di LUIGI LA SPINA, dalla stampa
È bastato l’altolà «andreottiano» di Monti per far capire a tutti, ma soprattutto ai partiti che lo sostengono in Parlamento, quanto fosse poco credibile la minaccia delle elezioni anticipate. Così Alfano, Bersani e Casini, consapevoli della debolezza e della scarsa credibilità delle forze politiche che guidano, hanno cercato di correre ai ripari, con l’annuncio di un accordo sulla nuova legge elettorale e sulla riforma della Costituzione.
L’intenzione è chiara, ma contraddittoria: da una parte, si promette di restituire ai cittadini la facoltà di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento, condizione minima, ma indispensabile per avere il coraggio di chiedere ai cittadini il loro voto; dall’altra, si cerca di allargare la libertà di manovra dei partiti nella formazione del governo, mandando sostanzialmente in soffitta quel bipolarismo all’italiana durato quasi un ventennio.
Una esperienza che aveva suscitato molte speranze, ma che ha provocato molte delusioni.
Ammaestrati dal passato, bisogna essere prudenti nei pronostici, perché gli annunci di accordi, le esibizioni di buona volontà non bastano a ritenere che in un anno, quanto manca alla fine della legislatura, si riesca a varare una nuova legge elettorale e ad approvare, quanto meno, uno schema di riforma costituzionale. Come sempre, il diavolo sta nei dettagli e non si nasconde dietro i grandi principi. Quando alle parole si sostituiranno i numeri, le convenienze dei partiti faranno premio sulle rette intenzioni e poiché, su queste materie, non si possono prevedere maggioranze striminzite, i troppi poteri di veto potrebbero far saltare qualsiasi bozza d’intesa.
Bisogna ammettere, però, che le probabilità di realizzare un accordo, questa volta, sono maggiori, perché le circostanze politiche, del tutto inedite e abbastanza anomale per il nostro Paese, potrebbero aiutare. Innanzi tutto, i tre partiti della maggioranza governativa, constatata quanto sia scarica la pistola alla tempia di Monti, devono dare segnali di concreta capacità riformatrice. Diversamente, apparirebbe clamoroso e quasi umiliante il confronto con un presidente del Consiglio che, in pochi mesi e con l’elogio di tutte le autorità politiche del mondo e di tutte le istituzioni finanziarie internazionali, assume decisioni importanti e anche impopolari. Autoridurre il loro ruolo a portatori d’acqua, magari riottosi e litigiosi, di un professore bocconiano, a capo di un governo «strano», farebbe sospettare, nella capitale, un’epidemia di masochismo politico. Una sindrome finora sconosciuta, anche ai medici parlamentari più sperimentati. La materia elettorale e costituzionale costituisce, naturalmente, una riserva assoluta di competenza dei partiti e, quindi, libero da qualsiasi influenza governativa, il terzetto Alfano, Bersani, Casini potrebbe dimostrare che la politica esce dalle retrovie del palcoscenico italiano e ritrova il ruolo di protagonista.
C’è, inoltre, una convenienza a cercare davvero un accordo, per un motivo meno legato all’immagine e alla credibilità dei partiti e più ai loro concreti interessi. L’aspetto più importante, dal punto di vista politico, dell’intesa di massima sbandierata ieri, alla fine del vertice, è quello che sancisce la fine del cosiddetto «obbligo di coalizione», preventivo rispetto al voto degli italiani. La norma che distingueva la seconda Repubblica dalla prima, quella cominciata dopo la riconquista della democrazia.
La mano libera alle segreterie dei partiti per la formazione di una maggioranza che sostenga il governo, dopo le elezioni, apparentemente potrebbe far pensare a un ritorno al passato, quello del sistema proporzionale perfetto. In realtà, il margine di discrezionalità che si affiderebbe alle forze politiche è notevolmente maggiore di quello che era a disposizione nella cosiddetta prima Repubblica. Allora, si trattava solo di scegliere, fra gli alleati della Dc, quelli più adatti al segno che la segreteria di piazza del Gesù voleva dare al suo governo. Ora, il gioco si può fare a tutto campo e nessun partito è escluso, a priori, dalla possibilità di entrare nella maggioranza parlamentare.
L’astuzia della storia, però, potrebbe giocare un brutto tiro a questa «volontà di potenza» dei partiti. Se gli attuali umori elettorali non cambieranno fino al prossimo anno, è probabile che nessuna forza politica possa ottenere una quota di consensi sufficiente non solo a comandare da sola o quasi, ma neanche tale da conquistare un premio di maggioranza, o di «governabilità» come si prefigura nella nuova ipotetica legge elettorale, capace di aggregare una solida alleanza politica. La soluzione, allora, potrebbe essere quella di essere costretti, anche nel 2013, a richiamare, dopo una breve vacanza, Monti a Palazzo Chigi. Così, una riforma del voto concepita per restituire lo scettro al re, finirebbe per affidarlo al solito professore.