di Guido Rossi, da Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2012
È da tempo, come già avevo segnalato più volte, che il problema della corruzione è diventato ossessivo nelle priorità politiche delle democrazie occidentali. La discussione è stata apertissima negli Stati Uniti d'America, con una serie di multiformi e approfonditi interventi, tra i quali primeggiano quelli in corposi volumi, dai titoli che paiono togliere ogni speranza ai fondamentali principi della democrazia.
Mi riferisco in modo particolare a "Republic Lost", col sottotitolo "How Money corrupts Congress" del giurista di Harvard Lawrence Lessig e quello di Hedrick Smith "Who stole the American Dream?", nei quali la fondamentale causa dei vari tipi di corruzione è individuata nella conquista del sistema politico da parte della nuova oligarchia dei ricchissimi signori del capitalismo finanziario (l'1% della popolazione), che hanno così usurpato il potere del popolo americano di decidere del proprio destino politico e sociale. Naturalmente nella democrazia americana vi sono tentativi di opposizione, da quelli civili, ma disinseriti dalla vita politica come il movimento "Occupy Wall Street", con forti sostegni del mondo intellettuale, e le ambiziose derive populiste come il Tea Party.
Non è un caso che, come in Italia, il dirompente problema della corruzione emerga, anche nelle sue più inqualificabili e degradanti manifestazioni, in un periodo antecedente a uno dei momenti fondamentali del sistema democratico, che è quello delle elezioni.
Ebbene l'Italia, vergognosamente tra le nazioni più corrotte, secondo ogni classifica, non è ancora riuscita ad approvare una legge sia pure incompleta, per la già sottolineata mancanza di norme sul riciclaggio e sul falso in bilancio. Legge che semmai era da tempo urgente e che non dovrebbe essere ora approvata solo perché ce lo chiede l'Europa.
La verità è che in Italia, oltre alla corruzione che ha alla base lo scambio di denaro contro favori e benefici politici, aldilà dei risvolti penali che debbono essere rigorosamente puniti, è emersa un'altra forma di corruzione.
In questa nuova forma, che chiamerei «corruzione da dipendenza», si privilegia l'appartenenza al gruppo piuttosto che la competenza, anche se nell'"appartenenza", più che nella "competenza", si usano sbandierare falsi criteri col lemma ormai di moda della meritocrazia.
La causa principale dell'attuale corruzione della classe politica in Italia e della sua spaventosa decadenza ha una storia, non tanto dovuta alla mancanza di una legge anticorruzione, bensì all'attuale legge elettorale del 2005 (n.270). Quest'ultima ha rotto il sistema della rappresentanza politica, trasformando le elezioni dei parlamentari indicati non più dagli elettori, bensì dai vertici dei partiti. Ecco quindi l'emergere della corruzione per dipendenza e il passaggio ad una classe politica di incompetenti, ma "appartenenti". E questa è anche la ragione per la quale da più parti si pensa che la volontà degli elettori sia incarnata nelle decisioni di un capo più o meno carismatico, autentico rappresentante del popolo, ma che secondo l'opinione di Kelsen, è l'opposto dell'idea di democrazia, la quale esige l'"assenza di capi".
La democrazia rappresentativa in questo Paese ha fatto sì che già negli anni della Prima Repubblica il sistema dei partiti si sia identificato con le istituzioni, in tutte le varie forme di amministrazione diretta o indiretta del bene pubblico, dagli organismi decentrati ai vertici delle società pubbliche, alle Autorità indipendenti, dove il sistema del conflitto di interessi dei vari gruppi di potere ha prevalso sulla rappresentanza politica. Nella cronaca attuale, ciò giustifica le profonde resistenze alla riforma della legge elettorale, sperando che comunque lo status quo continui, con elezioni o senza elezioni, purché ai privilegiati con cariche pubbliche sia garantita la conservazione della carica.
È dunque in primo luogo la riforma elettorale il vero strumento per combattere le oligarchie, la corruzione, la lottizzazione, l'illegalità criminale e non e lo svuotamento del processo democratico elettorale. Se non vogliamo che anche la nostra Repubblica vada perduta e che il sogno di una giustizia sociale, la quale risolva le sempre più drammatiche ineguaglianze che ragioni non solo economiche hanno creato, dobbiamo sollecitare il governo tecnico, frutto di uno stato di eccezione, affinché provveda con priorità assoluta alla riforma della legge elettorale, che porti alla diminuzione della corruzione e dei costi della politica e delle vaste illegalità malavitose.
Questo può ora farlo, anche adottando gli strumenti già usati per meno fondamentali provvedimenti. E proprio per la sua eccezionalità non elettiva il governo tecnico - doverosamente a tempo - si trova ora nella felice posizione di essere su questo punto completamente scevro da qualsivoglia conflitto di interessi. Lo stato d'eccezione si giustifica ora con un'immediata riforma elettorale, per far sì che i partiti, come vuole l'art. 49 della Costituzione, finalmente concorrano «con metodo democratico a determinare la politica nazionale del Paese». Il Paese potrà così non essere più gestito da opache oligarchie che si autocandidano o si cooptano, ridando ai cittadini il sogno di una cosciente democrazia deliberativa. Di conseguenza anche i partiti non avranno più l'inconfessabile scusa per non predisporre i loro programmi di governo.
Vale la pena di ricordare l'illuminante brano di Plutarco nella "Vita di Alcibiade" dove racconta di una tentata visita di Alcibiade a Pericle, che non poté riceverlo perché troppo occupato a pensare quali trasparenti spiegazioni dare delle sue decisioni politiche al popolo. Dice allora Plutarco che Alcibiade andandosene insoddisfatto dichiarò: «Non sarebbe meglio se considerasse come evitare del tutto di dar conto al popolo di quello che fa?».
La dichiarazione di Alcibiade non è più tollerabile da nessuna istituzione politica, presente o futura. Meglio di chiunque avrebbe aggiunto nei suoi versi immortali Eugenio Montale: «Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
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