giovedì 29 novembre 2012

L’Italia di Monti come il Congo: senza democrazia


di DON PAOLO FARINELLA , da Micromega
 L’Italia di Monti come il Congo: senza democrazia
Un mio caro amico che vive in Congo, padre Gianni Nobili, mi descrive la situazione che vede sotto i suoi occhi e fa un paragone con l’Italia e l’Europa dei nostri giorni. Egli dice che di fatto il Congo è in mano a movimenti armati, come ad es. «M23» che ha conquistato la città di Goma. L’esercito del Congo è inesistente e si squaglia ogni volta che un movimento alza la testa. La «Politica» o è corrotta o è impotente. Gli Stati esteri e le grandi compagnie minerarie del mondo hanno enormi interessi da arraffare e difendere, a costo di balcanizzare l’intera zona, per cui pagano i guerriglieri che spesso sono alleati degli invasori «economici». Chi paga il prezzo in Congo è la popolazione, del cui destino e sorte quotidiana nessuno s’interessa e a nessuno importa. L’Onu è presente, ma non può intervenire, può solo stare a guardare. La chiamano «missione di pace»: ne sappiamo qualcosa. Scrivi p. Giovanni:

«Da anni la farsa si sta giocando a spese di innumerevoli vittime innocenti…   Stiamo vivendo in modo drammatico quello che tu da mesi analogamente stai analizzando nella società italiana. I poveri sono massacrati, non contano meno di nulla nei giochi sporchi a diabolici dei potenti. E’ stomachevole il linguaggio dei diplomatici che non vogliono dire apertamente una verità che tutti sanno, una verità che è chiara e semplice: la fame delle ricchezze sulle quali tutti vorrebbero mettere le mani. Ricchezze che abbondano in modo scandaloso in questa terra del Congo. ormai oggetto di cupidigie senza limiti».

E’ la riprova che vi è un progetto «universale» non solo di totale sfruttamento delle risorse naturali dei popoli legittimamente proprietari che vengono espulsi dal loro stesso diritto, ma anche di un annullamento radicale dei principi di democrazia e indipendenza. Sia in Africa che in Occidente e nel resto del mondo. Aveva ragione Marx: chi possiede gli strumenti (i mezzi), trasforma il lavoro e le persone in «merce», il cui valore è dato dagli stessi sfruttatori. Gli Africani, i Congolesi, gli Italiani … valgono nulla perché ciò che conta è il profitto di una infima minoranza che con i mezzi a sua disposizione è in grado di annullare i diritti e la stessa dignità. La Fiat trasferisce arme e bagagli in Olanda dove paga meno tasse sul profitto da dividere tra gli azionisti: e alla malora se migliaia di operai con decina di migliaia di famiglia restano sul lastrico alla fame. A Marchionne non importa nulla perché egli si prende lo stipendio base che è 511 volte superiore quello di un operario, esclusi gli altri benefit. L’Eni italiana di Scaroni in Africa (Nigeria) non impegna nessun operaio locale, ma sono tutti d’importazione; gas e petrolio locali sono invece esportati perché noi possiamo scaldarci e cucinare. Il nostro benessere lo pagano i poveri che sono derubati delle loro materie prime.

Nessuna differenza tra il governo Monti e i governi corrotti dell’Africa; hanno lo stesso obiettivo: annullare le pretese delle popolazioni di affacciarsi alla soglia della democrazia e incidere con la loro partecipazione alle sorti di se stessi e dei loro figli. Monti ha un compito: ridurre gli spazi di sopravvivenza per impedire che la democrazia si allarghi e devasti il sistema capitalista che è il regno «dei pochi». Monti annulla «di fatto» la carta dei diritti con la scusa che «non vi sono soldi».

In Africa e in Congo i soldi ci sono e servono per corrompere, per armare, per dividere, per distruggere. In Italia i soldi ci sono e servono per corrompere, per dividere, per affamare, per mettere in riga e per mantenere una mandria di fannulloni perversi che si fregiano anche del titolo di «cattolici» e il vescovi, complici di genocidio stanno a guardare e tacciano, quando non fanno affari con questa gentaglia maledetta da Dio e dai popoli. «Non vi sono soldi» è uno slogan che oggi ha il potere di svuotare la Costituzione e  la Legge che impongono di rimuovere gli ostacoli di natura economica. A costoro, a livello mondiale, interessa avere utili «freschi, di giornata», se poi milioni di persone fanno la fame e muoiono … affari loro: prima muoiono, prima si tolgono di mezzo, prima lo Stato risparmia.

Si avvicina l’ora in cui «la collera dei poveri» insorgerà e travolgerà capitalismo e capitalisti, chiesa e vaticano, vescovi e parlamenti e li butterà tutti nell’immondezzaio della storia, là dove non si conserva la memoria nemmeno dei farabutti. Sono solidale con padre Gianni Nobili e prego con lui perché possiamo vedere l’alba del nuovo giorno.

don Paolo Farinella

lunedì 26 novembre 2012

L’unico vero sconfitto si chiama Nichi Vendola


di MATTEO PUCCIARELLI, da Micromega
Tocca ammetterlo, e dispiace soprattutto se almeno idealmente ci si sente vicini alle proposte e alla cultura di Nichi Vendola: ma l’unico vero sconfitto di queste primarie-concorso è proprio lui. La sua strategia – come tanti del suo mondo gli avevano già fatto notare – si è dimostrata un fallimento. E il misero 15 per cento era in realtà una storia già scritta.

Praticamente da tre anni a questa parte il leader di Sel ha fatto fuoco e fiamme giorno per giorno: voleva le primarie, le voleva a tutti i costi. Perché le primarie erano il rumore del mare che un bambino ascolta dentro la conchiglia, e roba del genere, raccontava lui. Pareva quasi che il futuro della sinistra, che il riscatto dei lavoratori, degli studenti, della Fiom, degli sfruttati di tutto il mondo stesse lì: nelle primarie. Un modo un po’ edulcorato per rappresentare la realtà di un Paese, e soprattutto di una coalizione sorretta dal Pd, che nel frattempo ha votato tutti i provvedimenti del governo Monti (che a parole Vendola combatte).

«Vedrai, alle primarie scorrerà il sangue», mi giurò un amico-compagno di Sinistra e Libertà molto vicino al presidente pugliese quando in tanti gli facemmo notare che il progetto di Bersani era centrosinistra più Udc, quindi cambiare tutto per non cambiare nulla. Non solo nessuno ha visto metaforicamente scorrere sangue (cioè una campagna realmente alternativa, forte, autonoma sia sul piano politico che simbolico), ma addirittura il popolo di sinistra si è dovuto sorbire il peana sul cardinale, risposte tiepide sulla futura alleanza con il centro e un totale appiattimento su Bersani. Vendola ne è uscito fuori come candidato del Pd, anzi, della sinistra Pd. E allora verrebbe da solidarizzare con quei poveri cristi che nel 2008 uscirono dal Pd perché non volevano morire democristiani e quindi fondarono Sel con Vendola e che cinque anni dopo rientrano silenziosi e sconfitti, facendo trattando posti in lista un po’ qui e un po’ là da Gennaro Migliore e simili.

Infine, la tanto decantata unità della sinistra. Sel nacque col proposito di unire, e già la cosa faceva un po’ ridere perché cercò di farlo cominciando da una scissione all’interno dell’allora partito più grande della sinistra, cioè Rifondazione. La cosa gli venne perdonata da molti perché l’idea di lavorare a una sinistra radicale nei contenuti ma liberata dagli orpelli ideologico-vintage poteva avere pure un senso. Però è andata a finire che Vendola ha partecipato alle primarie perdendo per strada pezzi consistenti di Fiom, prima di aver scaricato Di Pietro dall’oggi al domani e umiliando gli ex compagni del Prc; è riuscito a perdere l’appoggio di Fausto Bertinotti, suo padre politico; non ha avuto il sostegno di Luigi De Magistris né di Alba, Giuliano Pisapia ha dichiarato il suo voto per lui solo il giorno prima. Perché Vendola e il suo gruppo dirigente hanno pensato – a torto – che bastasse la poesia dei comizi e un po’ di web-marketing per vincere, superando a pie’ pari tutte le relazioni e i rapporti necessari per mobilitare in primis il “proprio” popolo.

Vendola è arrivato alle primarie con il fiatone, appannato, confidando solo e semplicemente sulla propria attrattiva personale e sul clan dei fedelissimi, molti dei quali con evidente e preoccupante tendenza culto della personalità. No, per vincere non basta. Per cambiare il Paese non basta. Per riuscire ad andare al governo e amministrare l’esistente senza creare troppi problemi e senza cambiare i rapporti di forza, per quello sì, basta e avanza. E allora auguri.

PS. Chi ha la disgrazia e la fortuna di ritrovarsi spesso su questo spazio, sa benissimo che questo non è un commento facile emesso a risultato avvenuto. Era una previsione. Azzeccata.

Matteo Pucciarelli

Giù le mani dal Mar Jonio.


 SALVARE IL METAPONTINO DALLA “PETROLIZZAZIONE” SELVAGGIA!
                           STASERA 19,30 RIUNIONE 
                   PIAZZA HERACLEA
Il nostro  anniversario  contro  le scorie nucleari lo celebriamo difendendo il nostro mare. E’ quanto scrive in un volantino No Scorie Trisaia. “Il mar jonio rappresenta la  storia  la  cultura  dei popoli del Golfo di Taranto, da difendere dalla multinazionali dell’energia e dai politici senza cultura”. Oggi , 26 Novembre, alle ore 19,30, presso la piazza Heraclea dove abbiamo come comitato NO TRIV JONIO un presidio permanente  (in caso di maltempo in  sala parrocchiale Eraclea di Policoro )si terrà il secondo  incontro cittadino per difendere il Mar Jonio dalle trivellazioni petrolifere”.  Ola è No Scorie il comitato No TRIV Jonico nel volantino di presentazione scriviamo : “Tutta colpa del ministro Corrado Passera e dei parlamentari che lo hanno appoggiato (lucani e calabresi) nel decreto Crescitalia. I petrolieri trivelleranno l’Adriatico,lo Jonio, il Canale di Sicilia fino in Sardegna (circa 70 piattaforme petrolifere), con condizioni economiche e ambientali favorevoli solo ai petrolieri.
I rischi ormai li conosce anche un bambino: probabile inquinamento anche con le sole attività di ricerca di minerali, con percentuali dell’80% di moria di pesci entro 5 km dall’area in cui si sparano onde d’aria con l’air-gun, lo strumento che utilizzano per creare onde sismiche che rivelano la presenza di giacimenti nel sottosuolo marino. In fase di trivellazione e/o lavorazione degli idrocarburi i rischi per l’ambiente e la catena alimentare sono dovuti all’uso di sostanze tossiche, a possibili perdite di idrocarburi e a fenomeni di subsidenza. Un pericoloso abbassamento del suolo terrestre perché causa di alluvioni ed erosioni e l’area Jonica Metapontina ha già molti problemi di alluvioni e di erosioni. Un fenomeno di subsidenza sta accadendo a Crotone ed è stato denunciato dal professor Leonardo Seeber, sismologo americano, per via della presenza di alcune piattaforme marine che estraggono gas.
I nuovi permessi di ricerca mineraria in mare ci faranno dire addio alle scenografiche albe joniche, distrutte per sempre dalle rugginose piattaforme in mare, a migliaia di posti di lavoro nel turismo, nella pesca, nell’agroalimentare, addio agli investimenti immobiliari sul mare (chi ha una casa perde il suo valore subito). Miliardi pubblici di investimenti sul turismo andrebbero in fumo subito. Addio alla fauna marina e al paradiso di delfini e di tartarughe. Non esistono tecniche di perforazione non impattanti e in caso di grave incidente come nel Golfo del Messico,le conseguenze sarebbero gravi..
Distruggere il mare significa distruggere la storia, l’identità e il futuro economico del meridione d’Italia. Incalcolabili sarebbero poi le ripercussioni sulla salute , la nostra terra è già minacciata da una percentuale alta di malattie cancerogene , moivo per cui come comitato affiancheremo al nostro movimento un comitato medico scientifico fatto di medici per monitorare la ricadute e gli effeti che già il popolo lucano paga a caro prezzo
Contro chi vuole mettere le mani sullo Jonio per trivellarlo , chiediamo una mobilitazione immediata di tutti i cittadini che come a Scanzano invitiamo ad auto-organizzarsi . Le istituzioni ,i sindaci facciamo sentire immediatamente la propria voce. La Regione Basilicata che ha fatto il memorandum con il governo per il raddoppio delle estrazioni sulla terra (senza ancora ottenere nulla in cambio) ,si opponga come stanno facendo Puglia,Molise, Abruzzo,Veneto ,coinvolgendo anche la Calabria.
Ognuno ora è responsabile del proprio futuro

venerdì 23 novembre 2012

Dalla crisi economica può nascere l'Europa politica


La crisi economica può rappresentare nell’Unione europea un’importante occasione per rafforzare il sistema di cooperazione e per dare vita a una nuova architettura istituzionale. La costruzione di una democrazia sovranazionale europea appare oggi prioritaria nel contesto di una globalizzazione che nel prossimo futuro lascerà poca voce in capitolo ai singoli Stati del vecchio continente. Un’intervista esclusiva con Jürgen Habermas.

di Donatella Di Cesare, da Repubblica

Professor Habermas Lei ha indicato nell’Unione Europea un passo decisivo verso una società mondiale retta da una Costituzione politica. La crisi attuale non le ha fatto cambiare idea. Lei anzi sostiene che «l’astuzia della (s)ragione economica ha riportato nell’agenda politica la questione del futuro dell’Europa». La crisi del debito sarebbe dunque una chance?

Senza questa crisi i capi dei governi della comunità monetaria europea non sarebbero costretti a cooperare più strettamente, almeno nella politica fiscale ed economica, e a delineare perciò una nuova “architettura istituzionale”. Quel che sta avvenendo mi pare sia un’astuzia della ragione, proprio perché contribuirà a risolvere non solo la crisi economica attuale. Dobbiamo portare avanti questo progetto anche per altri motivi. Nei prossimi decenni il peso politico degli Stati europei andrà diminuendo sotto il profilo economico, demografico e militare. Nessuno dei nostri Stati nazionali sarà ancora in grado di sostenere efficacemente le proprie idee di fronte all’America, alla Cina o anche solo alle potenze emergenti come il Brasile, la Russia e l’India. Vogliamo dunque rinunciare, per pigrizia e ottusità nazionali, ad esercitare un influsso sulla formazione e l’orientamento di quella comunità multiculturale che sta sorgendo nel nostro mondo? Assume rilievo qui la Sua domanda sull’idea di un ordine cosmopolitico, come Kant lo ha prefigurato. Il conflitto politico che sulla scena internazionale si fa sempre più brutale, finirà per provocare squilibri gravi in una società mondiale dove tutti dipendono da tutti. Ogni giorno aumentano i costi per quella che Carl Schmitt ha chiamato la “sostanza politica” dello Stato. Occorre contrastare tutto ciò ponendo un argine istituzionale e giuridico al socialdarwinismo che sembra non avere più freni.

Lei non ha esitato a dire che gli Stati nazionali europei sono nati da una costruzione forzata – è il caso dell’Italia o della Germania. Oggi lo Stato-nazione, pur con i suoi confini sempre più fluidi, sembra ostacolare tuttavia i legami tra i cittadini. Eppure Lei crede che abbia ancora un compito.

La prima generazione di Stati-nazione è sorta in Europa. Perciò è così marcata la coscienza nazionale della popolazione europea. Ma quel che oggi conta è che questi Stati nazionali garantiscono un livello di diritto e di democrazia che i cittadini intendono in ogni modo mantenere. Costituiscono insomma un esempio di libertà che si è realizzata storicamente e di cui andare fieri. In una Europa unificata gli Stati nazionali non possono quindi scomparire. Credo che il fine che dovremmo perseguire sia una democrazia sopranazionale che, senza assumere la forma di uno Stato federato, permetta un governo comune. Lo Stato federato è un modello sbagliato per l’Europa e chiede troppo alla solidarietà dei popoli.

Lei affida un ruolo decisivo ai cittadini. Ma i cittadini europei sembrano vivere in una condizione quasi schizofrenica. A chi devono essere leali: alla regione d’origine, allo Stato nazionale o all’Unione Europea? Tanto più che queste appartenenze sono spesso in conflitto?

Non si tratta di un aut-aut. La “patria” è, per così dire, una torta a vari strati. I cittadini hanno già ora identità politiche diverse e legami molteplici. Ci sentiamo allo stesso tempo cittadini di Torino e abitanti del Piemonte, cittadini di Palermo, o di Siracusa, e siciliani. Su questi legami tradizionali è sorta in Italia, da poco più di 150 anni, una identità nazionale. Perché questa identità nazionale non dovrebbe coniugarsi spontaneamente con l’appartenenza all’Unione europea? Già da tempo ormai, grazie ai nostri passaporti e alle targhe delle nostre macchine, veniamo identificati all’estero non come tedeschi o italiani, bensì come cittadini provenienti dall’Europa. Saranno le istituzioni a preoccuparsi di stabilire quale legame debba avere di volta in volta la priorità. Un sistema europeo dei partiti, che sia in grado di superare le frazioni dell’attuale Parlamento Europeo, potrà offrire un contributo decisivo in questa direzione.

Manca una sfera pubblica europea. Il che pregiudica la partecipazione dei cittadini. Lei ha imputato questo deficit democratico all’assetto politico dell’Europa. Ma ha denunciato a chiare lettere le responsabilità dei mass media. Che cosa dovrebbero fare? Che cosa non fanno?

Una sfera pubblica europea potrà emergere solo se nelle arene nazionali verrà percepita l’importanza delle decisioni europee. I cittadini che leggono i giornali, guardano la televisione, seguono le notizie in internet, devono non solo venire a conoscenza delle decisioni prese a Bruxelles, ma anche comprenderne le ripercussioni sulla loro vita quotidiana. Tuttavia non abbiamo bisogno di una nuova infrastruttura né, tanto meno, di nuovi media. Una sfera pubblica europea si costituirà a partire da quelle nazionali che si apriranno l’una all’altra. I media già esistenti dovranno però dare il giusto spazio ai temi europei e riferire correttamente i punti controversi, soprattutto quando il rischio è il contrasto fra le opinioni pubbliche nazionali. Il problema della diversità delle lingue potrà essere risolto grazie a un lavoro di traduzione che i media nazionali devono essere ormai in grado di fornire.

Il populismo di destra soffia sul fuoco. Accentua i pregiudizi e tenta di presentare una caricatura dei soggetti nazionali. Non è però legittimo chiedersi se nell’Europa attuale sia possibile davvero parlare di una «volontà democratica che oltrepassa i confini»?

Sono i governi e i partiti politici a dover fare il primo passo. Non è possibile che i governi, per paura dei loro elettori, evitino di discutere dinanzi all’opinione pubblica nazionale quello che pianificano e decidono a Bruxelles. Al contrario, devono imparare a pensare e ad agire allo stesso tempo su un piano nazionale e su un piano europeo.

Le élites politiche europee non sono state capaci di delineare un progetto per il futuro. Lei muove questo rimprovero anche alla sinistra che accusa di ottusità nazionalistica, perché non è stata in grado di preparare l’opinione pubblica.

Per la Germania questo non è più del tutto vero. Ma Lei ha ragione se si riferisce a quei politici che vorrebbero trovare un accordo solo all’interno dello Stato-nazione, perché lo considerano l’ultimo baluardo di quel che resta dello stato sociale. Ritengo che sia un errore di portata storica. La globalizzazione economica, che è stata politicamente voluta a Washington, è ormai irrevocabile. Questo spiega perché il capitalismo dettato dai mercati finanziari abbia potuto liberarsi da tutti i vincoli politici al punto da assumere un influsso smisurato anche per i governi più potenti. Per domare il capitalismo selvaggio dobbiamo perciò costruire su un piano sopranazionale quella capacità di azione politica e di governo che sul piano nazionale è andata irrimediabilmente perduta. Solo una Europa che si presenti decisa e determinata, essendo ancora la zona economica più significativa nel mondo, potrà anticipare i mercati finanziari e avere ancora l’ultima parola.

I nemici della democrazia


di Nadia Urbinati, da Repubblica, 20 novembre 2012

Ammalata di un invecchiamento precoce, la democrazia sembra avere molti nemici, in Europa: i mercati finanziari che condizionano i bilanci degli Stati costringendo i governi a falcidiare i servizi sociali e ad alzare le tasse, una correlazione che non è più giustificabile; i "pochi" potenti che non hanno più intenzione di condividere lo stesso destino di chi è sempre meno uguale perché più bisognoso e vogliono cancellare gli obblighi della solidarietà nazionale; i movimenti populisti che hanno tutto l'interesse a far esplodere le contraddizioni per lucrarne posizioni politiche; i leader demagogici che cercano il consenso mediatico e si fanno rappresentanti della causa della rivolta ' chiamando i poliziotti a disertare e a unirsi alla guerriglia, ad ammutinarsi; i movimenti violenti che generano la paurosa illazione che lo stato democratico sia il nemico principale dei cittadini democratici, non gli accumulatori di rendite (del resto invisibili e senza un nome).

Non aiutano i governi che, venuti a promettere buona amministrazione e decisioni giuste benché amare, hanno col tempo dimostrato di non aver molto altro da offrire se non tagliare risorse alle spese sociali, colpire la già umiliata scuola, falcidiare la sanità; senza nulla proporre se non tagli e austerità, in un crescendo che sembra non fermarsi mai e non è più giustificabile. Così, in un'Italia impoverita e dalle enormi difficoltà economiche, cresce la percentuale di cittadini che non si sente più rappresentata, ed esplodono le rivolte, si accendono le piazze.

La democrazia che è nata dopo la guerra non voleva essere un corredo di politiche liberiste integrato con lo stato repressivo. Per reagire allo statalismo corporativo e fascista non ha promesso uno Stato minimo ma uno Stato sociale giusto. Non ha promesso una società votata all'impoverimento progressivo, ma una società capace di elevare le condizioni dei molti. Non ha promesso uno Stato che tassa le rendite alte meno dei redditi da lavoro, che tassa le proprietà immobiliari dei privati cittadini meno di quelle della Chiesa. Infine, non ha promesso che i sacrifici venissero a pesare più su chi ha meno forza. Le violenze che feriscono le nostre città sono un grido d'allarme disperato: dobbiamo condannare la violenza, ma non possiamo dimenticare per questo l'ingiustizia nella quale la democrazia è intrappolata, in Italia come in Europa. Quelle manifestazioni sono una denuncia della spirale di decisioni che sembrano seguire solo una direzione: punitive con i molti e deboli e indulgenti con i pochi e potenti.

È pericoloso pensare che queste prove generali di guerriglia urbana siano solo e semplicemente una questione di ordine pubblico. Sono anche una questione di ordine pubblico e sono anche un segno di scontento popolare. Ma prima di tutto sono una prova che il governo dell'emergenza sta creando nuova emergenza; che è sulla strada sbagliata come lo è non avere una politica sociale ed economica per il futuro del Paese e del continente. Come lo è non sapersi alleare con le forze progressiste europee e americane per reagire al dogma dei mercati finanziari, prendere decisioni coraggiose e quindi rivedere scelte e cambiare direzione di marcia. Senza di esse ogni governo di emergenza è purtroppo un generatore di emergenza. La democrazia, scriveva Tocqueville, ha la capacità di correggersi con più democrazia. È urgente dimostrare che questa non è solo una massima scritta in un libro ottocentesco.

lunedì 19 novembre 2012

La metamorfosi delle istituzioni


CAMBIANO PELLE E FUNZIONI, GIUSTO?
La metamorfosi delle istituzioni
Una società moderna e democratica, per chi ancora creda al significato dei due aggettivi, si basa su un principio fondamentale: la pluralità e l’autonomia delle funzioni istituzionali. È lontano il tempo in cui tutto il potere si concentrava in poche sedi e persone, destinate ad esercitare tutte le funzioni istituzionali (di rappresentanza, di garanzia, di governo) e a verticalizzare tutte le responsabilità normative (legislative, amministrative, disciplinari); e per molti anni abbiamo sperato che quel tempo non tornasse, ben felici del ricco pluralismo dei compiti e dei poteri che contraddistingueva il nostro sistema.

Ed invece torna, o almeno potrebbe tornare. Chi guarda in controluce le nostre attuali istituzioni constata infatti che è in corso uno slittamento dalle loro funzioni verso la strisciante tentazione a «spendersi in poteri di governo ». Abbiamo di fronte sempre meno un articolato panorama di spazi istituzionali (di rappresentanza, di coesione nazionale, di garanzia, di giustizia, di collaborazione internazionale, eccetera); ed abbiamo un «elenco » di istituzioni vocazionalmente di governo. Quasi che di questi tempi il governare sia il frutto non della bravura nella gestione delle cose sociali, ma piuttosto della blindatura istituzionale che si possiede o che si riesce ad ottenere.

Fare esempi è cosa sempre pericolosa, viste le inevitabili suscettibilità, ma si può tentare. Partendo dalle attuali discussioni sulla legge elettorale, dove si può notare che chi vuole governare parla poco di programmi e di consenso, ma chiede con determinazione un «premio » che gli consenta di diventare blindata istituzione di governo. E più sottovoce è lecito ricordare che lo stesso attuale premier ha avuto bisogno, per accettare, di una intronizzazione istituzionale (la nomina a senatore a vita) prima ancora che tecnica e programmatica; una lucida operazione condotta da un presidente della Repubblica che da tempo ormai si configura come una vera e propria istituzione di governo.

Questa propensione delle istituzioni ad essere soggetti di governo non è fenomeno solo «romano » e di vertice, se è vero che anche nelle periferie del sistema sono affiorate analoghe tentazioni: magistrati penali che decidono sul governo di aziende in crisi e di settori industriali; magistrati civili che fanno di fatto i capi del personale di grandi imprese; presidenti di Regione che hanno interpretato il loro ruolo come fossero uomini di Stato; tribunali amministrativi che decidono su tutto ed anche in maniera cogente. E in più nessuno si è accorto che, sulla nostra testa, le autorità europee invece di supplire al declino continentale (loro istituzionale compito) ci hanno scritto ed inoltrato lettere con decine di urgenti indicazioni, in pratica programmi di governo.

Sembra comune allora la convinzione, ai vari livelli, che solo la potenza delle istituzioni può regolare la complessa pluralità dei vari segmenti sociali; tutto può e deve ridursi al potere unificante delle «istituzioni di governo» sacrificando l’ autonomia e lo status di tutti gli altri soggetti.

Stiamo quindi perdendo pluralismo e, di conseguenza, modernità e democrazia. E non c’è nessuno che si dia carico di questo pericolo, nessuno che si renda conto che con la moltiplicazione delle istituzioni di governo si scava ancora di più la distanza non fra governo e popolo (che è sempre problema politico e quindi ri-appropriabile dalla politica) ma fra istituzioni e popolo, problema di coesione collettiva ben più difficile da affrontare, specialmente durante e dopo i mesi elettorali, se dovessimo restare a sollecitare le istituzioni a prendersi carico delle urgenze da governare. Vedremo se qualcuno, nei prossimi mesi, avrà il coraggio di dire che i cittadini hanno diritto ad avere riferimenti istituzionali diversificati.

di Giuseppe De Rita, dal Corriere

domenica 18 novembre 2012

"Se hai affamato le generazioni più giovani, il tuo ricordo sarà orrendo".


Intervista a Nicola Lagioia, barese, trentanove anni,  uno degli scrittori più promettenti del panorama letterario italiano.
di Barbara Tomasini,
 C’è una cosa che non capisco. Ci chiedono di cedere parti di sovranità all’Europa, e per me va pure bene, ma in nome di cosa? Della Banca Europea e dei conti che devono stare in ordine? Un continente non si può basare sui conti a posto. Prendi l’America, loro credono – nel bene e nel male – di essere un popolo predestinato, c’è un elemento messianico nella loro cultura; l’Europa invece, che è la culla della civiltà occidentale, in cosa si riconosce? Monti questi problemi non se li pone, semplicemente non fanno parte del suo background e per questo i governi tecnici alla lunga divengono pericolosi per l’identità nazionale, gli intellettuali però una risposta ce la dovrebbero dare!”.

Nicola Lagioia, barese, trentanove anni, è uno degli scrittori più promettenti del panorama letterario italiano. Il suo ultimo romanzo, edito da Einaudi nel 2009, è "Riportando tutti a casa".

L’anno scorso tu e altri operatori della cultura avete creato un certo scalpore con la nascita di un gruppo chiamato “generazione TQ”, all’interno del quale si rifletteva anche sul ruolo dell’intellettuale nella società di oggi. E’ un’esperienza conclusa?

Per me questa esperienza è stata una cartina di tornasole per capire cosa stava succedendo in Italia e se c’era un possibile dialogo tra le varie generazioni. TQ infatti sta per trenta-quarantenni, si riferisce ad una generazione di mezzo, quella dei precari, che in queste riunioni – per quanto rivolte principalmente al mondo della cultura, e dell’editoria in particolare – ha cercato di dar vita ad un dibattito e ad una riflessione. E’ passato un anno e mezzo e oggi seguo meno attentamente gli sviluppi del gruppo, anche se sono stato uno dei promotori, ma le iniziative procedono. Il tutto è nato da una considerazione: la nostra generazione è stata la prima a nascere in un contesto economico migliore di quella precedente, ma senza alcuna prospettiva per il futuro; siamo una generazione orfana, senza padri, esattamente il contrario di quello che è successo nel ’68. All’epoca c’era uno scontro tra “padri” e “figli”, ma se un “padre” scappa, si sottrae alla possibilità di dialogo, si sottrae anche alla possibilità di conflitto. Stranamente le nostre intenzioni sono state recepite male dagli over 50, dai professoroni, che pensavano li volessimo rottamare, mentre il ragionamento verteva sul dialogo, che nel mio campo – quello letterario – è del tutto assente tra generazioni diverse. E questa considerazione si può allargare a tutti i posti chiave dell’intellighenzia italiana.

Sogni una società governata dai giovani?

Non necessariamente, non voglio mandare in pensione nessuno, ma pensare di poter avere un Presidente del Consiglio di 45 anni sì. All’estero gli esempi sono tanti: Zapatero, Obama, Clinton, Blair, mentre in Italia la somma dell’età di due leader che si confrontano per la guida del paese solitamente supera i 150 anni dell’Unità d’Italia.

Ma da queste riunioni è venuta fuori una proposta concreta per cambiare lo stato delle cose?

Generazione TQ è stato, ed è tuttora, un piccolo laboratorio dove abbiamo imparato anche a fare politica, perché non si deve dimenticare che siamo cresciuti in una sorta di vuoto ideologico in quanto figli degli anni ’80 e avevamo poca dimestichezza con questo genere di cose. Da soli non avremmo potuto fare niente, insieme forse non avremmo cambiato lo stato delle cose, ma di sicuro avremmo puntato l’attenzione su un problema reale che si fingeva di ignorare, e ci siamo riusciti: oggi TQ è uno dei tanti interlocutori che rompe le scatole alle istituzioni, tanto che alcuni esponenti della politica hanno iniziato a frequentare le nostre riunioni. Posso dire che siamo un soggetto di pressione e in meno di due anni è un buon risultato.

Come ti poni tu all’interno di questa generazione TQ essendo, in realtà, un giovane di successo che fa esattamente il lavoro che ha sempre sognato?

E’ vero che ho raggiunto molti dei miei obiettivi, ma con il doppio della fatica che avrebbe fatto un mio coetaneo di 30 anni fa. Se all’epoca un lavoro equivaleva ad uno stipendio, oggi per avere uno stipendio devo fare quattro lavori: non esistono i weekend, lavoro anche 13/14 ore al giorno, ma non sono contento di lavorare così. Berlusconi dichiarava felice di lavorare 16 ore al giorno, io non vorrei dover arrivare a tanto per vivere. Se ci pensi si sono invertiti i ruoli: oggi noi possiamo dire ai nostri genitori che i “nostri tempi” sono peggiori dei loro, una cosa del genere non era mai successa, ma mentre loro sono figli del boom, noi siamo figli della crisi. Oggi è tutto più difficile, faticoso, c’è uno spreco di energie pazzesco, se fossi nato 30 anni fa forse avrei scritto due libri in più o comunque fatto molte più cose con meno fatica. Non mi sento un non-più-giovane di successo, ma uno che fa una fatica immensa per raggiungere dei traguardi.

Inoltre, in un campo d’interesse artistico o culturale questa situazione si amplifica…

Assolutamente, noi oggi possiamo guardare agli scrittori italiani come guardavamo 30 anni fa agli scrittori tunisini…quindi come scrittore tunisino mi sento fortunato. La verità è che sotto certi aspetti siamo quasi un paese del terzo mondo.

Un’indagine dell’Eurispes che abbiamo pubblicato qualche giorno fa riportava un dato inquietante: in Italia la classe dirigente è rappresentata per l’85% da uomini, e in 8 casi su 10 si tratta di over 50. Che ne pensi?

Io non dico che a priori un giovane di 30 anni è più bravo e preparato di un 60enne, ma statisticamente mi sembra impossibile credere che tutti i giovani siano degli incapaci. Mi piacerebbe che a ricoprire ruoli di responsabilità e prestigio ci fossero dei giovani, perché il loro sguardo è diverso e un confronto tra vissuti e modi di vedere le cose differenti aiuterebbe il paese a progredire. A volte per quelli della nostra età è quasi umiliante questa sensazione di dover chiedere qualcosa a chi – solo per il fatto di avere 20 anni di più – sviluppa un atteggiamento paternalista a priori.

Monti e Draghi sono intervenuti alla Bocconi per l’inaugurazione dell’anno accademico e nello stesso giorno gli studenti si sono riuniti alla Sapienza per discutere dei fatti avvenuti a Roma lo scorso 14 novembre, tu dove saresti andato?

Io vorrei essere lo psicoterapeuta di Monti, perché secondo me il Presidente del Consiglio soffre di quello che Freud chiamava “atto mancato”, i lapsus. Ad esempio, Monti al meeting di Comunione e Liberazione ha affermato che la nostra – e forse quella successiva dei 20enni - è una generazione perduta e si augurava che non ce ne fossero altre. Ma come fai, da Presidente del Consiglio, a definire perduta una generazione che ti sopravvivrà? Per di più dice una cosa falsa, perché questo paese se negli ultimi 15 anni non è imploso è stato anche grazie a questa generazione che ha fatto i sacrifici che i genitori non sono più in grado o disposti a fare. Possiamo affermare con tranquillità che la generazione perduta ha salvato le chiappe all’Italia. Se la scuola, l’editoria, la ricerca, non sono crollate è grazie agli sforzi di questa generazione di precari. Dire quello che ha detto Monti significa mentire, ma non credo che lui l’abbia fatto, e qui entra in gioco la psicoanalisi: all’inconscio di Monti conviene rimuovere questa generazione e quella successiva perché non è altro che la manifestazione del loro fallimento. Se stai consegnando ai tuoi figli un paese che è peggiore di quello in cui hai vissuto e lavorato tu, allora significa che hai sbagliato qualcosa. Noi abbiamo vissuto gli ultimi 15 anni come un figlio che vive con due genitori alcolizzati cercando di evitare che la casa vada a fuoco: tiene i conti a posto, paga le bollette, nonostante il patrimonio sia in mano a due alcolizzati. Quindi, Monti soffre di lapsus freudiani e Draghi farebbe bene a tacere quando dice che capisce le proteste dei ragazzi…sei il Presidente della Banca Centrale Europea e ti vuoi sottrarre alle tue responsabilità?

Dare per spacciata una generazione è un modo per non doversene occupare, tanto ormai è perduta…

Per loro non esistiamo, ma siamo comunque una generazione che ideologicamente gli sopravvivrà e credo che anche in un mondo laico porsi il problema della posterità sia importante: se hai affamato le generazioni più giovani, il tuo ricordo sarà orrendo. La “povera” Fornero verrà ricordata come una Maria Antonietta con meno fascino e senza l’aplomb della nobiltà.

Il discorso qui diventerebbe ampio, ma non bisogna dimenticare che Maria Antonietta si è trovata a capo di una nazione straniera a 14 anni…la Fornero non ha 14 anni e ricopre il ruolo di tecnico…

E’ vero, non ha 14 anni, ma come direbbe Dylan “she breaks like a little girl” (“scoppia a piangere come una bambina”, citazione dalla canzone Just Like a Woman, n.d.a.).

Riassumendo in poche battute: da bamboccioni a schizzinosi nel giro di pochi anni, non è male?

E qui ritorna in campo Freud e l’atto del rimuovere: chi ha coniato il termine di “bamboccioni”? Padoa Schioppa, che altro non era che il figlio dell’amministratore delegato delle Assicurazioni Generali…quindi il bamboccione era lui, ma l’aveva rimosso. La maggior parte degli esponenti della nostra classe dirigente sono figli di personaggi di rilievo, ma sembrano dimenticarlo.

Tornando a Monti e ai suoi ministri, il bilancio dopo un anno è positivo o negativo?

Per onestà devo dire che in così poco tempo non è facile farsi un’idea, bisognerebbe vedere sulla lunga distanza, ad oggi hanno evitato il tracollo, ma a costo di strozzare un paese. Hanno scampato il disastro, ma hanno fatto poco per ripartire. Io sono comunque contro i governi tecnici: un Presidente del Consiglio deve essere anche rappresentativo di qualcosa, uno spirito nazionale, deve essere in grado di dare la carica…Monti non è questa roba qui.

Per questo l’Italia ha seguito con tanto interesse le elezioni americane? Perché è in cerca di un leader carismatico e, non trovandolo entro i suoi confini, guarda oltreoceano?

Anch’io ho notato la frenesia con cui sono state seguite le elezioni e in particolare la rielezione di Obama, anche se devo ammettere che rispetto a quattro anni fa personalmente ho avuto molto meno entusiasmo. All’epoca sembrava che se avesse vinto Obama il mondo sarebbe cambiato, questa volta semplicemente che forse le cose non peggioreranno più di tanto. E’ triste pensare che quello che dovrebbe essere l’uomo più potente del mondo, ma non lo è, alla fine è una specie di curatore fallimentare delle democrazie novecentesche. Per quanto riguarda gli italiani, è sempre la solita faccenda: si aspetta l’uomo della provvidenza, quello che ci tirerà fuori dai guai, ecco perché da noi Obama riscuote tanto successo.

Parte del suo fascino è anche la capacità di parlare alla sfera emotiva del popolo americano, facendo leva su quel sentimento di riscatto e autodeterminazione che fanno parte della loro cultura. Pensi che in Italia oggi si cerchi anche questo?

Paragonato ai nostri politici è ovvio che la figura di Obama risulti affascinante, ma la bravura sta nel coniugare la credibilità con il saper parlare alla pancia della gente, e lui ci riesce. Da noi ci sono tanti politici che fanno leva sull’emotività, ma non riescono ad essere credibili: Berlusconi parlava alle pance, anche Grillo fa lo stesso, anzi cambia pancia ogni settimana, ma non risultano credibili. In questi anni la sinistra ha tradito un patto generazionale, avrebbe dovuto allevare una classe dirigente di grande qualità, ma non l’ha fatto. Mentre la destra si basava sulla voce di un unico leader, la sinistra sapeva solo cambiare nomi e simboli. Hanno preferito l’ubbidiente al delfino bravo, che può metterti in crisi, come sta facendo Renzi. E’ la storia del padre Saturno che divora i propri figli, oppure li alleva in batteria, perché è questa l’alternativa. Come partito avrebbe dovuto avere diversi fuochi, come era ai tempi della Dc, ma non ci è riuscita…aspira ad essere la nuova Dc, ma non ce la fa proprio. In conclusione, la levatura dei politici italiani è sconfortante.

Oltre che su un discorso anagrafico, in Italia l’accento va posto sul “genere”…le donne hanno una sparuta rappresentanza nei ruoli chiave del paese…

Sono tutti maschi! Infatti le poche donne che hanno un ruolo, sono messe lì da uomini. Prendi la Puppato, è l’unica donna che corre per le primarie, ma non ha il peso politico di un Bersani o Vendola e si sa che non vincerà mai. Se ci fai caso, sono sempre i maschi che dichiarano: “Nella mia giunta, la metà saranno donne!”, ma intanto, per dire, il ruolo di Presidente della Regione va ad un uomo. Sarebbe bello sentire una donna che dichiara: “Nella mia giunta, metà uomini”, questa sì sarebbe una rivoluzione.

Hai citato Grillo e la sua credibilità, cosa ne pensi dell’appello ai poliziotti di unirsi ai giovani in piazza fatto all’indomani degli scontri di Roma? Un messaggio pasoliniano all’inverso?

Con quello che dice Grillo non posso essere d’accordo, anche se condivido alcune sue posizioni, e non posso perché mi sono fatto l’idea che dica le cose per cavalcare il consenso, non credo alla sua sincerità. Parlando dei giovani in piazza, non capisco come fanno a stupirsi davanti a queste manifestazioni…se tu rubi il futuro ad una (o più) generazioni, pensi che non succeda niente? Che i ragazzi non siano incazzati e non abbiano voglia di far sentire la propria voce? Anzi ritengo che non sia successo nulla di eclatante lo scorso 14 novembre da parte dei manifestanti, forse è la polizia che ha esagerato. La mia opinione è che se un manifestante commette un reato è giusto che venga perseguito, ma è molto più grave se il reato lo commette un esponente delle forze dell’ordine. Devono saper fare il proprio lavoro, non è accettabile che si colpisca al volto un ragazzo per terra. Infatti, da un punto di vista istituzionale, la cosa più grave accaduta al G8 di Genova non è stata l’uccisione di Carlo Giuliani - perché credo che durante una colluttazione possa succedere di tutto – ma l’episodio della Diaz…lì salta lo stato di diritto di un paese. Io non ho personalmente preso parte alla manifestazione del 14, ma dalle immagini mi sembra abbastanza chiaro quello che è successo, diciamo che da Genova in poi mi fido molto poco della polizia.

La polizia oggi vive in uno stato di esasperazione: tagli selvaggi, stipendi da fame, come sentiamo spesso ripetere “non ci sono neanche i soldi per la benzina delle auto”, e in più si trovano a far fronte ad un momento storico particolarmente agitato e carico di tensioni sociali…Come mai non comprendono che quei giovani scesi in piazza in realtà stanno lottando per le stesse cose e gli stessi diritti che per primi loro si vedono calpestati?

Secondo me entrano in gioco due fattori. Da un lato è uno sfogatoio, perché se menano così tanto è perché lo vivono come uno sfogo, come dire: “Mi dai licenza di menare? Allora quasi quasi quei 100 euro in meno non mi pesano così tanto”. So che è una cosa brutta da dirsi, ma della loro esasperazione me ne accorgo nella vita di tutti i giorni: se vado a fare una denuncia, magari perché mi hanno rubato il motorino, l’atteggiamento è rilassato, se al contrario mi fermano per strada per un controllo l’atteggiamento è decisamente più aggressivo. Siccome il problema vero alla base è molto difficile da risolvere, 30 multe in più o 30 manganellate in più alleviano la tensione e rendono più sopportabile la situazione. L’altro aspetto ancora più triste è che le nuove crisi non creano più un sentimento di appartenenza di classe, ma scatenano – proprio perché siamo frammentati – una guerra fra poveri. Per questo la poesia di Pasolini era vera allora, ma oggi è superata. Chi andava a Valle a Giulia all’epoca? I vari Veltroni e così via, gente che aveva un orizzonte abbastanza spianato davanti. Oggi invece i giovani in piazza sono i nuovi poveri e i poliziotti – per quanto male in arnese – rispetto a loro stanno bene e sviluppano un odio istintivo per chi sta peggio.

Arriviamo all’argomento della settimana: il dibattito del Pd su Sky, chi ha vinto e chi ha perso?

Prima di quel dibattito pensavo di andare a votare per le primarie, ora devo ammettere che ho qualche turbamento. Credevo che gli italiani fossero chiamati a scegliere il candidato Presidente del Consiglio della sinistra, non a partecipare ad un conclave: uno cita Papa Giovanni, poi quale non si capisce visto che ce ne sono stati tanti, un altro il Cardinal Martini, Renzi non ha detto niente ma secondo me stava pensando a Marcinkus…possibile che a nessuno sia venuto in mente un nome di sinistra? Non è che mi dia fastidio che abbiano citato nomi di cattolici, io per primo sono un attento lettore del Vangelo e proprio per questo sono anticlericale, diciamo che è il loro opportunismo ad infastidirmi.

Chi avevi intenzione di votare prima del dibattito Tv?

Vendola, anche per le buone iniziative messe in campo in Puglia nell’ambito della cultura.

Ma dopo tutti i discorsi sul ricambio generazionale e gli errori del Pd mi sarei aspettata Renzi?

Lui ha avuto di certo il merito di toglierci di torno, speriamo per sempre, Veltroni e D’Alema, però per me è un po’ troppo spostato a destra. E’ molto bravo a parlare, è innegabile, ma vorrei che la sinistra facesse la sinistra, Renzi non si capisce se sta a sinistra della destra o a destra della sinistra. Apprezzo il suo coraggio, perché in una mandria di pecorelle si è alzato e ha detto la sua, ma ho anche riflettuto su quanto ci volesse poco per mettere fuori gioco personaggi come D’Alema e Veltroni: è bastato che arrivasse uno a puntare il dito contro, e neanche per forza il migliore, che le cose sono cambiate da un giorno all’altro.

In una battuta: cosa succede nel Pdl?

Mi sembra un partito in liquefazione, ma non voglio dirlo per scaramanzia!

Chiudiamo con una considerazione sulla tua città, Bari, e in generale sulla Puglia. Negli ultimi anni stanno emergendo tanti scrittori di talento, Carofiglio, Desiati, De Cataldo e ovviamente tu, cosa sta succedendo?

La Puglia rispetto alla Campania o alla Sicilia fino a 15 anni fa era poco rappresentata, ma non solo dalla letteratura, anche dal cinema, dalla musica, dall’arte. C’era qualche genio isolato come Carmelo Bene e Andrea Pazienza, ma nulla di più. All’improvviso le cose sono cambiate, ma in maniera molto spontanea, non è che sia nata una scuola o roba del genere, forse la Puglia si è semplicemente liberata dal folclore che aveva quasi sempre accompagnato le manifestazioni artistiche della Regione. Noi scrittori abbiamo capito, ad un certo punto, che potevamo raccontare la provincia senza essere provinciali.

venerdì 16 novembre 2012

Il mio Italiano


La guerra che subito dopo l’Unità d’Italia si cominciò a combattere più o meno scopertamente contro i dialetti, e che raggiunse il suo apice negli anni del fascismo, è stata un’insensata opera di autodistruzione di un immenso patrimonio. Si è scioccamente visto il dialetto come un nemico della lingua nazionale, mentre invece esso ne era il principale donatore di sangue. E oggi siamo sommersi da parole come "Devolution", "premier", "resettare".

di Andrea Camilleri, da Repubblica, 15 novembre 2012

Se all’estero la nostra lingua è tenuta in scarsa considerazione, da noi l’italiano viene quotidianamente sempre più vilipeso e indebolito da una sorta di servitù volontaria e di assoggettamento inerte alla progressiva colonizzazione alla quale ci sottoponiamo privilegiando l’uso di parole inglesi. E c’è di più. Un esempio per tutti. Mi è capitato di far parte, quale membro italiano, della giuria internazionale del Premio Italia annualmente indetto dalla Rai con sede a Venezia. Ebbene, il regolamento della giuria prevedeva come lingua ufficiale dei giurati quella inglese, senza la presenza di interpreti. Sicché uno svedese, un russo, un francese e un giapponese e un italiano ci trovammo costretti ad arrangiarci in una lingua che solo il rappresentante della BBC padroneggiava brillantemente.

Va da sé che la lingua ufficiale, in Francia, del Festival di Cannes è il francese, la lingua ufficiale in Germania del Festival di Berlino è il tedesco. E il Presidente del Consiglio, parlando di spread o di spending rewiew è il primo a dare il cattivo esempio. Monti però non fa che continuare una pessima abitudine dei nostri politici, basterà ricordare parole come «election day», «devolution», «premier» e via di questo passo. Oppure creando orrende parole derivate tipo «resettare». Tutti segni, a mio parere, non solo di autosudditanza ma soprattutto di un sostanziale provincialismo.

Piccola digressione. Il provincialismo italiano, antico nostro vizio, ha due forme. Una è l’esaltazione della provincia come centro dell’universo. E valgano i primi due versi di una poesia di Malaparte, «Val più un rutto del tuo pievano / che l’America e la sua boria»…, per dirne tutta la grettezza. L’altra forma è quella di credersi e di dimostrarsi non provinciali privilegiando aprioristicamente tutto ciò che non è italiano. Quante volte ho sentito la frase: «io non leggo romanzi italiani» o più frequentemente, «io non vado a vedere film italiani». Finita la digressione. Se poi si passa dalla politica al vivere quotidiano, l’invasione anglosassone appare tanto estesa da rendersi pericolosa. Provatevi a saltare da un canale televisivo all’altro (mi sono ben guardato dal dire «fare zapping»), vedrete che il novanta per cento dei titoli dei film o addirittura di alcune rubriche, sono in inglese. La stessa lingua parlano le riviste italiane di moda, di architettura, di tecniche varie. I discorsi della gente comune che capti per strada e persino al mercato sono spesso infarciti di parole straniere. In quasi tutta la strumentistica prodotta in Italia i sistemi di funzionamento sono identificati con parole inglesi.

A questo punto non vorrei che si cadesse in un equivoco e mi si scambiasse per un sostenitore dell’autarchia della lingua di fascistica memoria. Quando il celebre brano jazz «Saint Louis blues» diventava «Tristezze di san Luigi», il cognac «Arzente» e i cognomi della Osiris o di Rascel si dovevano mutare in Osiri e Rascele. Benvenuto Terracini sosteneva, e a ragione, che ogni lingua nazionale è centripeta, cioè a dire che si mantiene viva e si rinnova con continui apporti che dalla periferia vanno al centro. Un amico russo, molto più grande di me, andatosene via nel 1918 dalla sua patria e tornatovi per un breve soggiorno nel 1960, mi confidò, al suo rientro in Italia, che aveva incontrato molte difficoltà a capire il russo che si parlava a Mosca, tanto era infarcito di parole e di locuzioni operaie e contadine che una volta non avrebbero mai ottenuto cittadinanza nei vocabolari. Ma erano sempre e comunque parole russe, non provenienti da lingue straniere.

In sostanza, la lingua nazionale può essere raffigurata come un grande, frondoso albero la cui linfa vitale viene risucchiata attraverso le radici sotterranee che si estendono per tutto il paese. È soprattutto dal suo stesso terreno, dal suo stesso humus, che l’albero trae forza e vigore. Se però il dosaggio e l’equilibrio tra tutte le componenti che formano quel particolare terreno, quell’unico humus, vengono alterati attraverso l’immissione di altre componenti totalmente estranee, esse finiscono con l’essere così nocive che le radici, esattamente come avviene in natura, tendono a rinsecchire, a non trasmettere più linfa vitale. Da quel momento l’albero comincia a morire. Se comincia a morire la nostra lingua, è la nostra stessa identità nazionale che viene messa in pericolo. È stata la lingua italiana, non dimentichiamolo mai, prima ancora della volontà politica e della necessità storica, a darci il senso dell’appartenenza, del comun sentire. Nella biblioteca di un mio bisnonno, vissuto nel più profondo sud borbonico, c’erano La Divina commedia, l’Orlando furioso e i Promessi sposi tutti in edizione pre-unitaria. È stata quella lingua a farlo sentire italiano prima assai di poterlo diventare a tutti gli effetti. Una lingua formatasi attraverso un processo di assorbimento da parte di un dialetto, il toscano, vuoi dal primigenio volgare vuoi da altri dialetti. Dante non esitava a riconoscere il fondamentale apporto dei poeti «dialettali» della grande scuola siciliana, e ricordiamoci che è stato il siciliano Jacopo da Lentini l’inventore di quella perfetta macchina metrica che è il sonetto.

E in Boccaccio, in certe novelle geograficamente ambientate fuor da Firenze, non si coglie qua e là un’eco di quel dialetto parlato dove la novella si colloca? Perché da noi è avvenuta, almeno fino a una certa data, una felice coesistenza tra lingua nazionale e dialetti. Il padovano del Ruzante, il milanese di Carlo Porta, il veneziano di Goldoni, il romano di Belli, il napoletano di Di Giacomo, il siciliano dell’abate Meli hanno prodotto opere d’altissimo valore letterario che hanno arricchito la nostra lingua. La guerra che subito dopo l’Unità d’Italia si cominciò a combattere più o meno scopertamente contro i dialetti, e che raggiunse il suo apice negli anni del fascismo, è stata un’insensata opera di autodistruzione di un immenso patrimonio. Si è scioccamente visto il dialetto come un nemico della lingua nazionale, mentre invece esso ne era il principale donatore di sangue. Oggi paghiamo lo scotto di quell’errore. Abbiamo abbattuto le barriere e quei varchi sono rimasti pericolosamente senza difesa. La mia riflessione termina qui. Coll’augurio di non dover lasciare ai miei nipoti non solo un paese dal difficile avvenire ma anche un paese la cui lingua ha davanti a sé un incerto destino.

(16 novembre 2012)

giovedì 15 novembre 2012

Scandalo slot machine, scontati 96 miliardi di euro. Il governo li recuperi per il welfare


Scandalo slot machine, scontati 96 miliardi di euro. Il governo li recuperi per il welfare
Di Barbara Benedettelli, dal sito  affariitaliani

98 MILIARDI di euro equivalgono a ben 5 manovre economiche. Sono i soldi che alcune concessionarie di slot machine avrebbero dovuto allo Stato secondo la condanna di primo grado. Di quei 98 MILIARDI  (lo scrivo maiuscolo perche' sia chiaro che non sono milioni) ne abbiamo recuperati 2,5.

Gli altri 96, che potrebbero impedire i tagli al welfare, che potrebbero diminuire i costi del lavoro e creare occupazione, che potrebbero essere dati al volontariato per sostenerlo nella fondamentale opera sociale, che potrebbero evitare tagli lineari alla sanità, che potrebbero permettere incentivi per gli insegnanti, che potrebbero andare all'università per abbassare le rette, alla ricerca delle energie alternative, che potrebbero impedire i tagli alle forze dell'ordine e quindi alla sicurezza dei cittadini, che avrebbero potuto impedire di portare l'IVA al 21% e il rialzo che arriverà, che avrebbero potuto impedire l'IMU sulla prima casa ecc., gli altri 96 sono stati SCONTATI!

Quei NOVANTASEI MILIARDI DI EURO mancati che potrebbero perfino abbassare parte del nostro debito pubblico, non li ha recuperati neanche un governo che parla ogni istante di rigore, che chiede ai cittadini lacrime e sangue, che taglia da una parte, quella essenziale per la persona, e aumenta dall'altra i costi della vita rendendoci tutti un po' più poveri, insomma: tutti uguali nella povertà, niente più classi intermedie. Solo i "poveri" (la maggioranza) da una parte e i ricchissimi (pochi) dall'altra. Situazione che mi ricorda regimi che spero non tornino mai.

Prima del 2002 le slot machine (o videopoker) erano illegali e facevano gola alla criminalità organizzata che se l'è vista brutta quando lo Stato ha giustamente deciso di regolarizzare il settore. Lo ha fatto obbligando i gestori a collegare ogni macchina al sistema telematico di controllo della Sogei, società di Information and Communication Technology del Ministero dell'Economia e delle Finanze. In questo modo non può sfuggire nessuna giocata al controllo e l'entrata delle tasse è garantita. Ma a quanto pare le società non hanno provveduto. Di chi è la colpa? Questo è uno dei temi del procedimento a loro carico. Di certo il mancato allacciamento ha permesso loro di risparmiare, e molto, sulle tasse. Possiamo chiamarla evasione fiscale? Le società concessionarie, a leggere la sentenza, si erano impegnate perché tutto funzionasse a puntino ed è per questo che parte cospicua della sanzione, oltre ai sospetti di evasione, è costituita da quelle che vengono definite “inadempienze contrattuali”. C'è poi il caso del colonnello Umberto Rapetto, per anni comandante del Nucleo speciale frodi telematiche,“dimessosi” recentemente dopo l'appello, che ha suscitato non poche perplessità soprattutto nel mondo di internet. Ci sarà un fondo di verità in quanto sostiene la rete?

Quei 98 MILIARDI sono quanto diverse concessionarie di slot machine sono state condannate a pagare dalla sentenza di primo grado poi scontati del 96% in appello e i 98 MILIARDI diventano 2 e mezzo. Rigore? Lacrime e sangue? Moralità? Legalità? Guerra aperta all'evasione? O al pensionato al quale l'INPS, per suo errore magari (e quindi il pensionato neanche dovrebbe pagare), ha dato 10 euro in più e con cui ci si è comprato un filetto?

Le società incriminate sono: Atlantis World Giocolegale limited, Snai spa, Sisal spa, Gmatica srl, Cogetech spa, Gamenet spa, Lottomatica Videolot Rete spa, Cirsa Italia srl, H.b.G. Srl e Codere spa che avrebbero “cagionato l’inefficace funzionamento del servizio pubblico, nonché causato lo sperpero delle molteplici risorse finanziarie pubbliche impiegate, nella prevenzione e nel contrasto del gioco illegale; per il mancato avviamento della rete telematica; per il mancato completamento dell’attivazione della rete; per il mancato inserimento in rete di molti apparecchi installati; per il mancato rispetto dei livelli di servizio”.

La guerra all'evasione deve essere in primis una guerra di fermezza, di certezza della pena, anche lì, di annullamento degli sconti fiscali che anche culturalmente permettono il perpetrarsi di comportamenti illegali. Deve essere una "guerra" per l'uguaglianza: niente sconti al piccolo evasore verso il quale si procede subito al pignoramento dei beni? A maggior ragione niente sconti al grande evasore, e se proprio dobbiamo stare ai principi costituzionali, il grande evasore dovrebbe pagare perfino di più mentre il piccolo potrebbe essere, in casi di provata indigenza, sostenuto. É, per di più, in questo caso, gioco d'azzardo, anche se “legale”, e può provocare in alcune persone una dipendenza pari alla peggiore delle droghe. La ludopatia è una malattia grave. La fermezza, la severità, la forza della legge devono dunque essere perfino maggiori. Invece no.

Lo Stato, con le sue leggi che lo permettono, regala ben 96 MILIARDI DI EURO a chi per distrazione, per superficialità o per atteggiamento più o meno velatamente illegale (non chiamiamola furbizia), li ha sostanzialmente esso stesso rubati ai cittadini.  Poi a quegli stessi cittadini chiede tutto il denaro che hanno, raccontando che il paese può crescere, che l'economia può ripartire, che la disoccupazione può calare, che l'illegalità generalizzata deve sparire. Eppure è alimentata proprio dalla mancanza di severità verso chi non rispetta la legge, e l'aggira. Il principio di responsabilità soltanto ci può salvare e dovrebbe essere al primo posto nella nostra Costituzione. Un altro problema da risolvere, al più presto, è quello relativo al conflitto d'interessi, che, al di là di Berlusconi a cui è sempre e solo stato riferito, riguarda molti molti altri. Un esempio banale: si sa, da tempo sono vicina ai familiari delle Vittime della strada. Vi siete mai chiesti perché non si riesce a rendere le pene certe in questo settore? Semplice e inquietante. Perché in parlamento e in Commissione giustizia ci sono deputati che esercitano la professione di avvocato penalista. Le leggi possono dunque essere imparziali? Tutte le leggi votate in Commissione Giustizia possono essere certe? Ce la prendiamo sempre con i magistrati, ma le colpe della mancanza di certezza della pena non sono sempre e solo loro. Sono invece, spesso, del legislatore che non dovrebbe svolgere altra professione se non quella di parlamentare.

Ma torniamo ai 96 MILIARDI MANCATI. Da un governo tecnico ci aspettiamo ora, alla fine del mandato, una puntata di piedi per restituire agli italiani ciò che è stato tolto loro, recuperando tutti o molta parte di quei soldi. Ci si aspetta che siano cambiate leggi sempre meno leggi e sempre più "consigli per gli acquisti" che però gli italiani non possono fare, tartassati e schiacciati nei diritti fondamentali quali il lavoro,la salute, la dignità.

Di miliardi da recuperare dalle frodi e dall'evasione, e già scoperti da bravi investigatori della finanza, ce ne sono. Vediamo che fine fanno, per esempio, i soldi che derivano dalla maxi frode che coinvolge "47 imprenditori e professionisti di tutta Italia denunciati dalla Guardia di finanza di Pescara. Una forde fiscale internazionale, attuata mediante società fittizie e trust con sede nel paradiso fiscale di Madeira. In ballo ci sono altri 36 MILIONI QUESTA VOLTA di euro, ma i nomi degli imputati sono noti a livello nazionale e operano nei più disparati settori. Vediamo se anche questa volta tutto viene messo a tacere per evitare meno soldi ai partiti, meno pubblicità ai media, meno favori, o se invece prevale il rigor mortis montiano.

Le nuove tecnologie disegnano un futuro migliore



di IRENE TINAGLI, dalla Stampa
Siamo ormai abituati a pensare alle nostre aziende che portano le loro fabbriche in Asia, rassegnandoci all’idea che la nostra manifattura sia destinata a morire. Ma che significa se il più grande produttore asiatico di prodotti elettronici comincia ad aprire stabilimenti in Occidente? E’ questo quello che sta accadendo. Foxconn, l’azienda cinese con base a Taiwan che per conto di numerose aziende «occidentali» produce milioni di prodotti elettronici venduti in tutto il mondo, già da qualche tempo sta rivolgendo il suo sguardo ad Occidente. Ha già stabilimenti in Messico, in Brasile, e persino in Europa, in Ungheria, Slovacchia e nella Repubblica Ceca. Ma qualche giorno fa ha fatto scalpore la notizia, non ancora ufficiale, che Foxconn stia valutando alcune città americane per la creazione di un nuovo stabilimento produttivo negli Stati Uniti. E questo ha destato sorpresa, visto che gli Stati Uniti sono pur sempre uno dei Paesi con il reddito procapite e con i salari medi tra i più alti del mondo. I primi commentatori hanno ipotizzato che questo potrebbe essere un modo per essere più vicini ad Apple, che con la produzione dell’iPhone è diventato uno dei loro clienti più rilevanti, riducendo costi di trasporto e velocizzando il ciclo degli ordini, oppure un modo per aggirare le polemiche sul lavoro minorile che ha spinto Apple ad avviare ispezioni nelle fabbriche asiatiche di Foxconn. Eppure dalle prime indiscrezioni pare che lo stabilimento americano della Foxconn non produrrà nessun iPhone. Troppo complessa la loro produzione per ricostruire tutta la catena di assemblaggio in nuovi stabilimenti. Sembra invece che si tratti della produzione di tv a schermo piatto, in stabilimenti altamente automatizzati. Quindi i motivi di questo interesse verso gli Stati Uniti potrebbero essere legati a ciò che numerose analisi e commentatori americani sostengono gia da mesi: l’accelerazione della ricerca tecnologica degli ultimi anni, che ha portato sviluppi straordinari nella robotica, nell’automazione e nell’unione tra scienze computazionali e ingegneristiche, tra software e meccanica, tra informazioni digitali e prodotti materiali, che potrebbe portare a produzioni più efficienti e altamente innovative.

Un esempio degli sviluppi di questa ricerca e delle sue implicazioni per la manifattura sono le cosiddette stampanti tridimensionali («3d»), macchine che ricevono «istruzioni» direttamente da un computer sulla base di un modello digitale disegnato dal progettista e che costruiscono l’oggetto disegnato, dall’inizio alla fine, senza passaggi di mano o assemblaggi, senza interferenza umana, semplicemente modellando e “stratificando” il materiale con cui viene costruito l’oggetto. Si chiama «manifattura additiva», e per la verità non è un’invenzione di adesso. Macchine di questo genere esistono da oltre due decenni, ma è solo negli ultimi anni che sono riuscite a raggiungere dimensioni, semplicità di funzionamento e costi accessibili a chiunque. Ed è questo il progresso che sta alimentando tanto entusiasmo ed ottimismo negli analisti, sia per il potenziale impatto che questa evoluzione può avere sulla produzione artigianale e sui tassi di imprenditorialità e di innovazione (chiunque potrà diventare un produttore, con costi fissi quasi nulli), sia, in prospettiva futura, sull’organizzazione di tutta la produzione industriale su scala globale.

L’Economist pochi mesi fa l’ha definita la terza rivoluzione industriale, dedicandogli un intero numero speciale. E moltissime altre riviste, da Forbes a Businessweek, ormai da oltre un anno dedicano articoli su articoli al fenomeno delle stampanti «3d», non solo ai suoi aspetti «tecnici», ma, soprattutto, alla sua più affascinante possibile implicazione economica: la rinascita e il ritorno della manifattura industrializzata negli Stati Uniti. Infatti, grazie al forte abbattimento di costi collegati a queste nuove tecnologie, molte produzioni potrebbero tornare nel Paese che per decenni è stato leader indiscusso della manifattura industrializzata e che oggi ha un chiaro vantaggio competitivo sul fronte della manifattura additiva e sulle nuove frontiere dell’automazione. Ma il potenziale impatto di queste tecnologie e la possibilità di trarne vantaggio non riguarda solo gli Stati Uniti, ma molti altri Paesi, inclusi quelli emergenti, come il Brasile - dove nella primavera scorsa ha aperto la prima catena franchising di stampanti tridimensionali - e quelli in cui la manifattura ha vissuto in anni recenti le maggiori difficoltà. L’Italia per esempio potrebbe trarre grandi vantaggi da queste nuove tecnologie, mettendo a frutto alcuni dei suoi tradizionali punti forti: il design, la capacità di progettazione, la piccola imprenditorialità diffusa ed artigiana. Eppure, nonostante l’elevato potenziale di rinnovamento che queste nuove tecnologie potrebbero avere per il nostro sistema produttivo, sono ancora poche le persone che, nel nostro Paese, vi stanno prestando la dovuta attenzione. I nostri dibattiti pubblici e politici sono ancora monopolizzati dalle discussioni su vecchie modalità produttive, sulle catene di montaggio, le miniere, gli altiforni. Argomenti più che legittimi, ma che impediscono di vedere come certe nuove tecnologie potrebbero aprire un nuovo futuro per il Paese e per i suoi lavoratori e ci condannano a guardare sempre al passato. Dovremmo imparare a scrollarci di dosso questo senso di smarrimento, impotenza e ineluttabilità che ci paralizza quando pensiamo al domani, e capire che il futuro, alla fine, è di chi comincia a costruirlo oggi.


Di’ qualcuno di sinistra


di MASSIMO GRAMELLINI, dalla Stampa
Alla domanda del conduttore di Sky su quale fosse la loro figura storica di riferimento, i candidati alle primarie del centrosinistra hanno risposto: De Gasperi, Papa Giovanni, Tina Anselmi, Carlo Maria Martini e Nelson Mandela. Tutti democristiani tranne forse Mandela, indicato da Renzi che, essendo già democristiano di suo, non ha sentito il bisogno di associarne uno in spirito. 

Scelte nobili e ineccepibili, intendiamoci, come lo sarebbero state quelle di altri cattolici democratici, da Aldo Moro a don Milani, evidentemente passati di moda. Ma ciò che davvero stupisce è che a nessuno dei pretendenti al trono rosé sia venuto in mente di inserire nel campionario un poster di sinistra. Berlinguer, Kennedy, Bobbio, Foa. Mica dei pericolosi estremisti, ma i depositari riconosciuti di quella che dovrebbe essere la formula originaria del Pd: diritti civili, questione morale, uguaglianza nella libertà. Almeno Puppato, pencolando verso l’estremismo più duro, ha annunciato come seconda «nomination» Nilde Iotti. Dalle altre bocche non è uscito neppure uno straccio di socialdemocratico scandinavo alla Olof Palme.  

Forse i candidati di sinistra hanno ignorato le icone della sinistra perché temevano di spaventare gli elettori potenziali. Così però hanno spaventato gli elettori reali. Quelli che non possono sentirsi rappresentati da chi volta le spalle alla parte della propria storia di cui dovrebbe andare più orgoglioso. 


venerdì 9 novembre 2012

Il Quarto Stato e il Quarto Polo



C’è quel bellissimo quadro di Pellizza da Volpedo che mi insegue praticamente da sempre, che basta guardarlo e subito capisci chi sei e da che parte starai nel corso della tua vita. Perché la politica è una cosa fatta prima di sentimenti e poi di idee.


La sinistra negli ultimi decenni si è scordata di quel quadro e di tutto il carico di cui si faceva portatore. Lo ha preso, lo ha appeso ai muri di una sezione o di una camera del lavoro ed è finita lì. È stato più semplice abbandonarsi ai riti e alle liturgie del passato; altri hanno sostituito quel popolo con altri “popoli”, con altri interessi, bastava dire «ceti emergenti» e ci si sentiva improvvisamente così moderni e spendibili per il futuro.

Andava a finire – esempio facile facile, ma purtroppo vero – che Roma nel 2008 votava così: i quartieri popolari e periferici con Alemanno e le zone ricche del centro con Rutelli. «Dalla parte degli ultimi» – la sinistra nacque apposta – si è lentamente trasformato in un buonista «dalla parte di tutti», e se stai dalla parte di tutti o stai mentendo o alla fine dovrai scegliere chi dovrà pagare cosa, e chi ha di più sarà sempre convincerti meglio.

La sinistra istituzionale negli ultimi venti anni ha fatto molto per andare al governo ma ha fatto pochissimo per non snaturarsi e per non accodarsi al pensiero unico dominante: mercato, mercato, mercato. La vita trasformata in moneta, i conti e l’economia sopra la politica, il lavoro da diritto a mera prestazione da trasformare in stipendio (e la sinistra ha saputo rispondere molto spesso con i cuscinetti assistenziali). La famosa egemonia culturale pensata da Gramsci è stata usata a proprio vantaggio da chi non poteva sopportare l’avanzamento di quel Quarto Stato che fino agli anni ’70 era riuscito a conquistare – conquistare è sinonimo di lotta e sacrifici – diritti impensabili fino a pochi decenni prima.

Davanti alla regressione politica e culturale, davanti all’arrendevolezza di una sinistra che nega ciò che dati economici alla mano risulta evidente – cioè una lenta e costante migrazione della ricchezza dal basso (sempre più basso) verso l’alto (sempre più alto), quella che Luciano Gallino chiama l’altra lotta di classe – occorre fare qualcosa. Occorre cambiare, o almeno provarci.

Per questo con convinzione ho firmato questo appello, che vi invito a leggere, commentare, far girare. Segue una linea di pensiero simile a quella del gruppo di Su la Testa! ma prova a dare uno sbocco strettamente elettorale a quelle idee in vista del 2013. Per cominciare a dire che c’è una via di mezzo tra la mannaia di mister fiscal compact e il vaffanculo planetario di Beppe Grillo. E che forse stavolta si potrà andare a votare senza ripeterci la solfa del meno-peggio.

di Matteo Pucciarelli, da Micromega

Indignarsi non è antipolitica.


"Tutti i cittadini dovrebbero mobilitarsi per l'interesse generale, a difesa dei beni comuni. Compresi quelli artistici". Salvatore Settis ci parla del suo nuovo saggio edito da Einaudi, un manifesto politico contro la sistematica sottrazione dei nostri diritti civili.

colloquio con Salvatore Settis di Wlodek Goldkorn, da L'Espresso, 9 novembre 2012

Salvatore Settis è un 71enne signore dai modi gentili e leggeremente impacciati di chi ha trascorso più di dieci lustri della propria vita tra libri, convegni, testi antichi, banchi delle più prestigiose istituzioni universitarie. La sua rabbia per come vanno le cose in questa Italia «dominata dal verbo della destra, cui anche la sinistra è succube» e dove tutto, pure i beni culturali e il paesaggio, «patrimonio della nazione» sono trattati alla stregua di «oggetti vendibili al mercato», è l'ira dei miti. Il suo, non è un atteggiamento estremista né amiccante all'antipolitica («Odio e volontà di eliminare gli altri»), è invece un modo di porsi fatto di indignazione e radicalità. Il professore ha appena dato alla stampe un nuovo libro "Azione popolare. Cittadini per il bene comune" (Einaudi): oltre 230 pagine tra manifesto politico, esegesi delle leggi e del linguaggio che ci governano, e suggerimenti per tutti quegli italiani che non vogliono assistere passivi alla «sistematica sottrazione dei loro diritti civili».

Non le sembra che il titolo del libro sia pericoloso? L'azione popolare è una nozione populista e di destra. E perché l'ha scritto?
«Sono archeologo e storico dell'arte. Le mie competenze sono Giorgione, Laocoonte, cose così. Negli anni Novanta sono stato per sei anni alla Fondazione Getty in California. Il ritorno in Italia è stato traumatico per come si era deteriorato il senso della vita civile. Cominciai occupandomi della vendita del patrimonio culturale. Ne è nato il volume "Italia SpA". Ha avuto 150 recensioni: compresi bollettini parrocchiali e quello degli scaricatori del porto di Livorno. Così sono entrato in contatto con tanti piccoli movimenti locali: contro la cementificazione di una salina o la modifica di un palazzo storico. Poi ho scritto un secondo libro, sul paesaggio. Si è ripetuto lo stesso scenario. Mi invitavano parroci, insegnanti delle scuole. Ho avuto 300 incontri con il pubblico. Ho capito che le persone impegnate in vari comitati (ce ne sono 30 mila in Italia, vuol dire che almeno 3 milioni di cittadini ne fanno parte) erano in cerca di munizioni. Ecco la genesi di questo terzo libro».

E il richiamo populistico?
«Siccome ne sono consapevole, ho voluto aggiungere il sottotitolo "Cittadini per il bene comune". Si tratta dell'esercizio dei diritti di cittadinanza. Comunque azione popolare allude ad "actio popularis" del diritto romano: il diritto di un singolo cittadino di agire a nome dello Stato, dell'interesse generale, direi oggi».

In concreto?
«Vorrei che riportassimo le nostre battaglie locali sul terreno dell'interesse generale, appunto. Rendiamoci conto che la lotta dei sindacati contro l'abolizione dell'articolo 18 e quella dei cittadini di Siracusa per non costruire sopra il Teatro greco, pur diverse nella forma, sono la stessa cosa».

Dove vuol arrivare?
«A ragionare sui beni comuni. Siamo figli di una genealogia che viene da lontano, dal "bonum commune communitatis" presente negli statuti medievali delle città italiane. Con la Rivoluzione francese e l'Illuminismo tutto questo si è collegato al discorso dell'interesse generale. Ricostruire quel filo è importante in questa fase, perché con il mio discorso voglio arrivare anche ai cittadini di destra. Ci sono dei valori fondamentali. Ci sono sindaci leghisti bravi e del Pd orribili, per quanto riguarda l'uso del suolo e la tutela del paesaggio».

L'indignazione, vero tema del suo libro, non è antipolitica?
«Per me l'antipolitica sono i mercati: la principale forza che è contro la politica. L'antipolitica è quella, poteri occulti anonimi, non controllati né da Stati né da cittadini e che si circondano di un'aura di sacralità. Ho letto ultimamente su un giornale la frase: "arriverà il giudizio universale dei mercati". È un linguaggio religioso, metafisico. Il mercato è dio».

Con il governo Monti è cambiato il linguaggio in Italia?
«Finalmente abbiamo un presidente del Consiglio che parla dell'evasione fiscale. È un cambiamento di lessico notevole. Neanche Prodi, D'Alema, Amato ne hanno parlato, se non in sordina e scusandosi per il disturbo. Però, tante altre cose sono rimaste invariate. E guarda caso i tecnici del governo tecnico che fanno più acqua sono quelli che si occupano della cultura. Ai Beni culturali c'è una persona (Ornaghi) che non solo non è un tecnico, ma cui non interessa il dicastero che deve dirigere, e del resto ignora la materia. Questo esecutivo non ha fatto niente per correggere le storture dei governi di centro destra per quanto riguarda la cultura, la ricerca, l'istruzione. Ho stima di Monti ma sono deluso: mentre in Francia e in Germania si investe in cultura, qui si taglia. Da questo punto di vista il linguaggio non è cambiato: rimane il dogma del mercato».

La sinistra?
«Succube della cultura di destra. Un esempio? Un tabù: Marx. Si preferisce l'abbraccio mortale con Berlusconi pur di non pronunciare questo nome. Eppure Marx fa un'analisi eccellente su come denaro generi denaro. Cose attualissime oggi. Mi colpisce che si parli sempre della modernizzazione come se fosse un termine univoco e neutrale. E infatti, la differenza tra la modernità di Berlusconi e quella di Bersani non è evidente nei programmi del leader del Pd. La sua idea della modernizzazione è la stessa della destra, ma con un po' di più d'attenzione per il sociale. Il principale responsabile di questa stortura è D'Alema, cui manca ogni orizzonte politico, ne ha solo uno tattico, e spesso finisce in sconfitta. Di Renzi poi, non ne parliamo».

Soluzione?
«Tornare alla Costituzione. Che afferma il diritto al lavoro, all'istruzione (diceva Calamandrei che la scuola è un organo costituzionale), tutela il paesaggio».

Parliamone del paesaggio.
«Un esempio. I Templi di Agrigento sono passati - in nome del federalismo demaniale - alla Regione Sicilia. Quindi n on sono più di cittadini italiani. E il sindaco di Agrigento voleva metterli all'asta da Sotheby's. Una stupidaggine, che rileva però quanto tutto è ormai monetizzabile. Si dimentica che il demanio e i diritti sono legati l'uno all'altro. Il portafoglio patrimoniale che abbiamo garantisce i nostri diritti: alla salute, al lavoro. Se vendiamo tutto per sanare il debito pubblico, diventiamo solo più poveri».

Nel suo libro, lei cita Antigone per affermare la priorità del diritto sulla legge. Ma se Creonte è solo un mascalzone, e se tutti facessimo ciò che sentiamo giusto , non esisterebbe la polis.
«Infatti, c'è bisogno anche di Creonte. Ma le leggi sono spesso ad personam (Berlusconi). Ecco perché esiste un principio supremo: quello sancito dalla nostra Costituzione che poi significa la legalità. E attenzione, già che parliamo delle leggi. Chi, spesso a sinistra, afferma che i magistrati hanno sempre ragione, finisce per deresponsabilizzare i cittadini e i leader politici. È una pericolosa deriva giustizialista».

Ultima domanda. Prendiamo Pompei, tra crolli e scandali, come simbolo. Cosa si può fare per i beni culturali, per preservarli.
«Il ministero dei Beni culturali così come è adesso è una specie di ghetto. Per questo ci vanno ministri di serie B. Occorre invece unirlo con il ministero dell'Ambiente. Poi occorre aumentare le risorse alla cultura, e basterebbe tornare al livello di cinque anni fa. Infine, bisogna rivedere il sistema delle soprintendenze territoriali, indire concorsi e assumere anche cittadini non italiani. Aggiungo: rinegoziare il rapporto tra Stato, comuni e regioni per quanto riguarda la gestione del territorio. E questo sulla base della Costituzione che prevede che la tutela del paesaggio è uguale in tutta l'Italia. Mentre oggi, quella siciliana funziona meno rispetto a quella piemontese ad esempio, perché troppo autonoma».
Fonte : Micromega
(9 novembre 2012)

Dall'economia della competizione a una nuova economia della cooperazione.


Per uscire dalla crisi non basta semplicemente rilanciare la crescita: è necessario concepire un nuovo modello di sviluppo ecologico e cooperativo ed elaborare nuovi indicatori che siano in grado di misurare realmente la ricchezza prodotta e le risorse consumate a livello globale.

di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini, da Repubblica, 9 novembre 2012

Oggi vi è un consenso molto ampio sul fatto che per superare la crisi sia necessario rilanciare la crescita dell’economia. Qualunque critica si possa muovere alla crescita, in nome di qualunque principio, è destinata a suscitare anatemi. La crescita non è una scelta ma una condizione obbligata per la sopravvivenza del sistema capitalistico: venuta meno questa condizione, la sua rapida ripresa è diventata un’invocazione corale.

Ma esistono dei forti dubbi che la crescita possa rappresentare l’unica soluzione dei nostri problemi in quanto un’espansione quantitativa senza limiti così come l’abbiamo conosciuta dalla rivoluzione industriale non appare sostenibile. Ricordiamo che prima dell’attuale crisi l’economia mondiale si sviluppava a un tasso medio che, se estrapolato fino al 2050, l’avrebbe moltiplicata per 15 volte; se prolungato fino alla fine del secolo, di 40 volte. E sappiamo che la crescita comporta un incremento della popolazione, che oggi è pari a circa 6,5 miliardi di persone e nel 2050 dovrebbe toccare i 9 miliardi.

Riproponiamo dunque la domanda: è concepibile un’economia capace di una crescita continua? Per noi la risposta è senza alcun dubbio negativa perché la crescita sta determinando un’imponente distruzione di risorse naturali. Ne deriva che il rilancio della crescita può rappresentare una fase, non uno stato permanente dell’economia, e che agli economisti toccherebbe il compito di rispondere alla domanda: esistono altre forme di economia che possano fare a meno della crescita senza farci ricadere nella povertà? È possibile “una prosperità senza crescita” come si afferma nel titolo di un recente libro di Tim Jackson?

Da tempo economisti e scienziati si sono impegnati nel compito di immaginare quali dovrebbero essere le linee portanti di un nuovo modello di sviluppo dell’economia in senso ecologico e, soprattutto, di un nuovo modello ideologico. Crediamo che sia giunto il momento di passare dall’economia della competizione a una nuova economia della cooperazione: la competizione sempre più spinta ha prodotto un’età della crescita che è oramai degenerata in un’età della distruzione. Nuove forme di cooperazione potrebbero, invece, condurci verso un’età di rinnovato benessere.

In concreto, si tratta di promuovere un formidabile progresso tecnologico e una decisa svolta morale per modificare sia l’evoluzione della tecnica sia la psicologia del consumatore il quale dovrebbe acquisire maggiore consapevolezza delle sue azioni e dell’impatto che esse provocano nella società e nell’ambiente naturale. Ciò significa passare dalla quantità alla qualità, da un concetto di “maggiore” a uno di “migliore”, dall’espansione illimitata all’equilibrio dinamico.

Uno degli aspetti fondamentali riguarda la riconversione ecologica dell’economia e implica il cambiamento del modello di sviluppo basato sui combustibili fossili, sull’automobile a benzina e sulle materie plastiche. Un modello che si è affermato da circa duecento anni e che, nonostante innovazioni come l’elettricità, l’informatica e le telecomunicazioni, continua ad essere dominante.

Un processo di riconversione ecologica dell’economia richiede nuovi indicatori e nuovi strumenti di misura delle performance economiche, sociali e ambientali. Occorre superare il Pil che rappresenta il valore monetario dei beni e servizi scambiati sul mercato. Il prodotto interno lordo si è rivelato molto utile nel misurare la crescita quantitativa, ma ha via via perso di efficacia nelle economie postindustriali dove è cresciuto il peso dei servizi immateriali e delle attività di carattere sociale, dove la qualità del prodotto e la produzione di nuovi prodotti hanno assunto maggiore importanza e dove le tematiche relative all’ambiente sono diventate sempre più centrali nelle scelte di vita di un gran numero di persone.

Inoltre, il Pil ignora completamente il fatto che la crescita dell’economia è strettamente associata con il consumo delle risorse che quindi tendono ad esaurirsi. Non solo i combustibili fossili, ma anche le foreste, il suolo coltivabile, i metalli ed altre materie prime. Infine, il Pil non conteggia la produzione di rifiuti, l’inquinamento, le emissioni di anidride carbonica, la disponibilità di acqua dolce, il livello di istruzione. Se tutto ciò venisse incluso nella stima del Pil constateremmo che le nostre società non si stanno più arricchendo ma si sono incamminate lungo un percorso di impoverimento sociale, economico e ambientale.

Per uscire dalla crisi, dunque non basta semplicemente rilanciare la crescita, ma è necessario concepire un nuovo modello di sviluppo ecologico e cooperativo ed elaborare nuovi indicatori che siano in grado di misurare realmente la ricchezza prodotta e le risorse consumate a livello globale.

(9 novembre 2012)

mercoledì 7 novembre 2012

Le qualità della melagrana



Apprezzato sin dai tempi antichi, il frutto del melograno è particolarmente ricco di proprietà che collaborano in modo attivo alla cura dei tumori
Apprezzato da Ebrei, Egizi, Fenici, Greci e Romani il frutto del melograno è citato anche nella bibbia. Appartenente alla famiglia delle Punicaceae, il cui nome scientifico è Punica Granatum, la melagrana è particolarmente ricca di sali minerali come potassio, manganese, zinco, rame e fosforo, e in quantità minore si possono trovare anche ferro, sodio e calcio.

Fin dall'antichità questo particolare frutto è stato simbolo di abbondanza e longevità e già da allora le sue molteplici proprietà terapeutiche erano ben note. La virtù più importante che la contraddistingue è quella che riguarda la presenza di sostanze ad alta attività antitumorale come l'acido ellagico, i flavonoidi ed altre sostanze con proprietà antiossidanti, che nel loro insieme collaborano in modo attivo alla cura di vari tumori, come quello alla prostata, alla pelle, al seno, ai polmoni.

Anche nei confronti del morbo di Alzehimer il succo di melagrana ha dimostrato di avere proprietà benefiche: l'assunzione giornaliera è in grado di erigere una barriera protettiva e di attaccare le proteine nocive. L'artrite stessa trova benefici nell'assunzione di succo di melagrana, infatti grazie ad esso viene inibito il processo degenerativo della cartilagine. In tempi antichi veniva utilizzato anche per altri fini oltre a quello alimentare, ad esempio per ricavare cuoio dalla scorza interna. Reperibile solo da settembre a novembre, con il suo succo si prepara una bevanda dissetante, la granatina.

Una gustosa ricetta che si può preparare in questo periodo dell'anno è l'Anatra all'arancia e melograno. Per 4 persone occorrono un'anatra pulita, 4 melograni, 1 arancia chiara, salvia, rosmarino, 3 cucchiaio d'olio, 30 grammi di burro, sale e pepe quanto basta. Si inizia spolverando internamente l'anatra di sale e pepe e introducendo nella pancia il burro, la salvia e il rosmarino. In un tegame con l'olio caldo si rosola e si rigira l'anatra completando la salatura e aggiustando di pepe.

Una volta sgranati i melograni in modo da recuperare solo i chicchi, se ne passano due al setaccio per conservarne il succo. Si introduce quindi il tegame, coperto, con l'anatra in forno caldo a 180° alla quale si sono aggiunti i chicchi ed il succo di melograno e l'arancia tagliata a fette. Ai controlli periodici della cottura si aggiunge il liquido di cottura. Verso la fine si filtra il liquido e senza coperchio si fa dorare la pelle. Su un piatto fondo di portata si serve l'anatra e tutto il sugo di cottura.
di FLAMINIA GIURATO (NEXTA), dalla Stampa

martedì 6 novembre 2012

In Consiglio nessuna risposta


NOVA SIRI - "Bilancio, in Consiglio nessuna risposta"
Giuseppe D'Armento (indipendente Pdl) critica le voci che non tornano


di PIERANTONIO LUTRELLI



NOVA SIRI - “Ho lasciato da sola una moglie che potrebbe partorire da un momento all’altro, mi faccio 1200 km e senza rimborso, per venire qui a esercitare il mio dovere istituzionale a sentire le vostre spiegazioni e voi non me ne date? Io voglio risposte alle mie domande, voglio sentire il sindaco cosa ha da dire. Non sono venuto qui per sfogarmi o per confessarmi: se il bisogno fosse stato questo sarei andato dal prete. Sindaco risponda, vergogna”. Ci mette passione il consigliere comunale, Giuseppe D'Armento nel fare opposizione al Comune di Nova Siri. Con queste parole, nell'ultimo consiglio comunale, l'ex assessore alla Cultura, di professione odontoiatra e ufficiale medico dell'Esercito italiano in servizio nella Capitale, ha incalzato il sindaco Pino Santarcangelo e la giunta sui problemi irrisolti della comunità. D'Armento, uomo dal grande spessore culturale, rivendica forte la sua appartenenza al Pdl ed al centrodestra, ma ha preso le distanze dalla residua maggioranza che é ciò che é rimasto della compagine civica "Impegno per Nova Siri" . Si tratta però di un contenitore a forte presenza Pdl, molto vicino alle posizioni del senatore e segretario provinciale, Cosimo Latronico, da cui però l'ex assessore ha preso da tempo le distanze. Nell'ultima assise era presente il coordinatore cittadino del Pdl, il latronichiano Walter Basile. Sarebbe curioso capire qual é la posizione ufficiale di un partito che ha "pezzi di qua e di là" soprattutto in vista delle imminenti elezioni Politiche. Tornando al Consiglio in merito al Bilancio D'Armento ha denunciato "Il ritardo nel pagamento degli stipendi ai dipendenti, delle spettanze alle ditte appaltatrici di servizi e nel rendere disponibili alle famiglie i buoni per i libri di testo, voci di bilancio su somme destinate ai lavori pubblici sparite dai residui attivi e andate in spesa corrente, la scelta infausta di cercare introiti col lanternino imponendo la tassa di soggiorno contro quanto precedentemente affermato in conferenza dei sindaci, il frequente ricorso alle anticipazioni di cassa. Il parere favorevole, ma con “riserva” del revisore - ha continuato - indica che c’è qualcosa che non va e che va chiarito, quindi non possiamo votare a favore di una delibera di bilancio che non è chiara. La riconferma dell’incremento Tarsu nonostante alcun bando abbia avuto esito, la tassazione massima con incremento dell’Imu del 10,6 per 1000. Siete con l’acqua alla gola: perché non avete aderito al fondo di garanzia per i comuni a rischio dissesto stabilito dal Min. Cancellieri con la legge anti-default 174? Prevede un fondo rotativo di pronta liquidità, a cui anno aderito già una cinquantina di Comuni dell’alto Lazio, della Calabria e della Sicilia, e voi?” Infine sulla mozione di sfiducia, rivolgendosi al sindaco: “Quando lei - ha concluso - mi estromise dall’amministrazione si permise di definirmi, oltraggiandomi, di danno alla collettività". A distanza di quasi due anni i fatti dimostrano che la verità è un’altra; ora parlano i fatti e lo scempio in cui viviamo: é lei di danno ai novasiresi, lei è un male per la nostra comunità".


(da Il Quotidiano della Basilicata)

lunedì 5 novembre 2012

La formula dell'immortalità custodita in un'isola greca


SCIENZA E SALUTE

A novantasette anni Stamatis Moraitis è ancora lì, a lavorare l'orto dietro casa. A coltivare frutta e verdura. A bere ogni giorno il latte di capra e il fliskouni , il tè delle montagne con foglie di menta. A farsi le sua pennichella pomeridiana. A ritrovarsi con gli amici, vecchietti arzilli pure loro, per giocare. Nel 1976, a Stamatis Moraitis, negli Usa, avevano diagnosticato un cancro ai polmoni. «I medici mi avevano dato al massimo nove mesi di vita», racconta lui al magazine del New York Times . «Ma io sono ancora qui. Loro, i dottori, sono tutti morti».

LE «ZONE BLU» - Il «qui» di Moraitis si chiama Ikarìa. Un'isoletta greca nell'Egeo di circa 10 mila abitanti dove l'aria è buona. Le strade un continuo sali-scendi. Le case bianche e basse. Ikarìa è anche una «blue zone». Non per il colore del mare. Ma perché gli abitanti superano con facilità il secolo di vita. «Abbiamo semplicemente dimenticato di morire», racconta una donna di 101 anni a Dan Buettner, giornalista scientifico che si occupa da tempo di longevità.Di «zone blu», nel mondo, ce ne sono poche. Una si trova nell'Ogliastra, in Sardegna. Altre aree sono l'isola di Okinawa, in Giappone, la penisola di Nicoya, in Nicaragua, Loma Linda, in California. Il termine si deve all'italiano Gianni Pes e al belga Michel Poulain quando nel 2000, studiando la longevità nell'Ogliastra, usavano un pennarello blu per segnare le aree ad alta concentrazione di centenari.

L'OLGIASTRA - «L'Ogliastra è la zona dove soprattutto i maschi vivono più a lungo», spiega al Corriere proprio Gianni Pes, ricercatore presso il dipartimento di Medicina clinica e sperimentale dell'università di Sassari. E i fattori sarebbero almeno tre: «L'intensa attività fisica legata alla pastorizia, l'inclinazione elevata del terreno, la distanza dal luogo del lavoro». Poi, certo, l'alimentazione. La scoperta della longevità degli abitanti di Ikarìa è importante «perché il territorio dell'isola e gli stili di vita sono quasi identici a quelli dell'Ogliastra», sottolinea Pes, che ha iniziato a studiare l'isola greca nel 2008-2009 insieme a Poulain e Buettner.

LO STUDIO - I ricercatori hanno controllato la sorte dei nati di Ikarìa tra il 1900 e il 1920. Poi hanno analizzato le cause di morte. Infine hanno trascorso settimane con gli anziani. Scoprendo che gli over 90enni sono più del doppio della media nazionale, che sono meno depressi e presentano tassi di demenza senile ridotti. «Tra le cause di morte, a Ikarìa come nell'Ogliastra - spiega il ricercatore italiano - le malattie cardiovascolari sono all'ultimo posto. Il contrario di quello che succede in Occidente».

NIENTE STRESS E BUONA ALIMENTAZIONE - La mancanza di stress, poi, sembra essere un altro dei fattori che aiutano a raggiungere i cent'anni di vita. «Facciamo sempre la pennichella», ha raccontato Ilias Leriadis, medico del posto. «Eppoi qui il tempo non ha importanza». Quanto al cibo, a Ikarìa si consumano molta maggiorana e salvia, menta e rosmarino, finocchio e artemisia. La colazione è a base di latte di capra, tè o caffè, pane e miele. A pranzo non mancano lenticchie e ceci, patate e verdure. Per cena, invece, si sta leggeri: pane e, di nuovo, latte di capra.

LA GENETICA NON CONTA - E il patrimonio genetico quanto conta? «Poco o nulla», risponde Pes. «Al massimo pesa per il 20-25%, ma uno studio che sto concludendo in questi giorni riduce ulteriormente l'impatto del Dna sulla longevità». Insomma, arrivare a cent'anni resta ancora una questione di stile. Di vita.

di Leonard Berberi, dal Corriere del 5 novembre 2012

domenica 4 novembre 2012

Sindaco: "ha mai pensato che potrebbe avere un radioso futuro,come personaggio in cerca d'autore nella Compagnia teatrale Castroboleto?


Riceviamo e pubblichiamo

Un“Sindaco che ha perso il contatto con la realta”. Come altro definire chi, messo di fronte al danno prodotto a Nova Siri, chiamato a rispondere con precise e circostanziate accuse su questioni amministrative, non trova di meglio da fare che dileggiare i consiglieri comunali e i cittadini di Nova Siri? Ciò indica in modo chiaro lo scarsissimo spessore politico e l’inconsistenza dialettica di quello che, purtroppo per Nova Siri, ne e’ ancora il “primo cittadino”. In un momento cosi critico, che richiede risposte e azioni concrete, egli fa “l’ironico”.
Un’ironia fuori luogo e inconsistente almeno quanto lo e’ la sua capacita’ di amministrare il paese che ha ridotto al degrado piu' totale. Forse lei fa un po' di confusione: il suo "Generale" credo sia il Sen. Latronico , il mio grado e' quello di "Capitano" e l’altra sera “il Capitano” non era altrove come lei dice ma in aula di consiglio. E non aveva un joystick ma una voce chiara , con la quale non ha dileggiato puerilmente l'avversario politico come il Caporale di truppa ama fare sulla stampa, ma con cui ha chiesto spiegazioni a nome dei cittadini sul collasso del paese: e’ livoroso chiedere perche’ gli stipendi ai dipendenti , cosi come gli emolumenti alle ditte appaltatrici, sono pagati in ritardo? E’livoroso chiedere lumi sulle riserve espresse dal Revisore dei conti?...No di certo : si puo’ essere vicini ai cittadini stando lontani e essere lontani stando vicini , come di fatto lei e’ lontano dai problemi della gente pur seduto sul suo glorioso scranno ,“ Signor Sindaco a giorni alterni” .
Conservo con me un comunicato del Gabinetto del Sindaco in cui lei, quando mi dimisi da assessore, lodo’ il mio lavoro da amministratore definendone eccellenti i risultati, e ora , al contrario, denigra il mio lavoro assessorile. Alla luce di cio’ mi chiedo quante facce e quante maschere, diverse una dall’altra , lei sia in grado di impersonare: ha mai pensato che potrebbe avere un radioso futuro, il Presidente Giovanni Demarco permettendo, come personaggio in cerca d'autore nella Compagnia teatrale Castroboleto?
Non e’ mellifluo moralismo il richiamarla al decoro e al rispetto delle istituzioni che lei stesso rappresenta, il ricordarle che Nicola Buccico , eletto Sindaco di Matera nel 2007, si dimise nel 2009 quando si trovo’ in una situazione simile alla sua, mostrandosi, come lei non puo’ fare, alto esempio di dignita’ e di senso civico. Non lo e’ affermare che lei non ha i numeri del Consiglio e si tiene in vita da solo, invece di staccare la spina ad un corpo morto, unico atto eutanasico condivisibile perche’ interromperebbe l’agonia di una comunita’ intera. Non e’ mellifluo moralismo quanto anche oggi le porto a virtuoso esempio: quando si insedio’ a Sindaco di Tursi, Nuccio Labriola , di fronte ai problemi di cassa del Comune , prima di imporre tasse alla gente, assunse una decisione esemplare: ANNULLO’ A SE STESSO E AGLI ASSESSORI L’INDENNITA’per due anni.
Perche’ anche lei, capacissimo di vessare i cittadini con tasse inique, non e’ invece capace di fare altrettanto? E’ giusto, inoltre, che i Novasiresi paghino indennita’amministrative a chi , nei fatti e nei risultati, non amministra il nostro paese e in Consiglio nemmeno risponde alle domande dei cittadini nelle vesti di chi li rappresenta? La sua e' un Amministrazione Comunale o un Amministrazione del "27 di ogni mese" ? In Consiglio lei ha scelto la strada del silenzio, ora con la stampa sceglie la strada della mistificazione. Ormai non sa piu' come resagire e non trova di meglio che fare dei manifesti con gli articoli di giornale. Capacita' politica sotto le suole. Non perda, le consiglio, quest’occasione per continuare a tacere, dopo che in quasi 9 anni, ha perso mille occasioni per fare.
 Giuseppe D'Armento cons. com. indipendente (PDL)