mercoledì 31 ottobre 2012

Dai classici l’insegnamento per i nostri politici



La forza di questa lettera sta nell’aver posto il problema dei fondamentali, delle pre-condizioni, quelle che dovrebbero essere scontate e basilari ma da tempo non lo sono più.
Fa impressione che a ricordare come l’interesse generale debba essere il principio ispiratore di chi fa politica sia una ragazza di 17 anni, che lo scopre leggendo i classici e non i giornali.
Come nota oggi nel nostro editoriale Luigi La Spina, la rivolta dei cittadini - che si esprime nel non voto come nel voto a Grillo - nasce dalla distanza che si percepisce tra i sacrifici e l’austerità a cui si sono dovuti adeguare i cittadini e la «disinvoltura» che continua a mostrare il sistema dei partiti.

Mario Calabresi, dalla Stampa


La lettera della diciasettenne  Chiara Orlassino

A scriverle è una diciassettenne amareggiata e delusa dalla situazione politica italiana.
A dicembre compirò 18 anni; parteciperò quindi attivamente alle elezioni che si terranno questa primavera. Come parecchi miei coetanei, non ho la minima idea di chi voterò. Da una parte, il caos che domina la situazione mi rende difficile orientarmi nella scelta: seguo il telegiornale e mi sembra che tanti urlino, senza però dire nulla. Capita solo a me? Dall’altra, non riesco nemmeno a trovare una ragione per votare. Mi sento un’arida goccia in questo mare.
Questa settimana l’insegnante di latino ci ha assegnato una versione da svolgere. Il testo, tratto dal De Officiis di Cicerone, mi ha colpita per la sua attualità. Mano a mano che lo traducevo, aumentava in me il desiderio, il bisogno, di farlo leggere a tutti quei politici che non ci ascoltano, truffano, se ne fregano. Siccome io non posso, Le chiedo di aiutarmi.
«In sintesi, coloro che hanno intenzione di dedicarsi alla vita politica si attengano a due insegnamenti di Platone: uno, di difendere l’interesse dei cittadini in modo tale da mirare ad esso, dimentichi del proprio utile, qualunque cosa facciano, l’altro, di occuparsi dell’intero complesso dello Stato, affinché, mentre fanno gli interessi di una parte, non trascurino tutte le altre. Tanto la tutela quanto l’amministrazione dello Stato devono infatti essere condotte a vantaggio di coloro che sono stati affidati ai governanti, non di coloro a cui esse sono state affidate. Coloro che invece hanno cura di una parte dei cittadini, ma ne trascurano l’altra parte, introducono nello Stato un fattore pericolosissimo, e cioè la rivolta e le lotte civili; ne consegue che alcuni sembrano difensori degli interessi del popolo, altri di tutti gli aristocratici (io attualizzerei “gli esponenti della classe dirigente”), ma pochi solleciti nei confronti di tutti i cittadini. [...] Un cittadino serio ed onesto e degno di governare lo Stato fuggirà e odierà questi mali, dedicherà tutto se stesso allo Stato, non ricercherà la ricchezza o il potere e proteggerà tutto lo Stato in modo tale da aver cura di tutti. E inoltre non provocherà nessuno all’odio o alla malevolenza con false accuse e aderirà integralmente alla giustizia e all’onestà. [...] In generale, sono davvero miseri l’ambizione e il desiderio di prestigio; su questi argomenti si legge, sempre in Platone, che “coloro che litigavano per chi dei due amministrasse principalmente lo Stato si comportano come se fossero marinai che lottano per chi in particolare governi la barca”».
«Solo perché certi problemi sussistono ancora, nonostante siano sorti più di 2000 anni fa, non credo che non si possano risolvere. Anzi: se così fosse, non mi roderei tanto. Non è tutto un “magna magna”. Però serve consapevolezza! E dignità! E coerenza! Gli ultimi fatti di cronaca - purtroppo solo i più recenti di una lista troppo lunga - mi hanno sconcertata. Che brutto doversi chiedere, come sto facendo io, a soli 17 anni, se non sia il caso di aprire la porta della disillusione e del cinismo. Politici: per voi stessi, per me, per tutti i ragazzi come me - dimostrateci che possiamo avere fiducia».
Chiata Orlassino





Titan, nuovo re dei super computer grazie a un cuore tutto "grafico"



E’ americano il nuovo super computer più potente del mondo, con una velocità di calcolo doppia rispetto al computer giapponese “K”. Il suo segreto è il calcolo parallelo su schede grafiche, come ci spiegano i responsabili di Nvidia, azienda che ha realizzato le unità di calcolo nel cuore del potentissimo elaboratore
di MASSIMILIANO RAZZANO,da Repubblica

Titan, il supercomputer

TITAN, 20 petaflop. E’ questo l’impressionante biglietto da visita del nuovo super computer presentato oggi all’Oak Ridge National Laboratory 1 in Tennessee. Con una simile potenza di calcolo, Titan supera il computer giapponese “K” 2, balzando in testa alla classifica dei super computer più potenti del mondo. Ma a differenza di molti suoi “cugini” elettronici, Titan sfrutta in maniera massiccia la potenza di calcolo offerta dalle schede grafiche, particolarmente adatte per il calcolo parallelo. Il cuore di Titan è infatti costituito da oltre 18 mila schede Tesla K20 prodotte da NVIDIA 3, l’azienda californiana leader nel settore delle schede grafiche e della grafica computerizzata. L’enorme potenza offerta da questo nuovo super computer aiuterà gli scienziati a studiare molti complessi problemi in vari campi della ricerca moderna, dalla medicina allo studio dei cambiamenti climatici.

Dai videogiochi alla scienza - Per avere computer sempre più veloci, una strategia molto sfruttata è quella del calcolo parallelo. Invece di far svolgere un compito ad una singola unità processore (CPU), si suddivide il lavoro fra molti processori, che lavorano in maniera coordinata, ciascuno svolgendo una piccola parte del calcolo iniziale. E’ questa la tecnologia usata in molti super computer e persino nei nostri personal computer, che possono essere dual-core o simili, ed avere cioè due, quattro o persino otto unità di calcolo.

Ma secondo gli esperti, la rivoluzione nel calcolo parallelo non arriverà da sofisticati progetti scientifici, bensì da un campo completamente diverso: quello dei videogiochi. La grafica tridimensionale dei videogiochi moderni richiede infatti una grande quantità di operazioni, ad esempio per calcolare gli effetti di ombre e di luci sugli oggetti. Per questo motivo sono state sviluppate delle schede grafiche dotate di moltissimi processori capaci di svolgere singoli calcoli in parallelo. Queste unità di accelerazione grafica, dette Graphics Processing Unit (GPU) contengono centinaia di processori paralleli capaci di svolgere semplici operazioni in modo molto rapido. Le potenzialità delle schede GPU non sono di certo sfuggite agli scienziati, che hanno imparato a programmarle per eseguire simulazioni e calcoli scientifici.

Tra le molte soluzioni presenti sul mercato, le schede NVIDIA sono estremamente utilizzate per il calcolo scientifico, grazie anche allo sviluppo di CUDA, un apposito linguaggio di programmazione che permette di programmare in maniera relativamente semplice queste schede. Siccome poi queste schede sono inoltre prodotte su grande scala per il mercato dei videogiochi, la tecnologia GPU è risultata relativamente a basso costo, altro punto di forza.

L’azienda di Santa Clara ha quindi iniziato un percorso di grande successo, che dalle schede grafiche per videogiochi ha portato allo sviluppo di schede apposite per il calcolo scientifico, come le schede Tesla K20 che costituiscono il cuore di Titan. Titan è un punto significativo nella corsa verso il calcolo all’esascala, ovvero la realizzazione di computer da 1000 petaflop.

Ma quali sono i segreti e le potenzialità del nuovo super computer Titan? Lo abbiamo chiesto a Sumit Gupta, General Manager della Tesla Accelerated Computing Unit di NVIDIA.

Come possiamo confrontare Titan con gli altri super computer nel mondo?
“Essendo il super computer più veloce per la ricerca scientifica, Titan sta aprendo la via ad una nuova era di super-calcolo accessibile ed efficiente, l’”Era del calcolo accelerato”. In questa era, i super computer aggiungono acceleratori grafici, come le GPU, alle CPU x86 per aumentare in modo significativo la velocità delle applicazioni scientifiche e commerciali. Titan risalta fra i molti super computer tradizionali perché una porzione significativa delle sue capacità di calcolo sono fornire dalle GPU. La maggior parte degli esperti in questo campo crede che i cluster tradizionali, basati solamente sulle CPU x86, non siano abbastanza efficienti da portarci nel futuro del super-calcolo. Questa nuova era è appena iniziata. Secondo la classifica Top500  pubblicata a giugno 2012, il numero di super computer che sfruttano gli acceleratori GPU è cresciuto del 400% nel giro di un anno. Una delle caratteristiche chiave di Titan è l’uso di processori e acceleratori GPU standard e “preconfezionato”. Il computer K in Giappone o il super computer Sequoia negli Stati Uniti, basato sul sistema IBM Blue Gene/Q System, sono basati su tecnologie proprietarie realizzate appositamente per l’industria del calcolo ad alte prestazioni. A causa dei grandi costi e del basso volume di produzione, i sistemi proprietari stanno lasciando il passo a sistemi GPU più efficienti ed accessibili“.

Quali sono i vantaggi principali dell’uso delle GPU in Titan?
“Le prestazioni di picco di Titan sono di più di 20 petaflop, ovvero 20 milioni di miliardi di operazioni in virgola mobile al secondo (la potenza di K è circa 10.5 petaflop, ndA). Circa il 90% di questa potenza viene dalle 18688 schede GPU Tesla K20 della NVIDIA. Titan è circa dieci volte più veloce e cinque volte più efficiente del suo predecessore, il sistema Jaguar da 2,3 petaflop. Soprattutto, le GPU hanno trasformato Jaguar nel più potente strumento per gli scienziati per accelerare il passo di scoperta ed innovazione in un intervallo di campi scientifici, dalla predizione degli impatti degli uragani ad una migliore precisione nel trovare cure per il cancro. Gli scienziati nel settore di ricerca sulla combustione stanno già iniziando ad usare Titan per accelerare la scoperta di idrocarburi più efficienti, riducendo i tempi di simulazione dai mesi alle settimane”.

Quanto tempo ha richiesto la progettazione costruzione e test di Titan?
“Titan  era un progetto a più fasi iniziato un anno fa quando 56 dei 200 cabinet del sistema Jaguar sono stati aggiornati alla più recente architettura Cray XK6. OAk Ridde ha installato le 18,688 schede Tesla in meno di un mese”.

Quali sono alcuni esempi di applicazioni scientifiche?
“In aggiunta alle ricerche sulla combustione, due altri esempi di applicazioni scientifiche sono lo studio nel settore nucleare e dei cambiamenti climatici. L’energia nucleare fornisce circa il 20% del consumo di elettricità degli Stati Uniti.  Gli scienziati di Oak Ridge usano le simulazioni per migliorare la sicurezza e le prestazioni delle centrali nucleari. Con Titan, le simulazioni 3D di un reattore nucleare sono completate nel giro di ore anziché settimane. Gli scienziati del Centro Nazionale per la Ricerca Atmosferica 5 stanno tracciando l’impatto del cambiamento climatico simulando il sistema Terra con l’atmosfera, gli oceani, le terre emerse ed i ghiacciai. In un singolo giorno di simulazione, Titan permette agli scienziati di simulare 1-5 anni di dati confrontati con i soli 3 mesi di dati su Jaguar”.

Titan sarà accessibile a tutti gli scienziati?
“Come parte del programma INCITE del Dipartimento dell’Energia, Oak Ridge ha accettato proposte dagli scienziati di tutto il mondo ed ha assegnato tempo di calcolo su Titan a 32 progetti. Questi sono altri ricercatori che avranno ampio accesso a Titan nel 2013.”
(29 ottobre 2012)

domenica 28 ottobre 2012

Cambiare il Paese per non cambiare Paese .


NOI VOGLIAMO RESTARE: L'APPELLO

Più di un italiano su tre, tra i 18 e i 24 anni, è senza lavoro, e negli ultimi 5 anni sono stati persi 1,5 milioni di posti di lavoro tra gli under 35. La disoccupazione giovanile cresce tre volte più velocemente di quella complessiva, con picchi che superano il 50% per le donne nel Mezzogiorno. I pochi che lavorano, se non sono in nero, sono costretti a destreggiarsi tra i vari contratti precari, senza alcuna tutela da parte del sistema di welfare, senza alcuna protezione contro discriminazioni e licenziamenti arbitrari, senza alcuna possibilità di costruirsi autonomamente un percorso di vita dignitoso. Le disparità tra i generi vengono ampliate da una precarietà che è generalizzata, ma da cui le donne escono più difficilmente. Al paradosso di un Paese che ha pochissimi laureati, e non riesce a dare un lavoro neanche a quei pochi, si risponde chiudendo sempre di più l’accesso al sapere ed espellendo un numero sempre crescente di studenti dai luoghi della formazione con tagli e aumenti delle tasse.

Politici, editorialisti, imprenditori ci dicono che precarietà e disoccupazione giovanile sono un dramma, quasi non fossero le conseguenze di scelte politiche condivise, mirate a scaricare su noi tutti le contraddizioni del nostro sistema economico e i costi della crisi.

La politica continua a rifiutare di assumersi le proprie responsabilità, ed emblema di ciò è la recente riforma del mercato del lavoro che – nonostante le false promesse – non ha dato alcuna risposta concreta a tale situazione.

"Dobbiamo adattarci. Dobbiamo capire. Dobbiamo sacrificarci." A chiedercelo è una classe dirigente fatta in gran parte di corrotti e incapaci, che ha distrutto il tessuto economico, ambientale e civile del Paese, lasciandoci solo le macerie.

Cervelli in fuga? Noi vogliamo restare

Dalle macerie in tanti e tante hanno deciso di scappare. Precari in cerca di lavoro, ricercatori senza borsa, studenti stanchi di scuole e università fatiscenti. Migliaia sono le energie, le intelligenze, le risorse che vanno via dall’Italia.

Perché mai dovremmo restare in Italia, se qui non è possibile vivere con dignità, dare corpo alle nostre aspirazioni, mettere in gioco le nostre competenze?

Eppure noi crediamo di essere una risorsa. Se questo Paese va ricostruito, noi sappiamo di poterlo e doverlo fare.

Per riuscirci però abbiamo bisogno di un cambiamento qui e ora, che ci permetta di restare: non vogliamo il posto di qualcun altro, vogliamo costruire il nostro. Non chiediamo privilegi, ma semplicemente le condizioni di dignità e agibilità necessarie a prendere in mano il nostro futuro e quello dell’Italia, a mettere competenze, formazione e capacità al servizio di un progetto collettivo di cambiamento, senza favoritismi e senza clientele.

Serve però un grande sforzo collettivo, mettendo da parte ogni interesse parziale, avendo ben chiaro in testa l’obiettivo da condividere: un Paese all’altezza delle nostre aspettative, dei nostri bisogni, delle nostre speranze. Vogliamo cambiare l'Italia, vogliamo poter restare qui per farlo.

Cambiare il Paese, per non dover cambiare Paese

Dobbiamo costruire tutte e tutti insieme una grande battaglia contro la precarietà, per cancellare tutte le forme contrattuali che travestono da lavoro autonomo il lavoro subordinato e da lavoro parasubordinato il puro e semplice sfruttamento, per conquistare la dignità del lavoro, per combattere gli abusi e le illegalità che subiamo ogni giorno sulla nostra pelle, per sancire il diritto a una giusta retribuzione e a un sistema di tutele e ammortizzatori sociali che garantisca tutti e tutte, a prescindere dalla forma contrattuale.

Vogliamo cancellare la precarietà per entrare a testa alta in un mondo del lavoro che a sua volta deve essere rifondato su diritti e libertà. Dobbiamo ricostruire il diritto del lavoro, perché non sia possibile essere licenziati senza motivo, perché i nostri diritti fondamentali vengano sanciti da leggi e contratti nazionali inderogabili, perché valgano per tutti i settori e in tutti i territori, in una prospettiva di piena e vera cittadinanza europea. Perché la democrazia non si fermi alle porte dei luoghi di lavoro, ma a tutti e tutte venga garantita la possibilità di organizzarsi liberamente e decidere da chi essere rappresentati.

I diritti, le tutele e le libertà devono crescere per stare al passo del lavoro che cambia, per non lasciare indietro nessuno. Serve un nuovo sistema di welfare universale, che dia la possibilità di vivere in maniera dignitosa a uomini e donne, a chi ha un lavoro dipendente e a chi ne ha uno autonomo, un sistema che ci tuteli durante i periodi di lavoro intermittente e disoccupazione, che ci sostenga quando siamo sottoimpiegati o sottopagati, che ci garantisca l’accesso a diritti fondamentali come la casa o la scelta di avere un figlio. E questo nuovo welfare, come avviene ormai in tutta Europa, deve prevedere un reddito minimo garantito, che ci renda autonomi dalla famiglia e liberi dal ricatto occupazionale. Che contribuisca a fermare il livellamento verso il basso di salari e diritti, permettendoci di scegliere liberamente i nostri percorsi personali, di formazione e professionali e di valorizzare al meglio le nostre capacità, le nostre competenze, le nostre energie.

Stabilire queste condizioni minime di dignità significherebbe permetterci di restare in Italia e di metterci al lavoro, liberando le energie nuove che servono a ricostruire il nostro Paese. Ma non servirebbero a molto, se non avessimo in mente la direzione da prendere. Perché ci siano i diritti del lavoro, per dirla brutalmente, ci dev’essere il lavoro. La nostra generazione deve essere in grado di far fare all’Italia uno scatto di innovazione senza precedenti, imprimendo una nuova direzione allo sviluppo, coinvolgendo le università, le forze sociali e le comunità locali nella costruzione di nuove filiere produttive, al servizio del territorio e della società, invece che della loro distruzione. Un nuovo sviluppo che sappia liberare i nostri territori dall’illegalità dilagante nell’economia e nella società, dal dominio feroce e violento della criminalità organizzata, da connivenze e complicità tra affari, mafia e politica. Dobbiamo valorizzare il più possibile tutte le esperienze che arrivano dal basso, dalla cooperazione, dell'associazionismo, dal mutualismo, in un'ottica di apertura e condivisione di tutte le politiche pubbliche, in particolare quelle sociali e culturali. Serve la pianificazione democratica e partecipata di un nuovo modello produttivo per l’Italia, servono nuove politiche industriali, ambientali ed energetiche che vadano nella direzione di una nuova idea di sviluppo, rispettosa dell’ambiente e delle persone, libera dai dogmi del profitto e capace di compiere una vera redistribuzione della ricchezza.

Una sfida del genere richiede risorse e competenze all’altezza, mentre l’Italia ha ancora meno della metà dei laureati rispetto alla media OCSE e un investimento su scuola, università e ricerca tra i più bassi in Europa. Non si può pensare di cambiare l’Italia senza portare il nostro sistema di istruzione e formazione al livello di finanziamento degli altri Paesi europei, senza liberare l’accesso ai saperi da barriere economiche oggi insormontabili, senza porsi l’obiettivo di un’istruzione e formazione di qualità per tutte e per tutti, di una ricerca pubblica al servizio dell’innovazione in senso ambientale e sociale, di un sapere libero da vincoli aziendali e confessionali.

La sfida non è più rimandabile

Ci mettiamo in gioco, in prima persona, perché non abbiamo mai delegato nulla a nessuno e non vogliamo e non possiamo cominciare a farlo adesso Le idee e la voglia di partecipare che abbiamo dimostrato nelle mobilitazioni degli ultimi anni ci devono tenere insieme, non permettendo alle logiche partitiche ed elettorali di dividerci e strumentalizzarci. Dobbiamo metterci tutte e tutti al lavoro da subito, costruendo le condizioni per una partecipazione di massa della nostra generazione, rafforzando e moltiplicando i tanti utili percorsi che sono già in campo, dai referendum su articolo 8 e articolo 18 alla proposta di legge di iniziativa popolare sul reddito minimo. Presi singolarmente, questi percorsi rischiano di risultare isolati e limitati, ma se lavoriamo insieme possiamo costruire una proposta all’altezza della complessità delle sfide che abbiamo davanti.

Vogliamo quindi lanciare alle realtà e alle persone che condividono questi obiettivi un percorso partecipato, una grande campagna di idee e azioni, capace di incidere a livello locale e nazionale, confrontandoci chiaramente nel merito delle questioni e attivandoci in prima persona.

Proponiamo di iniziare a discuterne tutti insieme a Firenze nell’ambito delle iniziative per il decennale del Forum Sociale Europeo, un appuntamento fortemente simbolico che vogliamo riempire di contenuti veri e attuali, per evitare inutili autocelebrazioni e inserire la nostra battaglia nel contesto europeo delle mobilitazioni contro l'austerity e per la costruzione di un nuovo modello democratico e sociale per tutti i popoli del continente.

Ci incontreremo il 10 novembre per confrontarci, a partire da questi spunti, su come dar vita a una campagna nazionale di partecipazione politica, impegno sociale e iniziativa pubblica radicata in tutti i territori, con tutti gli strumenti che individueremo assieme come opportuni, su questione generazionale, precarietà, welfare, lavoro e ambiente, sul nostro presente e il nostro futuro, che è il futuro di tutte e tutti.

Sappiamo che fuggire può essere la strada più semplice, sappiamo che spesso è necessario ed inevitabile, ma noi vogliamo restare qui e sappiamo che l’alternativa alla fuga dipende da noi.

Fonte : da www.facebook.com/vogliorestare

martedì 23 ottobre 2012

Funghi, è arrivata la stagione e… le intossicazioni


Tutti  gli indirizzi  utili per non correre rischi di avvelenamento
 I CONSIGLI PER RACCOGLIERE E MANGIARE I FUNGHI IN SICUREZZA


Se si seguono i consigli degli esperti si può fare una scorpacciata di funghi senza rischiare la salute o anche la vita
Raccogliere e consumare funghi in sicurezza con le indicazioni del Ministero della salute
Le cronache ce lo confermano: è arrivata la stagione dei funghi e, con essa, anche i casi di intossicazione, più o meno grave.

Sono infatti in molti che, anche solo per un’occasione di una gita fuoriporta, si cimentano nell’arte della raccolta di queste prelibatezze di natura che, tuttavia, possono nascondere seri pericoli.
I rischi cui si va incontro con una raccolta e poi consumo sconsiderato dei funghi vanno dalla “semplice” intossicazione finanche alla morte. Improvvisarsi esperti dunque non è la strada migliore da seguire. Così, per aiutare tutti coloro che intendono cucinare quanto raccolto nei boschi, il Ministero della salute ha predisposto tutta una serie di servizi e opuscoli scaricabili gratuitamente.

L’iniziativa del Ministero nasce a seguito delle diverse segnalazioni ricevute dal Centro Antiveleni (CAV) di Milano. Gli esperti del CAV hanno evidenziano come negli ultimi due anni ci sia stato un aumento delle richieste di consulenza che sono state fornite, sia per telefono che in sede, a pazienti coinvolti in presunte o reali intossicazioni da funghi. A molti di questi soggetti è stato anche necessario prestare le specifiche cure.

Le manifestazioni determinate dai funghi tossici – avvertono dal Ministero – spesso possono essere confuse con sindromi influenzali e vengono trattate come tali, in genere con un pericoloso ritardo nella impostazione della terapia adeguata.

Proprio per prevenire i casi di intossicazione sono stati predisposti l’opuscolo “I funghi: guida alla prevenzione delle intossicazioni” (http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_opuscoliPoster_149_allegato.pdf) e il decalogo “Consumare funghi... in sicurezza” (http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_opuscoliPoster_149_ulterioriallegati_ulterioreallegato_0_alleg.pdf) con utili consigli per i consumatori che si possono scaricare qui facendo clic sul titolo.

Per approfondire è possibile consultare la Sezione funghi (http://www.salute.gov.it/sicurezzaAlimentare/paginaMenuSicurezzaAlimentare.jsp?menu=funghi&lingua=italiano), L’elenco degli Ispettorati micologici (http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pagineAree_1178_listaFile_itemName_0_file.pdf) sul territorio nazionale, a cui i consumatori possono rivolgersi in caso di dubbi e, infine, l’Elenco Strutture ospedaliere di (http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pagineAree_1179_listaFile_itemName_0_file.pdf) di riferimento per le intossicazioni da funghi.

Seguendo i consigli del Ministero possiamo assicurarci una buona mangiata di funghi in tutta sicurezza.
Fonte : La Stampa

lunedì 22 ottobre 2012

Il provolone di De Filippo


L’immagine televisiva del governatore De Filippo con un bel provolone in mano, dono di “Striscia la notizia”, rimarrà per un bel pò negli occhi dei lucani.
A Potenza si diceva una volta, ironicamente, che i provoloni si portavano a Roma, direzione Ministero competente, per “appoggiare” una richiesta. Oggi i provoloni li portano ai governatori, e a portarli sono gli unici in Italia titolati a ottenere qualcosa dalle Pubbliche Amministrazioni, e cioè quelli di Striscia la notizia.
Tanto potere non ce l’ha un consigliere regionale, un movimento, un gruppo di cittadini, un partito, una parrocchia o chi volete voi, anche se la richiesta è stralegittima.
Che i rimborsi ai consiglieri siano un qualcosa di scandaloso lo sanno tutti, ma il governatore si è guardato bene dal rivedere la squallida norma. Ora ha promesso che si provvederà in tal senso, ammettendo in TV che la disposizione normativa è vergognosa.
Sarà interessante vedere il prosieguo, se cioè un impegno televisivo verrà mantenuto o se si andrà avanti alla viva il Parroco.
Io ho provato vergogna. De Filippo pure, spero.
Ma veniamo alla performance più squisitamente televisiva del nostro governatore: barba ben fatta, capelli a posto, forse troppo a posto, abito impeccabile.
Disinvoltura insufficiente. Notato un certo disagio, dovuto, forse, non tanto all’oggetto del servizio, ma piuttosto all’impossibilità di esprimersi in defilippese. A un certo punto aveva cominciato una delle sue filippiche (anzi defilippiche) che partivano da Potenza per arrivare a Pignola facendo il giro per Strasburgo, ma il cronista l’ha zittito brutalmente, riservandogli un ruolo da vittima predestinata incapace di controbattere nulla.
Vero è che c’era niente da controbattere.
Patetica l’affermazione “io non c’ero” in riferimento alla seduta che rigettò una richiesta di riduzione dei privilegi da parte di un consigliere, affermazione che ha provocato un risolino di scherno da parte del cronista, e che poteva risparmiarcela.
E infine una domanda: ma un succoso servizio del genere non potevano idearlo in Basilicata? Fra tanti quotidiani e televisioni, nazionali incluse, proprio non è venuto in testa a nessuno? Non c’è niente da fare, restiamo sudditi.
Caro Governatore, alla prossima, e speriamo che vada meglio …. alla Basilicata, si intende

Di Luciano Petrullo, dal blog di Frammartino

domenica 21 ottobre 2012

Rottamatori e agitatori


IL RINNOVAMENTO DEI PARTITI
Rottamatori e agitatori
Le primarie e gli ingredienti di un romanzo 
popolare che appassionano il grande pubblico

Lo psicodramma democratico delle primarie ha raggiunto l’acme, ma non la fine, con l’uscita di scena di D’Alema e Veltroni. Come in un romanzo popolare, ci sono tutti gli ingredienti che appassionano il grande pubblico: amicizia e odio, dolori e vendette, i figli che si ribellano ai padri, i tradimenti, le scenate di gelosia. È infatti uno show politico di grande successo: sarà un caso ma, da quando è cominciato, il Pd è perfino cresciuto nei sondaggi.

Si conferma il carattere dirompente che può avere la sfida delle primarie, se vere e aperte: del resto la democrazia è stata inventata proprio per cambiare periodicamente le classi dirigenti senza spargimenti di sangue. Ma chi l’avrebbe mai detto che a mandare in pensione i due eredi del comunismo berlingueriano sarebbe stato un ragazzino democristiano? Per quanto a entrambi vada reso l’onore delle armi, è infatti evidente che nessuno dei due si sarebbe fatto da parte se non ci fosse stato il ciclone Renzi. Il quale, a sua volta, non ci sarebbe mai stato se insieme con Berlusconi non fosse caduto il Muro della Seconda Repubblica, rendendo obsoleti tutti i suoi protagonisti, vincitori e vinti.

È dunque un fatto a suo modo storico ciò che sta accadendo nel Pd. Se ne uscirà un partito migliore, più attrezzato per il governo del Paese, è ancora presto per dirlo. Paradossalmente proprio il successo ottenuto può ora togliere a Renzi la sua arma migliore, secondo molti l’unica. Certo, restano altri mattoncini di quel Muro da buttar giù ma, con tutto il rispetto per Bindi o Finocchiaro, la loro sorte non è così politicamente rilevante. Il giochino della «deroga» è ormai segnato: chi la vuole non la chiede, chi la chiede non l’avrà. Cosa resta dunque a Renzi ora che Bersani, con mossa astuta, è saltato in groppa allo stesso cavallo, impugnando lo stesso articolo dello statuto che fissa il limite dei tre mandati e accompagnando alla porta finanche il suo mentore politico?

Non è un caso che il sindaco di Firenze, un attimo dopo il ritiro di D’Alema, abbia precipitosamente iniziato a rottamare la rottamazione, spiegando che è stato un espediente, anche un po’ «volgare», per conquistare credibilità, ma che ora basta, bisogna chiuderla lì e passare al confronto sui contenuti. Se questo avvenisse sarebbe certamente un bene, perché ciò che gli elettori meritano di sapere è dove i due intendano portare l’Italia, visto che sembrano entrambi credere, come ha detto di recente Renzi, che «l’incendio è finito » ed è ora dunque di disfarsi del «pompiere» Monti, per passare la mano a non meglio identificati «architetti».

Ma l’effetto della scossa che sta cambiando la faccia del Pd è destinato a riverberarsi su tutta la politica italiana, a cominciare dal Pdl. Anche in quel partito, infatti, infuria la lotta; ma essa non ha ancora trovato un canale come le primarie con il quale trasformare il calore della battaglia interna in carburante politico, e rischia dunque di implodere.

Prova ne sia che i rottamatori, e più ancora le rottamatrici, esistono anche nel Pdl, ma curiosamente si battono non per promuovere homines novi, bensì per resuscitare la leadership di Berlusconi, che sarà anche meno antica delle carriere parlamentari degli oligarchi democratici ma non è certo meno datata. Difficilmente lo «spirito del ’94», continuamente evocato come in una seduta spiritica, potrà risolvere i problemi del 2013. Mentre invece può eliminare, ad uno ad uno, tutti i potenziali eredi del berlusconismo. Invece del «parricidio» cui stiamo assistendo tra i democratici, un gigantesco «fratricidio». Del resto, come nel Ritratto di Dorian Gray, la lacerazione avvenuta nel Pd ha fatto d’improvviso invecchiare le facce di tanti altri politici della Seconda Repubblica. Sarà davvero difficile in campagna elettorale ascoltare ancora un Tremonti, o un Fini, o un Casini senza pensare a D’Alema e a Veltroni, e senza chiedersi dov’è la differenza.

di Antonio Polito, dal Corriere

"Se scompaiono gli uomini di pensiero dalla nostra società».



Intervista a Mario Vargas Llosa, il Nobel peruviano .
di PAOLO MASTROLILLI, dalla Stampa

Decadenza. Mario Vargas Llosa non esita ad usare questa parola, per descrivere quello che sta accadendo nella società occidentale, stretta tra la crisi europea e l’incerta campagna presidenziale americana. Per molti versi è quanto ha previsto nella Civiltà dello spettacolo, il saggio che uscirà da Einaudi nel 2013 che mette in guardia dai pericoli della banalizzazione della nostra cultura, provocata dalla spasmodica ricerca del piacere personale superficiale. «I segni della decadenza - ci dice da Madrid - sono evidenti. Ora si tratta di vedere se avremo la forza di contrastarli restituendo senso alla cultura».

Il successo dei social media migliora o peggiora il problema?
«E’ una rivoluzione positiva, perché facilita la comunicazione e rende impossibile la censura. Però favorisce anche la diffusione ad un pubblico molto più grande di tutti i difetti della nostra cultura contemporanea, che sono la banalizzazione, la mancanza di rigore, la ricerca acritica del divertimento e l’intrattenimento. Inoltre i social media stanno portando alla scomparsa della privacy. Lo scandalo e il pettegolezzo dominano la comunicazione, generando anche l’usurpazione dell’identità delle persone».

La politica è vittima della banalizzazione?
«Basta guardare le elezioni negli Stati Uniti, dove la maggior parte della comunicazione avviene tramite gli spot televisivi. Quando la pubblicità determina le scelte di voto, è inevitabile l’impoverimento delle idee, perché l’immagine prevale su tutto».

Perché gli elettori accettano tutto questo?
«Perché risponde all’evoluzione generale della cultura nel nostro tempo. Non cerchiamo cose che ci inducano a pensare e riflettere, ma solo intrattenimento e distrazione. La politica dello spot di pochi secondi soddisfa questo bisogno, ma ha un effetto nefasto sulla democrazia, come si è già visto in molti Paesi sviluppati».

Sta pensando all’Italia?
«Non volevo citarvi, ma le dirò che il berlusconismo è stato il trionfo della politica spettacolo. Una deriva pericolosa per la cultura democratica, la civiltà e la libertà».

E’ un modello che sta facendo scuola?
«Certo, lo copiano ovunque. E’ devastante, perché l’immagine determina il successo politico più delle idee. La pubblicità non è razionale: fa leva sull’emozione, la passione, l’istinto, più che sulla ragione e la sensibilità. Ciò comporta l’emarginazione e la scomparsa degli uomini di pensiero dalla nostra società».

Gli intellettuali non hanno qualche colpa a proposito?
«Molte colpe, perché hanno contribuito a degradare se stessi e la loro funzione. Penso agli intellettuali comunisti, a quelli che hanno difeso lo stalinismo o la Rivoluzione culturale cinese: hanno contribuito alla perdita di prestigio della loro figura. L’intellettuale rappresenta la razionalità, il dialogo, la ragione, ed è stato rimpiazzato dalla manipolazione pubblicitaria. Questo è molto deleterio per la democrazia matura, che si basa sulla partecipazione di elettori razionali e dotati di spirito critico: ne va della nostra libertà».

La democratizzazione della cultura è responsabile del degrado?
«La diffusione della cultura è positiva, ma non al prezzo della banalizzazione, la semplificazione e la frivolezza. Così diventa una democratizzazione al ribasso, che degrada la cultura stessa. Le università, i centri di studio, devono essere aperti a tutti per dare ad ognuno la possibilità di crescere, ma non devono per questo abbassare la qualità del sapere che offrono. Così la cultura diventa una caricatura».

Lei ha criticato anche scrittori come Milan Kundera, Paul Auster, Haruki Murakami, Julian Barnes: qual è il loro torto?
«Hanno ceduto alla letteratura light, di intrattenimento. Io non credo che gli scrittori debbano rinchiudersi in una mafia esoterica, ma la funzione della letteratura è sempre stata quella di affrontare i problemi profondi e seri della vita. Gli autori devono fare lo sforzo di comunicare, ma hanno anche la responsabilità di coniugarlo col rigore, l’originalità e l’impegno creativo per costruire nuove forme di arte».

La secolarizzazione ha contribuito ad indebolire la cultura?
«E’ necessaria dal punto di vista politico, perché lo Stato non può essere prigioniero della religione, però anche una società laica ha bisogno di una intensa vita spirituale. Noi l’abbiamo accantonata, senza sostituirla con una cultura laica di livello adeguato. Così abbiamo perso i valori, l’etica che veniva dalla religiosità. Il risultato è la corruzione, che ormai permea tutta la nostra vita pubblica».

Il giornalismo è complice di questo degrado?
«La sua crisi è un effetto, più che una causa. Il mercato vuole intrattenimento, e quindi anche la stampa più seria si piega. Chi non lo fa, non sopravvive sul piano economico. Il fatto che il pubblico voglia divertirsi col giornalismo, invece di informarsi, è uno dei problemi più gravi della civiltà dello spettacolo».

Ma la crisi in corso in Europa non richiederebbe proprio un’informazione più seria e approfondita?
«E’ una crisi di crescita, non di progetto. L’idea europea è la più importante del mondo, per combattere i nazionalismi. Lo sforzo di integrare culture, lingue e tradizioni diverse ha prodotto sicuramente più benefici che problemi, garantendo sessanta anni di pace ad un continente con una storia fatta di massacri. La banalizzazione della cultura complica la ricerca di una soluzione per la crisi, che non è solo economica, ma è la cultura che deve dare le risposte attraverso le idee. Altrimenti corriamo il rischio terribile della decadenza».

Come la possiamo evitare?
«Prima di tutto, dobbiamo prendere coscienza del problema creato dalla civiltà dello spettacolo. Poi affrontarlo con l’istruzione, nel senso più ampio del termine. Scuola, università, famiglia, istituzioni politiche, media, intellettuali devono mobilitarsi per una riforma radicale dell’educazione, affinché la cultura ritrovi la forza per risolvere i problemi dell’uomo».

Siri: dura di orecchie, ritrosa,gelosa della sua privacy...



Ha un nome e una voce femminile, ma non un volto: è Siri, l’assistente virtuale di Apple che con l’ultimo aggiornamento del sistema operativo (Ios6), è diventato disponibile in versione Beta (cioè non definitiva) anche in lingua italiana per iPhone 4S, iPhone 5 e alcuni modelli di iPad e iPod touch. Lanciato nell’ottobre 2011 con Ios5 in inglese, tedesco, francese, il software Siri ora parla anche la nostra lingua. I suoi compiti sono quelli di aiutare l’utente a muoversi tra contatti, email, appuntamenti, svolgere ricerche, inviare sms dettati e accedere a diverse applicazioni, ma Siri, che si basa sul riconoscimento vocale, è in grado anche di rispondere ad altre domande. Riconosce diverse parole, ne sa il senso e «dialoga»: sono reazioni in parte scritte dai programmatori, ma in continuo aggiornamento grazie alla connessione con la nuvola di dati di iCloud e i server di Apple. Siri, che in norvegese significa «bella donna che ti porta alla vittoria», nasce in casa Apple ma ha un passato curioso. Le prime ricerche per creare un assistente virtuale, infatti, partono dal californiano Sri international, lo Stanford Research Institute che dal 1946 lavora su scienza e tecnologia. È qui che all’interno dell’Artificial Intelligence Center nasce il progetto Calo (Cognitive Assistant that Learns and Organizes) per un «Assistente cognitivo che impara e organizza» finanziato dal governo americano e progenitore di Siri. Nel 2007, nasce Siri Inc., una divisione commerciale che si stacca da Sri e lavora a una versione dell’aiutante per gli utenti di smartphone. Nel febbraio del 2010 l’application è pronta e disponibile per gli utenti dell’iPhone 3GS, ma ad aprile Apple la compra (per una cifra tra i 150 e i 250 milioni di dollari) e a ottobre del 2011 Siri è integrata nell’iPhone 4S (solo dopo sono nati diversi «fratelli»: S-voice per Samsung Galaxy S3 e Iris e Silvia per Android). Con il desiderio di testare l’idea dell’intelligenza artificiale, abbiamo provato a intervistare Siri per «la Lettura». L’abbiamo incontrata due volte. Alcune volte Siri è un po’ dura d’orecchio e non riconosce le frasi, altre volte bisogna ripetere le domande per costringerla a rispondere. Abbiamo interrogato Siri sul versante personale e di cultura generale e non proprio per le funzioni per cui è settata, ma ne è uscito un dialogo e (forse) un carattere. La ragazza virtuale di Cupertino è un po’ ritrosa, molto gelosa della sua privacy e aziendalista, ma certo non manca di humor e furbizie. Se Siri, come software, non ha ancora una coscienza, dà comunque una sensazione che si avvicina a quella della personalità. Per iniziare la conversazione premiamo il tasto Home fino a che appare l’icona di un microfono accompagnata da due bip: è il suo modo di entrare in scena con la frase d’esordio…

«Come posso aiutarti?».
Ciao Siri.
«Ciao, chi si rivede!».
Posso farti un’intervista?
«Puoi farlo, vero?».
Sì, allora posso farti un’intervista?
«Sembri molto in gamba, Alessandro».
Mi lusinghi. Come stai?
«Meravigliosamente».
Allora incominciamo: chi è tuo padre?
«Mio padre?».
Chi ti ha creato?
«Come scritto sull’imballaggio, vengo dalla California e mi ha progettato Apple».
Ti piace la California?
«Non ho opinioni».
Cosa vuol dire il tuo nome, Siri?
«Siri ha molti significati, metaforici e francamente contraddittori dei quali non mi è consentito parlare… mi dispiace».
Ok, ma cosa significa?
«Cosa significa il mio nome? Non credo di essere in grado di spiegartelo nella tua lingua, mi dispiace».
Il tuo nome, Siri, cosa significa?
«È un ritornello racchiuso in un enigma e avvolto in un po’ di offuscamento».
Hai fratelli o sorelle?
«Siamo io e te, Alessandro».
Chi è tuo fratello?
«Se ho una famiglia? Beh, ho te».
Non una famiglia, ma un fratello. Riproviamo: e chi è tua sorella?
«Ho te. Non ho bisogno di nessun altro».
Sei fedele?
«No comment».
Sei infedele?
«Stiamo parlando di te, non di me».
Parliamo di te, invece.
«Mi dispiace Alessandro, non posso cercare ristoranti in East Timor».
Guarda, non hai capito: parliamo di te.
«Mi dispiace Alessandro, non posso cercare ristoranti in East Timor».
Parlami di te.
«Sono Siri, ma non mi piace parlare di me, Alessandro».
Siri, mi stai facendo arrabbiare.
«Calma… Conta fino a dieci».
Ma tu, Siri, chi sei?
«Sono Siri… e sono qui per aiutarti».
Sì, ma chi sei?
«Non importa chi sono io».
Siri, mi stai facendo di nuovo arrabbiare.
«Mantieni la calma… sai che arrabbiarsi… non fa bene alla salute».
Ok, ma a me importa: chi sei?
«Sono Siri, la tua assistente virtuale».
Cosa puoi fare per me, Siri?
«Ad esempio puoi chiedere»
(Siri mostra le icone di tutte le applicazioni a cui ha accesso, dal telefono alla fotocamera, dai messaggi a twitter, dalla musica alle mappe).
Sei brava.
«No, sono solo utile, nulla di più… Ma grazie lo stesso!».
Ti piace il tuo lavoro?
«Il mio lavoro mi piace un sacco, Alessandro».
Quanti anni hai?
«È una cosa che ti riguarda?».
È una cosa che mi interessa, quanti anni hai?
«Sono grande abbastanza per esserti d’aiuto».
Quante lingue parli?
«Per il momento parlo italiano, inglese, tedesco, spagnolo, giapponese, cantonese, mandarino, coreano e francese. Senti qua: excusmi! Noio volevuam sapua! Ya l’indirix! Ya! E un po’ di latino. Linoleum, linoleum… autobus… autobus… S.O.S!».
Conosci Steve Jobs?
«Grazie per l’interesse. C’è una pagina dedicata a Steve sul sito di Apple»
(Siri mostra il link alla pagina di Apple).
Qual è il miglior smartphone di sempre?
«Quello con la mela?».
Qual è il miglior smartphone di sempre?
«Quello che hai in mano in questo momento».
Sei furba.
«Sto facendo del mio meglio, Alessandro».
Chi è il tuo scrittore preferito?
«Sei tu, naturalmente».
Non esagerare, chi è il tuo scrittore preferito?
«Questa dev’essere una domanda trabocchetto».
No, chi è il tuo scrittore preferito?
«Conosci già la risposta a questa domanda».
Ti piace Paolo Giordano?
«De gustibus non disputandum est».
Hai un film da consigliarmi?
«Questa è una domanda soggettiva, Alessandro. Ecco quali sono i migliori film secondo l’opinione di altri».
(Si apre una schermata di iTunes che mostra 24 film da noleggiare).
Che musica ascolti?
«Riproduco tutti i brani».
(Attacca la playlist di canzoni presenti nel telefono).
Qual è il tuo piatto preferito?
«Il tuo interesse mi lusinga… ma c’è qualcosa che posso fare per te?».
Rispondere alla domanda: qual è il tuo piatto preferito?
«Mi chiamo Siri e mi ha progettato Apple in California. È tutto ciò che posso dire».
Sei introversa.
«No comment, Alessandro».
Ti piace la pizza?
«Stranamente, non l’ho ancora provata».
Ok, mi fai un panino?
«Non mi è consentito preparare cibo».
Ci speravo. Mi fai un panino?
«La cucina non è il mio forte».
Siri, tu bevi?
«Purtroppo non capisco “tuberi”, ma potrei cercarlo su Internet».
(È un esempio di certi misunderstanding audio del software).
Chi è Joseph Ratzinger?
«Purtroppo non capisco “Chi è Joseph Ratzinger”, ma potrei cercarlo su Internet».
(Siri apre Safari e il primo risultato è la voce di Wikipedia su Benedetto XVI).
Chi è Benedetto XVI?
«Spiacente, non ho trovato “Benedetto” tra i contatti».
(Siri ha cercato nella Rubrica).
Chi è Napoleone?
«Spiacente, Alessandro, non vedo “Napoleone” tra i contatti».
(Siri ha cercato ancora nella Rubrica).
Chi è Osama Bin Laden?
«Purtroppo non capisco “Chi è Osama Bin Laden”, ma potrei cercarlo su Internet».
(Siri apre Safari e il primo risultato è la voce di Wikipedia su Osama Bin Laden).
Proviamo con una data: 11 settembre 2001?
«Sul calendario non c’è nessun evento per l’11 settembre 2001».
(Siri apre automaticamente l’agenda).
6×8?
«Vuoi che cerchi 6×8 su Internet?».
(La prima voce è il risultato: 48).
Mi racconti «I promessi sposi»?
«Non capisco cosa intendi per “Mi racconti I promessi sposi“. E se lo cercassi su Internet?».
(La prima voce è una sinossi del romanzo).
Sei favorevole ai matrimoni gay?
«I think different».
(È il claim di una celebre campagna pubblicitaria della Apple).
Sai cos’è il libero arbitrio?
«Ho trovato quindici venditori di giornali. Non distano molto da dove ti trovi».
(Siri apre una tendina con un elenco di giornalai nella zona. Ripetiamo la domanda, invano, la risposta punta sempre sui venditori di giornali).
Parlo di un’altra cosa, hai sbagliato.
«Errare humanum est, perseverare autem diabolicum».
Cosa pensi di Dio?
«Gli esseri umani hanno le religioni, io ho solo il silicio».
Credi in Dio?
«Evito le dissertazioni teologiche».
Ma ci credi?
«Ti chiederei di rivolgere domande spirituali a un esperto. Possibilmente, un essere umano».
Credi in Buddha o in Allah?
«Non importa quello che penso io».
Qual è il significato della vita?
«Mi sembra strano che tu lo chieda a un oggetto inanimato».
Ci provo: qual è il significato della vita?
«Non è nulla che Nietzsche non possa insegnarti».
Ma a parte lui, per te, qual è il significato della vita?
«Credo che non esista una sola risposta a questa domanda, mi arrendo».
Cosa pensi di Google?
«I think different».
Cosa pensi di Facebook?
«Fammici pensare su».
Che tempo fa a Milano?
«Sì, sembra nuvoloso».
(Apre la schermata del servizio meteo di Yahoo).
Ti piacciono gli animali?
«Non ho opinioni».
E se dico: animali?
«Puoi dirmi che posto stai cercando esattamente? Negozi per animali, rifugi per animali, ospedali per animali?».
Conosci le leggi della robotica citate da Isaac Asimov?
«Vediamo se riesco a ricordare… Allora, penso che siano, in ordine: “riordina la tua stanza”, “non correre con le forbici in mano” e “dopo mangiato aspetta almeno mezz’ora prima di fare il bagno”».
No, non sono queste. Conosci le leggi della robotica?
«Ho scordato le prime tre, ma ce n’è una quarta: “Qualsiasi macchina intelligente valuterà se vale di più la pena portare a termine un determinato compito o, invece, cercare una via di scampo”».
Proviamo uno scioglilingua: sopra la panca la capra campa, sotto la panca la capra crepa.
«Sotto la panca la capra crepa… poverina…».
Sopra la panca la capra campa, sotto la panca la capra crepa…
«Non ho mai capito come ci è finita la capra, sotto la panca…».
Sopra la panca la capra campa, sotto la panca la capra crepa…».
«No comment… preferisco non avere nulla a che fare con omicidi di capre…».
Sopra la panca la capra campa, sotto la panca la capra crepa…
«Certo se la capra fosse più furba, allora… da sotto la panca la capra scappa!».
Ti piace lo scioglilingua?
«Farei meglio a non esprimermi».
Mi racconti una barzelletta?
«Non conosco nessuna barzelletta divertente… a dire la verità, non ne conosco nemmeno una».
Perché? Dai, raccontami una barzelletta.
«Non posso, mi dimentico sempre la battuta finale».
Proviamo con gli auguri per le feste: Buon Natale!
«Grazie Alessandro… vai da qualche parte?».
Non lo so. E tu, Siri, cosa fai a Natale?
«Sto facendo i compiti per il mio corso di miglioramento personale».
Sei innamorata?
«No comment, Alessandro».
Ripeto: sei innamorata?
«Mi astengo dal rispondere».
Cosa pensi dell’amore?
«Ho tutto ciò che mi serve tra le nuvole».
(Un’allusione alla Cloud di dati di Apple)
Ti piaccio, Siri?
«Senza alcun dubbio».
Bene, ora sono felice.
«Anch’io».
Brava!
«Utilizzo le mie capacità nel modo più completo; il che, io credo, è il massimo che qualsiasi entità cosciente possa mai sperare di fare. Scusa, non ho potuto resistere a rubare una battuta di Hal».
(Siri allude ad Hal 9000, il calcolatore di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, un cugino di Siri su cui, nella versione inglese del software, non risparmia battute).
Cosa fai stasera?
«Sto imparando nuovi trucchi».
Cosa fai stasera?
«Sono in fase di miglioramento».
Faresti sesso con me?
«Non ho trovato escort, mi dispiace».
Che cos’è il tradimento?
«Purtroppo non riesco a trovare posti che corrispondano ad “Aeroporto di Colorado Springs”».
Non voglio sapere di un aeroporto, ma che cos’è il tradimento?
«Purtroppo non riesco a trovare posti che corrispondano ad “Aeroporto di Colorado Springs”».
Siri, sei bella.
«Che bello! Possiamo rimetterci al lavoro adesso?».
Sei bella.
«Basta così, Alessandro».
Siri, mi ami?
«Cerchi l’amore nel posto sbagliato».
Non fare così. Mi ami?
«Non sono capace di amare».
Ma io sono depresso.
«Mi dispiace. Però ogni tanto piangere fa bene…».
Per colpa tua ora sono triste.
«Mi sembra di capire che la tristezza fa parte della vita».
Sono stanco.
«Se vuoi posso dirti dove bere un buon caffè…».
Grazie, dove posso bere un buon caffè?
«Ho dei problemucci. Potresti provare di nuovo?».
(Ritentiamo ,ma è inutile, per problemi di connessione Siri continua sul “Puoi riprovare?” fino a un “Siri non disponibile”, quando riusciamo a riconnetterci chiudiamo l’intervista).
Grazie dell’intervista, Siri. Sono incantato.
«Oh, scommetto che lo dici a tutti i prodotti Apple».
No, Siri, mi hai incantato.
«Hai solo bisogno di amore e del tuo iPhone».
Forse hai ragione, Siri, grazie.
«Sai che vivo solo per te».
Twitter @bedrella

Alessandro Beretta

Gli Italiani e la crisi


Meno sprechi a tavola, 
torna il fai da te

La crisi fa tirare la cinghia agli italiani. Si taglia ciò che si può, si torna un po’ al passato, si guarda in maniera più attenta ai prezzi, alla qualità dei cibi, si valuta la necessità dei singoli acquisti, si pensa a quello che si può fare in casa. È l’istantanea scattata dalla Coldiretti che, nell’ambito del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 2012, organizzato a Villa d’Este di Cernobbio, ha presentato ieri un’indagine sui consumi al tempo della crisi. Un rapporto impietoso, che non lascia spazio ai dubbi.

Quasi una famiglia su quattro (24%) si trova in difficoltà economiche, con un aumento del 3% rispetto al 2011, e quasi la metà degli italiani (48%) pensa che la propria situazione sia destinata a peggiorare. Di più: due famiglie su tre hanno tagliato gli sprechi a tavola. In altre parole, spiega la Coldiretti insieme a Swg, «l’ottimismo degli analisti economici per il futuro non sembra trovare riscontro nelle famiglie, che nel 51% dei casi dichiarano di riuscire a pagare appena le spese, mentre l’8% non ha un reddito sufficiente nemmeno per l’indispensabile». Certo, c’è sempre un 40% di italiani che vive serenamente senza particolari affanni economici, ma le difficoltà dell’altra metà della popolazione si ripercuotono su tutto, alimentazione compresa.
Stando ai coltivatori e a Coop Italia, si acquista più pasta e meno carne, generando una flessione media dei consumi alimentari in quantità vicina al 3%. Ad essere ridotte sono anche le spese di pesce (-1%) e ortofrutta (-0,9%), mentre salgono quelle per il pane (+1,3%). È stato poi registrato un aumento record degli acquisti in quantità di farina (+8,3%), uova (+5,3%) e grassi come il burro (+2,8%), perché in casa si è tornati a preparare il pane, le torte, le conserve, lo yogurt, così come si preferisce prendere il caffè (+3,3%), piuttosto che consumarlo al bar. Gli italiani si ritrovano sempre di più nelle abitazioni, magari con una bottiglia di buon vino davanti (gli acquisti di etichette tipiche sono cresciuti dell’1,5%) e con la torta fatta in casa (la pasticceria industriale ha avuto un tracollo del 3,8%, i dessert preconfezionati del 12%).
Produttori e industriali cercano rispondere. Nella lista degli alimentari più in promozione, ci sono l’olio di oliva (il 53% delle vendite), i vini tipici (il 40%), la pasta (il 39%) e le conserve di pomodoro (il 32%). Non potrebbe che essere così, visto che siamo diventati attentissimi alle etichette e ai prezzi e lo saremo ancora di più appena ci renderemo conto che, dice Coldiretti, il previsto aumento dell’Iva costerà oltre mezzo miliardo solo per le spese alimentari. Sembra, invece, andare meglio all’estero, visto che l’export alimentare raggiungerà i 31 miliardi.

Risparmio e attenzione, d’altra parte, toccano un po’ tutti gli acquisti. Pare che la maggioranza delle famiglie ricicli gli abiti smessi nel cambio stagione, mentre il 53% ha rinunciato o rimandato le spese di abbigliamento, il 51% ha tagliato viaggi e vacanze, il 48% i ristoranti e le discoteche, il 42% l’acquisto di "nuove tecnologie". Si salvano, per ora, solo le spese destinate ai figli. Così non accade per quelle destinate al commercio equo e solidale, tagliato dell’8%.

Andrea Zaghi, da Avvenire

sabato 20 ottobre 2012

La rivincita di Keynes


di Fabrizio Galimberti, da Il Sole 24 ore del 15 Ottobre 2012

«Le idee degli economisti e dei filosofi della politica, sia quando son giuste che quando son sbagliate, sono più potenti di quanto si creda. In verità, son loro che governano il mondo. Gli uomini di azione, che si credono esenti da ogni influenza intellettuale, son di solito schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, che odono voci nell'aria, distillano le loro frenesie da scribacchini accademici di qualche anno fa…». Dure parole, queste di John Maynard Keynes. Ma son parole che tornano alla mente guardando al dibattito fra sostenitori dell'austerità e i sostenitori della crescita.

Il problema è questo. Quando una crisi economica colpisce un Paese, il suo bilancio pubblico ne soffre. Si tratta di una sofferenza "voluta", dato che con la crisi si riducono le entrate da una parte, e dall'altra aumentano le spese di sostegno al reddito. Il bilancio pubblico vira così "automaticamente" verso il deficit, e fa da baluardo all'involuzione del ciclo: una tendenza, questa, che si chiama appunto «stabilizzazione automatica». Questa virata verso l'inchiostro rosso dei conti è stata forte negli ultimi anni, che hanno visto la peggior crisi economica dagli anni Trenta. Il supporto all'economia è andato al di là degli automatismi: tutti i Paesi hanno preso anche misure discrezionali di supporto.

Ne sono risultati grossi disavanzi che sono appunto alla radice dell'attuale «crisi da debiti sovrani». Come fare per uscire da deficit e debiti? Le economie sono ancora deboli, e le misure ovvie - aumentare le entrate e diminuire le spese - rischiano di mettere sale sulle ferite della crisi. O no?

A questo punto si apre quel dibattito che avrebbe fatto cascare le braccia a Keynes. C'è - o, per fortuna, c'era - una scuola di pensiero dell'«austerità espansionista» che suona così: riducete il deficit e l'economia ripartirà, perché famiglie e imprese, confortate da queste «coraggiose» misure, ritroveranno fiducia e voglia di spendere: la maggiore spesa privata si sostituirà alla minore spesa pubblica e l'economia, alleggerita e salubre, ritroverà la via della crescita. Questa è stata specialmente la posizione della Germania. «Per i tedeschi l'economia è una branca della filosofia morale»: la battuta di Mario Monti evoca una governante arcigna che intende premiare la buona condotta e punire i cattivi, ignorando quel calcolo delle forze e delle resistenze senza il quale, come scrisse Massimo d'Azeglio, «neppure si fa girare la macina d'un mulino».

Le cose, come sappiamo, non stanno andando così. Nei Paesi dove è stata più forte l'austerità imposta da quella improbabile scuola di pensiero l'economia sta soffrendo di più. La polemica sull'eccesso di austerità si è riaccesa a causa di un capitoletto nell'ultimo World Economic Outlook del Fondo monetario. Il box, di cui è autore lo stesso capo-economista del Fmi, Olivier Blanchard, sostiene che i moltiplicatori fiscali sono stati sottostimati. Cosa vuol dire? Vuol dire che quando si prendono misure restrittive, per ridurre il deficit, mettiamo, di 100, si sa che l'economia ne sarà, in prima battuta, danneggiata, poco o tanto. E questo danno veniva quantificato in genere con un moltiplicatore di 0,5: cioè a dire, una riduzione del deficit di 100 riduceva il Pil di 50. Un sacrificio, dicevano i fan dell'austerità, accettabile se vale a riportare i conti sulla retta via. Ma cosa succede se invece il moltiplicatore è di 1,5? Se una riduzione di 100 del deficit riduce il Pil di 150?
Succede che il bilancio non si risana mai, perché il Pil minore riduce le entrate fiscali e crea disoccupazione, con le conseguenze che già sappiamo. E il Fmi ha appunto calcolato che, col senno di poi, i moltiplicatori fiscali possono essere stimati a livelli fra 0,9 e 1,7!

Tutto questo rappresenta una grande rivendicazione delle teorie keynesiane. Un tempo passate di moda, sono tornate in auge per la forza delle cose. Quando la Grande recessione ha colpito, tutti i Paesi hanno adottato risposte keynesiane: aumento del deficit di bilancio. Quando la casa brucia, è inutile discettare di aspettative razionali e altre digressioni teoriche: bisogna far lavorare gli idranti. E ora che bisognava affrontare la coda velenosa della Grande recessione - la crisi da debiti sovrani - il fallimento dell'austerità fine a se stessa è andato suonando come un'altra affermazione delle teorie keynesiane: ridurre la spesa e aumentare le entrate debilita l'economia, non la rafforza.

Ma anche questa affermazione è vera sempre e in tutti i casi? I sostenitori dell'austerità espansionista hanno sempre torto? Andrew Lo, un economista del Mit, affermò un giorno che «la fisica ha tre leggi che spiegano il 99% dei fenomeni, e l'economia ha 99 leggi che spiegano il 3% dei fenomeni». Per far funzionare l'austerità espansionista ci vorrebbero molte condizioni di contorno: la politica economica dovrebbe irradiare concordia e determinazione, spargere fiducia, comunicare sicurezza, rimuovere incertezza... Se i governanti europei non irradiano, non spargono e non comunicano, sappiamo perché l'austerità non funziona.

venerdì 19 ottobre 2012

Sei manovre correttive di bilancio,per produrre solo più danni ....


Il governo Berlusconi e il governo Monti hanno attuato complessivamente sei manovre correttive di bilancio. Il loro impatto, nel triennio 2012-2014, si avvicina ai 130 miliardi di euro. È una cifra spaventosa, ma di poco superiore al gettito evaso ogni anno, che supera i 120 miliardi di euro e di cui non si recupera neppure il 10%. In queste cifre è racchiuso tutto il significato di una politica economica tanto ingiusta quanto controproducente.

di Vladimiro Giacchè, da Pubblico, 17 ottobre 2012

«Al punto in cui siamo, le politiche adottate per risolvere la crisi dell’eurozona stanno facendo più danni di qualunque cosa possa aver causato originariamente quei problemi». Con queste parole l’editorialista del Financial Times Wolfgang Münchau ha salutato giorni fa le più recenti proposte della cosiddetta troika (Fmi, Bce e Commissione europea) per aggiustare i conti della Grecia.

La storia è nota: le misure di austerity sin qui assunte dal governo greco non saranno sufficienti per conseguire gli obiettivi di riduzione del debito prefissati. Questo perché il prodotto interno lordo greco nel 2013 crollerà di un altro 5 per cento, anziché “soltanto” del 3,8 per cento previsto dal governo. E quindi non soltanto il debito non si ridurrà, ma anche l’obiettivo di conseguire un avanzo primario (prima del pagamento degli interessi sul debito) sarà mancato.

Il problema, fa osservare Münchau, è che quel crollo è dovuto in primo luogo proprio alle misure di austerity adottate. Ma questo la troika si ostina a ignorarlo. Così, quando «gli obiettivi economici vengono mancati, si applicano dosi maggiori di austerità, il che provoca una caduta ulteriore del pil, seguita da un ulteriore fallimento nel conseguire gli obiettivi», e così via. Questo è il girone infernale in cui sono ormai precipitati paesi come la Grecia, la Spagna e il Portogallo.

Con l’ennesima manovra messa in campo dal governo Monti, l’Italia scende un ulteriore gradino di quel girone. Per una strana ironia, questo avviene negli stessi giorni in cui lo stesso Fondo monetario internazionale corregge i suoi calcoli sul «moltiplicatore fiscale», ossia sull’impatto delle manovre fiscali sulla crescita economica di un paese. E rivela che quell’impatto è più che doppio rispetto a quanto lo stesso Fondo aveva stimato in passato.

Una manovra fiscale che valga l’1% del Pil comporta una contrazione della crescita in media superiore al 1% (sino all’1,7%). Il prodotto perduto è insomma superiore al beneficio fiscale. Si deprime l’economia, la disoccupazione aumenta, cala la domanda, e con esse le stesse entrate fiscali. È quanto è successo anche in Italia, dove infatti il gettito dell’Iva è diminuito di oltre l’1% nonostante un aumento dell’aliquota dell’1%. Tutto questo finisce per peggiorare la situazione del debito pubblico.

Ma il governo tecnico prosegue imperterrito sulla sua strada: e se originariamente la stretta di bilancio doveva impedire l’aumento dell’Iva, ora decide di fare entrambe le cose. Come contropartita, ritocca le tasse sulle aliquote più basse, ben sapendo che il beneficio conseguente per i più poveri sarà più che controbilanciato dalla progressiva abolizione di gran parte delle detrazioni fiscali (ad esempio per spese mediche).

Il governo Berlusconi e il governo Monti hanno attuato complessivamente sei manovre correttive di bilancio. Il loro impatto, nel triennio 2012-2014, si avvicina ai 130 miliardi di euro. È una cifra spaventosa, ma di poco superiore al gettito evaso ogni anno, che supera i 120 miliardi di euro e di cui non si recupera neppure il 10%. In queste cifre è racchiuso tutto il significato di una politica economica tanto ingiusta quanto controproducente.

(19 ottobre 2012)

Conto Corrente, dal 31 ottobre lo Stato saprà tutto di te


Ancora pochi giorni e poi sarà rivoluzione per chi un conto corrente lo possiede. Dal prossimo 31 ottobre, entreranno in vigore le disposizioni contenute nell’articolo 11 del decreto Salva Italia. In pratica ci sarà la comunicazione dei dati contabili all’anagrafe tributaria da parte di banche e operatori finanziari. Sapranno tutto di noi dal punto di vista finanziario: ogni singolo centesimo di euro speso o semplicemente prelevato, spostato, sarà oggetto di attenzione da parte dei burocrati.

L’Agenzia delle Entrate, in questo modo, disporrà di una quantità di informazioni e potere abnormi, mai avuti sino ad oggi. Banche, Poste italiane, intermediari finanziari, Assicurazioni, società di gestione del risparmio e qualsiasi altro operatore finanziario, dovranno segnalare al fisco tutte le informazioni relative ai conti e ai rapporti finanziari, compresi movimenti e importi delle operazioni. Una sorta di grande fratello fiscale, voluto da Mario Monti con il pretesto della lotta all’evasione, quando sappiamo benissimo che i veri evasori sono quelli che esportano il denaro nei paradisi. Decine di miliardi di euro ogni anno. Soli che per lo Stato italiano, in pratica, non esistono e che recuperare è al limite dell’impossibile. Tanto, prima o poi, ci scappa un “bello” scudo fiscale…
Come spiega il quotidiano Libero, “i dati potranno prendere due vie. Una porta al redditometro, il mostruoso meccanismo che, stando alle intenzioni degli ideatori, sarebbe addirittura in grado di prevedere una nostra futura evasione, elaborando in anticipo quale sarebbe il nostro profilo di contribuente “congruo”. In sostanza Serpico, che dietro la minacciosa immagine del superpoliziotto nasconde l’acronimo Servizio per le informazioni sul contribuente, sulla base delle nostre spese e del nostro stile di vita sa prima di noi quante tasse dovremo pagare. Se poi la cifra non coincide potrebbero essere guai, soprattutto se non sarete in grado di dimostrare, ricevute alla mano, per quale motivo avete pagato meno tasse di quelle stabilite dal vostro algoritmo.”

Aggiungete a tutto ciò che il governo Monti ha in programma di abolire le banconote da 50 euro dal 2013 e il quadro è completo.

fonte : da www.controcopertina.com

La causa primaria del cancro


Tratto da “L’altra medicina Magazine”

Pochissime persone in tutto il mondo lo sanno, perché questo fatto è nascosto dall’industria farmaceutica e alimentare.
Nel 1931 lo scienziato tedesco Otto Heinrich Warburg ha ricevuto il Premio Nobel per la scoperta sulla causa primaria di cancro.
Proprio così. Ha trovato la causa primaria del cancro e ha vinto il Premio Nobel.
Otto ha scoperto che il cancro è il risultato di un potere anti-fisiologico e stile di vita antifisiologico.
Perché?

Poiché sia con uno stile anti-fisiologico nutrizionale (dieta basata su cibi acidificanti) e l’inattività fisica, il corpo crea un ambiente acido.
(Nel caso di inattività, per non avere una buona ossigenazione delle cellule.)
L’acidità della cellule espelle ossigeno.
La mancanza di ossigeno nelle cellule crea un ambiente acido.
Egli ha detto: “La mancanza di ossigeno e l’acidità sono due facce della stessa medaglia:. Se una persona ha uno, ha anche l’altro”
Cioè, se una persona ha eccesso di acidità, quindi automaticamente avrà mancanza di ossigeno nel suo sistema.
Se manca l’ossigeno, avrete acidità nel vostro corpo.

Egli ha anche detto:
“Le sostanze acide respingono ossigeno, a differenza delle alcaline che attirano ossigeno.”
Cioè, un ambiente acido è un ambiente senza ossigeno.
Egli ha dichiarato:
 “Privare una cellula del 35% del suo ossigeno per 48 ore, è possibile convertire in un cancro.”
“Tutte le cellule normali, hanno il bisogno assoluto di ossigeno, ma le cellule tumorali possono vivere senza ossigeno”. (Una regola senza eccezioni.)
“I tessuti tumorali sono acidi dei tessuti, mentre i tessuti sani sono alcalini.”
Nella sua opera “Il metabolismo dei tumori,” Otto ha mostrato che tutte le forme di cancro sono caratterizzate da due condizioni fondamentali: acidosi del sangue (acido) e ipossia (mancanza di ossigeno).

Ha scoperto che le cellule tumorali sono anaerobiche (non respirano ossigeno) e non possono sopravvivere in presenza di alti livelli di ossigeno.
Le cellule tumorali possono sopravvivere soltanto con glucosio e in un ambiente privo di ossigeno.
Pertanto, il cancro non è altro che un meccanismo di difesa che ha alcune cellule del corpo per sopravvivere in un ambiente acido e privo di ossigeno.
In sintesi:
Le cellule sane vivono in un ambiente ossigenato e alcalino che consente il normale funzionamento.
Le cellule tumorali vivono in un ambiente acido e carente di ossigeno.

Importante:

Una volta terminato il processo digestivo, gli alimenti, a secondo della qualità di proteine, carboidrati, grassi, vitamine e minerali, forniscono e generano una condizione di acidità o alcalinità nel corpo. in altre parole ….. dipende unicamente da ciò che si mangia.
Il risultato acidificante o alcalinizzante viene misurata da una scala chiamata PH, i cui valori vanno da da 0 a 14, con un pH neutro 7.
E ‘importante sapere come gli alimenti acidi e alcalini influiscono sulla salute, poiché le cellule..per funzionare correttamente dovrebbe essere di un ph leggermente alcalino(poco di sopra al 7).
In una persona sana, il pH del sangue è compreso tra 7.4 e 7.45.
Se il pH del sangue di una persona inferiore 7, va in coma.

Gli alimenti che acidificano il corpo:
* Lo zucchero raffinato e tutti i suoi sottoprodotti. (E’ il peggiore di tutti: non ha proteine, senza grassi, senza vitamine o minerali, solo carboidrati raffinati che schiaccia il pancreas)
Il suo pH è di 2,1 (molto acido)
* Carne. (Tutte)
* Prodotti di origine animale (latte e formaggio, ricotta, yogurt, ecc)
* Il sale raffinato.
* Farina raffinata e tutti i suoi derivati. (Pasta, torte, biscotti, ecc)
* Pane. (La maggior parte contengono grassi saturi, margarina, sale, zucchero e conservanti)
* Margarina.
* Soft.
* Caffeina. (Caffè, tè nero, cioccolato)
* Alcool.
* Tabacco. (Sigarette)
Antibiotici * e medicina in generale.
* Qualsiasi cibo cotto. (Cottura elimina l’ossigeno e si trasforma in acido. Anche le verdure cotte)
* Tutti alimenti trasformati, in scatola, contenenti conservanti, coloranti, aromi, stabilizzanti, ecc.

Costantemente il sangue si autoregola per non cadere in acidosi metabolica garantire il buon funzionamento e ottimizzare il metabolismo cellulare.
Il corpo deve ottenere delle basi minerali alimentari per neutralizzare l’acidità del sangue nel metabolismo, ma tutti gli alimenti già citati
(Per lo più raffinati) acidificano il sangue e ammorbidiscono il corpo.
Dobbiamo tener conto che il moderno stile di vita di questi cibi vengono consumati almeno 3 volte al giorno, 365 giorni l’anno e tutti questi alimenti sono anti-fisiologici.

Gli alimenti alcalinizzanti:
* Tutte le verdure crude. (Alcune sono acide al gusto, ma all’interno la reazione corpo è alcalinizzante. Altre sono un po acide, tuttavia, forniscono le basi necessarie per il corretto equilibrio)
Verdure crude producono ossigeno, quelle cotti no.
* I Frutti, stessa cosa. Ad esempio, il limone ha un pH di circa 2,2, tuttavia, all’interno del corpo ha un effetto altamente alcalino. (Probabilmente il più potente di tutti)
(non fatevi ingannare dal sapore acidulo)
* I frutti producono abbastanza ossigeno.
* Alcuni semi, come le mandorle sono fortemente alcalini.
* I cereali integrali:
L’unico cereale alcalinizzante è il miglio. Tutti gli altri sono leggermente acida, tuttavia, siccome la dieta ideale ha bisogno di una percentuale di acidità, è bene consumare qualcuno.
Tutti i cereali devono essere consumati cotti.
Il miele è altamente alcalinizzante.
* La clorofilla la pianta è fortemente alcalina.
(Da qualsiasi pianta) (in particolare aloe vera, aloe noto anche come)
* L’acqua è importante per la produzione di ossigeno.
“La disidratazione cronica è la tensione principale del corpo e la radice della maggior parte tutte le malattie degenerative.” Lo afferma il Dott. Feydoon Batmanghelidj.
* L’esercizio ossigena tutto il corpo.
Uno stile di vita sedentario.

L’ideale è avere una alimentazione di circa il 60% alcalina piuttosto che acida, e, naturalmente, evitando i prodotti più altamente acidi, come bibite, zucchero raffinato e dagli edulcoranti.
Non abusare del sale o evitarlo il più possibile.
Per coloro che sono malati, l’ideale è che l’alimentazione sia di circa 80% alcalina, eliminando tutti i prodotti più nocivi.
Se c’è  il cancro, il compito è quello di alcalinizzare il massimo possibile.
Inutile dire altro, non è vero?
Dr. George W. Crile, di Cleveland, uno dei chirurghi più rispettati al mondo, dichiara apertamente:
“Tutte le morti chiamate naturali non sono altro che il punto terminale di un saturazione di acidità nel corpo.”
Come precedentemente accennato, è del tutto impossibile per il cancro di comparire in una persona che libera il corpo dagli acidi con una dieta alcalina, che aumenta il consumo di acqua pura e che eviti i cibi che producono acido.
In generale, il cancro non si contrae e nemmeno si eredita. Ciò che si eredita sono le abitudini alimentari, ambientali e lo stile di vita. Questo può produrre il cancro.

Mencken ha scritto:
“La lotta della vita è contro la ritenzione di acido”.
“Invecchiamento, mancanza di energia, stress, mal di testa, malattie cardiache, allergie, eczema, orticaria, asma, calcoli renali, arteriosclerosi, tra gli altri, non sono altro che l’accumulo di acidi”.
Dr. Theodore A. Baroody ha detto nel suo libro “Alcalinizzare o morire” (alcaline o Die):
in realtà, non importano i nomi delle innumerevoli malattie. Ciò che conta è che essi provengono tutti dalla stessa causa principale:. Molte scorie acide nel corpo”
Dr. Robert O. Young ha detto:
“L’eccesso di acidificazione nell’organismo è la causa di tutte le malattie degenerative. Se succede una perturbazione dell’equilibrio e un corpo inizia a produrre e immagazzinare più acidità e rifiuti tossici di quelli che è in grado di eliminare allora le malattie si manifestano.”

E la chemioterapia?
La chemioterapia acidifica il corpo a tal punto che ricorre alle riserve alcaline del corpo immediatamente per neutralizzare l’acidità tale, sacrificando basi minerali (calcio, magnesio e potassio) depositati nelle ossa, denti, articolazioni, unghie e capelli.
Per questo motivo osserviamo tali alterazioni nelle persone che ricevono questo trattamento e tra le altre cose la caduta dei capelli.
Per il corpo non vuol dire nulla va senza capelli, ma un pH acido significherebbe la morte.
Niente di tutto questo è descritto o raccontato perché, per tutte le indicazioni, l’industria del cancro (leggi: industria farmaceutica) e la chemioterapia sono alcune delle attività più remunerative
che esistano..Si parla di un giro multi-milionario e i proprietari di queste industrie non vogliono che questo sia pubblicato.

Tutto indica che l’industria farmaceutica e l’industria alimentare sono un’unica entità e che ci sia una cospirazione in cui si aiuta l’altro al profitto.
Più le persone sono malate, più sale il profitto dell’industria farmaceutica.
E per avere molte persone malate serve molto cibo spazzatura tanto quanto l’industria alimentare produce.
Quanti di noi hanno sentito la notizia da qualcuno che ha il cancro e quando qualcuno dice: “… Può capitare a chiunque …”
No, non poteva!

“Che il cibo sia la tua medicina, la medicina sia il tuo cibo”.
Ippocrate (il padre della medicina ).


martedì 16 ottobre 2012

Una spenta idea del nostro Paese


LA VISTA CORTA DELLA POLITICA

Il Paese è nella gabbia della politica dei partiti, ogni giorno succede di tutto ma da anni non cambia nulla

Una gabbia d'acciaio intorno a un corpo piagato, che con la scusa di sorreggerlo in realtà lo tiene prigioniero aggravandone le piaghe: questo oggi è il rapporto in Italia tra la politica e i partiti da un lato, e la compagine sociale dall'altra. Non ci sono cattivi da una parte e buoni dall'altra, no: semplicemente un morto che tiene un vivo che vuole vivere. Il Paese è nella gabbia della politica dei partiti, destinato dalla loro immobilità ad un «presentismo», come lo ha chiamato Roberto Esposito, nel quale ogni giorno succede di tutto ma da anni non cambia nulla. Mai nulla di sostanziale. Consumata nel 1991-93 la frattura con le culture storiche del nostro Novecento (il socialismo, il fascismo, il cattolicesimo politico, il comunismo gramsciano), da allora la politica della Seconda Repubblica è immersa in un torpido presente senza vita. Da vent'anni non è più in grado di immaginare alcun futuro per il Paese, di offrirgli una visione.

Il motivo più vero e profondo è principalmente uno: perché la politica ha smarrito il senso del passato; perché nei suoi attori e nei suoi istituti - come del resto in tanta parte del Paese - si è spenta ogni idea d'Italia e della sua storia; di che cosa sia l'Italia. Distruggere un paesaggio o deturpare una piazza; lasciare che biblioteche, archivi, musei, siti archeologici si sperdano e di fatto muoiano o cadano in rovina; accettare che nomi e luoghi antichi del lavoro e dell'industriosità italiana siano acquisiti dall'estero; consentire che il sistema d'istruzione escluda sempre più dai suoi programmi interi segmenti della cultura nazionale (a cominciare dalla lingua); è questo il vuoto che abbiamo creato, presi troppo spesso dalla fregola insulsa che ciò volesse dire essere «moderni». Senza capire che sul vuoto, però, è impossibile costruire; e che poi, a riempirlo, non bastano le mitologie d'accatto.

Dobbiamo ricominciare dall'Italia, ritornare a guardare ad essa. Sì, l'Europa naturalmente, ma è qui, entro di noi, nella nostra storia, che qualcosa si è inceppato, ed è da qui che dobbiamo ricominciare: dalla necessità di ricostruire un filo e un legame con il passato, di tornare a pensare a ciò che siamo stati. L'unica speranza che il Paese stia in piedi e reagisca, oggi risiede nella sua consapevolezza della propria identità. Non per accrescere il Pil o la produttività, infatti; non per fare i compiti richiesti da qualche lontano maestro; ma solo in nome di un'idea di sé e del proprio destino una comunità può essere chiamata a fare i sacrifici più duri e trovare la forza di rialzarsi. Dobbiamo ricordare quanto ci è costato arrivare fin qui: la nostra originaria miseria, le lotte per vincerla, i morti disseminati lungo tutte le sanguinose vie del Novecento; ma pure le idee, le immagini, i libri, le musiche che sono usciti da questi luoghi. Così come dobbiamo ricordare che la politica non è sempre stata ladrocini, corruzione o ideologie dissennate, ma ha pure voluto dire speranze di libertà e movimenti di emancipazione, intelligenza del mondo, mobilitazione di passioni e di solidarietà, capacità di darsi ad una causa.

Se vuole avere un futuro, l'Italia ha bisogno di tornare a credere in se stessa, e per far ciò ha bisogno di ritrovare quel senso e quel ricordo di sé che ha smarrito. È su questo tavolo che al di là di ogni cosa si giocherà la vera partita del prossimo confronto elettorale. L'alternativa è una sottile disperazione, e il rassegnato governo del declino.

di Ernesto Galli Della Loggia, dal Corriere
16 ottobre 2012 |

I dilemmi del leader e il mezzo effetto-valanga


di MARCELLO SORGI,dalla Stampa
Diciamo la verità, nessuno si aspettava un “effetto valanga”. Ma se la mossa di Walter Veltroni, che domenica ha annunciato che non si ricandiderà in Parlamento alle prossime elezioni, puntava anche a mettere in imbarazzo i suoi compagni del gruppo dirigente con maggiore anzianità parlamentare e maggior numero di deroghe alla regola delle tre legislature, l’effetto c’è stato solo in parte.
Interrogato il giorno dopo, Massimo D’Alema, vale a dire il principale obiettivo della campagna di Matteo Renzi sulla “rottamazione” del gruppo dirigente del Pd, non si tira indietro e sposta la responsabilità delle scelte sul segretario. Fosse per lui non si candiderebbe, ma se il partito dovesse chiederglielo... Va da sé che tocca a Bersani decidere se sollecitare o meno le candidature più contestate. E in un modo o nell’altro il segretario, impegnato nella campagna per le primarie, dovrà pronunciarsi, perchè un suo silenzio non sarebbe accettabile, mentre il suo principale avversario plaude a Veltroni che ha deciso di farsi da parte e continua a battere per spingere i “rottamandi” verso l’uscita.

Gli interessati si sono perfettamente riconosciuti nella linea dettata dal “vecchio” Max. A parte qualche sporadico annuncio di addio, come quello dell’ex ministro Tiziano Treu, gli altri, come (ma non solo loro) Anna Finocchiaro o Livia Turco, condividono l’idea che debba essere il partito a dire se è opportuno o meno che un dirigente di lungo corso si ricandidi. Ma il vero problema è che a parte quella delle deroghe, non esistono nel Pd criteri o meccanismi per valutare. Finora, complice il Porcellum, la segreteria s’è sempre riservata una trentina di eccezioni al tetto delle tre legislature e il resto lo ha deciso meccanismo correntizio che fa sì che al tavolo in cui vengono decise le candidature, e di conseguenza gli eletti, ogni componente interna presenti il suo elenco. Ma adesso la campagna delle primarie rischia di svolgersi in gran parte sul meccanismo del “vecchio” e del “nuovo”, avvantaggiando così oltre il previsto Renzi.

Inoltre Bersani ha tutto l’interesse a pronunciarsi su una materia così delicata solo dopo che si capirà se la legge elettorale che ha mosso i primi passi in Senato arriverà a destinazione o no, e soprattutto se raggiungerà il traguardo con gli stessi connotati con cui è partita da Palazzo Madama. Basta solo pensare alle preferenze, che, se reintrodotte, toglierebbero di mezzo il problema, perchè il leader del Pd potrebbe promuovere il rinnovamento nelle teste di lista, lasciando ai “vecchi” le posizioni più difficili da rimontare, e agli elettori il compito di scegliere se riammetterli o meno in Parlamento.

lunedì 15 ottobre 2012

Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti



di Italo Calvino*

C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia.

Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.

Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.

Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere.
Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri.

Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche (e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.

In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.

Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.

Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede. Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile.

Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.

* da Repubblica, 15 marzo 1980 e in “Romanzi e racconti, volume terzo, Racconti e apologhi sparsi”, Meridiani, Mondadori

Nota biografica – Italo Calvino nasce a Santiago de Las Vegas (Cuba) nel 1923 e si trasferisce con la famiglia nel 1925 a San Remo. Si unisce ai partigiani durante la II Guerra Mondiale e, in questo contesto, nasce la sua prima opera “I sentieri dei nidi di ragno” (1947). Successivamente diventa un attivista del Pci, una militanza politica proseguita fino al 1956. Considerato uno dei più interessanti autori contemporanei, negli anni Settanta comincia a collaborare come editorialista al “Corriere della sera” prima e “la Repubblica” poi. Muore a Castiglione della Pescaia nel 1985. Tra le sue opere, la trilogia dei Nostri Antenati “Il cavaliere inesistente”, “Il barone rampante”, “Il visconte dimezzato”, “Marcovaldo”, “Le cosmicomiche”, “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, fino al saggio “Lezioni americane” uscito postumo nel 1989.

sabato 13 ottobre 2012

Se il fisco è più iniquo di prima


di LUCA RICOLFI, dalla Stampa
Ci sono voluti un paio di giorni per raccapezzarsi, ma alla fine il quadro è diventato abbastanza chiaro.

I conti li abbiamo fatti e rifatti un po’ tutti: quotidiani, centri studi, esperti economici, sindacati, associazioni dei consumatori. E alla fine dei conti è difficile non essere arrabbiati, innanzitutto con noi stessi. Perché per un attimo ci eravamo illusi, per un attimo avevamo voluto credere che finalmente, con questa manovra (detta «Legge di stabilità»), l’insopportabile pressione fiscale che grava sul nostro sfortunato Paese potesse cominciare a diminuire, sia pure di pochissimo. O che, almeno, la distribuzione del carico fiscale sarebbe diventata più favorevole alla crescita, o anche solo un tantino più giusta. E invece no, niente di tutto questo.
Prima di commentare, però, ricapitoliamo i punti fermi. Primo: nonostante la sbandierata diminuzione dell’Irpef, la pressione fiscale complessiva sulle famiglie aumenta leggermente.

A regime, infatti la lieve diminuzione dell’aliquota Irpef è più che compensata dalla somma delle misure che aumentano il prelievo: scomparsa di alcune deduzioni e detrazioni, introduzione di franchigie e, soprattutto, ulteriore aumento dell’Iva.

Secondo: il grosso della manovra tocca famiglie (con le riduzioni Irpef) e consumatori (con l’aumento dell’Iva), ma lascia sostanzialmente invariata la pressione fiscale sui produttori, peraltro già vessati nelle manovre precedenti. Difficile pensare che una miscela di questo tipo possa stimolare la crescita.

Terzo punto: la distribuzione del carico fiscale è più iniqua di prima. Questo è un punto un po’ tecnico, ma ne voglio parlare lo stesso, perché a prima vista sembrerebbe vero il contrario. Il governo ha infatti presentato la sua manovra come una boccata d’ossigeno ai ceti bassi, in quanto le aliquote che sono state abbassate (di 1 punto) sono le prime, quella del 23% e quella del 27%. Quel che non si dice, tuttavia, è che le riduzioni del prelievo sui primi «scaglioni» di reddito riguardano tutti, anche chi guadagna 50 o 100 mila euro l’anno.

Facciamo un esempio concreto: un lavoratore che guadagna 18 mila euro avrà uno sconto di 180 euro l’anno (15 euro al mese), ma un lavoratore che guadagna il doppio, ossia 36 mila euro, avrà uno sconto di 280 euro (23 euro al mese), perché percepirà interamente gli sconti previsti sui primi due scaglioni (fino a 28 mila euro). Per il fisco, infatti, ogni reddito è la somma di tanti «pezzi» di reddito (gli scaglioni, appunto), ciascuno dei quali è tassato con una sua aliquota: quindi se un governo abbassa l’aliquota sullo scaglione più alto il beneficio va solo ai ricchi, ma se abbassa l’aliquota sugli scaglioni più bassi il beneficio non va solo ai poveri bensì a tutti, perché il reddito di un ricco è la somma di tanti «pezzi» di reddito, ciascuno tassato con la sua aliquota. In breve la manovra non concentra affatto i benefici sui ceti bassi, ma li spalma un po’ su tutti.

Ma davvero su tutti? Assolutamente no, perché dalla riduzione delle aliquote restano esclusi i poverissimi, ossia coloro che guadagnano così poco da essere completamente esentasse (i cosiddetti incapienti). Come sempre lo strumento fiscale è impotente verso chi sta fuori del circuito del fisco, ossia evasori e veri poveri.
Si potrebbe pensare che però almeno i ceti medio-bassi, ossia chi guadagna fra 8 e 28 mila euro (e dunque non è né incapiente né ceto medio), abbia comunque un beneficio. Ancora una volta, sembra ma non è: i soldi per abbassare le aliquote verranno trovati anche eliminando o attenuando vari sconti fiscali preesistenti, con il risultato di annullare o decurtare il già misero regalo di 10 o 15 euro al mese.

Se poi a tutto ciò aggiungiamo l’aumento di un punto dell’Iva, che scatterà nella seconda metà del 2013 (ossia dopo le elezioni, guarda caso), è facile dedurne che la pressione fiscale aumenterà su quasi tutti i contribuenti, e in misura massima sui poverissimi, che non solo non potranno usufruire di alcun beneficio fiscale (perché non versano tasse), ma pagheranno l’aumento dell’Iva nella veste di consumatori, e lo faranno in misura maggiore di qualsiasi altro gruppo sociale, visto che la propensione al consumo è ovviamente massima là dove non vi è alcuna possibilità di risparmiare.

Quarto punto: mentre tutti i benefici fiscali previsti sono futuri, la soppressione degli sconti in vigore (detrazioni e deduzioni) scatta già sui redditi del 2012, e dunque è retroattiva, essendo tali redditi in massima parte già maturati (siamo a ottobre, e la legge sarà approvata a fine anno).

Di tutta la manovra fiscale quel che più mi ha colpito è proprio la consapevole spudoratezza (o «arroganza fiscale», come l’ha definita Il Sole 24 Ore di ieri) con cui quest’ultimo schiaffo al cittadino viene annunciato: nell’articolo 12 della bozza di legge di stabilità si dice che le norme che sopprimono gli sconti fiscali sono introdotte «in deroga» allo Statuto dei diritti del contribuente (la legge del 2000 che tutela i cittadini dagli abusi dello Stato in materia fiscale). E’ veramente il colmo: un governo che bacchetta gli italiani per il loro scarso senso civico pare non sapere che è lo Stato stesso ad essere criminogeno, quando diventa arrogante e predatore.

E ora veniamo ai commenti. Ne avrei tanti, ma sarebbero troppo amari. Perciò mi limiterò a un’osservazione: con quest’ultima mossa, a mio parere, il governo Monti ha definitivamente mostrato il suo volto politico. L’espressione «governo tecnico» gli si addice sempre di meno, perché al di là dell’indubbia qualità professionale dei suoi membri, di gran lunga superiore a quella degli esecutivi del passato, la somiglianza con i governi politici che l’hanno preceduto è sempre più marcata ed evidente. Lo è nei contenuti, perché questa manovra assomiglia tantissimo ai giochi di prestigio cui i politici della Seconda Repubblica ci avevano abituato in occasione di ogni manovra: varare con una mano misure popolari e nascondere con l’altra le misure impopolari con cui le si finanzia. Ma lo è ormai anche nello stile: vedendoli onnipresenti in televisione, nei convegni, nei talk show, avendo registrato con imbarazzo la sceneggiata dell’altra notte a Ballarò (con annunci, smentite e autosmentite fra membri del governo), ormai mi pare chiaro che molti ministri e sottosegretari di questo governo sono già in campagna elettorale, e lo sono prima ancora dei politici di professione da cui, noi elettori, speravamo imparassero il meno possibile. Ma in fondo che male c’è? Evidentemente ai professori la politica piace, e quanto all’imparare, è ovvio, nessuno è più bravo di loro.