sabato 31 marzo 2012

L'Arpab è in possesso di dati che confermano l'inquinamento del Pertusillo.


L'Arpab è in possesso di dati che confermano l'inquinamento del Pertusillo. Sversamenti sospetti. L'istituto Superiore di Sanità sta collaborando per ulteriori analisi, ma riceverebbe pressioni politiche esercitate da ambienti della Regione. Gli analisti romani confermano: sostanze tossiche potrebbero entrare nella catena alimentare. Emergono gravissimi sospetti La fonte è accreditata. Attendibile. A prova di smentita. E asserisce, senza alcuna ombra di dubbio, che lo studio delle acque superficiali fatto dall'Arpab, farebbe emergere l'immissione di idrocarburi attraverso i bracci esterni del Lago Pertusillo. Confermando, di fatto, quanto scoperto, analizzato e denunciato lo scorso anno dall'Epha, gruppo di lavoro guidato dalla docente universitaria Albina Colella.


Emergerebbe, però, anche dell'altro dalle analisi che l'Arpab, grazie anche ad una convenzione con l'Istituto Superiore della Sanità, sta effettuando sull'invaso. Sono i dettagli di uno studio microbiologico su plancton, alghe e batteri. Le analisi microbiologiche, già da tempo dicono infatti che le falde acquifere sono eutrofizzate, cioè ipernutrite di fosforo, sali di azoto e altro. Nutrienti che in quantità eccessiva privano di ossigeno le stesse acque riempiendole di alghe. Potrebbero essere scarichi fecali, depuratori mal funzionanti, e scarichi illeciti di aziende zootecniche, ad alimentare la spirale. E un lago eutrofizzato è terreno fertile per cianobatteri e microcistine.


Vi raccontiamo di quelle strane analisi sulle carpe morte.


A completamento dell'inchiesta in edicola, a breve su Basilicata24tv il video verità esclusivo.
Fonte : Basilicata24

Danilo Sacco "Ho lasciato i Nomadi perché mi sentivo una palla al piede"


Danilo Sacco "Ho lasciato i Nomadi perché mi sentivo una palla al piede"

Danilo Sacco, 47 anni, 19 da cantante dei Nomadi
L’ex cantante: dopo l'infarto non reggevo più la responsabilità 
e il ritmo, qualcuno me l'ha fatto pesare
di PIERO NEGRI, dalla stampa

Danilo Sacco, 47 anni, 19 anni come cantante dei Nomadi, un primo posto in classifica e un infarto alle spalle, in queste settimane sta «rivedendo» la sua vita. Ed è contento: «Sì, contento delle decisioni che ho preso. Uscire dal gruppo è stata una necessità, psicologica e fisica: il mio corpo mi ha detto che era ora di smettere». Non che sia stato semplice, abbandonare una storia così importante e probabilmente unica: Sacco era uno sconosciuto cantante folk rock quando nel 1993 si trovò a sostituire il leggendario Augusto Daolio, morto da poco, che dei Nomadi era la voce e il volto. Il gruppo aveva perso da qualche anno il favore del pubblico grosso: «Tutti mi sconsigliavano di accettare, sembrava una scommessa persa», ricorda ora. Invece, la scommessa fu vinta: la seconda vita dei Nomadi ha conosciuto un successo nuovo e sorprendente, fatto soprattutto di concerti, centinaia l’anno, in tutta Italia, di un’identificazione assoluta con il pubblico, di un seguito appassionato che ha abbracciato anche le nuove tecnologie per stare vicino ai suoi eroi.

«Il 10 agosto - racconta lui - misi tutti al corrente della mia decisione. “Ne parliamo con calma?”, mi chiesero gli altri. Così, ci siamo dati una settimana per pensarci, poi ci siamo detti: ok, il 1° gennaio 2012 facciamo uscire un comunicato in cui annunciamo la separazione. Tornato a casa, comincio a pensare: che diranno i fan il 1° gennaio? Che me ne sono andato di mia iniziativa, alla chetichella, come un ladro? Così, la notte del 23 novembre ho scritto sulla mia pagina Facebook quel che pensavo, ho spiegato le mie motivazioni. Sono felice di averlo fatto, i concerti dopo quel giorno (i Nomadi hanno suonato fino a fine anno, ndr) sono stati belli, ho sentito l’affetto che mi circondava».

Si tratta, ovviamente, di una decisione che viene da lontano, almeno da quel 2009 in cui il cuore malato fermò la sua corsa. Per poco: «È chiaro che la malattia è stato uno scossone forte, anche se sono ripartito molto presto, contro il parere dei cardiologi, che mi avevano consigliato sei mesi di riposo assoluto. A tre mesi dall’infarto ero già sul palco. Mi sentivo bene, avevo soppesato i rischi e poi ero ripartito a testa bassa, come faccio di solito. Però ho capito subito che non avrei potuto sostenere il ritmo di prima, ho chiesto di ridurre il numero delle date e il ritmo degli spostamenti. Quando ho saputo che qualcuno, dal suo punto di vista, si era lamentato, perché fare meno concerti significa fare meno quattrini, mi sono sentito una palla al piede. E non potevo accettarlo».

Sacco cerca di non nutrire risentimenti e risponde «No comment» alla domanda su come si sia davvero sentito in quei frangenti. Poi spiega: «Per me la persona viene prima di ogni altra considerazione: oggi purtroppo mi rendo conto che quasi nessuno la pensa così. Cerco di capire tutti, provo a trovare una spiegazione a tutto e di solito ci riesco. In questo caso è: siamo tutti più liberi. Loro possono fare tutti i concerti che vogliono. E i miei problemi di salute ci sono e ci saranno sempre».

Ora Danilo suona con un nuovo gruppo («Grandi musicisti e grandi amici») e sta preparando album e tour. Dice di divertirsi molto, come non gli accadeva da tempo: «Tra dicembre e gennaio ho pensato seriamente di smettere, di dedicarmi ad altro. Poi una notte mi sono svegliato all’improvviso: avevo sognato una sequenza di accordi. Mi sono alzato, ho fatto saltare il gatto giù dal letto, ho preso in mano la chitarra e ho suonato ciò che avevo sognato. E in quell’istante ho capito che ero fregato, non avrei mai abbandonato la musica».

Ai Nomadi ora dice di pensare poco, ci tiene solo a «lanciare un grande augurio a Cristiano Turato, il nuovo cantante, che mi sembra un ragazzo sveglio, e certo sa quel che deve fare». All’ultimo concerto con il suo vecchio gruppo, dal palco ha detto: «Sono solo un uomo. Ho fatto quello che ho potuto, non quello che ho voluto». Poi ricorda il provino con cui fu arruolato, vent’anni fa: «Il proprietario di un locale di Parma fece avere ai Nomadi una cassetta del mio gruppo di allora, Comitiva Brambilla. Feci un provino e quando smisi di cantare Beppe Carletti, il capo della banda, si alzò e venne ad abbracciarmi. Altri tempi, meno frenetici, più umani...»

NOVA SIRI - "Il Gabbiano" in prima linea


La missione di aiutare chi soffre con tante iniziative sociali. Entra nel vivo l'attività dell'associazione di volontariato


di PIERANTONIO LUTRELLI


NOVA SIRI - Quando il volontariato viene visto come una missione. Un voler dare agli altri in cambio della pura e semplice gratificazione che scaturisce dall'alleviare i più bisognosi dalla sofferenza. È il caso dell'associazione "Il Gabbiano" di Nova Siri, presieduta da Maria Francesca Marturella eletta nel 2010 e socia fondatrice nel 2004, costituita da 28 soci effettivi che persegue esclusivamente fini di solidarietà sociale. E lo fa svolgendo, come detto, attività idonee a risolvere ed alleviare i problemi delle persone diversamente abili, anche non autosufficienti. "Nello specifico - ha spiegato il presidente al Quotidiano - si occupa dell'organizzazione di attività al fine di favorire l’inserimento di tutte le persone svantaggiate nella società e la loro inclusione ad ogni livello. "Il Gabbiano", inoltre, sensibilizza, favorisce, promuove e gestisce attività e strutture che assicurano e garantiscono la continuità assistenziale e di vita delle persone svantaggiate ed in particolare diversamente abili "oltre la famiglia". L'attività de "Il Gabbiano", peró, non si limita solo a questo. Infatti - ha aggiunto - partecipa ad avvisi pubblici, bandi e concorsi per la realizzazione di attività o progetti sempre atti alla realizzazione degli scopi sociali. Tra i cavalli di battaglia, vi è inoltre, la creazione di una rete di consulenti specialistici formati da medici,operatori sanitari e sociali, sensibili ed interessati alle problematiche dell’inclusione, (tutti reperiti all'esterno), contribuendo alla loro formazione ed all’aggiornamento al fine di migliorare la qualità dei servizi erogati ed il tenore di vita delle persone svantaggiate. Risaltano tra la miriade di attività, i laboratori formativi di musicoterapia, arteterapia e di lavorazione della ceramica. All'interno della sede sociale c'è sempre un operatore ed un assistente di base". L'associazione si occupa attualmente di otto ragazzi diversamente abili che hanno superato l'età scolare e gestisce da due anni la ludoteca comunale frequentata da circa venti bambini dai sei ai dieci anni. Il presidente Marturella, laureata in filosofia, nella vita svolge la libera professione di consulente di orientamento. A conoscerla, noti subito che sprizza bontà da tutti i pori. Lei che per questioni familiari ha conosciuto la sofferenza, ha deciso di aiutare chi soffre facendone una ragione di vita. "Per me - ha concluso - è una vera e propria forma di volontariato. Nessun socio lavora per l'associazione, solo esterni. Ringrazio tutti gli aderenti ed i genitori, perché è solo grazie a loro che riusciamo ad ottenere i risultati".


(da Il Quotidiano della Basilicata)

oltre 20 milioni di italiani con un reddito sotto i 15 mila euro


LE CIFRE DEL DIPARTIMENTO DELLE FINANZE DEL MINISTERO DELL'ECONOMIA
Irpef, ecco i dati: oltre 20 milioni di italiani
con un reddito sotto i 15 mila euro
La media è di 19.250 euro. Solo l'1% dichiara redditi superiori a 100mila euro, la maggioranza (90%) è sotto i 35mila


Retribuzioni
MILANO - Il reddito medio degli italiani è pari a 19.250 euro lordi. È quanto risulta dall'elaborazione delle ultime dichiarazioni dei redditi Irpef (dichiarazioni 2011 su anno di imposta 2010), diffuse dal Dipartimento delle Finanze del ministero dell'Economia. In un anno il reddito degli italiani è cresciuto dell'1,2% ma il 49% dei contribuenti ha un reddito complessivo lordo annuo che non supera i 15.000 euro l'anno. Un terzo degli italiani (circa 14 milioni) non supera un reddito complessivo lordo di 10.000 euro. Il 30% dei contribuenti dichiara redditi compresi tra i 15.000 ed i 26.000 euro, il 20% invece redditi tra i 26.000 e i 100.000 euro. Solo l'1% dei contribuenti italiani dichiara redditi superiori ai 100.000 euro, mentre il 90% è sotto i 35mila euro lordi. I contribuenti con redditi dichiarati superiori ai 300.000 euro sono invece 30.590, lo 0,07% del totale
REGIONI - Ma dove e chi dichiara di più? L'analisi territoriale mostra che la regione con reddito medio complessivo più elevato è la Lombardia (22.710 euro), seguita dal Lazio (21.720 euro), mentre la Calabria ha il reddito medio più basso con 13.970 euro. Nel 2010 si evidenzia, in controtendenza rispetto al 2009, una crescita superiore del reddito complessivo medio nelle regioni settentrionali rispetto al resto del Paese: gli incrementi variano da un massimo dell'1,3% al nord-ovest ad un minimo dello 0,6% nelle isole.

10 MILIONI A «IMPOSTA ZERO» - Con questa situazione di redditi (dichiarati) molto bassi, è alto il numero di quanti non sono tenuti a pagare le tasse: sono circa 10,7 milioni i contribuenti che «hanno imposta netta pari a zero», in pratica non pagano l'Irpef. Si tratta di contribuenti a basso reddito compresi nelle soglie di esenzione o la cui imposta lorda si azzera con le numerose detrazioni del Fisco.

GLI IMPRENDITORI - Le cifre del Dipartimento delle Finanze del ministero dell'Economia dicono che quella degli imprenditori sarebbe una categoria a basso reddito. La media infatti è di 18.170 euro di reddito lordo, meno dei dipendenti (19.810 euro) e degli autonomi (41.320 euro). Il reddito dei pensionati è invece di 14.980 euro, mentre quello «da partecipazione» è di 16.500 euro.

LA CRISI - Il Dipartimento delle Finanze ha ricordato che «dopo la profonda crisi economica che ha segnato il 2009, il 2010 è stato caratterizzato da una lieve ripresa, con un recupero del Pil reale (+1,8%) e nominale (+2,2%)». Le dichiarazioni dei redditi presentate per l'anno d'imposta 2010 sono state oltre 41,5 milioni, in lieve aumento rispetto all'anno precedente (0,6 per cento). Anche il numero di contribuenti è tornato a crescere (+24 mila), recuperando in minima parte il calo registrato nell'anno precedente (-280 mila). Ad aumentare sono soprattutto i contribuenti che dichiarano un reddito da lavoro dipendente (+56 mila), contro il calo di chi dichiara reddito d'impresa e lavoro autonomo
IL PESO DELLE ADDIZIONALI - A pesare sul reddito dei cittadini è l'addizionale regionale Irpef, in totale 8,6 miliardi di euro (+3,7% rispetto al 2009) con un importo medio per contribuente pari a 280 euro. L'Irpef comunale ammonta invece a circa 3 miliardi (+0,4%) con un importo medio per italiano pari a 120 euro. È il Lazio a registrare l'addizionale regionale media più alta (440 euro), seguito dalla Campania (360 euro). Al contrario l'addizionale regionale più bassa si registra in Puglia e Basilicata (180 euro).

LE REAZIONI - Il leader del Pd Pierluigi Bersani commenta così i dati sulle dichiarazioni dei redditi: «È l'eterna raffigurazione della vergogna dell'evasione fiscale». «Le tasse, in un corretto sistema democratico - ha aggiunto Anna Maria Bernini, portavoce vicario del Pdl - non dovrebbero essere percepite come una sofferenza, ma come una giusta contribuzione al bene comune». Ma sul rapporto tra reddditi di imprenditori e dipendenti reagisce la Cguia di Mestre: «È un falso statistico - spiega Giuseppe Bortoluss - non è vero che gli imprenditori guadagnano meno dei dipendenti. Ancora una volta qualcuno in malafede include, nel dato medio del lavoratore dipendente, stipendi di magistrati, manager, dirigenti che alzano il dato medio. Se il confronto viene eseguito, ad esempio, tra il reddito di un artigiano e quello di un suo dipendente, si scopre che il primo guadagna il 42% in più».

Fonte: Redazione Online del corriere

La trappola delle tasse


TAGLIARE LE SPESE SI PUO' (E SI DEVE)
L'Europa e l'Italia si trovano fra Scilla (la recessione) e Cariddi (debito e deficit). Sono acque molto difficili ed errori di navigazione possono essere fatali. I mercati li temono e le loro preoccupazioni si riflettono negli spread che si stanno di nuovo allargando. Quelli italiani sono saliti di 50 punti in meno di due settimane. Lo sbaglio da evitare, e che invece in Europa è sempre più frequente, è dare eccessiva importanza alla dimensione dell'aggiustamento dei conti pubblici, trascurandone la qualità. In Paesi come l'Italia, dove la pressione fiscale è vicina al 50% del reddito nazionale (Pil), ostinarsi a ridurre deficit e debito aumentando le imposte è inutile, o addirittura controproducente perché ogni beneficio rischia di essere annullato dall'effetto recessivo di un ulteriore aumento della pressione fiscale.

Negli ultimi otto mesi, in quattro successive manovre volte a correggere i nostri conti pubblici, la pressione fiscale è cresciuta di quasi 2 punti: dal 44,7% del Pil nel 2010 al 46,5% fra due anni. Quelle quattro manovre hanno anche ridotto le spese al netto degli interessi: apparentemente di 3 punti, dal 49,5 al 46,5% del Pil. Ma un'analisi più attenta mostra che una parte significativa di questa riduzione di spesa è avvenuta mediante tagli nei trasferimenti dello Stato a Comuni, Province e Regioni. Questi ultimi non hanno compensato i minori trasferimenti riducendo a loro volta la spesa, ma hanno aumentato alcune imposte locali, come le addizionali Irpef che sono entrate in vigore in questi giorni. Rifacendo i conti si scopre che dei circa 5 punti di correzione dei conti pubblici attuati nei mesi scorsi, quattro si otterranno tramite aumenti di imposte e uno soltanto per effetto di minori spese. Il risultato è che fra due anni la pressione fiscale complessiva (cioè sommando imposte pagate allo Stato e ad enti locali) supererà il 50%. Non è una peculiarità italiana: sta accadendo un po' ovunque in Europa.

E, tuttavia, studiando le correzioni dei conti pubblici attuate negli ultimi 40 anni nei maggiori Paesi industriali si apprendono tre lezioni. 1) Gli aggiustamenti fiscali che funzionano sono quelli che riducono le spese, aprendo così la strada a riduzioni del carico fiscale; 2) tanto meglio funzionano quanto più sono accompagnati da riforme che stimolino la crescita; 3) la discesa del debito è un processo che richiede tempi molto lunghi. Per essere credibile, servono quindi istituzioni che garantiscano la continuità delle politiche necessarie per ridurre il debito.

Le regole europee, anche le modifiche ai trattati decise tre mesi fa, continuano invece a porre l'accento esclusivamente sul pareggio di bilancio, senza dir nulla sulla composizione delle manovre per raggiungerlo, né sull'assetto istituzionale necessario per garantire continuità, ad esempio creando Commissioni fiscali indipendenti, la cui creazione avevamo proposto in un articolo del 3 marzo scorso. Dovendo scegliere tra un aggiustamento più severo, ma attuato solo elevando la pressione fiscale, e uno più moderato, ma attuato riducendo in via strutturale, e quindi permanente, la spesa, va preferito il secondo.

Nelle scorse settimane si è parlato di spostare il peso fiscale dalle imposte dirette (sul reddito) a quelle indirette (sui consumi). Le seconde sono meno distorsive delle prime e scoraggiano meno il lavoro, ma sempre imposte sono e riducono il potere d'acquisto dei salari. Facciamo pure una riforma fiscale di questo tipo, ma in un quadro di riduzione non di aumento del carico fiscale complessivo!

Riforma del mercato del lavoro ed equilibrio dei conti pubblici hanno un ovvio collegamento: l'impiego pubblico, che è una delle fonti principali di rigidità della spesa. Tant'è vero che le amministrazioni pubbliche, per acquisire un po' di flessibilità, fanno esse pure ricorso a contratti a tempo determinato, contribuendo a creare anche qui un mercato del lavoro «duale».
Per molti aspetti, quindi, i problemi del mercato del lavoro del settore pubblico sono simili a quelli del settore privato. Non solo. Soprattutto nel Sud l'impiego pubblico è una forma di sussidio permanente, un modo molto inefficiente per trasferire reddito alle regioni del Mezzogiorno, che non le aiuta a diventare più produttive, anzi ostacola lo sviluppo dell'occupazione nel settore privato. Per giusti motivi di equità questo governo ha eliminato ogni differenza nel trattamento pensionistico tra dipendenti pubblici e privati. Non applicare le medesime regole al mercato del lavoro significa reintrodurre differenze inique nella natura dei contratti.

Sono queste le sfide che attendono il governo Monti, un esecutivo nato per avviare riforme che la politica non ha avuto il coraggio di fare. Entrambi dovrebbero ricordarlo, governo e politica, prima che la luna di miele finisca.

Alberto Alesina Francesco Giavazzi, dal corriere
31 marzo 2012 |

Il fuoco dei monaci tibetani nel buio del mondo


di ENZO BIANCHI,dalla stampa

Ancora un monaco tibetano che muore dopo essersi dato fuoco per denunciare il pugno di ferro della Cina contro il popolo e le tradizioni religiose tibetane. Ancora un giro di vite di funzionari ed esercito per controllare, prevenire e reprimere espressioni di dissenso che scaturiscono dai monasteri buddisti.

Ancora una volta le fiamme dell’immolazione che non riescono ad accendere la solidarietà di quanti potrebbero e dovrebbero alzare la voce in difesa degli indifesi. Diventiamo sempre più sordi e muti di fronte all’oppressione operata dal più forte, dal troppo forte contro il più debole, il troppo debole, l’inerme. Eppure, la disarmante testimonianza di chi usa violenza contro se stesso per denunciare quella compiuta quotidianamente contro il proprio popolo non cessa di gridare: con più si cerca di soffocarla e con più la brace coperta dalle ceneri lascia sprigionare l’ardore di chi sa di battersi per una causa giusta.

E per la medesima causa si battono anche i tantissimi giovani che, senza arrivare all’immolazione finale, non cessano di ingrossare le fila dei monasteri buddhisti in Tibet. Cosa li spinge, per un periodo di tempo o per la vita intera, in luoghi sorvegliati come prigioni e in condizioni di vita durissime? Cosa anima la loro ricerca interiore, cosa la tiene in comunione profonda con l’anelito di un popolo? Il desiderio di vivere secondo il sentiero buddhista, una via «monastica» nella sua essenza e struttura, sognando la sopravvivenza e la rinascita di una società dove tutti dovrebbero poter incontrare sul proprio cammino i monaci che, in silenzio, nella fiducia e nell’abbandono alla generosità dell’altro, chiedono quotidianamente per strada una ciotola di riso, nutrimento per loro sì, ma soprattutto occasione per il donatore di perseguire la rettitudine della propria vita. Anche quando questo rapporto con il popolo è coartato e reso impossibile, in realtà la relazione si mantiene viva: i tibetani sanno di poter contare sui monaci, sulla loro capacità di soffrire anche per gli altri, di tener desta una lingua e una cultura, di gridare con voce più forte del silenzio loro imposto, di dare la vita per gli altri fino alle estreme conseguenze.

Per questo i monaci incutono sempre timore ai potenti di turno; per questo sono controllati, osteggiati, oppressi; per questo si fan sparire le tracce del loro sacrificio, si nega al monastero di appartenenza o ai parenti il corpo di chi si è immolato, si cerca in ogni modo di spezzare il legame di solidarietà tra monaci e popolazione della regione. Il monachesimo, non solo quello buddhista, è da sempre, per sua natura elemento che si colloca ai margini e al cuore della società in cui vive: separato nei luoghi e nei modi di vivere, ma unito a tutti nella tensione spirituale, nella ricerca di senso, nella lotta al dolore, nella libertà di porsi al servizio dell’altro.

Noi, storditi più che distratti da interessi economici e politici, vorremmo che calasse il buio sul martirio del popolo tibetano, che nessuno disturbasse i manovratori, che non troppa luce illuminasse la negazione dei diritti umani. Il silenzio orante dei monasteri e le grida in fiamme delle torce umane squarciano questo buio, disturbano i nostri affari, illuminano la nostra meschinità. Ancora una volta chi più appare fuori dal mondo ce ne narra la realtà più scomoda.

Tagli all'Enea di Trisaia


Le segreterie prov.li Cgil Cisl Uil, unitamente alle federazioni di categoria dei trasporti, dei servizi e della conoscenza, indicono un’assemblea nello spiazzale antistante il Centro Ricerche Enea di Rotondella, dalle ore 8 alle ore 10, per il giorno 3 aprile 2012.
Le ragioni di tale iniziativa – si legge in una nota sindacale a firma di Taratufolo, Amatulli e Coppola - sollecitata dai lavoratori operanti nel Centro Enea (diretti e indiretti), rivengono dalle drammatiche conseguenze relative ai tagli che il Centro sta subendo. Oltre ad esserci una grave diminuzione del personale adibito alla ricerca, i lavoratori addetti ai servizi esternalizzati (mensa, facchinaggio, pulizie, vigilanza) stanno subendo un inaccettabile decremento delle ore di lavoro settimanali (si precisa che si tratta di lavoratori già part time e spesso monoreddito). La situazione è molto delicata e abbisogna dell’attenzione necessaria a scongiurare situazioni non più gestibili.
Fonte: Basilicatanet

venerdì 30 marzo 2012

Mario Monti scrive sulle polemiche dopo il suo intervento: i partiti dimostrano senso di responsabilità. Italiani maturi


LA LETTERA DEL PREMIER

Caro Direttore,
vedo solo ora che alcune considerazioni da me fatte in una conferenza tenuta l'altro ieri a Tokyo presso il giornale Nikkei hanno suscitato vive reazioni in Italia. Ne sono molto rammaricato, tanto più che quelle considerazioni, espresse nel corso di un lungo intervento in inglese, avevano l'obiettivo opposto a quello che, fuori dal contesto, è stato loro attribuito. Volevano infatti sottolineare che, pur in una fase difficile, le forze politiche italiane si dimostrano vitali e capaci di guardare all'interesse del Paese.

La mia visita in Corea, Giappone e Cina ha lo scopo di spiegare ai governi e agli investitori asiatici ciò che l'Italia sta facendo per diventare più competitiva, anche nell'attrarre investimenti esteri.

Comincia a diffondersi l'apprezzamento per ciò che il nostro Paese ha saputo fare in pochi mesi in termini di riduzione del disavanzo, riforma delle pensioni, liberalizzazioni.
Ma restano una riserva, una percezione errata, un forte dubbio. La riserva, comprensibile, riguarda il mercato del lavoro. Con quali tempi il Parlamento approverà la riforma proposta dal governo? La sua portata riformatrice verrà mantenuta sostanzialmente integra o verrà diluita? La percezione errata è quella che porta ad attribuire essenzialmente al governo («tecnico») il merito dei rapidi cambiamenti in corso. Il forte dubbio discende da quella percezione: è il dubbio che il nuovo corso possa essere abbandonato quando, dopo le elezioni parlamentari, torneranno governi «politici».
Finché la percezione errata e il dubbio non saranno dissipati, la fase attuale verrà considerata come una interessante «parentesi», degna forse di qualche investimento finanziario a breve termine. Ma le imprese straniere, come del resto quelle italiane, saranno riluttanti a considerare l'Italia un luogo conveniente nel quale investire e creare occupazione.

Non è facile modificare le opinioni su questi due punti. Ma credo sia dovere del presidente del Consiglio cercare di farlo con ogni interlocutore. Gli argomenti che ho utilizzato a Tokyo, riportati correttamente dai corrispondenti italiani presenti, ma «letti» in Italia fuori contesto, sono stati i seguenti.

Se da qualche mese l'Italia ha imboccato risolutamente la via delle riforme, lo si deve in parte al governo, ma in larga parte al senso di responsabilità delle forze politiche che, pure caratterizzate da forti divergenze programmatiche, hanno saputo dare priorità, in una fase di emergenza, all'interesse generale del Paese.

E lo si deve anche alla grande maturità degli italiani, che hanno mostrato di comprendere che vale la pena di sopportare sacrifici rilevanti, purché distribuiti con equità, per evitare il declino dell'Italia o, peggio, una sorte simile a quella della Grecia.

E dopo le elezioni? Certo, torneranno governi «politici», come è naturale (perfino in Giappone, ho dichiarato che il sottoscritto sparirà e che il «montismo» non esiste!). Ma ritengo che ciò non debba essere visto come un rischio.

Le forze politiche sono impegnate in una profonda riflessione al loro interno e, in dialogo tra loro, lavorano a importanti riforme per rendere il sistema politico e istituzionale meno pesante e più funzionale.

Ho anche espresso la convinzione che il comportamento delle forze politiche dopo questo periodo, del quale le maggiori di esse sono comunque protagoniste decisive nel sostenere il governo e nell'orientarne le scelte, non sarà quello di prima. Infatti, stiamo constatando - anche i partiti - che gli italiani sono più consapevoli di quanto si ritenesse, sono pronti a esprimere consenso a chi si sforzi di spiegare la reale situazione del Paese e chieda loro di contribuire a migliorarla.

«La mia fiduciosa speranza - ho detto a Tokyo - è che questo sia un anno di trasformazione per il Paese, non solo sul fronte del consolidamento di bilancio, per la crescita e per l'occupazione, ma anche perché i partiti politici stanno vedendo che gli italiani sono molto più maturi di quello che pensavamo: la gente sembra apprezzare un modo moderato e non gridato di affrontare i problemi». A sostegno di questa tesi, fiduciosa nella politica e indispensabile per dare fiducia nell'Italia a chi deve aiutarci con gli investimenti, a offrire lavoro ai nostri giovani, ho ricordato che, per quel che valgono, i sondaggi sembrano finora rivelare un buon consenso al governo, che pure è costretto a scelte finora considerate impopolari.

In questo modo mi sto impegnando per presentare, a una parte sempre più decisiva dell'economia globale, un'Italia che si sta trasformando, grazie all'impegno di politici, «tecnici» e, soprattutto, cittadini. Trasformazione che proseguirà anche dopo il ritorno a un assetto più normale della vita politica.

di Mario Monti, dal corriere
30 marzo 2012 |

La distanza tra Roma e Madrid


di IRENE TINAGLI, dalla stampa

Sciopero generale ieri a Madrid: i sindacati si ribellano alla riforma del lavoro e manifestano tutto il loro dissenso. Il governo tuttavia, forte anche del plauso della Commissione Europea e degli osservatori internazionali, dichiara di non avere intenzione di fare alcun passo indietro. La Spagna come l’Italia? Solo in apparenza.

La riforma spagnola per certi versi è più radicale di quella italiana eppure, grazie alla forte maggioranza parlamentare uscita dalle urne, Rajoy si è potuto permettere un percorso meno mediato e con meno intoppi. La situazione italiana è molto diversa. Nonostante Monti dichiari che i cittadini appoggiano la sua riforma, il suo consenso ha una natura molto diversa da quello di Rajoy. Senza togliere niente all’efficacia dell’azione del governo Monti, buona parte del suo consenso vive di luce riflessa e inversa: è la grande debolezza dei partiti a dargli molta forza. Ma per quanto deboli siano, sono pur sempre i partiti che fanno o disfano le maggioranze parlamentari che devono approvare le sue riforme. E da qui le mediazioni, i tavoli, le soluzioni intermedie, gli aggiustamenti.


Non è un caso se le prime riforme di Monti, avvenute in un momento di crisi totale dei partiti, sono quelle approvate più rapidamente, mentre le successive hanno vissuto maggiori «battaglie». Questo processo di mediazione chiaramente può essere visto sia come una opportunità – perché consente di raggiungere soluzioni più bilanciate - che come un problema – gli effetti potrebbero risultarne attenuati o troppo dilazionati.

Ma a ben vedere le differenze tra gli atteggiamenti e le misure dei due governi non derivano soltanto dall’avere una solida maggioranza parlamentare, ma anche da una serie di idee e questioni più squisitamente politiche e per certi versi ideologiche che cominciano ad emergere nel caso spagnolo.

E’ inevitabile infatti che molte delle iniziative prese dal governo di Rajoy in qualche modo lascino trasparire l’impronta politica del partito che le ha elaborate. L’obiettivo non è solo rimettere a posto il deficit, ma anche rispondere alle aspettative del proprio elettorato, sia in economia, con pesanti tagli al sistema di Welfare creato dai socialisti che i popolari hanno sempre considerato eccessivo, sia in altri ambiti non economici.

Non è un caso se il governo spagnolo ha iniziato ad affrontare temi di ben altra natura, come, per esempio, la questione dell’aborto, un tema su cui i popolari non hanno mai digerito la riforma di Zapatero del 2010. Proprio l’altro ieri il ministro della Giustizia Gallardon ha annunciato una nuova legge sull’aborto, dichiarando che le leggi attuali spingono le donne ad interrompere la gravidanza, e sostenendo che «la libertà» di diventare madri è ciò che rende le donne autenticamente donne.

Ecco, in queste circostante viene fuori fino in fondo la differenza tra un governo politico e un governo tecnico. Nessun ministro dell' attuale governo italiano si sarebbe mai sognato di esprimere giudizi di questa natura su un tema così delicato. E per quanto le dichiarazioni del ministro Gallardon possano scuotere e sconcertare (soprattutto i milioni di donne che ormai sono abituate a scegliere in totale libertà cosa le definisca «donne», senza che glielo debba dire un ministro), è normale che un governo politico cerchi di portare avanti una sua idea di società, di diritti civili, di etica, di rapporto Stato-cittadini.

Il governo tecnico, come lo stesso Monti ha ricordato in alcune occasioni, non può entrare in materie di questo genere. Non perché non abbia idee in proposito - sicuramente sia Monti che molti suoi ministri avranno loro idee in materia di unioni civili o di interruzione di gravidanza -, ma perché non rientra nel loro mandato implicito. Non è un caso se da qualche mese a questa parte in Italia non si parla quasi più di matrimoni gay, omofobia, testamento biologico, fecondazione assistita e altri temi che invece negli anni scorsi hanno segnato anche molto animatamente il dibattito pubblico. Tutti temi rimasti sostanzialmente aperti, congelati nel clima di emergenza economica in cui ci siamo ritrovati. Ma questo vuoto non potrà durare in eterno. Un Paese non può andare avanti a lungo senza affrontare questioni importanti che influenzano la vita quotidiana dei cittadini anche al di là dell’economia. Da questo punto di vista ciò che preoccupa non è tanto che il governo tecnico non entri in questi argomenti, ma che pure i partiti sembrano essersene scordati. Sempre più anestetizzati dalla rapidità d’iniziativa con cui il governo Monti si sta muovendo sui temi economici, i partiti sembrano aver perso anche la capacità di pensare e proporre la loro idea di società e di Paese nel suo complesso. Sarà bene che si risveglino presto da questo torpore e che si facciano trovare pronti all’appuntamento elettorale, perché molti italiani aspettano delle risposte e delle strategie, e non solo sull’articolo 18.


giovedì 29 marzo 2012

Legge elettorale, l’ABC della conservazione


di FABIO SABATINI , da micromega
E' un  periodo di incontri frenetici per Alfano, Bersani e Casini (o ABC, come li ha amichevolmente ribattezzati l’Unità). Tra le altre cose devono stabilire, loro tre, in che modo va cambiata la legge elettorale. Dopo la riunione di ieri sera, il trio ha annunciato l’intesa con un comunicato congiunto.


A e B si sono detti molto soddisfatti. Gli interessi di Pd e Pdl sono sufficientemente garantiti, evidentemente. C invece è addirittura entusiasta. L’intesa prevede infatti l’abolizione dell’obbligo di indicare le alleanze prima delle elezioni.

Non solo saltare sul carro del vincitore sarà un gioco da ragazzi, più di prima. L’Udc – o una ipotetica forza centrista che comprenda anche l’Udc – avrà di fatto il potere di determinare l’esito delle elezioni, indipendentemente dal loro risultato.

Certo, secondo la bozza ABC il vostro partito deve dichiarare il suo candidato premier. Ma poi può allearsi con un altro partito per il quale non avreste mai votato e sostenere un premier che non avreste mai scelto. Tanto per fare un esempio, votando Pd potreste sostenere le ambizioni di Casini. O peggio.

Per il Pd l’alleanza con Vendola e Di Pietro sembra sempre più lontana. Il Pdl dal suo canto potrà limitare la sconfitta e stabilire dopo il voto se riproporre l’alleanza con la Lega o appoggiare la premiership di un candidato centrista. Che potrebbe anche essere Monti, se prendesse forza l’ipotesi di una grande coalizione. Non a caso il presidente del Consiglio ha espresso apprezzamento per l’intesa raggiunta da ABC.

La scomparsa dell’obbligo di stabilire preventivamente la coalizione diminuirà l’importanza dei programmi, che saranno oggetto di compromesso nell’ambito delle alleanze che si formeranno a urne chiuse. Insomma, tutti potranno fare campagna elettorale promettendo di tutto senza compromettere nulla. Tanto la vera partita si giocherà soltanto dopo il voto.

ABC ci hanno inoltre informato che non si tornerà alle preferenze. In parte è una buona notizia, visto che le preferenze sono spesso una “dote” a disposizione dei baroni locali della politica per schiacciare gli altri candidati, meno affermati ma spesso più bravi, dei propri stessi partiti. Ma è anche una cattiva notizia, dato che saranno sempre i vertici dei partiti a decidere chi potrà essere eletto, al momento della redazione delle liste.

Il comunicato di ieri sera annunciava “la restituzione ai cittadini del potere di scelta dei parlamentari”. Per il momento sembra una nota di umorismo, visto che l’unico potere lasciato ai cittadini dall’intesa ABC è quello di sperare che i vertici del proprio partito siano illuminati abbastanza da comporre delle liste decenti.

Può sembrare confortante il fatto che l’accordo tra A, B e C sia solo provvisorio. Secondo le parole di Bersani le nuove regole saranno incastonate nel più generale progetto di riforma costituzionale allo studio dei partiti. Dati i tempi molto lunghi delle riforme costituzionali, la probabilità che la legge elettorale non veda la luce prima della fine della legislatura è piuttosto significativa. Ma questo vuol dire che torneremo a votare con il Porcellum e che la stagione di trattative frenetiche tra Pd, Udc e Pdl avrà infine portato a nulla.

Il messaggio che arriva ai cittadini è sempre più opaco e incomprensibile. La mediocrità dei partiti, o meglio dei vertici di questi tre partiti, continua a essere la principale fonte di forza del governo Monti.

Fabio Sabatini

Monte non si monti la testa


di Marco Travaglio, da il Fatto quotidiano, 28 marzo 2012

Forse è venuto il momento di dire al professor Mario Monti che s’è montato la testa. E la Fornero ancor di più. A furia di leggere sui giornali amici (cioè quasi tutti) che sono i salvatori della patria, i due hanno finito col crederci.

In realtà, in estrema e brutale sintesi, finora hanno recuperato miliardi sulla pelle dei pensionati e degli “esodati”, facendo dell’Italia il paese europeo dove si va in pensione più tardi; e altri contano di recuperarli sulla pelle dei lavoratori, dando mano libera alle aziende di cacciare chi vogliono, camuffando per licenziamenti economici anche quelli disciplinari e discriminatori. Quanto alle liberalizzazioni, a parte qualche caccolina sui taxi e le farmacie, non s’è visto nulla, mentre s’è visto parecchio a favore della banche.

Il vero “salva-Italia” è tutto mediatico, d’immagine: facce presentabili al posto degli impresentabili di prima. Il che non è poco. Ma è un fattore passeggero, visto che prima o poi, piaccia o no, i cittadini dovranno tornare a eleggere i loro rappresentanti. La prospettiva del ritorno dei politici, lo sappiamo bene, è agghiacciante. Ma questo progressivo disabituarsi degli italiani ai fondamentali della democrazia è pericoloso. Ed è qui che i “tecnici” ciurlano nel manico.

L’altro giorno arriva alla Camera il decreto “liberalizzazioni”, solita procedura d’urgenza “prendere o lasciare” modello Protezione civile: testo blindato dalla solita fiducia, la dodicesima in tre mesi. Problema: manca la copertura finanziaria, lo dice la Ragioneria dello Stato. Il rappresentante del governo, il noto gaffeur Polillo, s’inventa che “la copertura non può essere quantificata in anticipo”.

Fosse così, tutte le leggi passerebbero al buio, poi si vede. Ma non c’è nemmeno il tempo di discutere: si vota e basta a scatola chiusa. Fini protesta per “l’insensibilità del governo” (e meno male che c’è lui: Schifani vorrebbe solo decreti, soluzione che avrebbe almeno il pregio di liberarci del Senato e del suo presidente). Il Quirinale “si riserva” non si sa bene cosa. Del resto il Quirinale aveva già invitato i gruppi parlamentari a evitare fastidiosi emendamenti al decreto Milleproroghe. Ma a che serve allora il Parlamento, in una democrazia parlamentare? A ratificare senza fiatare i decreti del governo, fra l’altro blindati con la fiducia?

Ora arriva il ddl sul lavoro, cioè sull’articolo 18 e poco altro, tutti elogiano la mossa dialogante che ci ha fatto la grazia di evitare il solito decreto blindato. Ma subito Monti&Fornero fan sapere che non ammettono modifiche, sennò “il Paese non è pronto” e i salvatori della patria in missione per conto di Dio ci lasciano soli (“potremmo non restare”). Cioè: il disegno di legge è come fosse un decreto, calato dall’alto direttamente dallo Spirito Santo. E la formula “salvo intese”? Si riferisce alla maggioranza parlamentare che dovrebbe votarlo? No, a “intese fra governo e Quirinale”. E il Parlamento? Un optional.

Sappiamo benissimo che questo Parlamento fa schifo. Ma, per averne uno nuovo, più aderente ai gusti degli italiani, si doveva votare a novembre: invece Napolitano, Monti e i partiti retrostanti preferirono evitare. Dunque di che si lamentano? L’avete voluta la bicicletta? Pedalate. Monti si appella ai sondaggi, come unica fonte di legittimazione fra sé e il Colle (“se qualche segno di scarso gradimento c’è stato, è verso la politica, non verso il governo”). Ma allora dovrebbero valere sempre, anche quando non fanno comodo: oltre il 60% degli italiani è contro la “riforma” dell’art. 18 e, a causa di quella, il governo è sceso in 20 giorni dal 62 al 44%. Magari, in quel 18% in meno, ci sono i 350 mila esodati che il governo ha lasciato senza lavoro e senza pensione: chi li rappresenta?

Non era stato proprio Monti, presentandosi al Senato il 17 novembre, a giurare che “non verranno modificati i rapporti di lavoro regolari e stabiliti in essere”? Ora dice che “sulla riforma non accetto incursioni in Parlamento”, ma quelle che chiama “incursioni” sono l’abc della democrazia parlamentare. Chi glielo dice?

(28 marzo 2012)

mercoledì 28 marzo 2012

La paura di perdere



di CLAUDIO TITO, da Repubblica
LA PAURA di perdere le prossime elezioni. Sembra questo l'architrave su cui poggia l'accordo trovato ieri dai tre partiti della maggioranza che sostiene il governo "tecnico". Sull'idea che nessuna forza politica  -  a cominciare da Pdl, Pd e Udc  -  sia in grado di scommettere sul risultato delle prossime elezioni politiche. Tutti sperano di tenersi le mani libere e ognuno punta a limitare i danni. Lasciando aperta la porta ad ogni soluzione per il dopo-voto. L'intesa preparata da Alfano, Bersani e Casini è soprattutto il frutto di una convergenza di interessi.

E lo dimostra l'idea di tornare a un sistema sostanzialmente proporzionale, cancellando il vincolo di coalizione e assegnando un premio che non determina la maggioranza. Di fronte ad una instabilità, tipica degli ordinamenti e dei sistemi politici transitori, i tre principali partiti si adattano alla "corsa solitaria" e mirano a rimettere tutti ai nastri di partenza nella previsione che nessuno potrà vincere da solo. Proprio come accadde nel 1946 con la legge elettorale per l'Assemblea Costituente e nel 1948 per la prima tornata parlamentare dopo la caduta del fascismo e l'entrata in vigore della Costituzione.

Una convergenza di interessi che consente al Pdl di limitare la probabile  -  almeno al momento  -  sconfitta senza precludere la possibilità di ricomporre l'alleanza con la Lega dopo il voto. Nella consapevolezza, peraltro, di non avere un candidato premier sufficientemente forte e autorevole.

Al Pd di mettere definitivamente in soffitta la cosiddetta "foto di Vasto" e l'alleanza con Vendola e Di Pietro. Bersani spera così di contare sulla chance di presentarsi per la presidenza del consiglio senza dover trattare con nessuno la sua premiership e predisponendo un patto successivo con il Centro di Casini.

I centristi, invece, non saranno obbligati ad una scelta di campo preventiva, potranno confidare nel ruolo di ago della bilancia che i sondaggi gli assegnano sempre più e di coltivare il progetto di mantenere Mario Monti a Palazzo Chigi anche nella prossima legislatura (l'indicazione del premier non è prevista in Costituzione e quindi non sarà obbligatorio rispettare le designazioni dei partiti). Senza dimenticare che subito dopo il voto, le Camere dovranno eleggere anche il nuovo presidente della Repubblica e nel gioco delle trattative chi  -  come il Terzo Polo  -  sarà determinante negli equilibri parlamentari potrà avere più carte da spendere nella corsa al Quirinale.

Insomma, tutti potranno fare la campagna elettorale in solitaria senza compromettere nulla. Perché tutto si gioca solo a urne chiuse. Anche l'eventuale riproposizione di una Grande Coalizione. E chi sa se anche per questo ieri Monti ha fatto sapere ai tre leader di aver apprezzato il buon esito del vertice.

Ma il patto tra Alfano Bersani e Casini, deve superare due scogli che possono compromettere il loro delicato equilibrio: la riforma del lavoro e la giustizia. Il premier sa che il disegno di legge della Fornero rischia un'interminabile Odissea in Parlamento senza una mediazione con il Pd. E anche dentro il suo esecutivo, alcuni autorevoli ministri gli hanno fatto sapere che è indispensabile sanare il rapporto con il Pd e con la Cgil.

Rispolverando il modello tedesco e il principio del reintegro troppo rapidamente archiviato. Mentre sul capitolo giustizia resta vagante la mina attivata da Silvio Berlusconi. Che ad ogni occasione reclama una precisa garanzia per il suo futuro. Questioni che il Professore dovrà affrontare al ritorno dal suo viaggio in Estremo Oriente.



(28 marzo 2012)

Anche questa è un'emergenza


L'ALTOLÀ DEL PDL SULLA CORRUZIONE
Anche questa è un'emergenza
Si addensano nuvole minacciose sul disegno di legge anticorruzione di cui si occupa il Parlamento. O meglio di cui dovrebbe occuparsi, visto che la discussione è bloccata da mesi in attesa dell'emendamento governativo. Che tarda ad arrivare a causa di veti e ricatti che s'annunciano ad ogni barlume di proposta. Ora il Pdl mette in guardia il ministro della Giustizia dal prendere iniziative «preconfezionate»: strano altolà, alla vigilia di un incontro tra i capigruppo dei partiti che sostengono l'esecutivo dove il ministro Paola Severino si appresta a esporre le linee della sua riforma, per ottenere il via libera alla composizione delle nuove norme.


Il sospetto è che al centrodestra non piaccia la scelta della Guardasigilli di convocare non i tecnici di partito (cioè i responsabili del settore giustizia, tra cui l'onorevole-avvocato Niccolò Ghedini, difensore di Silvio Berlusconi) bensì, per l'appunto, i rappresentanti politici dei gruppi parlamentari. Perché politico è stato l'accordo raggiunto con il presidente del Consiglio e i leader dei tre partiti che appoggiano il governo. Evidentemente il Pdl preferiva contatti tra esperti, preferibilmente bilaterali, per entrare nel dettaglio delle regole da introdurre o modificare ed evitare di esporsi pubblicamente su quello che non intende accettare; se c'è da frapporre un ostacolo, meglio farlo «in privato» e senza testimoni scomodi.

Ammesso che questo sia solo un cattivo pensiero, sarebbe bene sgombrare il campo da possibili equivoci. Perché sull'anticorruzione non si può procedere con i divieti accompagnati dalla minaccia di far saltare il banco. Il malaffare economico è un'emergenza, al pari di quella finanziaria, delle pensioni e del lavoro; lo si deduce da tutti gli indicatori, lo dicono gli organismi dell'Unione Europea, lo hanno ammesso i capipartito nel momento in cui hanno inserito la questione nell'agenda dei loro vertici. E va affrontato come un'emergenza. Al ministro della Giustizia dev'essere consentito di lavorare e avanzare le proprie proposte senza il timore di veti: se non ci sono tabù per il mercato del lavoro, tantomeno ce ne possono essere nel contrasto alla corruzione che «ostacola lo sviluppo economico e mette in pericolo la stabilità delle istituzioni democratiche», come avverte il preambolo della convenzione di Strasburgo recentemente evocato dalla Guardasigilli.


Stando agli annunci, il governo ha in animo di riempire di contenuti la scatola quasi vuota (soprattutto sul piano penale) del provvedimento presentato due anni fa dall'esecutivo guidato da Berlusconi. Si parla di introduzione di nuovi reati come la corruzione privata e il traffico d'influenza, della sostituzione della concussione con altre fattispecie che evitino colpi di spugna, di allungare tempi di prescrizione molto spesso risibili rispetto alla complessità dei procedimenti. Bisognerebbe vigilare affinché tutto ciò sia fatto bene e senza tradire un'attesa già troppo lunga, anziché imporre condizioni che si tramutano in segnali d'arresto. Anche quando sono di metodo, per nascondere il merito.

di Giovanni Bianconi, dal corriere
28 marzo 2012 |

Tutto porta a un Monti bis


di LUIGI LA SPINA, dalla stampa

È bastato l’altolà «andreottiano» di Monti per far capire a tutti, ma soprattutto ai partiti che lo sostengono in Parlamento, quanto fosse poco credibile la minaccia delle elezioni anticipate. Così Alfano, Bersani e Casini, consapevoli della debolezza e della scarsa credibilità delle forze politiche che guidano, hanno cercato di correre ai ripari, con l’annuncio di un accordo sulla nuova legge elettorale e sulla riforma della Costituzione.

L’intenzione è chiara, ma contraddittoria: da una parte, si promette di restituire ai cittadini la facoltà di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento, condizione minima, ma indispensabile per avere il coraggio di chiedere ai cittadini il loro voto; dall’altra, si cerca di allargare la libertà di manovra dei partiti nella formazione del governo, mandando sostanzialmente in soffitta quel bipolarismo all’italiana durato quasi un ventennio.

Una esperienza che aveva suscitato molte speranze, ma che ha provocato molte delusioni.

Ammaestrati dal passato, bisogna essere prudenti nei pronostici, perché gli annunci di accordi, le esibizioni di buona volontà non bastano a ritenere che in un anno, quanto manca alla fine della legislatura, si riesca a varare una nuova legge elettorale e ad approvare, quanto meno, uno schema di riforma costituzionale. Come sempre, il diavolo sta nei dettagli e non si nasconde dietro i grandi principi. Quando alle parole si sostituiranno i numeri, le convenienze dei partiti faranno premio sulle rette intenzioni e poiché, su queste materie, non si possono prevedere maggioranze striminzite, i troppi poteri di veto potrebbero far saltare qualsiasi bozza d’intesa.

Bisogna ammettere, però, che le probabilità di realizzare un accordo, questa volta, sono maggiori, perché le circostanze politiche, del tutto inedite e abbastanza anomale per il nostro Paese, potrebbero aiutare. Innanzi tutto, i tre partiti della maggioranza governativa, constatata quanto sia scarica la pistola alla tempia di Monti, devono dare segnali di concreta capacità riformatrice. Diversamente, apparirebbe clamoroso e quasi umiliante il confronto con un presidente del Consiglio che, in pochi mesi e con l’elogio di tutte le autorità politiche del mondo e di tutte le istituzioni finanziarie internazionali, assume decisioni importanti e anche impopolari. Autoridurre il loro ruolo a portatori d’acqua, magari riottosi e litigiosi, di un professore bocconiano, a capo di un governo «strano», farebbe sospettare, nella capitale, un’epidemia di masochismo politico. Una sindrome finora sconosciuta, anche ai medici parlamentari più sperimentati. La materia elettorale e costituzionale costituisce, naturalmente, una riserva assoluta di competenza dei partiti e, quindi, libero da qualsiasi influenza governativa, il terzetto Alfano, Bersani, Casini potrebbe dimostrare che la politica esce dalle retrovie del palcoscenico italiano e ritrova il ruolo di protagonista.

C’è, inoltre, una convenienza a cercare davvero un accordo, per un motivo meno legato all’immagine e alla credibilità dei partiti e più ai loro concreti interessi. L’aspetto più importante, dal punto di vista politico, dell’intesa di massima sbandierata ieri, alla fine del vertice, è quello che sancisce la fine del cosiddetto «obbligo di coalizione», preventivo rispetto al voto degli italiani. La norma che distingueva la seconda Repubblica dalla prima, quella cominciata dopo la riconquista della democrazia.

La mano libera alle segreterie dei partiti per la formazione di una maggioranza che sostenga il governo, dopo le elezioni, apparentemente potrebbe far pensare a un ritorno al passato, quello del sistema proporzionale perfetto. In realtà, il margine di discrezionalità che si affiderebbe alle forze politiche è notevolmente maggiore di quello che era a disposizione nella cosiddetta prima Repubblica. Allora, si trattava solo di scegliere, fra gli alleati della Dc, quelli più adatti al segno che la segreteria di piazza del Gesù voleva dare al suo governo. Ora, il gioco si può fare a tutto campo e nessun partito è escluso, a priori, dalla possibilità di entrare nella maggioranza parlamentare.

L’astuzia della storia, però, potrebbe giocare un brutto tiro a questa «volontà di potenza» dei partiti. Se gli attuali umori elettorali non cambieranno fino al prossimo anno, è probabile che nessuna forza politica possa ottenere una quota di consensi sufficiente non solo a comandare da sola o quasi, ma neanche tale da conquistare un premio di maggioranza, o di «governabilità» come si prefigura nella nuova ipotetica legge elettorale, capace di aggregare una solida alleanza politica. La soluzione, allora, potrebbe essere quella di essere costretti, anche nel 2013, a richiamare, dopo una breve vacanza, Monti a Palazzo Chigi. Così, una riforma del voto concepita per restituire lo scettro al re, finirebbe per affidarlo al solito professore.


Giochi di veti e spiragli sulle riforme istituzionali


di MARCELLO SORGI, dalla stampa

Anche se Napolitano e Schifani, alla fine di un incontro al Quirinale, si sono affrettati a sottolinearne l’importanza, e il presidente del Senato, in particolare, ha garantito che a Palazzo Madama si farà di tutto per favorirne l’iter parlamentare, è lecito dubitare ancora una volta che l’accordo siglato ieri dai segretari dei tre partiti di maggioranza, assente Monti, sulle riforme istituzionali e sulla legge elettorale, sia da considerare definitivo.

E’ già accaduto in passato che intese come quelle di ieri sera siano state annunciate per essere subito dopo dimenticate o travolte dalle polemiche del giorno per giorno.

Negli ultimi sei mesi è stato svolto un buon lavoro istruttorio, più volte annunciata l’intesa su rafforzamento dei poteri del premier, distinzione delle funzioni tra le due Camere, riduzione del numero di deputati e senatori, oltre che su un sistema elettorale più proporzionale, in grado di seppellire il Porcellum e di rimettere la scelta dei candidati da eleggere nelle mani degli elettori.

Ma poi il percorso delle riforme s’è sempre arenato prima di partire, complici le tensioni politiche crescenti all’interno della maggioranza e tra i partiti e il governo.

Alfano, Bersani e Casini (quest’ultimo promotore dell’incontro a tre) giurano che questa sarà la volta buona, considerano ormai superato il gioco dei veti reciproci, e anche nel caso in cui le riforme istituzionali dovessero di nuovo fermarsi (per attivare la procedura di revisione costituzionale, che prevede quattro votazioni a intervalli non minori di tre mesi, il tempo di qui alla fine della legislatura è poco), la legge elettorale potrebbe procedere per conto proprio, a partire dall’impegno sancito ieri di muoversi per un sistema che non richieda di indicare prima del voto le alleanze e lasci ai partiti le mani libere per trattare sul governo dopo i risultati delle urne.

Di qui a trovare l’intesa anche sugli altri punti (due su tutti: la soglia dello sbarramento per i partiti minori e a chi assegnare, coalizioni o partiti, il premio di maggioranza), tuttavia ne corre. E al di là dei pubblici anatemi, l’ipotesi di votare ancora una volta con il Porcellum rimane nei retropensieri di tutti i leader dei partiti. I segretari della maggioranza promettono di riparlarne già la prossima settimana, in tempo per scambiarsi gli auguri di Pasqua. Passata la quale, la campagna elettorale riprenderà fino a maggio. Volenti o nolenti, di riforme e di articolo 18, Alfano, Bersani e Casini potranno seriamente ricominciare a occuparsi solo a giugno.


martedì 27 marzo 2012

Una questione di serietà


LA POLITICA E LA LEGGE ELETTORALE
Una questione di serietà
Si è molto parlato, dopo la formazione del governo Monti, di abdicazione, sospensione o sconfitta della politica, e si è persino detto che la semplice esistenza di un ministero tecnico rappresentava uno strappo alla democrazia. Abbiamo sentito queste affermazioni anche negli scorsi giorni, dopo l'approvazione della riforma del mercato del lavoro. Ma si è dimenticato che questo governo non ha mai avuto i pieni poteri, ha fatto leggi grazie al voto del Parlamento e ha potuto contare, bene o male, sull'appoggio di una grande coalizione che ambedue gli schieramenti, anche se in momenti diversi, avevano già ripetutamente auspicato. I politici sono usciti da Palazzo Chigi e dai ministeri romani, ma le leve del potere sono rimaste, in ultima analisi, a Montecitorio e a Palazzo Madama. Ce ne siamo accorti quando, dopo la riduzione degli spread , i partiti sono usciti, forse troppo presto, dal prudente riserbo delle settimane precedenti e hanno considerevolmente modificato il testo del decreto sulle liberalizzazioni. Avrebbero potuto farlo se il governo tecnico avesse avuto il potere di gestire gli affari della Repubblica in stato d'eccezione sino alla prossima tornata elettorale?

Per dimostrare che la politica non era stata esautorata i tre maggiori partiti avevano del resto una straordinaria occasione. Potevano approfittare di questa breve vacanza per accordarsi su un pacchetto di riforme costituzionali che avrebbe eliminato tra l'altro la paralizzante servitù del bicameralismo perfetto e permesso agli italiani di andare al voto con una legge meno iniqua e deformante di quella con cui abbiamo eletto le Camere nelle due ultime elezioni. Sembrava che il lavoro comune stesse dando qualche discreto risultato e che ciascuna delle parti fosse disposta a raggiungere una posizione comune, quando il processo sembra essersi inceppato. Sono bastate le divergenze sul percorso parlamentare della riforma Fornero (decreto o disegno di legge) e la vicinanza delle elezioni amministrative perché i partiti ridiventassero litigiosi e miopi, vale a dire più inclini a vedere le scadenze vicine piuttosto che il futuro istituzionale della nazione.

Questo, non la formazione di un governo tecnico, sarebbe il vero fallimento della politica nazionale. La legge elettorale è un errore da correggere. Aumenta il potere delle segreterie dei partiti e diminuisce quello degli elettori. Può creare maggioranze non soltanto sproporzionate e artificiali, ma anche fragili ed effimere. Vi sono riforme, come la riduzione del numero dei parlamentari e l'attribuzione di diverse competenze a ciascuna delle due Camere, che il Paese attende da almeno trent'anni e che le riforme federaliste dell'ultimo decennio hanno reso indispensabili. È possibile immaginare che il Paese torni al voto fra dodici mesi con un sistema che ha esasperato gli elettori e creato governi inefficienti? È possibile che la classe politica corra il rischio di spingerci ancora una volta verso una crisi che ha costretto il presidente della Repubblica a promuovere la formazione di un governo d'emergenza? Se cercheranno di attribuirsi a vicenda le responsabilità di un tentativo fallito e di una riforma ancora una volta rinviata, i partiti politici avranno raggiunto un solo risultato: quello di dare fiato alla rabbia dell'anti politica e di regalare voti a coloro che non hanno partecipato al tentativo riformatore delle scorse settimane. Non oso chiedere a questi partiti di fare l'interesse dell'Italia. Mi limito a suggerire che tengano almeno conto dei loro interessi.

di Sergio Romano, dal corriere
27 marzo 2012 |

Il Professore Monti e lo spettro di Andreotti


di MARCELLO SORGI, dalla stampa

L’'ardito paragone fatto ieri da Monti tra se stesso e il suo governo e quelli di Andreotti e della Prima Repubblica, va considerato come un monito del premier.

Il Divo Giulio, infatti, vent’anni or sono, ai tempi della sua ultima esperienza a Palazzo Chigi, a chi lo criticava per il suo immobilismo replicò con uno dei suoi storici aforismi: «Meglio tirare a campare che tirare le cuoia!». E Casini, che da giovane vecchio democristiano per l’uomo-simbolo di tutti i governi dc ha sempre nutrito ammirazione, due settimane fa al vertice di maggioranza, volendo fare un complimento al presidente del Consiglio, gli disse che lo considerava «più furbo di Andreotti».

Ma sono proprio questi precedenti e questi paragoni interessati che Monti ha voluto allontanare da sé, una volta e per tutte, ricordando che i tecnici sono stati chiamati al governo per realizzare appunto ciò che era necessario e i politici non riuscivano a fare. Di qui la necessità di misurarsi sui risultati e di portare a compimento in tempi brevi la riforma del mercato del lavoro, e al suo interno anche quella, assai contestata, dell’articolo 18. Se possibile, ha chiarito Monti - facendo eco a Fornero che aveva espresso il timore di vederla finire «in polpette» -, senza stravolgerla nel passaggio parlamentare che si annuncia lungo e defatigante.

La precisazione del premier è stata accompagnata da un ammorbidimentodella posizione del Pd, finora negativa. Dopo giorni e giorni di critiche per la decisione di chiudere la trattativa con le parti sociali senza accordo, e in aperta rottura con la Cgil, Bersani ha mandato segnali distensivi, allontanando i segnali di crisi, confermando il suo appoggio al governo, e augurandosi che il testo della riforma possa essere corretto in Parlamento e si arrivi a una formulazione condivisa. Il leader del Pd ha voluto anche ringraziare il presidente Napolitano per l’opera di mediazione svolta. Ma alcuni dei presenti hanno notato che, diversamente da altre volte, l’accenno al Capo dello Stato non è stato accompagnato da un applauso: segno che nel partito ancora prevalgono le riserve di chi forse avrebbe voluto dal Presidente una maggiore resistenza all’iniziativa del governo.In realtà Napolitanoè intervenuto sul metodo e sullo strumento più opportuno per dare il via al dibattito nelle Camere. Ma, nel merito, ha condiviso la necessità della riforma, perché è consapevole che era uno dei punti su cui l’Europa premeva sull’Italia e pertanto rientrava nel programma del governo fin dal momento della suaformazione.

Anche Pd e sindacati ne erano avvertiti: per questo, superata la campagna elettorale e il momento della propaganda, quando il confronto entrerà nel vivo, e la riforma dovrà essere trasformata in legge, anche il centrosinistra dovrà chiarire le sue vere intenzioni. Prendendo atto che una resistenza troppo ostinata alla modifica dell’articolo 18, al di là della assicurazioni che Bersani in persona ha voluto dare, alla lunga potrebbe compromettere la stabilità del governo.

domenica 25 marzo 2012

Troppi suicidi.Fermate la strage!!!



di Emilia Urso Anfuso



Lecce: rimane senza lavoro e per la disperazione si suicida. Aveva 29 anni

Belluno: imprenditore disperato per crediti vantati verso le pubbliche amministrazioni si suicida. Aveva 53 anni

Taranto: commerciante abbattuto dalla crisi e dai debiti si suicida. Aveva 63 anni

Potrei continuare all’infinito. E sono solo alcune delle notizie di cronaca apparse sulle testate LOCALI nelle ultime ore. Si, sulle testate locali.

Fateci caso: se avete la malaugurata idea di volervi “informare” sui TG nazionali, in special modo su Rai1, non verrete mai a conoscenza di ciò che sta accadendo in Italia da Nord a Sud. Non conviene. A certi. Sappiamo di chi si parla. I governi non possono permettersi di far capire alla nazione che qui ormai è un gioco mortale, altro che crisi economica.

La gente onesta è stanca. La gente onesta non esce all’improvviso di casa a fare una rapina o a sparare in testa a chi è la vera causa dei propri problemi. No.

La gente onesta – oltretutto – ha vergogna di queste infami situazioni che non ha certamente creato in maniera disinvolta. E la vergogna, su alcuni, ha effetti immediati e deleteri. Il suicidio appare essere l’unica via di uscita dopo aver pure perso la faccia.

Chi dovrebbe vergognarsi davvero invece, non fa nemmeno trapelare queste notizie, che dovrebbero trovare ampio spazio su tutti i TG nazionali, su tutte le prime pagine di tutti gli stramaledetti giornali che parlano solo di alta finanza, in definitiva. Di cronaca, ma di quella che “conviene”.

Un morto in un paesino remoto non fa notizia, per molti di quei colleghi giornalisti da cui mi dissocio ormai da tempo immemore. Peccato che, uno qui, uno là, questi morti messi insieme fanno una strage. Un genocidio. Lasciano scie di disperazione. Perchè chi rimane, ha anche il peso di dover sopportare tutto ciò che queste morti premature e decise scentemente, si portano appresso.

Padri di famiglia che perdono infami lavori pagati con un tozzo di pane. Imprenditori onesti costretti a licenziare padri di famiglia che cadono nel girone infernale della disperazione.

E’ satanico tutto questo. Mentre chi se ne sta al caldo e milioni di anni luce dal toccare con mano la realtà quotidiana di milioni di persone, decide, sposta, scompone, impone rinuncie e sacrifici fino all’ultima goccia di sangue, pur di assicurarsi potere economico e politico.

Stanno uccidendo una intera nazione. Stanno facendo suicidare onesti padri di famiglia. Ogni giorno. E quasi nessuno ne parla.

Mentre “decidono” su cose "importanti ed inderogabili", come ad esempio l’ormai sfatta querelle di come poter sostenere gli amici imprenditori e se stessi – spesso chi siede in Parlamento è prima di ogni cosa, un imprenditore – nell’agevolare la fuoriuscita dal mondo del lavoro “grazie” al trucchetto del “licenziamento disciplinare” o meglio ex articolo 18 dello statuto dei lavoratori, la gente agonizza, muore civilmente o ancor peggio, si suicida.

Forse perchè, queste persone non riescono a credere all’assoluto cinismo di una epoca che detta regole al solo scopo di abbattere la popolazione per il tornaconto di pochi.

La politica non è più politica. E’ un gioco al massacro. Un metodo per aggiudicarsi maggiori poteri. Una guerra vera e propria contro chi non ha saputo sfruttare al massimo certi ambienti e certe possibilità.

Come dire: il mondo va a due velocità. Da una parte i vincitori. Dall’altra i falliti. Almeno, secondo l’ottica schifosa di chi pensa che un essere umano onesto sia un fallito.

Fallito è tutto ciò e tutti coloro che se ne fregano del bene comune. E tutti coloro che stanno permettendo questa strage continua, quotidiana e silenziosa. Falliti sono coloro che oggi, nonostante la pseudo crisi cui si sono attaccati a quattro mani per fregare il popolo, continuano imperterriti ad accedere mensilmente al denaro pubblico per sostenere il proprio “lavoro” politico in un paese assolutamente orfano di politica.

Non vi sarà debito pubblico paregiabile se ogni giorno le casse dello Stato vengono letteralmente derubate in una emorragia sempre più copiosa.

Forse, mentre batto sui tasti di questa tastiera nera come i pensieri che sgorgano sapendo che i nostri simili scelgono la morte piuttosto che la vergogna, qualcuno sta pensando di suicidarsi. Forse qualcuno lo sta facendo in questo esatto momento. Al solo pensiero, mi sento male. Chi non ha queste emozioni, non ha diritto di  chiamarsi essere umano.

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Un messaggio per quel ministro che pianse - non sapremo mai perchè veramente, magari le si era appena rotta un'unghia - fresca di nomina.
Quando piangerete davvero per il popolo che portate ogni giorno alla disperazione, avrete assolto le colpe di ogni singolo partito e personaggio politico di una nazione, la nostra, tanto splendida quanto terribile. Abbiamo tutti colpa. Ma la vostra missione, dovrebbe essere l'amministrazione dell'equità e della giustizia. Perchè noi piccoli cittadini italiani, non siamo stati chiamati a dirigere il paese, nè tantomeno ci viene chiesto un parere. Pensateci ogni tanto.

Il manager che insegna ai detenuti come si affronta un colloquio di lavoro


LA STORIA
Il manager che insegna ai detenuti
come si affronta un colloquio di lavoro
Un corso dedicato a chi vive nel carcere di San Vittore, a Milano. Un ciclo di lezioni svolte da un imprenditore che si è messo a disposizione essendo stato colpito dal suicidio (uno dei tanti) di un ragazzo dietro le sbarre di un carcere. Un tentativo di solidarietà concreta, un modo come un altro per infondere speranze nel futuro
di VALERIA PINI, da repubblica

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MILANO - Il problema riguarda un po' tutte le persone che affrontano colloqui di lavoro. Nervosismo, tensione, senso di inadeguatezza precedono le ore dell'incontro. Ma la preoccupazione può trasformarsi in angoscia per chi sta per uscire o è appena uscito dal carcere. C'è così chi si è messo a insegnare dei piccoli "trucchi" per affrontare la prova, seguendo training specifici. Si studia, ad esempio, come stringere la mano al futuro capo, in modo convincente e ad essere sobriamente brillanti quando si risponde alle domande. Sono ormai molti i corsi di questo tipo, ma è la prima volta che lezioni del genere si svolgono dietro le sbarre. L'idea è di un imprenditore che si è proposto come insegnante ad un gruppo di detenuti. Ha chiamato la direttrice del carcere di San Vittore ed è nato così un ciclo di lezioni destinato a persone recluse, tra i 18 e i 25 anni.

La notizia di quel suicidio. "Era da tempo che avevo in mente di fare qualcosa, ma la molla che ha fatto scattare la decisione è stata la notizia dell'ennesimo suicidio di un ragazzo dietro le sbarre. Ho pensato, allora, assieme alla direttrice del carcere di lavorare sui giovani detenuti per dar loro strumenti per poter affrontare il mercato del lavoro, anche in un periodo di crisi come questo", racconta Alessandro Proto, l'imprenditore che ha dato vita all'iniziativa. "Abbiamo organizzato lezioni in cui si spiegano le tecniche di gestione dei colloqui finalizzati all'assunzione. Il corso tende ad insegnare un ventaglio di comportamenti, dal modo per declinare le proprie generalità, alla condotta da assumere di fronte un eventuale rifiuto di assunzione - spiega Gloria Manzelli, direttrice di San Vittore - . Sono 10 incontri di due ore ciascuno, all'interno del reparto per i detenuti "giovani adulti", rivolti a ragazzi poco più che diciottenni. La speranza è che questo possa essere loro di aiuto per il "dopo", per affrontare con un minimo di strumenti più efficaci il difficile mondo del lavoro".

L'attestato finale. Alla fine del corso verrà rilasciato un attestato di frequenza ai giovani che hanno partecipato al training. "E' un ciclo di lezioni che, in fondo, ha lo scopo di far maturare nelle persone, la consapevolezza che il miglior prodotto da 'vendere' sono proprio loro stessi. Si mettono in atto delle simulazioni per tenere viva l'attenzione; ogni detenuto viene trattato come se fosse un vero e proprio manager in formazione. E' sicuramente questo che li spinge a continuare a partecipare al corso, se non altro perché 'evadono' per 3 ore dal loro ambiente", spiega Proto. "Abbiamo scelto di investire su di loro,  dunque, perché crediamo nell'importanza del lavoro per il futuro di un giovane e di quanto possano essere demotivanti e devastanti alcuni rifiuti, specialmente a quell'età. A breve, inizieremo il corso anche presso la sezione femminile con lo stesso impianto organizzativo", aggiunge Manzelli.      

I casi difficili. Gli allievi, con alle spalle gravi problemi ed esistenze complicate, hanno seguito con attenzione le lezioni dell'imprenditore, sebbene con qualche difficoltà. "Mantenere viva l'attenzione di persone che devono scontare ancora mesi o anni di detenzione su argomenti di questo genere non è per niente facile. Occorre superare alcune barriere per entrare davvero in sintonia. Ma, devo dire, ci stiamo riuscendo mi sembra molto bene. Sono soddisfatto di come stanno andando le cose e la mia idea è quella di prendere persone per replicare questa cosa anche in altre carceri d'Italia", promette Alessandro Proto.

UN MILIONE di precari senza rete.La nuova riforma del mercato del lavoro, targata Monti-Fornero, rischia di lasciare a piedi ancora una volta i molti già esclusi dalle tutele


IL DOSSIER
Precari, quasi un milione esclusi
dall'assegno di disoccupazione
La mini-Aspi si applicherà solo ai lavoratori subordinati, non agli "indipendenti" come i cocopro. Nel documento approvato dal governo c'è soltanto l'impegno a rafforzare le una tantum previste oggi dalla legge
di VALENTINA CONTE, da repubblica

Bersani: "Ma su monetizzazione non si tratta"
UN MILIONE di precari senza rete. La nuova riforma del mercato del lavoro, targata Monti-Fornero, rischia di lasciare a piedi ancora una volta i molti già esclusi dalle tutele, gli intermittenti, gli ex milleuristi, le vittime di un mercato "segmentato" tra protetti e non protetti. Proprio coloro che, nelle intenzioni, questa riforma doveva accompagnare nel tunnel della flessibilità "buona" verso la luce della stabilità. E invece abbandona nel "deserto" evocato dal ministro Fornero come il nemico da sconfiggere.

FUORI DA ASPI E MINI-ASPI
Uno su due è sotto i 40 anni e guadagna meno di 10 mila euro lordi l'anno. Quando il lavoro finisce, nessun sostegno. Né Aspi, né mini-Aspi. Zero. Come prima e peggio di prima. L'Assicurazione sociale per l'impiego - l'assegno unico di disoccupazione che dal 2017 sostituirà mobilità e indennità - copre i soli lavoratori dipendenti, sia pubblici che privati, e in più apprendisti e artisti (oggi esclusi da ogni sostegno), che hanno un contratto a termine (determinato, formazione lavoro, part-time, ecc). I requisiti sono stringenti: due anni di anzianità assicurativa e almeno 52 settimane lavorate nel biennio. La mini-Aspi è invece la versione aggiornata dell'attuale assegno "con requisiti ridotti", riservato ancora una volta ai soli lavoratori subordinati che hanno lavorato poco, almeno 78 giorni in un anno, ora diventato "almeno 13 settimane
di contribuzione negli ultimi 12 mesi" con durata massima "pari alla metà delle settimane" lavorate nell'anno, dunque al massimo sei mesi, come ora.  A conti fatti, però la mini-Aspi è più generosa del trattamento attuale, per una retribuzione media di 9.855 euro l'anno (quella di un precario): chi ha lavorato 3 mesi prenderà 926 euro in tutto (contro i 731 di oggi), ma chi ha lavorato un anno raddoppierà l'assegno (3.700 euro contro 1.800). Il calcolo è lo stesso previsto per l'Aspi: il 75% della retribuzione (fino a 1.150 euro), il 25% dopo, con abbattimento del 15% ogni sei mesi.

L'ESERCITO DEI NON PROTETTI
La mini-Aspi, dunque, non amplia la platea dei protetti, ma sostiene chi oggi ha già un ombrello. Al palo restano 945.141 lavoratori atipici, intermittenti, precari (dati Isfol, 2010). Quasi la metà sono co. co. pro (675.883). Ma si contano anche 52.459 associati in partecipazione, 54.210 co. co. co statali, 49.179 dottorandi e assegnisti di ricerca, 24 mila venditori porta a porta, 27 mila "collaboratori", 8.913 occasionali.

SOLO UN IMPEGNO
La riforma approvata dal Consiglio dei ministri venerdì scorso contiene solo un impegno a rendere strutturale ("a regime") l'una tantum oggi riservata ai co. co. pro. E questa viene considerata una vittoria dai sindacati, visto che le ultime versioni del testo la escludevano. L'una tantum oggi è pari al 30% del reddito dell'anno precedente, con un tetto di 4 mila euro. I requisiti sono molto restrittivi e di fatto l'83% dei fondi stanziati per il triennio 2009-2011 non è stato utilizzato (35 milioni su 200), con il 69% di domande respinte (28.674 su 42.550). Senza una revisione, questo paracadute continuerà ad essere inutile, oltre che limitato.

LE BUSTE PAGA
Il confronto parlamentare sulla riforma dovrebbe tenerne conto, considerando poi che l'aumento dell'1,4% delle aliquote contributive su tutti i contratti a termine - quindi anche del milione di parasubordinati - rischia di scaricarsi su buste paga già ridotte all'osso. Un rincaro che finanzierà proprio Aspi e mini-Aspi, da cui i precari sono tagliati fuori. Beffa e paradosso. E che potrebbe ingrossare - nonostante la stretta che la riforma intende mettere in campo - le fila delle 4 milioni di partite Iva, escluse da tutto, da sempre. Ma ancora "convenienti".

(25 marzo 2012)

Il consenso per l'esecutivo cala al 44% Lavoro, la riforma non piace a due italiani su tre


L'OSSERVATORIO
Il consenso per l'esecutivo cala al 44%
Lavoro, la riforma non piace a due italiani su tre


Il progetto di riforma del mercato del lavoro varato dal governo potrebbe, nelle prossime settimane, causare significative fratture nel quadro politico.

Infatti, il provvedimento ha già provocato un calo sensibile nel tasso di approvazione espresso dai cittadini nei confronti dell'azione dell'esecutivo. Dal 50-60% di consenso rilevato sino agli inizi di marzo, la percentuale di giudizi positivi verso il governo è bruscamente scesa al 44%. Ciò significa che, in questo momento, la maggioranza, seppur lieve (54%), della popolazione esprime una insoddisfazione verso l'operato dell'esecutivo.

Potrebbe trattarsi di una reazione d'impulso - forse momentanea e destinata a rientrare - agli ultimi provvedimenti (che, come vedremo tra breve, non incontrano l'approvazione della popolazione), ma potrebbe rappresentare anche il segnale d'inizio di un trend negativo nel consenso per il governo. Il calo di fiducia ha riguardato prevalentemente gli operai e i lavoratori dipendenti di livello medio-basso, ma anche studenti, pensionati e casalinghe. Viceversa imprenditori, liberi professionisti, ma anche impiegati e quadri, specie se possessori di un titolo di studio elevato, hanno mantenuto immutata la loro fiducia per il governo. Dal punto di vista dell'orientamento politico, si è verificato un vero e proprio crollo di consensi (-32%) nell'elettorato della Lega Nord che, fino a ieri, esprimeva, malgrado tutto, nella sua maggioranza, una tiepida approvazione verso l'azione dell'esecutivo. Ancora, come era forse prevedibile, un notevole decremento di approvazione (-17%) si manifesta tra i votanti per il Pd (la cui maggioranza continua però a sostenere il governo) e, seppure in misura minore (-10%), tra quelli del Pdl (ove la gran parte oggi è ostile all'esecutivo). Persino tra l'elettorato dell'Udc - che, tradizionalmente, ha sin qui appoggiato più decisamente il governo - si registra una diminuzione di fiducia (-9%).
Come si è detto, questo trend è legato alla insoddisfazione della maggioranza degli italiani verso le decisioni assunte riguardo al mercato del lavoro e, in particolare, riguardo alla riforma dell'articolo 18. Più del 40% della popolazione dichiara di avere seguito bene la vicenda, mentre un altro 46% l'ha seguita con attenzione minore. Solo il 14% si dichiara all'oscuro della questione. A fronte di questo diffuso interesse, il giudizio sulle decisioni dell'esecutivo è negativo per più di due italiani su tre (67%). Le criticità maggiori si rilevano al Sud e tra gli operai, mentre tra imprenditori e liberi professionisti prevale l'accordo sul progetto di riforma. La valutazione negativa risulta maggioritaria nell'elettorato di tutte le forze politiche con una ovvia accentuazione nei partiti di opposizione: ma essa si riscontra anche tra i votanti per il Pdl (58% di insoddisfatti) e il Pd (67% di giudizi negativi). Naturalmente, i motivi di dissenso sono diversi, talvolta opposti. Gran parte dei votanti per il Pdl rimproverano al governo una insufficiente tenacia, mentre l'elettorato del Pd conferma la già nota ostilità alla revisione dell'articolo 18. Oltre al contenuto, viene comunque criticato anche il metodo seguito dal governo, ritenuto, ancora una volta da quasi due italiani su tre (63%) «troppo decisionista».

Questa situazione comporta problemi rilevanti per entrambi i partiti maggiori, che debbono necessariamente risolvere la contraddizione tra la necessità di proseguire con l'appoggio all'esecutivo e la prevalenza, nel proprio elettorato, di un orientamento contrario alle ultime decisioni di Monti e della sua compagine. I dilemmi probabilmente maggiori si manifestano nel Pd, ove il segretario Bersani vede da un verso accolte dall'esecutivo molte proposte di merito avanzate in passato dallo stesso Pd e dall'altro non può non tener conto di una base per più di due terzi ostile al provvedimento sul mercato del lavoro. È probabilmente anche questo stato di cose ad avere suggerito al segretario del Pd la recente accentuazione delle posizioni critiche, espresse ad esempio nell'ultima sua partecipazione a Porta a Porta , verso le decisioni del governo.

Ma, soprattutto, tutto ciò indebolisce l'immagine dell'esecutivo nell'opinione pubblica che, di colpo, si trasforma da positiva in negativa. È vero che la compagine guidata da Monti, per sua natura, prescinde dall'appoggio della maggioranza della popolazione, ma è vero anche che quest'ultimo rappresenta in ogni caso un elemento di stabilità di grande rilievo. La cui assenza può avere conseguenze oggi imprevedibili. Ma, naturalmente, è possibile che, acquietatasi, anche grazie ai tempi della discussione parlamentare, la polemica sull'articolo 18, il governo riprenda il consenso oggi attenuato.

di Renato Mannheimer, dal corriere
25 marzo 2012 |

sabato 24 marzo 2012

Danneggiamenti a mezzi della ditta che sta effettuando i lavori per l'ampliamento della S.S.106 nel tratto di Nova Siri


ROCCA IMPERIALE - Danneggiamenti ai mezzi che in questi giorni, a Rocca Imperiale (Calabria) a pochissimi chilometri dal confine con Nova Siri, stanno effettuando i lavori per l'ampliamento della SS 106 Jonica. L'episodio si riferisce ad alcune settimane fa, la conferma è giunta solo negli ultimi giorni. "Lavori di costruzione della variante di Nova Siri con adeguamento della sezione stradale alla categoria B1 (decreto 05/11/2001)", è scritto su un cartello affisso nel territorio calabrese. La maxi opera costerà 44.605.366, 44 milioni di euro. L'impresa appaltatrice ma non destinataria del gesto - che è stato commesso ai danni di alcuni mezzi di un'impresa lucana subappaltatrice - è la A.T.I. Oberosler di Bolzano. I lavori stanno procedendo regolarmente e presto arriveranno in Basilicata, nel Metapontino: a Nova Siri. E' proprio in

Lucania che si svilupperà la parte più imponente dell'intervento che renderà più agevole  il tragitto notoriamente considerato fra i più pericolosi di tutta Italia. Un'opera che porterà lavoro e reddito. Come già accade, contingenze economiche a parte, con l'ortofrutta, uno dei settori più colpiti in assoluto dai numerosi attacchi incendiari che hanno interessato negli ultimi anni la zona metapontina. Buona parte di essi irrisolti, senza colpevoli.

Cosa si nasconde dietro a fatti come questi: quali le possibili piste da seguire? Il movente è legato alle  assunzioni? Dispetti fra aziende? Richieste estorsive, considerate le cifre affatto marginali che occorreranno per portare a termine il lavoro? I carabinieri di Rocca Imperiale mercoledì mattina non hanno rilasciato nessuna dichiarazione, nessun elemento utile per comprendere cosa realmente possa nascondersi dietro all'inquietante vicenda. Certo è che la "Variante Nova Siri"  ha svegliato qualche interesse, forse qualche appetito.



di Gianluca Pizzolla, dal metapontino

La concentrazione di idrocarburi nelle acque del Pertusillo è stata trovata a 6,4 milligrammi/litro, quando la potabilizzazione stabilisce limiti di 0,0001 milligrammi/litro.



La concentrazione di idrocarburi nelle acque del Pertusillo è stata trovata a 6,4 milligrammi/litro, quando la potabilizzazione stabilisce limiti di 0,0001 milligrammi/litro. È questo lo “spartiacque” che dovrebbe preoccupare il governatore Vito De Filippo nella sua ossessione di portare le estrazioni minerarie da 91 mila a 180 mila barili al giorno, probabilmente esclusivamente per tornaconti politici personali (un posto da sottosegretario al Ministero per lo sviluppo economico nel prossimo governo?). La Basilicata, come si vede dalla prima cartina sottostante è un unico bacino idrico di superficie e di profondità ed è l’unico caso al mondo (nelle aree civilizzate, perché in Nigeria fanno di peggio) dove è consentito perforare in presenza di tale elevato rischio di incrociare e inquinare il sistema idrico del suolo e del sottosuolo lucano. Con grave compromissione dell’acqua che i lucani – e buona parte di pugliesi – bevono, attraverso l’acquedotto e il circuito dell’acqua minerale imbottigliata. E mangiano, attraverso la catena alimentare che si nutre di acqua: verdure, frutta, animali da pascolo e allevamento.

Contrariamente a quanto afferma con sorprendente leggerezza il governatore Vito De Filippo, l’articolo 16 del Decreto sulle liberalizzazioni sarà non lo “spartiacque della storia del petrolio lucano”, ma il definitivo colpo di grazia dell’inquinamento dei suoi bacini idrici che servono 600 mila lucani, centinaia di migliaia di turisti all’anno in visita nei villaggi turistici della Basilicata e della Puglia, circa un milione di residenti pugliesi, oltre all’irrigazione di una superficie agricola che comprende le provincie di Potenza, Matera, Taranto e parte del barese e del leccese. La Ola sospetta che tutta questa enfasi per le infrastrutture che l’atteso articolo 16 consentirà a De Filippo&C. sia non solo una defaillance della politica incapace di ben amministrare quando chiede interventi extra, ma anche l’ennesimo tentativo di nascondere l’inconsistenza della “ricchezza” del petrolio per la Basilicata, rendendola non quantificabile ai più. Se con le royalties ci si poteva fare qualche conto, adesso sarà difficile quantificare il 7% del valore del petrolio diventato arcata di un ponte o asfalto di una strada. Essendo evidente il fallimento economico di 15 anni di estrazioni minerarie in Val d’Agri e 50 anni in Val Basento, questa delle infrastrutture previste dal Memorandum ci sa tanto di una nuova ed elettorale promessa occupazionale, di una nuova promessa di un Eldorado lucano. Ma solo per le tasche dell’Eni, della Shell e della Total.

Al Governatore petroliere la Ola vuole anche ricordare che prima di promettere scatole vuote in tema di migliori tecnologie e nuovi monitoraggi ambientali, egli dia valore al suo ruolo istituzionale e spieghi bene ai lucani cosa accadrà all’intricato tessuto idrico lucano, portando i barili estratti da 91 mila a 180 mila al giorno, dei quali 50 mila lungo l’Appennino che divide la Val d’Agri dalla Val Basento (creando un’unica direttrice di falde inquinate?) e altri 26 mila dai monti di Marsico e Tramutola, dove ci sono le numerose sorgenti dell’Agri. Nella cui diga del Pertusillo, già con un’attività estrattiva e di raffinazione ferma ai 91 mila barili di oggi, “gli idrocarburi nelle acque dell’invaso del Pertusillo sono risultati fino a 32 volte superiori ai limiti di legge per le acque di classe A2; Gli idrocarburi nei sedimenti dell’invaso sono risultati fino a 13 volte superiori ai limiti di legge per gli scarichi fognari, mentre i metalli pesanti sono risultati anche migliaia di volte superiori ai limiti; sia nelle acque che nei sedimenti è presente in dosi significative il bario, un derivato della barite usato nelle attività estrattive petrolifere (Epha con analisi di laboratori indipendenti)”. I 26 mila barili al giorno dalle sorgenti del fiume Agri arriveranno grazie ad alcuni pozzi non previsti da alcun accordo del ‘98 e del 2006 e grazie anche ai “work over”, autentici pozzi nuovi, realizzati nella stessa concessione di vecchi pozzi, e spacciati per “manutenzione” al fine di eludere la Via (Valutazione di impatto ambientale).

La Ola, nel ribadire la drammaticità della situazione lucana chiede al governatore e al Dipartimento ambiente che anche i nuovi pozzi mascherati da Work Over rientrino nella legalità con il ripristino delle valutazioni delle VIA e che le società minerarie consegnino i piani ingegneristici dei singoli pozzi, al fine di capire se, come e dove hanno intersecato il circuito idrico dell’acqua lucana.

Fonte : dal sito della organizzazione ambientalista OLA  (Organizzazione lucana ambientalista).

Reinventiamo le città", premiate le idee più verdi




ROMA - Buone notizie sul fronte della sostenibilità ambientale delle città: vincere la sfida è possibile e molti italiani sono già sulla buona strada. Tra pannolini lavabili, pani di grano antico, autonomia energetica e mobilità pulita, il Wwf annuncia oggi le nove 'buone pratiche' realizzate da altrettanti comuni italiani, che si sono aggiudicate ex equo, il concorso "Reinventare le città", lanciato dal fondo mondiale per la natura in occasione dell'ora della Terra, l'evento globale che il 31 marzo farà uno spettacolare giro del mondo a luci spente, per coinvolgere cittadini, istituzioni e imprese nella lotta al cambiamento climatico e nella svolta che potrà dare al mondo, un futuro sostenibile. E da oggi, tutti i comuni italiani potranno partecipare alla sfida internazionale del "city challenge" che, nei prossimi mesi, coinvolgerà l'Italia, il Canada, l'India, la Svezia e gli Stati Uniti, nella ricerca della "Capitale Earth Hour 2013".

Ad aggiudicarsi il riconoscimento per "reinventare le città" sono state le buone pratiche che hanno considerato la questione ambientale in modo innovativo, sotto il profilo di aria, acqua, cibo, mobilità, rifiuti, consumo del suolo, biodiversità, con un occhio di riguardo per il coinvolgimento attivo dei cittadini.

Ecco dunque le "buone nove" selezionate: il bikesharing "tobike", di Torino, che mira ad attivare 390 stazioni per 3900 biciclette entro il 2020, con un risparmio di 308 tonnellate di co2 all'anno, e che già oggi conta 70 stazioni attive con 700 biciclette, 12.000 Abbonati e una media di circa 3.000 Prelievi al giorno. La campagna "pannolini lavabili, tutta un'altra scelta!" che nella provincia di  Forlì-Cesena, distribuendo 122 buoni acquisto a poco più di 70 famiglie, ha permesso di risparmiare 732.000 pannolini usa e getta nel giro di 2-3 anni, più che dimezzando le spese per le famiglie e riducendo, a monte un utilizzo che rappresenta il 10% dei rifiuti indifferenziati annuali.

Altro vincitore è 'l'Area C' di Milano, che ha imposto una tariffa di ingresso al centro cittadino e, nel solo primo mese, ha ridotto di un terzo i veicoli in ingresso all'area, con benefici sulla riduzione delle emissioni inquinanti e ricavi da investire sulla mobilità pubblica. Il progetto di autonomia energetica di Forni di sopra (Udine), che ha avviato l'installazione di collettori solari e pannelli fotovoltaici su rifugi, scuola e piscina, di una rete di illuminazione pubblica a led e di impianto di teleriscaldamento a biomassa forestale di provenienza locale. Premiato anche l'incremento della raccolta differenziata a Napoli, che nel 2012 punta a coprire 500.000 abitanti,rispetto agli attuali 240.000. La produzione di elettricità pulita dalle onde del mare, che verrà realizzata a Venezia entro fine anno.

E ancora: La casa dell'acqua a pannelli solari di Vanzago, il comune che ha candidato all'iniziativa ben 14 buone pratiche integrate tra loro e intersettoriali, che nel 2011 ha erogato 730.000 litri di acqua risparmiando 500.000 bottiglie di plastica ed evitando la circolazione di 65 mezzi pesanti, per il trasporto delle confezioni. Infine, il recupero di filiera corta e antiche culture a Rocchetta Vara (La spezia), che ha incentivato un'attività agricola sostenibile tramite il recupero di terreni incolti e la produzione del pane di rocchetta da grano di semi tramandati da generazioni dai produttori ormai rari e l'iniziativa "il padule che vorremmo" che, a Ponte Buggianese (Pistoia), ha coinvolto i cittadini in un processo partecipato per sulla depurazione in valdinievole e la riqualificazione del padule di Fucecchio.

"In un momento in cui le politiche nazionali e internazionali stentano a indirizzare la riduzione delle emissioni e della nostra impronta sul pianeta, le buone pratiche dei comuni italiani, dimostrano che la sostenibilità è una rivoluzione possibile e già in corso. Immaginiamo quanto sarebbe più efficace, se fosse supportata da specifiche strategie nazionali- ha detto Adriano Paolella, direttore generale del Wwf Italia- le buone pratiche sono soluzioni creative, realizzabili ed esportabili, in piccoli centri così come in grandi capoluoghi, e possono 'ispirare' decine di altri comuni, ma anche i decisori del nostro paese."

E da oggi, tutti i comuni italiani possono candidarsi al City Challenge Wwf, la sfida internazionale che premia i migliori programmi elaborati dalle città per rispondere alle necessità quotidiane dei cittadini (edifici, trasporti, energia) in un futuro rinnovabile. Lanciato l'anno scorso in Svezia - vinse la città di Malmoe, da quest'anno si allarga: Italia, Canada, India, Stati Uniti e Svezia, con la premiazione delle migliori città in occasione di Earth Hour 2013. I progetti verranno vagliati attraverso il "Carbonn Cities Climate Registry (Cccr)", una piattaforma per il conteggio delle performances in termini di riduzione delle emissioni di carbonio, per fronteggiare i cambiamenti climatici, riconosciuta a livello internazionale e gestita da iclei, governi locali per la sostenibilità.

Nelle scorse settimane il Wwf ha distribuito a centinaia di comuni italiani uno speciale "kit" per la sostenibilità urbana , composto dal dossier "reniventiamo le città", con le 10 mosse per migliorare la sostenibilità delle città e la qualità di vita dei cittadini e dal rapporto urban solutions, con casi esemplari già realizzati in tutto il mondo.
(23 marzo 2012), da repubblica

"Fiat voleva cacciare i sindacalisti"


LA SENTENZA
Melfi, i giudici duri sui licenziamenti
"Fiat voleva cacciare i sindacalisti"
Le motivazioni del verdetto che ha portato al reintegro dei tre operai licenziati nel 2010 dal Lingotto. "Misura motivata solo per liberarsi di chi aveva assunto posizioni di antagonismo". "Pregiudicata la libertà sindacale"

POTENZA - I licenziamenti dei tre operai della Fiat di Melfi rappresentano "nulla più che misure adottate per liberarsi di sindacalisti che avevano assunto posizioni di forte antagonismo" con "conseguente immediato pregiudizio per l'azione e la libertà sindacale": lo scrivono, nelle motivazioni della sentenza, i giudici di Potenza.

Nel documento si legge che nei confronti dei tre licenziati, il responsabile della linea produttiva ha tenuto un atteggiamento "provocatorio", rapportandosi agli operai in un modo "che non è stato così tranquillo e pacato come la società sostiene".

Per i giudici, prima di tutto, non c'è stato nessun danno alla capacità produttiva dello stabilimento ma, soprattutto, non è stato infranto il divieto di "ledere la capacità del datore di riprendere l'attività dopo lo sciopero". Davanti a quei carrelli, poi, non avrebbero sostato solo i tre operai licenziati, ma anche altre tute blu alle quali, sostiene la Corte d'Appello potentina, "la Fiat non ha contestato nulla".

Nelle motivazioni si fa riferimento anche a un clima di antagonismo nei rapporti sindacali, a cui si aggiunge anche la divisione tra le diverse sigle in riferimento alla vicenda contrattuale di Pomigliano: nonostante ciò, i giudici ricordano però che "l'atteggiamento provocatorio" del responsabile della linea di produzione è riportato anche "in un documento unitario da tutta la  Rsu nell'immediatezza dei fatti".

Dal quadro complessivo, quindi, per la Corte i licenziamenti sono stati un mezzo adottato dalla Fiat "per liberarsi di sindacalisti che avevano assunto posizioni di forte antagonismo". I tre operai, anche dopo la sentenza, non hanno ancora fatto ritorno in fabbrica perchè l'azienda ha comunicato loro che "non intende avvalersi delle prestazioni lavorative": stipendio garantito, ma lontano dalle linee produttive.

Il 23 febbraio scorso 1 i giudici del secondo grado avevano dato ragione al sindacato sulla vicenda che portò all'esclusione dalla fabbrica di due delegati Cgil, accusati di aver provocato un blocco produttivo durante uno sciopero interno.

I tre operai del reparto montaggio dello stabilimento di Melfi - dove si produce la Punto Evo - furono  licenziati nel luglio 2010 2 con l'accusa di aver ostacolato il percorso di un carrello robotizzato durante un corteo interno. Il blocco del carrello robotizzato, secondo l'azienda, avrebbe impedito di lavorare agli operai che non partecipavano allo sciopero e al corteo interno. Due dei tre espulsi dall'azienda erano delegati Fiom, che subito decise di impugnare i licenziamenti.
(23 marzo 2012), da repubblica

venerdì 23 marzo 2012

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GUIDA ALLA RIFORMA

Licenziamenti
Il licenziamento potrà avvenire per motivi economici, attinenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro. Possono poi esserci i licenziamenti per motivi disciplinari, e per questi il giudice potrà decidere se serve un indennizzo o il reintegro. Per il licenziamento valutato discriminatorio il giudice decide il reintegro Indennità
La misura dell’indennità in caso di licenziamento sarà decisa dal giudice, per una durata fra i 15 e i 27 mesi. L’Aspi, Assicurazione sociale per l’impiego, entrerà a regime nel 2017 rimpiazzando l’indennità di mobilità. Dovrebbe partire dal 70% per gli stipendi fino a 1.250 euro. Il limite massimo è fissato a 1.119 euro al mese Precari
Per i giovani precari lo strumento principale d’inserimento diventa l’apprendistato, ma le aziende potranno ricorrervi solo se poi assumono una parte degli apprendisti. Per il lavoro a tempo determinato ci sarà un contributo extra dell’1,4%, in parte recuperabile in caso di stabilizzazione. Stretta sul falso lavoro autonomo in realtà subordinato

Giudice
Il ruolo del giudice resta centrale nelle controversie di lavoro. Sarà infatti il magistrato (salvo ulteriori modifiche) a decidere sulle indennità prevista in caso di licenziamento per motivi economici. Deciderà sull’attribuzione e sull’entità che può andare da un minimo di 15 mesi a un massimo di 27 mesi
Termine
La riforma non elimina ma di fatto disincentiva i contratti a termine attraverso la penalizzazione dell’1,4% di versamenti contributivi in più. Questi in parte potranno essere rimborsati se il lavoratore viene stabilizzato. Alcuni temono che le imprese comprimano i salari netti per finanziare l’1,4% in più di contributi Ammortizzatori
Resta la cassa integrazione, ma con alcune modifiche. Anche la cassa integrazione straordinaria rimane ma, dice il ministro Elsa Fornero, sarà «ripulita»: non varrà per cessazione di attività e di mobilità. In caso di cessazione di fatto dell’attività dell’impresa, si passa dalla Cig a mobilità e Aspi Tutele
Fra le tutele inserite spiccano quelle a favore delle donne: viene istituito il divieto di firmare le dimissioni in bianco al momento dell’assunzione. Si inserisce anche la paternità obbligatoria in via sperimentale per tre anni. Le tutele sui licenziamenti sono demandate al giudice: reintegro sui discriminatori o indennizzi in altri casi Donne
Per le donne arriva una maggiore tutela in caso di maternità. La riforma infatti prevede una stretta sulle dimissioni in bianco che alcune aziende fanno firmare alle lavoratrici assunte. Una condizione illegale che di fatto rende molto rischiosa sotto il profilo lavorativo un’eventuale maternità, che «costringe» le donne alle dimissioni
La riforma del mercato del lavoro Monti- Fornero segna una svolta nel metodo e nei contenuti (se positiva o meno lo diranno i fatti). Nel metodo perché sancisce la fine della concertazione, che dall’inizio degli anni Novanta ha attribuito ai sindacati un potere di codecisione sulle questioni di politica del lavoro e del welfare. Nei contenuti perché abbatte il totem dell’articolo 18, la norma dello Statuto dei lavoratori del 1970 che garantisce il diritto al reintegro nel posto di lavoro a chi viene licenziato senza giusta causa o giustificato motivo nelle aziende con più di 15 dipendenti.

Una tutela assoluta sancita nella legge al termine dell’«autunno caldo» del 1969, una stagione di lotte sindacali per l’affermazione dei diritti e il miglioramento delle condizioni dei lavoratori in un’Italia profondamente diversa, trainata dal lavoro nelle grandi fabbriche, sia private sia delle partecipazioni statali, in un mondo non globalizzato.

Fin dagli anni Ottanta gli studiosi si sono interrogati sui problemi creati dall’articolo 18. Nel quale, per esempio, si è vista una delle cause del nanismo delle aziende italiane e un ostacolo agli investimenti dall’estero. Ma non mancano anche le critiche di parte sindacale. Già nel 1985 il Cnel, il parlamentino delle parti sociali, approvò un documento preparato dalla Commissione Lavoro, della quale facevano parte figure storiche del sindacato come Boni, Benvenuto e Lama, dove si addebitavano all’articolo 18 «assurde disparità di trattamento», perché «contrappone un'area ristretta di lavoratori iperprotetti a un'area molto più vasta di lavoratori privi di qualunque protezione», quelli delle aziende fino a 15 dipendenti, e si affermava: «L’esperienza applicativa dell’articolo 18 dello Statuto non suggerisce un giudizio positivo sull’istituto della reintegrazione, che nei termini generali in cui è previsto nel nostro diritto non trova riscontro in alcun altro ordinamento ».

La commissione proponeva quindi, guardando anche allora al modello tedesco, di limitare il diritto al reintegro ai soli licenziamenti discriminatori come era previsto (si spiega nel documento)nel testo originario dello Statuto presentato dal ministro del Lavoro Giacomo Brodolini, poi modificato in Parlamento. Per gli altri licenziamenti si suggeriva invece la riassunzione o l’indennizzo a scelta del datore di lavoro. Tutte queste regole il Cnel le proponeva però per le aziende con più di 5 dipendenti.

Ma bisogna arrivare alla fine del 2001 per vedere il primo vero tentativo di riforma, quando il governo Berlusconi approva il disegno di legge delega 848. Che prevede, tra l’altro, la sospensione dell’articolo 18 (sostituzione del diritto al reintegro col risarcimento) in tre casi: per le aziende escono dal nero; per quelle che, assumendo, superano i 15 dipendenti; quando i contratti a termine vengono trasformati a tempo indeterminato.

La sospensione è sperimentale per 4 anni. Contro questo provvedimento la Cgil e la sinistra ingaggiano una battaglia senza precedenti, che culmina nella manifestazione oceanica della Cgil di Sergio Cofferati al Circo Massimo il 23 marzo 2002, che indurrà il governo a stralciare gli articoli sui licenziamenti. Ancora un governo Berlusconi, nel 2010, prova a intervenire sull’articolo 18, ma in maniera indiretta, con il collegato lavoro del ministro Sacconi che prevede la «clausola compromissoria» con cui al momento dell’assunzione azienda e lavoratore si impegnano a demandare a un arbitro, che decide secondo equità, anziché al giudice le possibili controversie, comprese quelle sui licenziamenti. Ma qui è il presidente della Repubblica Napolitano a intervenire costringendo il governo a far marcia indietro.

Ma passa meno di un anno e, nella manovra di Ferragosto (dl 138 del 2011) compare l’articolo 8 che autorizza aziende e sindacati a stipulare accordi riguardanti anche le conseguenze del licenziamento (tranne quello discriminatorio) in deroga all’articolo 18. Il provvedimento viene approvato, ma il 22 settembre Confindustria, Cgil, Cisl, Uil e Ugl si impegnano formalmente a non utilizzare l’articolo 8 per quanto riguarda i licenziamenti. L’articolo 18 è salvo. Ma dura poco. A novembre il governo Berlusconi cade. Arriva Mario Monti, che annuncia tra le sue priorità la riforma del lavoro. Il 18 dicembre, nella prima intervista da ministro del Lavoro, Elsa Fornero dice al Corriere che l’obiettivo è combattere la precarietà, allargare la rete degli ammortizzatori, ma che si discuterà anche dell’articolo 18, perché non ci possono essere «totem».

Dopo 42 anni di onorato servizio la norma simbolo dello Statuto va in pensione. E muore il posto fisso

DI Enrico Marro, DAL CORRIERE