì 14 gennaio 2013

"E' una leggenda del crimine sulla sua vita gireremo un film"



L'idea è dell'attore Sergio Troiano, rimasto affascinato dal personaggio: "Sono stati fatti su Vallanzansca, sulla banda della Magliana. Chiruzzi non ha mai sparato ed è stato una superstar delle rapine"
di MEO PONTE, dalla Stampa

IL TITOLO è ancora provvisorio: "Mirada criminal", sguardo criminale. E' il documentario che Daniele Agostini, registra torinese già autore di "Guerrillas", ricostruzione filmata del comandante Zero, leader della guerriglia sandinista in Nicaragua e Barbara Redini, addetta alla produzione, inizieranno a girare nei prossimi giorni a Torino (ma le location sono sparse in mezza Europa) su vita e imprese di Pancrazio Chiruzzi. L'idea è di Sergio Troiano, l'attore torinese, che dopo aver casualmente conosciuto Chiruzzi ha elaborato il progetto. "Mi sono trovato di fronte ad un personaggio che, sconosciuto al grande pubblico, era in realtà una vera e proprio leggenda per il mondo criminale e per la stessa polizia. Uno che se fosse nato negli Stati Uniti avrebbe da tempo attirato l'attenzione delle Major" spiega Troiano.

Per ora è stato girato un "teaser", una specie di pre-trailer ma bastano alcune suggestive riprese del volto segnato di Chiruzzi e quelle dello sguardo deciso di uno dei poliziotti che per anni gli ha dato la caccia (un ispettore della Squadra Mobile di Torino) per essere catturati dal fascino della storia. "Mi sono sempre chiesto come mai sono stati fatti film e telefilm su personaggi come Vallanzasca o come i gangster della banda della Magliana e nulla su uno come Chiruzzi, torinese come Cavallero, che per gli addetti ai lavori è una star delle rapine in grado di organizzare assalti fantasiosi alle banche svizzere, francesi e tedesche", sottolinea Troiano.

D'altronde basta scorrere la biografia di Pancrazio Chiruzzi per capire che la sua vita criminale segue una trama romanzesca. Originario di Bernalda, un paesino in provincia di Matera, approda sul Po negli anni '70, seguendo il padre autotrasportatore. Bandito lo diventa da ragazzo, dopo il furto di una bicicletta e probabilmente per le cattive compagnie. "E' tutto lì, ruota tutto intorno all'amicizia  -  ricorda ora  -  per questo posso dire che oggi è tutto finito. Avevo già deciso di smettere nel '74. Ricordo bene, era un capodanno. Ormai avevo tutto, ero ricco. Ho continuato per sfida, contro tutto e tutti. In quei momenti ti senti leggero. E' impossibile descrivere quella sensazione. Sai di giocarti la vita ma vivi un'emozione unica...".

Per anni Pancrazio Chiruzzi che gli amici chiamano Pan ha vissuto organizzando assalti a banche e furgoni blindati. Facendo dell'indipendenza uno stile: non si è mai legato a nessuno, né alla mafia né alla malavita organizzata. Ha fatto rapine in Svizzera, Germania, Francia ed Austria. E sempre con un gusto irrefrenabile per la battuta. Negli anni '70 agli agenti che lo arrestavano per i colpi all'estero disse: "Ma se sono l'unico di questi tempi a riportare i soldi in Italia...". Per vendicare l'amico Carlo Sgura, ammazzato, secondo lui, a sangue freddo dalla polizia svizzera, si accanisce contro le banche elvetiche. "Mi hanno detto che ancora oggi aspettano monsieur Chiruzzi", dice. Anche la polizia gli riconosce un'etica "professionale" che lui riassume così: "Non ho mai voluto drogati nella banda, perdono la testa e fanno macelli, né chi aveva un'amante. Ho sempre controllato io il "gruppo di fuoco" perché la prima preoccupazione è quella di evitare di ammazzare qualcuno".

E' stato soprattutto un grande organizzatore di colpi impossibili. "Si parte dalla scelta dell'obiettivo  -  spiega  -  da quel momento ti muovi come un automa, attento anche al minimo passo come se sospettassero di te ancor prima del colpo. E studi, anche tre mesi se necessario: modalità di intervento, spazi di reazioni delle scorte, vie di fuga che devono essere almeno tre. Insomma fare una rapina è come girare un film in cui tu, rapinatore, se il regista che assegna le parti. Un film però che deve essere girato solo se ha in lieto fine. Per organizzare un buon colpo ai miei tempi ci volevano almeno cento milioni di lire, non tutti se lo potevano permettere. Spendevo quaranta, cinquanta milioni al mese solo per le spese. Per i sopralluoghi soprattutto, in un anno ho fatto 200mila chilometri. E per le armi. Le prendevo all'estero, non mi fidavo di quelli che le vendevano qui, spesso erano poliziotti sotto copertura. Infine le auto, macchine rubate anche dieci mesi prima...".
Tutto questo però ormai per Chiruzzi sono solo ricordi. "Ad un certo punto ti prende la nausea appena infili i guanti  -  dice  -  ho vissuto a modo mio ed ho pagato con quasi mezzo secolo di galera. Ora voglio vivere una vita normale da uomo libero".


domenica 13 gennaio 2013

Il Cavaliere delle tasse


Con il Cavaliere il più alto aumento di tasse
di MARCO RUFFOLO, da Repubblica

Ci risiamo. La crociata berlusconiana contro le tasse è ripartita, con tutto il suo corredo di rito: gli attacchi al governo Monti che le ha alzate e le puntuali promesse elettorali, dalla cancellazione dell'Imu prima casa alla riduzione di Irpef e Iva.

Fino all'opzione zero-tasse per chi assume giovani. Insomma, si torna al passato, quando la destra minacciava scioperi fiscali, strizzava l'occhio agli evasori e annunciava operazioni "libera tutti". Musica già sentita, partitura già letta. Ma questo déjà vu tributario finisce per mischiare le carte della memoria, per far comparire avvenimenti mai accaduti o per cancellare fatti realmente successi. Sembra quasi che prima di Monti abbia governato una maggioranza capace di ridurre o quanto meno tener ferma la pressione fiscale. In realtà, non è andata così. Anzi, a conti fatti, con le ultime manovre il governo Berlusconi-Tremonti ha finito per alzare la pressione fiscale esattamente il doppio di quello che ha fatto poi il suo successore.

NIENTE RIDUZIONE - Quando il Cavaliere arriva a Palazzo Chigi nel maggio 2008 il peso delle tasse sul Pil è al 42,7 per cento. L'anno dopo, nonostante l'abolizione dell'Ici sulla prima casa, la pressione sale al 43,1. Negli anni successivi si riporta ai valori iniziali e fino al 2011 non cambia. Dunque, nessun forte aumento delle tasse ma neppure la caduta verticale promessa in campagna elettorale: secondo il programma del centrodestra sarebbero dovute scendere sotto il 40 per cento del Pil. 

ANNUS HORRIBILIS - Poi arriva l'annus horribilis, il 2011, con l'Italia screditata sul piano internazionale per l'inerzia su conti pubblici e riforme e per gli scandali del premier. Lo spread parte al galoppo, e Tremonti vara una prima manovra. Le previsioni saltano, la pressione fiscale è destinata a salire a ridosso del 44% nei tre anni successivi. Lo dicono gli stessi documenti del Tesoro. Ma i nuovi interventi non riescono a risollevare l'immagine del nostro Paese che torna rapidamente ad essere bersagliato dai mercati. Così arriva il semi-commissariamento ad opera di Bce e Ue. Pressato dalla inusuale lettera di Trichet e Draghi, che detta misure e tempi, Giulio Tremonti si impegna a raggiungere il pareggio di bilancio con un anno di anticipo: nel 2013. Le misure necessarie, secondo l'"invito" europeo, dovrebbero consistere soprattutto in un taglio delle spese. Tremonti punta invece tutto sulle tasse. E qui si apre un capitolo ancora poco conosciuto.

BOMBA A SCOPPIO RITARDATO - Problema: come fare a far digerire al Paese un aumento delle imposte dopo aver sbandierato per anni e anni la liberazione degli italiani dalle spire di un fisco troppo soffocante? L'idea di Tremonti è un capolavoro di equilibrismo: coprire i miliardi mancanti scaricando l'onere fiscale sul futuro governo. Con il beneplacito del premier e di tutti i ministri, viene inserita nella manovra una clausola che, ai fini del bilancio, fa scattare non subito ma negli anni successivi tagli lineari del 20 per cento a regime su tutte le agevolazioni fiscali. Gettito previsto: 4 miliardi nel 2012, 16 nel 2013 e 20 nel 2014. Circa ottocento euro a famiglia, secondo le prime stime della Cgia. Queste misure potranno essere evitate solo se la futura riforma dell'assistenza darà altrettanto gettito. Cosa assai improbabile, visti gli intollerabili tagli al welfare che comporterebbe.

STANGATA IRPEF - Dunque, taglio di tutte le agevolazioni fiscali, ma a scoppio ritardato. Si dirà: che male c'è. Tutti i governi cercano più o meno con successo di sfrondare qualche aiuto tributario a questa o a quella categoria. In questo caso, però, il governo Berlusconi-Tremonti va decisamente oltre, perché tra le agevolazioni tagliate non ci sono solo sconti più o meno ingiustificati come quelli sulle spese veterinarie o sul costo delle palestre. Ci sono anche quegli sgravi basilari che hanno lo scopo di alleviare il carico fiscale delle famiglie meno agiate e dei nuclei più numerosi. Ossia le detrazioni per lavoro dipendente e per carichi familiari. Insomma, si tagliano proprio gli aiuti che attribuiscono al nostro sistema fiscale una certa equità sociale. E non è finita. Con un'aggiunta a dir poco sorprendente, dal momento che arriva da chi ha sempre tuonato contro le tasse sulla casa, si decide di abolite l'esenzione Irpef sull'abitazione principale. 

PESANTE EREDITÀ - Riassumendo, prima di andarsene il governo di allora lascia in eredità al successivo nuove pesantissime tasse per le famiglie con figli e con redditi bassi e per tutte quelle che vivono in abitazioni di loro proprietà. Così quando arriva Monti, il nuovo governo si trova subito tra i piedi questa bomba ad orologeria e si affretta a sostituire la stangata Irpef (socialmente insopportabile) con un aumento più o meno differito dell'Iva. Nelle previsioni ufficiali per il 2013 e 2014, intanto, la pressione fiscale sale ancora: non più verso il 44 per cento ma a ridosso del 45. Tutto questo avviene prima del governo Monti, che poi, a sua volta, innalza ulteriormente la pressione fiscale portandola, come denuncia la Corte dei Conti, quasi un punto più su, appena sotto il 46%. A conti fatti, Silvio Berlusconi aumenta le tasse di due punti percentuali e Mario Monti di un altro punto. Risultato finale: due a uno.

sabato 12 gennaio 2013

Il reddito di cittadinanza è un diritto universale


conversazione con Stefano Rodotà di Roberto Ciccarelli, da il manifesto, 12 gennaio 2013

«In Europa - sostiene Stefano Rodotà, uno dei giuristi italiani che hanno partecipato alla scrittura della Carta di Nizza e autore del recentissimo "Il diritto di avere diritti" - siamo di fronte ad un mutamento strutturale che spinge qualcuno ad adoperarsi per azzerare completamente i diritti sociali, espellere progressivamente i cittadini dalla cittadinanza e far ritornare il lavoro addirittura a prima di Locke. Per accedere ai beni fondamentali della vita come l'istruzione o la salute, dobbiamo passare per il mercato e acquistare servizi o prestazioni. Il reddito universale di cittadinanza è il tentativo di reagire al ritorno a questa idea di cittadinanza censitaria».

Il reddito di cittadinanza, dunque, non il «salario minimo sociale e legale» chiesto dal presidente uscente dell'Eurogruppo Jean-Claude Juncker. Come spiega questa dichiarazione?
Juncker ha mostrato più volte un'attenzione rispetto ad una fase nella quale debbono essere ripensati una serie di strumenti anche partendo da una riflessione più profonda sulla dimensione dei diritti. A parte la sua citazione di Marx, credo che la sua dichiarazione dovrebbe essere valutata alla luce dell'articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali. In una delle sue carte fondative l'Ue si impegna a riconoscere il diritto all'assistenza sociale e abitativa e a garantire un'esistenza dignitosa ai cittadini. C'è un'assonanza molto forte con uno dei più belli articoli della nostra Costituzione, il 36. Considerati insieme, questi articoli offrono una chiave per considerare il reddito fuori dalla prospettiva riduzionistica con la quale di solito viene considerata. Diversamente dall'approccio del salario minimo, o di quello del «reddito di sopravvivenza» di cui parla Monti nella sua agenda, il reddito non può essere considerato solo come uno strumento di lotta contro la marginalità. In Europa non c'è solo la povertà crescente. Io credo che oggi la lotta all'esclusione sociale passi attraverso l'adozione del reddito di cittadinanza.

Riesce ancora a mantenere una fiducia ammirevole nelle istituzioni europee e a non considerarle solo come l'emanazione diretta della Bce o della volontà tedesca di imporre politiche anti-inflattive e di rigore nei bilanci pubblici. Come mai?
Ma perché l'Europa non può essere ridotta solo alle politiche dell'economia che assorbe tutte le altre dimensioni. Non è possibile ricordarsi degli aspetti virtuosi dell'Europa solo quando interviene per sanzionare i licenziamenti di Pomigliano oppure la legge italiana sul testamento biologico e dimenticarli quando impone di considerare l'economia come il Vangelo, con questa idea di mercato naturalizzato. L'Europa è un campo di battaglia. Io stesso ricordo la fatica di introdurre nella Carta di Nizza i principi di solidarietà e uguaglianza che prima mancavano.

Susanna Camusso (Cgil) sembra avere tutt'altra idea sulla proposta di Juncker e ha escluso il «salario minimo» perché danneggerebbe la contrattazione nazionale. Come lo spiega?
Capisco la sua volontà di salvaguardare la dimensione contrattuale, ma la trasformazione strutturale che viviamo ci obbliga ad andare oltre questo orizzonte. Il tema capitale e ineludibile è il reddito universale di cittadinanza. Martedì 15 a Roma presentiamo il libro Reddito minimo garantito del Basic Income Network dove discuteremo anche le proposte di Tito Boeri e Pietro Garibaldi, persone tutt'altro che ascrivibili ad un'orizzonte estremista. Il reddito è uno strumento fondamentale per razionalizzare un sistema altamente disfunzionale e sgangherato come quello italiano sulle protezioni sociali. Nei primi giorni di governo l'aveva citato anche Elsa Fornero, poi ha abbandonato questa prospettiva.

Di solito la sinistra e i sindacati considerano il reddito come un ammortizzatore sociale. Lei ritiene che sia un approccio corretto?
Assolutamente no. Oggi non è più possibile considerarlo come uno tra i tanti ammortizzatori sociali perchè dobbiamo cominciare a lavorare sulla distribuzione delle risorse. L'idea degli ammortizzatori sociali riflette un modo di guardare al precariato come un problema sostanzialmente transitorio che l'intervento dei governanti farà rientrare in una situazione di normalità. Oggi non è più così e il reddito è una precondizione della cittadinanza, uno strumento per affermare la pienezza della vita di una persona. Riguarda anche i lavoratori che si trovano in difficoltà, ma è un diritto di tutti i cittadini.

Quali sono le prime tappe del processo di una radicale riforma del Welfare?
Ripristinare l'agibilità democratica nelle fabbriche; difendere il diritto del lavoro dalla privatizzazione strisciante che non è una fissazione della Fiom o di Maurizio Landini; una nuova legge sulla rappresentanza sindacale ma soprattutto ripristinare il diritto all'esistenza che passa attraverso il reddito di cittadinanza. È una questione di cui non possiamo liberarci né con un'alzata di spalle come ha fatto Carlo Dell'Aringa, ma anche dicendo che il contratto funziona bene, il sindacato fa la sua parte, mentre invece nella società c'è più di qualcosa che non funziona. Dobbiamo pensare a una trasformazione radicale, proprio come accadde con lo Statuto dei lavoratori. Perché non dovrebbe accadere oggi?

Perchè forse allora c'era l'autunno caldo, la migliore cultura giuslavoristica con Giugni, Romagnoli, Mancini sostenne l'avanzata del movimento operaio. Oggi non è così...
C'è una certa sordità del sindacato perché ritiene che gli strumenti acquisiti siano sufficienti per fronteggiare qualsiasi situazione. Ricordo che Romagnoli gli ha rivolto critiche molto severe quando abbiamo elaborato e firmato il referendum contro le modifiche all'articolo 18 e contro l'articolo 8. In generale trovo spaventoso constatare i guasti della progressiva emarginazione del dialogo con la cultura politica. E questo non accade solo nel mondo del lavoro.

(12 gennaio 2013)

giovedì 10 gennaio 2013

La scomparsa degli ecologisti


LISTE: VERDI E AMBIENTALISTI QUASI ASSENTI

In attesa del dimezzamento dei parlamentari e della sparizione degli inquisiti, c’è già una categoria esclusa o quasi dal Parlamento: gli ambientalisti. Il Pd rinuncia a nomi storici come Roberto Della Seta, che condusse la battaglia dell’Ilva. Altri partiti non si sono neppure posti il problema. Quel che resta dei Verdi si dilegua nello schieramento guidato da Ingroia, senza essersi mai lontanamente avvicinato ai consensi e ai risultati raggiunti dai colleghi europei. Ma il problema non è solo di rappresentanza; è soprattutto di iniziativa politica. Nelle varie agende l’ambiente latita. La tutela del territorio, l’inquinamento delle città, persino le energie alternative passano in secondo piano. Certo, la crisi ingurgita tutto, mette le ragioni della produzione e dello sviluppo davanti al resto. Ma alla vigilia di elezioni decisive, la difesa dell’ambiente e della bellezza di un Paese prezioso e delicato come l’Italia dovrebbe essere al centro della discussione pubblica. Invece è diventato lo sfondo di profezie di malaugurio, seguite da allegrie di naufraghi scampati.

Negli altri Paesi non è così. In Germania i Grünen sono da venticinque anni il terzo partito, hanno governato per due legislature accanto all’Spd, guidano con Winfried Kretschmann un Land importante come il Baden-Württemberg, che oltre a essere stato uno storico feudo conservatore ospita il più grande polo automobilistico d’Europa. In Francia i Verdi hanno stabilmente risultati elettorali a due cifre, alle ultime Europee affiancarono i socialisti a quota 16%, e ora condividono vittorie e difficoltà con Hollande. In America, a parte le campagne di Al Gore, Obama ha voluto al governo Steven Chu, Nobel per la fisica grazie alle sue ricerche sulle energie verdi, e ha affidato l’agenzia per la protezione della natura e l’agenzia per il monitoraggio geologico a due leader storiche dell’ambientalismo come Lisa Jackson e Marcia McNutt. È vero che il presidente è accusato di non aver mantenuto le promesse sulla lotta all’effetto serra; ma le critiche vengono anche da destra, ad esempio dal sindaco miliardario di New York Bloomberg. Insomma, nel mondo i Verdi esistono e non sono confinati in una riserva, dialogano con i vari schieramenti, assumono responsabilità.

Sarebbe crudele paragonare tutto questo ai disastri di Pecoraro Scanio. La questione non è tanto che gli ambientalisti abbiano fallito nel formare il loro partitino, in aggiunta alle varie sigle postcomuniste e postfasciste che ci concederemo alle prossime elezioni. La questione è che non sono riusciti a ibridare i partiti veri. A diffondere le loro culture. A imporre un tema che attraversa tutti i campi della nostra vita quotidiana e della nostra attività, dalle politiche industriali alla sicurezza sul lavoro, dalla salute al turismo (possibile motore della ripresa italiana di cui anche si parla poco). Mentre ai cittadini il tema interessa moltissimo; infatti quando possono occuparsene lo fanno in massa e con determinazione, sia pure nella forma tranchante dei referendum, che riconduce temi complessi come la ricerca sul nucleare e le risorse naturali alla semplificazione talora eccessiva di un sì e di un no. Una volta ogni dieci anni gli elettori battono un colpo; poi la classe politica lascia ricadere lentamente le polveri. Anche così si amplia il distacco tra il Palazzo e il Paese.

di Aldo Cazzullo, dal Corriere
10 gennaio 2013

mercoledì 9 gennaio 2013

Un'agenda per la sinistra


di Barbara Spinelli, da Repubblica, 9 gennaio 2013

Forse per la sinistra è giunto il momento di togliere lo sguardo dall'Agenda Monti, di sottrarsi alla sua malia, di vedere le opportunità che sempre s'annidano nei disinganni. Che il premier non sia un uomo sopra le parti, la sinistra ormai lo sa, lo vede. L'incanto s'è rotto, Monti salendo in politica è sceso dal piedistallo dove era stato messo, e questo dovrebbe spingere le sinistre coalizzate a concentrare tutte le forze, le attenzioni, su quello che hanno da dire e offrire in proprio.

Da dire e offrire a proposito della crisi e dei modi di uscirne, del Welfare e dello Stato di diritto da salvaguardare, dell'Europa e di un mondo non più egemonizzato dalla potenza Usa ma non compiutamente multipolare.

Vero è che Monti coltiva sottilmente l'ambiguità: vorrebbe essere al tempo stesso uomo di parte e uomo estraneo alle parti. Vorrebbe entrare in politica guidando un centro liberista e contando umilmente le proprie forze, e al tempo stesso ignorare i numeri, imporsi come premier futuro anche se la sinistra raccoglierà più voti. L'umiltà si mescola all'hybris, alla dismisura, e la malia continua. Lui l'alimenta con ragionamenti intelligenti, insidiosi e assai disinvolti. Il voto, il popolo sovrano, le tradizioni democratiche: ai suoi occhi pesano relativamente, se l'approdo ha da essere comunque un Monti bis.

Tanto più dovrebbero contare - il voto, il popolo sovrano - agli occhi di chi vuol salvare quel che la democrazia esige: il contrapporsi di programmi diversi su come saranno governate, e con quale visione della crisi, l'Italia e l'Europa. Uscire dall'emergenza unanimistica è l'imperativo più urgente, se in Italia ha da ritornare la politica, e l'opera di disinganno comincia da qui: con la rinascita di una destra e una sinistra. È un disinganno duro per Monti, che congedandosi dalle proprie malie vorrebbe salvarne una, almeno: quella dell'emergenza. L'emergenza come lui ambiguamente la racconta è al contempo finita e infinita: finita grazie al suo governo, infinita essendo che domani ci sarà ancora bisogno di lui, uomo provvidenziale chiamato a fronteggiare uno stato di pericolosità pubblica che non scema.

Sono ambiguità che vale la pena smantellare, se si vuol uscire dal mito antidemocratico di un centrismo che regna immobile, senza confrontarsi con idee alternative né con alternanze di governo, perché al di fuori del proprio perimetro non conosce altro che "ali estreme", da tagliare o silenziare. Una sorta di repubblica moderatamente radicale, che ricorda la Restaurazione del regno nella Francia dell'800: "Nazionalizzare il monarca e monarchizzare la nazione", tale era il suo motto.

A simili equivoci, Partito democratico e Sel hanno un modo di rispondere: mettendo in risalto quel che è differente e nuovo nelle proprie agende. Pensando se stessi a prescindere dal centro con cui toccherà negoziare, se l'ascesa di Monti ci restituirà camere ingovernabili. Sentimenti gemelli come l'illusione o la disillusione sono rischiosi, in politica. Meglio trattare Monti come normale rivale, puntare sulla sua umiltà più che sulla sua hybris, e contrapporre alla sua forza la propria, nel duello. Ha detto il premier: "Spero che Bersani convinca, ma non vinca". È una scommessa sull'ingovernabilità dell'Italia, che però fotografa la realtà: infatti Bersani convince, senza dar l'impressione di voler vincere. Purtroppo la sua agenda somiglia parecchio a quella di Monti, come rammenta Eugenio Scalfari. Nelle prossime settimane converrà dire in che cosa le sinistre dissomigliano dalla destra, e dal centro. Converrà anche rivedere alcuni successi di Monti. È vero: a Bruxelles fu ottimo commissario alla concorrenza, quando s'accapigliò con Microsoft. Non risulta che abbia combattuto con pari vigore l'assenza di concorrenza nell'informazione televisiva italiana. La lotta all'evasione c'è, ma non all'altezza dei proclami. Nel 2012 gli introiti (6,4 miliardi) sono aumentati di mezzo miliardo rispetto al 2011: appena un centesimo dell'evasione annua (120 miliardi).

Le politiche di rigore sono il primo punto da discutere. In Europa non esiste solo la linea Monti, o Merkel. Lo stesso Fondo Monetario, con insistenza crescente, sta rivedendo strategie troppo cocciutamente difese. La tesi, esposta una prima volta nell'ottobre scorso, è che un errore grave è stato compiuto, dai neo-liberisti intenti a salvare l'euro. L'errore consiste nell'aver creduto che il rigore non avrebbe compresso oltre misura sviluppo e occupazione. Olivier Blanchard, direttore dell'ufficio studi del Fondo, conferma in un rapporto dell'inizio 2013 che i calcoli sono stati sbagliati (almeno nel breve termine, ma il breve termine è tempo lungo per le società): i tagli alla spesa pubblica hanno avuto effetti depressivi - sulla domanda interna, sulla crescita, sullo stesso debito pubblico - molto più ampi del previsto. Sul Washington Post del 3 gennaio, Howard Schneider parla di mea culpa dei vertici Fmi, e di una "tempesta nei circoli econometrici": degli economisti che, con Monti, basano le previsioni su modelli matematici. Stefano Fassina, responsabile economico del Pd tanto vituperato da Monti, ha richiamato l'attenzione sulla svolta del Fondo sin dal 12 ottobre 2012. Chi, nel suo partito, riprende i suoi argomenti per meglio confutare l'Agenda Monti?

In Europa Fassina non è solo. Sono inquieti i portoghesi: il Presidente Cavaco Silva vuole che la Corte costituzionale si pronunci sui piani di austerità, visto che "esistono fondati dubbi sulla giustizia nella distribuzione dei sacrifici tra i cittadini". È irritato il governo irlandese, costretto a sacrifici (per rifinanziare le proprie banche) non più chiesti, oggi, a Madrid. Il primo a dissentire dalla trojka (Unione europea, Bce, Fmi) fu George Papandreou in Grecia: disse che la crisi era politica più che finanziaria, e poteva esser vinta solo se l'Europa cambiava alle radici, evitando che le discipline nei singoli paesi accentuassero povertà e disuguaglianza. Fu silenziato, divenne un paria. In Europa lo ascoltarono solo i Verdi.

Costruire un'Europa diversa è la principale discriminante, oggi, fra progressisti e liberisti. Non è vero che centro e sinistre difendono la Federazione in egual modo. Monti non pronuncia la parola, nell'Agenda. Mentre la pronunciano Vendola e Bersani, che chiedono gli Stati Uniti d'Europa e un governo federale dell'eurozona. Volere la Federazione non è battaglia marginale: significa dare all'Unione i mezzi politici e finanziari per contrastare la crisi non solo nella solidarietà, ma predisponendo piani comuni di rilancio finanziati da comuni risorse. Al momento vincono i minimalisti: il bilancio non ha da crescere, ordina Londra, imitata da Germania, Olanda, Finlandia, Svezia. L'Italia difende le spese che ci sono destinate, senza esigere incrementi di bilancio.

Anche in politica estera la posizione può divenire discriminante. Si tratta di dare all'Europa nuovi compiti, non più dipendenti dalla potenza americana in declino: soprattutto nel Sud Mediterraneo, dove le primavere democratiche non sono finite ma stanno appena ora cominciando. Si parla molto di credibilità italiana all'estero, e di sicuro oggi la nostra voce è meno svilita. Ma voce per dire che, sul mondo?

Ci sono alcuni punti infine, nell'Agenda Monti e nelle decisioni del premier, che non sono affatto di destra: fra questi il reddito minimo, o la decisione di escludere dalla propria lista gli inquisiti, oltre ai condannati. Una sinistra che voglia non solo convincere, ma vincere, non può limitarsi a criticare il rivale-avversario. Che si mostri ancora più progressista di lui, che non gli lasci l'esclusiva delle politiche buone. Che aggiunga alle proprie agende quel che Monti visibilmente omette: la difesa strenua della laicità e dei diritti, compreso il diritto di cittadinanza degli immigrati nati in Italia. Se non lo fa, vuol dire che è ancora preda delle malie del premier e dei suoi incantamenti.

(9 gennaio 2013)