lunedì 30 luglio 2012

Sanità, strutture da ripensare e ricoveri brevi


di UMBERTO VERONESI, dalla Stampa

Penso che le liste d’attesa in sanità siano un problema strutturale che non può essere risolto con interventi regolatori estemporanei: decreti e ingiunzioni che stabiliscono tempi massimi non servono. Bisogna intervenire sulle cause e le condizioni che creano nelle strutture ospedaliere l’impossibilità di rispondere al bisogno reale di salute dei cittadini.

Da tempo affermo che è necessaria una ristrutturazione profonda del sistema ospedaliero, che rifletta più fedelmente la medicina moderna. Il ruolo dell’ospedale va ripensato nel suo insieme . Innanzitutto la diagnostica deve essere separata dalla terapia e deve essere accessibile «sotto casa», per fare in modo che ogni cittadino abbia la possibilità di ottenere una diagnosi tempestiva, senza dover affrontare grandi spostamenti. L’ospedale deve svolgere due funzioni : l’ approfondimento diagnostico e la terapia. Deve essere altamente tecnologizzato e contemplare ricoveri brevi per avere un ricambio frequente di pazienti, che devono restare in ospedale lo stretto tempo necessario per ricevere le cure adatte alla fase «acuta» della loro malattia.

E qui sta la chiave per risolvere il problema delle liste d’attesa : la degenza media in ospedale, dai sei/sette giorni attuali deve ridursi a tre/quattro giorni. Per ottenere questo e dimettere i pazienti precocemente, dovrebbe sorgere nelle vicinanze dell’ospedale una struttura di «accoglienza protetta», dove i pazienti possono restare il periodo che occorre per una buona ripresa, senza occupare un letto necessario per chi si deve sottoporre ad un intervento terapeutico. Questa è la soluzione adottata dai sistemi sanitari più avanzati a livello internazionale ed ha dimostrato di essere ottima per una efficienza globale del sistema ospedaliero. Con una rete diagnostica territoriale e la riduzione drastica della degenza media, il problema delle liste d’attesa per esami e ricoveri si annullerebbe automaticamente.

La liste d’attesa sono un problema quasi ovunque e non credo siano influenzate dalla Spending Review. Stiamo parlando di riorganizzare e razionalizzazione un sistema complesso, in fase di profonda trasformazione in tutto il mondo. Bisogna anche sottolineare che questa trasformazione è difficoltosa, ma estremamente positiva per i malati e i loro familiari. Il principio fondante della concezione di ospedale moderno è infatti, accanto all’eccellenza della cura, l’ attenzione alla qualità di vita della persona, un parametro fino a ieri inesistente nella progettazione ospedaliera. Certo, la soluzione strutturale profonda ai problemi sanitari richiede un investimento pubblico che in questo momento sembra un’utopia. Al contrario, proprio ora, io credo che sia un dovere investire nel rilancio dei lavori pubblici - in particolare in un’area strategica come la sanità che possono fare da volano a molti settori e contribuire a ridarci il bene più prezioso che la temporanea situazione di crisi ci ha sottratto : la fiducia nel futuro.

giovedì 26 luglio 2012

Un’antica diversità


EUROPA TEDESCA E MEDITERRANEA

Almeno un merito alla crisi economica che oggi squassa l’Unione Europea va riconosciuto: quello di obbligare a ripensare dalle fondamenta il modo in cui essa è nata e cresciuta. Solo così sarà possibile trovare una via d’uscita. Ma è un compito che tocca alle opinioni pubbliche, agli studiosi e agli osservatori indipendenti, dal momento che le leadership politiche europee lo evitano accuratamente, impegnate come sono ad impiegare il proprio tempo unicamente nel rimbalzare da un vertice all’altro, indicato ogni volta come risolutivo e ogni volta, però, destinato a non risolvere nulla.

Ripensare la costruzione europea, dunque. Oggi è chiaro, ad esempio, che alla sua origine vi fu un atto di temeraria cecità geopolitica. La conclusione della II Guerra mondiale e il sequestro da parte dell’Unione Sovietica dell’intera parte orientale del continente furono l’elemento decisivo che portò a considerare Italia, Francia, Germania e Benelux come realtà omogeneamente «europee ». In verità esse lo erano solo per un motivo: perché tutte erano allora gravitanti nella sfera d’influenza degli Stati Uniti, non per altro. Solo la riconosciuta egemonia americana da parte delle loro classi dirigenti dell’epoca conferiva insomma a quell’organismo un carattere «occidentale ».

La concezione dell’Europa alla base dei Trattati di Roma cancellava di fatto almeno due aspetti decisivi: l’esistenza da un lato di un’«Europa mediterranea » (allora soltanto l’Italia, ma che con Spagna, Grecia, Portogallo, Malta e Cipro sarebbe poi divenuta una realtà di rilievo), e dall’altro di un’«Europa tedesca » incentrata sulla Germania ma in realtà estesa dalla Scandinavia all’Olanda, all’Austria, alla Slovenia. Quella concezione cancellava l’esistenza di due Europe con storie, società, tradizioni assai diverse. Due Europe da secoli unite sì da valori comuni, ma quasi quanto divise da conflitti: con la differenza, però, che i primi erano patrimonio quasi esclusivo di ristrette élite, mentre i secondi, invece, avevano radici vastissime e profonde. Due Europe, la cui esistenza effettiva la Comunità prima (la Cee) e la Unione dopo (la Ue) sono riuscite ad occultare, per anni e anni, servendosi sia di un fragile mantello ideologico — l’«Occidente» — sia di una apparentemente più solida prospettiva generale, l’economia: tutta l’area comunitaria s’identificava infatti con il capitalismo, era interessata al suo sviluppo, si riconosceva nelle sue regole.

Ma sia il mantello ideologico che la prospettiva generale appaiono oggi in frantumi: finito lo scontro Usa-Urss, l’«Occidente» è divenuto una categoria sempre più evanescente; mentre l’economia, sottoposta alle tensioni della globalizzazione, si sta rivelando un fattore assai più di scollamento che di unificazione. E così oggi riprendono il sopravvento la geografia, la politica e con esse la storia. Sulla finta capitale Bruxelles riprendono il sopravvento le capitali vere del continente: Berlino, Parigi, Madrid, Roma. E torna a prevalere una diversità antica. Oggi, infatti, riappare in tutta la sua drammatica evidenza la diversità tra l’«Europa tedesca » e l’«Europa mediterranea » (con la Francia a metà tra le due); a complicare ulteriormente le cose ci si aggiunge pure, grazie al dissennato allargamento a Est, la radicale diversità dell’«Europa balcanica».

Qui da noi, nell’«Europa mediterranea », la modernità democratica è nata assai di recente dovendo fare i conti non solo con passati fascistico-autoritari — dalla Grecia alla Spagna, all’Italia appunto—ma con società dai caratteri per più versi ostili ovvero estranei ai suoi valori, nelle quali dominavano antiche e diffuse povertà, una debole cultura civica, legami personali soverchianti e insieme l’individualismo più restio, particolarismi tenaci, una tradizione di governo lontana dallo Stato di diritto. Tutti questi elementi hanno consentito, sì, che i meccanismi consensualistico- democratici si affermassero, ma al prezzo di un ruolo crescente e pervadente dell’intermediazione politica. A Sud delle Alpi e dei Pirenei, per ottenere successo, la democrazia è stata spinta a diventare fin dall’inizio, e sempre di più, una democrazia dei benefici, delle elargizioni, delle sovvenzioni, degli stipendi: a diventare una democrazia della spesa (e quindi, alla lunga, del debito) alimentando uno spirito pubblico conseguente.

Così come le sue classi politiche sono state progressivamente spinte a occupare spazi collettivi di ogni tipo (spesso addirittura a crearli) facendosi forti per l’appunto delle risorse di cui avevano la disponibilità. La bancarotta della Grecia, la drammatica crisi finanziaria esplosa contemporaneamente in molte, importanti autonomie locali di Italia e Spagna, unitamente all’immane debito pubblico e privato di entrambi i Paesi, sono di certo un fatto di malcostume e di leggerezza dei loro governanti. Ma non solo. Rappresentano anche la realtà di una condizione storica: della condizione storica in cui si è affermata la democrazia in questa parte del continente.

È ovvio che i «mercati» non se ne curino più di tanto. È invece sbagliato che noi, cittadini dell’Europa mediterranea, a cominciare da noi italiani, non facciamo nulla per spiegare queste cose ai nostri amici europei, ai nostri amici tedeschi: che per esempio non impegniamo in questo senso la nostra diplomazia con un’appropriata azione culturale. Sia chiaro: non per invocare impossibili indulgenze (con la mafia e la corruzione, per esempio, dobbiamo solo impegnarci più che mai a farla finita), ma per ricordare che in Europa la democrazia non è una pianta autoctona. Per radicarla c’è stato bisogno qualche volta di un deficit di duemila miliardi, altrove il prezzo è stato Auschwitz, quasi dappertutto è stato necessario il vento d’oltreoceano. I conti dell’Europa con la democrazia non cominciano con la Cee o con la Ue. Vanno fatti su archi cronologici un po’ più ampi, perché vanno fatti con la storia. E allora forse si vedrebbe che ad averli davvero in ordine quei conti siamo in pochissimi.

di Ernesto Galli della Loggia, dal Corriere
25 luglio 2012 | 7:17

In silenzio, il leader Pd ha lanciato la sua corsa


di MARCELLO SORGI, dalla Stampa

Sulla nuova legge elettorale lo stallo è completo. La forte pressione venuta dal Colle in questi giorni e i due incontri avuti ieri da Monti con Bersani e Alfano non hanno purtroppo sortito alcun esito. Se ne ricava che anche l’ipotesi di una conclusione anticipata della legislatura, legata all’approvazione della riforma, si allontana. Con tutti quelli con cui ha parlato ieri (in serata ha avuto anche un lungo incontro con Casini e Fini), Bersani ha preso tempo, spiegando che non si fida del Pdl e che un accordo all’indomani dello sgambetto subito al Senato sul semipresidenzialismo è inaccettabile per il Pd. Siamo insomma nuovamente tornati alla fase delle pregiudiziali. Ed è evidente che il segretario del Pd, sulla carta favorito alle prossime elezioni, pur sapendo che alla fine la riforma andrà fatta, teme che l’obiettivo degli altri due partiti della maggioranza sia di fare una legge il più proporzionale possibile, per far sì che chi vince non sia automaticamente in grado di formare un governo subito dopo il voto, e debba necessariamente riaprire le trattative con gli altri per formare una maggioranza in Parlamento.

Sta tutta qui la differenza tra il premio al partito, chiesto da Alfano e gradito a Casini, e il premio alla coalizione, che, pur con tutti i se e i ma legati alle ultime esperienze delle variegate alleanze di centrosinistra, trasformerebbe Bersani quasi automaticamente nel candidato alla guida del governo di una coalizione che potrebbe puntare alla vittoria, soprattutto con Casini alleato.

Il leader dell’Udc, al suo solito, media. Sul ripristino delle preferenze (a cui il Pd contrappone i collegi, un po’ come accadeva col Mattarellum), potrebbe anche trovare l’intesa. Ma il problema, non sfugge a nessuno di quelli che stanno trattando, non è questo o quel tecnicismo, che può influire fino a un certo punto su un risultato elettorale che nessuno è in grado di prevedere. Il punto è un altro: mentre infatti Casini è convinto che dopo il voto, quale che sia il risultato, non c’è altro da fare che rinnovare il mandato a Monti, magari per un governo tecnico-politico sostenuto sempre dalla stessa maggioranza, e mentre Alfano e Berlusconi vedono in questa prospettiva la possibilità di mantenere una quota di potere, senza andare all’opposizione, anche in previsione di un risultato che s’annuncia problematico, Bersani la pensa in un altro modo. In silenzio, e mantenendo un atteggiamento responsabile in Parlamento sui provvedimenti del governo, il segretario Pd ha cominciato un’operazione di sganciamento da Monti e dall’idea di proseguire con la grande coalizione anche dopo il 2013. Non si nasconde le incognite: ma stavolta Bersani ha deciso di giocare fino in fondo la sua partita.


In difesa della salute


VLADIMIRO ZAGREBELSKY. dalla stampa

Le frequenti notizie di stampa riguardanti la salute sono per lo più preoccupanti.

Episodi di «malasanità» mettono in ombra la vasta area di «buonasanità» offerta dal Servizio Sanitario Nazionale italiano. La massima sensibilità rispetto a tutto ciò che riguarda la salute è comprensibile, ma può in proposito essere utile qualche osservazione generale. Lo Stato sociale europeo e in particolare quello italiano ha ormai radici tanto forti che l’accumularsi nel tempo di diritti assicurati dalle leggi non rappresenta più soltanto un dato legislativo, contingente e mutevole nel tempo. Un alto livello di sicurezza sociale è ormai acquisito come naturale e irretrattabile. In particolare per la salute ogni insufficienza e ogni arretramento nel servizio pubblico sono vissuti come un diniego di giustizia. Il servizio pubblico sanitario si ritiene debba essere non solo tendenzialmente totale, ma anche gratuito, cosicché l’introduzione o l’aumento dei ticket non è questione che rinvia a scelte politiche, come tali discusse, ma lede diritti. Si tratta di una cultura e di una civiltà che distingue l’Italia e larga parte d’Europa, ma che è lontana dall’essere universale. Basta pensare alla battaglia politica, ancora in corso negli Stati Uniti, per l’introduzione di un sistema di assicurazione generalizzata in materia sanitaria, ove gli interessi economici coinvolti fanno leva su radicati contrasti culturali in ordine al ruolo della società e dello Stato rispetto all’individuo.

Nella Costituzione italiana la tutela della salute è riconosciuta come diritto fondamentale dell’individuo e come interesse della società. Si tratta dell’unico diritto della persona che la Costituzione qualifica come fondamentale. E’ un diritto i cui contenuti sono in certa misura indefiniti e mobili. Essi si arricchiscono con lo sviluppo della ricerca medica e l’aumento delle terapie a disposizione dell’umanità; essi però si riducono quando le risorse economiche pubbliche scarseggiano. Il Comitato delle Nazioni Unite responsabile della vigilanza sull’attuazione del Patto internazionale dei diritti economici e sociali (1966), definendo la portata del diritto alla salute come il «diritto alle migliori condizioni di salute fisica e mentale raggiungibili», ha tra l’altro affermato che esso implica il dovere degli Stati, una volta raggiunto un certo livello di garanzia della salute, di non arretrare. Si tratta di orientamento che appoggia la resistenza, oggi evidente in molti Paesi, alla diminuzione dei servizi sanitari come conseguenza di tagli alle risorse pubbliche ad essi destinate. Una resistenza che si manifesta in Italia, ma anche in Portogallo, Spagna, Francia e riguarda, senza le necessarie distinzioni, sia la vera eliminazione di servizi, sia le modifiche organizzative o gestionali dirette a diversamente utilizzare le risorse disponibili. In proposito il primo che viene in mente è il tema della geografia della medicina di prossimità e dell’articolazione sul territorio dei diversi livelli dell’intervento medico. Ad esso si riferiscono sia l’impianto del recente Piano della Regione Piemonte sia l’annunciato progetto del Ministro della Salute Balduzzi sul ruolo e l’organizzazione dei medici di base.

I provvedimenti conseguenti alla c.d. «spending review» promettono meno risorse economiche anche nel settore sanitario. Ma il ministro Grilli, pochi giorni orsono, rispondendo ad una interrogazione parlamentare, ha assicurato che la revisione della spesa sanitaria garantisce economie di spesa, senza alcuna incidenza negativa sul livello qualitativo e quantitativo dei servizi erogati ai cittadini.

C’è da chiedersi come questo sia possibile, quando si considerino le riduzioni delle risorse di origine statale insieme a quelle regionali. E’ probabile che l’effettiva erogazione dei servizi subisca una diminuzione o un rallentamento. La disponibilità teorica può non mutare, ma le liste di attesa si allungano (e cresce il ricorso alla sanità privata). La riduzione dei finanziamenti all’attività del privato sociale –spesso decisiva per rendere effettivo l’accesso alle cure - lascia intatti apparentemente il ruolo e l’ampiezza del servizio pubblico, che però diventa meno fruibile da parte di fasce sociali deboli e particolarmente vulnerabili. Con ciò si vuol dire che il termine «tagli» può condurre a equivoci e a nascondimenti della realtà. Sul piano formale si può negare che il «taglio» sia stato apportato, anche se c’è chi nella realtà lo patisce. La trasparenza in materia è molto importante, sia perché assicura la corretta informazione della cittadinanza, sia perché riporta la responsabilità delle scelte nel luogo istituzionale proprio, sia esso il governo nazionale o quello regionale. Se sono necessarie riduzioni nei servizi offerti in materia sanitaria, le scelte da fare richiedono partecipazione e chiarezza, secondo criteri di priorità razionali e non discriminatori. Partecipazione al processo decisionale, pubblicità delle scelte effettuate, non discriminazione nei loro effetti, sono criteri sottolineati da tutte le organizzazioni internazionali, come il già ricordato Comitato economicosociale delle Nazioni Unite e l’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Merita uno speciale richiamo la regola della non discriminazione. Essa non vieta soltanto le dirette esclusioni di parte della popolazione dall’accesso ai servizi di prevenzione e di cura (per ragioni di razza, sesso, religione, origine, condizione economica o sociale, ecc.). Essa riguarda anche la più insidiosa discriminazione indiretta, quella che fa pesare di fatto su gruppi della popolazione le loro caratteristiche o debolezze, che non riguardano lo stato di salute, ma che incidono sulla possibilità di avvalersi dei benefici che sono a disposizione della generalità. Gli esempi sono facili. Il più evidente è quello che riguarda la c.d. accessibilità economica del servizio sanitario, legata alla sostenibilità del relativo costo. Ma l’elenco degli esempi è lungo. Se il luogo in cui è fornito il servizio sanitario viene allontanato, senza prevedere mezzi di trasporto adatti a chi, per salute, età o altro non ne dispone, una misura che sembra neutra si traduce in una discriminazione indiretta. La complessità delle procedure amministrative da seguire per accedere al servizio, se non accompagnata da una sufficiente e capillare informazione, finisce con l’escludere chi, per la non conoscenza della lingua o per altro, si perde tra gli uffici e gli sportelli, che pure – apparentemente - gli sono aperti.

Il discorso può allungarsi, ma ciò che emerge è la necessità di evitare i «tagli lineari» e di discutere invece e stabilire criteri e priorità, nel disegnare l’area coperta dal servizio pubblico e nello stabilirne l’accessibilità e il costo per gli utenti.

Altra cosa è la lotta agli sprechi e alla corruzione. Una lotta che è da appoggiare senza riserve. Essa sì può ridurre i costi complessivi a carico dello Stato e delle Regioni, senza diminuire l’ampiezza del diritto alla salute di tutte le persone.


mercoledì 25 luglio 2012

Approvato il piano regionale della salute e dei servizi alla persona


Il Consiglio regionale della Basilicata ha approvato a maggioranza (19 voti favorevoli di Pd, Idv, Mpa, Gruppo Misto, Udc, Pu, Api e Psi e 3 astensioni, quelle di Romaniello (Sel), Navazio (Ial) e Benedetto (Idv ) il Piano regionale della salute e dei servizi alla persona 2011-2014. Al voto non ha partecipato il gruppo Pdl che, precedentemente, ha abbandonato l’Aula in segno di protesta. Il capogruppo Pagliuca ha ribadito il giudizio del Pdl sul Piano: “Una traccia di lavoro per certi versi condivisibile, manchevole, però, di concretezza e che volge lo sguardo al passato più che al presente. In poche parole, una bel quadro in cui ci sta tutto, in cui non ci sono soggetti che possono lamentarsi, né territori ‘maltrattati’ e che mette tutti in uno stato di tranquillità”. Pagliuca ha, infine, sottolineato “l’intenzione dell’opposizione che era tesa al miglioramento del Piano e la mancata comprensione dell’atteggiamento ostinato della maggioranza a volerlo licenziare necessariamente in questa seduta”.

Il Piano interviene, principalmente, su quattro aree tematiche, producendo riforme strutturali del sistema che corrispondono alle azioni già avviate con le Leggi regionali n. 12/2008 e n.17/2011. Si tratta delle macrostrutture aziendali, dell’organizzazione territoriale distrettuale e di ambito, della rete ospedaliera e la connessione ospedale–territorio attraverso le reti assistenziali e dell’integrazione socio sanitaria, la residenzialità protetta e la rete dei servizi sociali.

Per quanto attiene le macrostrutture aziendali, il Piano individua le indicazioni organizzative per superare la frammentazione dei servizi sanitari e dei servizi generali del sistema. Confermati i grandi dipartimenti aziendali quali i dipartimenti di prevenzione, divisi in dipartimenti di prevenzione collettiva della salute umana e dipartimenti di prevenzione della sanità e benessere animale, il dipartimento interaziendale dell’emergenza sanitaria (118), i dipartimenti di salute mentale e le loro articolazioni territoriali. Creati anche nuovi dipartimenti interaziendali su funzioni strategiche per la sostenibilità del sistema. Le funzioni di service generale (acquisti di beni e servizi, gestioni comuni) vengono affidate ad una Centrale regionale di Committenza, nuovo Dipartimento interaziendale che, sulla scorta dei modelli nazionali, provvederà a unificare funzioni oggi frammentate, realizzando economie di scala e migliore qualità di funzionamento. Previste, inoltre, forme di autoassicurazione, con l’accantonamento dei fondi necessari e la creazione di un Dipartimento interaziendale per la gestione dei sinistri.

La riforma dell’organizzazione territoriale, uno dei punti centrali del Piano, prevede la creazione di nove Distretti di comunità, le cui delimitazioni territoriali coincidono con gli Ambiti socio territoriali e con le Aree programma. Al Distretto di comunità, che fungerà da sportello unico per il cittadino, verranno affidate le attività fondamentali. Agli ospedali distrettuali spetta il ruolo di livello di riferimento per le funzioni assistenziali complesse territoriali (integrazione multispecialistica per le attività di assistenza come oncologia territoriale, valutazioni diagnostiche, prestazioni specialistiche chirurgiche, day service e day surgery).

La rete ospedaliera lucana, formata dall’Azienda Ospedaliera S.Carlo, dall’Ospedale “Madonna delle Grazie” di Matera, dall’Istituto di Ricovero e cura a carattere scientifico CROB di Rionero e dagli Ospedali, sedi di Pronto Soccorso attivo, di Lagonegro, Melfi, Policoro e Villa d’Agri, non subisce tagli di posti letto, nemmeno a seguito del decreto sulla cosiddetta “spending review”, ma acquisisce possibilità di ulteriore qualificazione. La gestione dei posti letto si rifà al metodo del “bed management”, ossia alla flessibilità della logistica assistenziale rispetto alla funzione clinica.

Per quanto riguarda l‘integrazione socio sanitaria, previste tre forme principali: l’integrazione istituzionale tesa ad abbattere le frontiere di competenza tra organizzazione sanitaria e organizzazione degli Enti locali; l’integrazione gestionale che prevede il coordinamento di Distretti e Ambiti per progettare e gestire servizi e risorse finanziarie; l’integrazione professionale che deve produrre condizioni operative unitarie e sinergiche tra le diverse figure professionali. Particolare attenzione viene data, inoltre, alla residenzialità protetta, passando dai circa 200 posti oggi disponibili ad una previsione di 1179 posti residenziali e semiresidanziali in ambito regionale. La loro attivazione sarà graduale nel tempo. Il Piano, infine, definisce anche le linee guida per la stesura dei Piani intercomunali dei servizi sociali e socio sanitari.

Schiavi in Italia .Al Nord come al Sud.


di Stefano Galieni,da Informazione Libera
Siamo ormai abituati ad accettare che lo sfruttamento nel lavoro agricolo, lo schiavismo diffuso siano la norma ma che ciò attenga solo ad alcune aree del meridione italiano. Ci siamo indignati e scandalizzati quando non abbiamo potuto voltare lo sguardo dall’altra parte dopo i fatti di Rosarno, di Castelvolturno, di Nardò. In molti hanno dato la colpa all’arretratezza del sistema di produzione, all’informalità dei rapporti di lavoro figli di un contesto economico in cui l’irregolarità è la regola.

Poi arriva una notizia di quelle destinate di solito a sparire e si scopre che a Castelnuovo Scrivia, in provincia di Alessandria, altri lavoratori e lavoratrici hanno deciso di non chinare la schiena e di esporsi. Raccolgono verdura, zucchine e pomodori soprattutto, per l’azienda Lazzaro, alcuni di loro sono anche ospitati in una specie di porcilaia in cambio, ovviamente delle pulizie. Circa 13 ore al giorno di lavoro, pagamento, un euro l’ora, acqua poca, strumenti, zero attrezzature e condizioni inaccettabili. Ma cominciano anche a non arrivare più neanche i magri stipendi, solo acconti di 50, 100 euro, quasi elemosine ottenute una tantum implorando o minacciando di fermarsi, ma poca cosa per poterci campare e nulla neanche rispetto al pattuito.

Peccato che chi lavora abbia imparato a difendersi, peccato che abbia trovato in quelle terre l’appoggio di associazioni antirazziste del territorio, forze politiche come il Prc e la Cgil. I 40 lavoratori impiegati sono entrati alcune settimane fa in presidio permanente e sapendo che rischiavano grosso: una parte di loro ha regolare contratto di soggiorno, altri sono classificabili come “espellibili”, come migranti illegali, ma hanno voluto lottare lo stesso, a viso aperto, rapportandosi con le istituzioni, in primis la prefettura, aprendo una trattativa con la CIA, e facendosi vedere pubblicamente, rompendo l’invisibilità. Teoricamente hanno vinto, il 6 luglio scorso, dopo 17 giorni di presidio e di sciopero, dopo tensioni, denunce (i manifestanti sono stati tutti identificati e accusati “violenza privata ed occupazione arbitraria di suolo pubblico e privato”) nonché sottoposti ad intimidazioni padronali, si è ripreso a lavorare.

Contratti regolari, riduzione dell’orario di lavoro e soldi che cominciano ad arrivare per i primi 26 lavoratori. Tutto solo all’inizio, dopo pochi giorni si è ricaduti nel normale sfruttamento: i lavoratori non vengono impiegati per le 39 ore settimanali da contratto, mancano acqua potabile e attrezzatura da lavoro come i guanti e le scarpe, vengono informati solo all’ultimo momento dei turni che debbono fare, si cerca di sostenere che non lavorano bene si attua insomma verso chi ha osato alzare la testa un vero e proprio mobbing.
Poi si è compiuto un ulteriore passo nelle violazioni degli accordi e dei diritti: l’Azienda Lazzaro, che ha affermato nei giorni scorsi di non avere abbastanza soldi per pagare gli arretrati ai braccianti, che ha sostenuto di non avere abbastanza ordini e commesse per far lavorare di più i 26 lavoratori riassunti dopo le proteste, ha assunto, mediante affido a cooperativa secondo un contratto i cui termini non sono ancora ben chiari neppure al sindacato, altri 13 lavoratori di origine indiana da una cooperativa di Brescia.

Lo ha fatto senza avvertire il sindacato, senza giustificare tale atto in alcun modo e violando gli accordi presi. Lo si è appreso solo dai braccianti del presidio e dal sindacato. Un gesto gravissimo, così come tutti quelli che lo hanno preceduto, tipici dell’arroganza di chi ha ridotto i suoi dipendenti in schiavitù, nel frattempo è stata aperta una inchiesta da parte della Procura di Torino, le indagini sono in mano a Raffaele Guariniello, un giudice che ha affrontato ben più alti potentati con successo. Ma nell’atteggiamento del sedicente imprenditore c’è’ un’arroganza inaccettabile, non si può far finta di nulla: ci interroga tutti e pone ancora una volta e con urgenza ancora maggiore, la necessità di monitorare severamente la situazione di tutto il settore agricolo e l’attività dell’Azienda in questione.

L’Assemblea dei lavoratori ha deciso di ricostituire il Presidio Permanente di fronte all’Azienda Lazzaro, e come dall’inizio di questa vicenda, c’è e ci sarà il sostegno ai lavoratori in lotta per i diritti. «Invitiamo tutti alla mobilitazione ed al sostegno attivo del Presidio, – dicono dal Prc e dal sindacato -non è la “loro” lotta , è quella di tutti» Dalla CIA provinciale e dall’azienda la reazione non si fa attendere e suona come arrogante!

Dichiarano che spetta agli imprenditori decidere le politiche di assunzione, parlano di strumentalizzazione nella crisi e chiedono di parlare in altra sede delle persone che lavorano al nero. Comodo per lor signori, comodo evitare che si faccia chiarezza anche nel ricco Piemonte su come funzionano i meccanismi di sfruttamento in agricoltura e certamente è ora che gli organi dello Stato competenti, prefettura compresa, se ne occupino con urgenza, anche per capire se si tratta di una sola azienda dedita allo schiavismo o se la pratica sia, come si teme, molto diffusa. Cosa che è dimostrata nei fatti dal boom di regolarizzazioni avvenuto negli ultimi 15-20 giorni nel tortonese, effetto probabilmente non solo del decreto annunciato dal Governo ma anche della lotta dei braccianti di Castelnuovo Scrivia.

Da venerdì 20 luglio è stato ricostituito il presidio permanente di fronte alle aziende Lazzaro e sabato 21 luglio mattina, i braccianti marocchini a cui è stato detto che il loro lavoro non serviva, si sono presentati nei campi della cascina Viscarda, tra Sale,Tortona e Castelnuovo, dove hanno lavorato fino a pochi giorni fa, ed hanno dapprima bloccato l’accesso ai campi-insieme a sindacalisti e compagni di Rifondazione- per i lavoranti della cooperativa di Brescia, poi li hanno lasciati entrare nei campi entrando insieme a loro, rallentandone il lavoro simbolicamente e soprattutto parlando con loro, per sottrarsi alla dinamica che l’Azienda Lazzaro ha cercato di innestare, quella della lotta tra poveri.

Dopo un paio di episodi in cui alcuni lavoranti indiani, timorosi del loro “capo”, hanno preso a ginocchiate alcuni lavoratori e lavoratrici marocchini, si è deciso di stare tutti dentro i campi e parlare con i lavoratori della cooperativa, spiegando loro che i braccianti ribelli non sono i loro nemici ma i loro fratelli e che quello che Lazzaro ha fatto ai braccianti marocchini oggi, lo farà a loro domani.. si è chiesto loro di riflettere su questo e a, pure tra bisogno e paura, si è avuta l’impressione che abbiano capito molto bene..tutto questo tra gli insulti e le minacce più o meno velate dei “padroni” e con grande movimento di Digos e carabinieri che hanno identificato tutti più volte, ed è probabile che partiranno nuove denunce per i migranti e per tutti i solidali che hanno fatto picchetto e che hanno invaso i campi. Ieri alle 12,15 (domenica 22 luglio) , in seguito alle vivaci proteste, è stata raggiunta una mediazione: sospensione momentanea dell’attività di raccolta per tutti, cooperativa inclusa (la proposta di far lavorare tutti, marocchini ed indiani, visto che ce ne sarebbe bisogno per terminare la raccolta dei pomodori, è stata respinta dai Lazzaro), bocce ferme da domenica alle 12,15 e si sta convocando un tavolo urgente in Prefettura ad Alessandria per vedere se sia possibile sbloccare la situazione.

24 luglio 2012

martedì 24 luglio 2012

Il Pollino nella morsa degli incendi.


Il Pollino nella morsa degli incendi.

Aree Protette
In fumo circa mille ettari di territorio boscato per carenze nella prevenzione e nelle sorveglianza della natura protetta. Nel 2007 le stesse aree devastate dai roghi. Oggi con le stesse modalità gli ecocriminali sono di nuovo all'opera.

“Come già era successo nel 2007, i piromani incendiano le stesse aree esterne al Parco, nei comuni di Castrovillari e Morano Calabro, e le fiamme incontrollate devastano circa mille ettari nel Parco nazionale del Pollino. Le stese modalità di allora confermano la dolosità dell’azione della stessa mano criminale, ma ancora di più evidenziano le carenze nella prevenzione e sorveglianza del nostro patrimonio naturalistico. Per quelle aree già percorse dal fuoco nel 2007 i comuni non hanno realizzato il catasto né posto nessun vincolo, come prevede la legge 353/2000, e nessuna limitazione è stata posta a chi, da vero padrone, pascola abusivamente su quei terreni.”

Con queste parole nette, Franco Falcone presidente di Legambiente Calabria, Marco De Biasi presidente di Legambiente Basilicata e Antonio Nicoletti della segreteria nazionale di Legambiente, denunciano quanto sta avvenendo nella più grande area protetta d’Europa violata dagli incendi boschivi che, nonostante gli sforzi compiuti dall’Ente parco in questi anni, continuano ad essere la prima causa di rischio dell’esistenza stessa del Parco. Infatti, a cinque anni di distanza dalla stagione orribile del 2007 che ha determinato nel Parco del Pollino danni e distruzioni su oltre 6.000 ettari, è facile constatare che l’attenzione, molto viva negli anni precedenti, è venuta meno, in un paese come l’Italia che vive ed opera solo sulle sue emergenze continue. C’è bisogno invece, per salvare i nostri boschi, il nostro territorio, dalla piaga degli incendi boschivi, di attenzione continua e di risorse adeguate.

“L’Ente Parco - continua Legambiente - in questi 5 anni ha fatto un ottimo lavoro, solo con risorse proprie e con quelle aggiuntive di un progetto finanziato dalla Fondazione per il Sud che si è però concluso 2 anni fa, mantenendo sempre in rete tutte le associazioni di protezione civile lucane e calabresi, dotandole di mezzi  e attrezzature per l’antincendio, e realizzando ogni anno le campagne estive di avvistamento e di primo intervento. Ci vuole anche fuori dal Parco, considerando che come avvenuto per gli incendi di questi giorni, ma anche per la maggior parte di quelli registrati nel 2011, la loro origine è al di fuori del perimetro del Parco stesso, maggiore attenzione e coordinamento delle attività di avvistamento e di primo intervento, altrimenti il fenomeno non sarà mai sotto controllo ed i danni saranno sempre ingenti.”

Su questo punto è necessario richiamare le responsabilità dei comuni che, nonostante lo imponga la legge 353/2000, ancora non realizzano il catasto delle aree percorse dal fuoco e non pongono su di esse le limitazioni previste dalla legge. Nel caso specifico ci chiediamo se, dal 2007 si fosse applicata la norma che impedisce il divieto di pascolo sulle aree percorse dal fuoco, si sarebbero evitati gli eventi di oggi. Perché, è nota la relazione tra pascolo abusivo e incendi boschivi, ed è altrettanto noto che sulle aree incendiate l’unica attività praticata, nonostante non fosse possibile, è stato il pascolo abusivo. In aggiunta a questi aspetti vale sempre la pena sottolineare che nella lotta agli incendi è necessario privilegiare in maniera specifica le azioni di previsione/prevenzione che possono garantire una riduzione dei danni e dei costi per la collettività. E per evitare una stagione infernale per il sud, ed in particolare per il Parco nazionale del Pollino, dove storicamente e ciclicamente questi fenomeni infliggono ferite mortali al territorio, è necessaria una forte azione di indagine e di repressione per frenare sul nascere questi fenomeni criminali. Le tecniche di indagine attualmente disponibili possono permettere, in un numero di casi molto elevato, di individuare i responsabili che molto spesso risultano essere sempre le stesse persone che, per svariati motivi, reiterano il reato periodicamente.

“Nonostante l’impegno dell’Ente Parco – conclude Legambiente -  che anche quest’anno, come aveva fatto negli anni passati con ottimi risultati, aveva già attivato il suo sistema antincendio boschivo basato fondamentalmente sul coinvolgimento delle associazioni di volontariato di protezione civile, poco possono i volontari e l’Ente di fronte ad un attacco criminale su più fronti, soprattutto se a queste si aggiunge il ritardo con cui il fenomeno è stato affrontato dal sistema della protezione civile calabrese. Ora è necessario, vista la chiara origine dolosa e criminale degli incendi di questi giorni che si individuino rapidamente i responsabili di questi roghi per assicurarli alla giustizia, come avvenuto ad esempio nelle settimane passate per gli incendi che hanno interessato l’arco ionico lucano”.



Pubblicato il23 luglio 2012, sul sito di Legambiente

Il giallo dell'Enea della Trisaia


l silenzio è calato sulla vicenda, ma il sospetto che qualcuno nel frattempo stia lavorando ad una soluzione “segreta” non sarebbe completamente campato in aria. Siamo andati a spulciare documenti ufficiali, abbiamo cercato di leggere tra le righe di dichiarazioni pubbliche e relazioni tecniche, con l’approccio di “chi pensa male”. Una domanda, a questo punto, la dobbiamo fare: è possibile che nell’area della Trisaia di Rotondella ci sono tutte le condizioni per realizzare il deposito nazionale? I lavoro per la bonifica appena avviati, possono nascondere altri scopi? L’inchiesta è divisa in tre parti.
Storia dell’impianto
L’impianto Itrec, acronimo di Impianto di Trattamento e Rifabbricazione Elementi di Combustibile, si trova all’interno del Centro di ricerca Enea-Trisaia di Rotondella (MT). L’impianto è stato costruito nel periodo 1965-1970 dal CNEN, Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare.Tra il 1969 e il 1971, in seguito all’accordo tra il CNEN e la statunitense USAEC, United States Atomic Energy Commission, sono stati trasferiti nell’impianto 84 elementi di combustibile irraggiato uranio-torio provenienti dal reattore sperimentale Elk River (Minnesota).Nell’impianto sono state condotte ricerche sui processi di ritrattamento e rifabbricazione del ciclo uranio-torio per verificare l’eventuale convenienza tecnico-economica rispetto al ciclo del combustibile uranio-plutonio normalmente impiegato.Nel 1973 il CNEN è divenuto proprietario degli 84 elementi di combustibile di Elk River, 20 dei quali sono stati ritrattati.Nel 1987 a seguito del referendum sul nucleare, le attività sono state interrotte. Nel 2003, Sogin ha assunto la gestione dell’impianto con l’obiettivo di realizzare la bonifica ambientale del sito. L’area della Sogin nella Trisaia è recintata con del filo spinato, zona riservata.
I misteri dell’Itrec
Il sito di Rotondella è stato più volte al centro di polemiche e di indagini per veri o presunti incidenti agli impianti, oltre che per i sospetti sulle attività svolte all’interno della Trisaia. Nel marzo 2011 alcune fonti qualificate avrebbero fatto circolare carteggi interni riguardo al trasferimento sospetto di materiale radioattivo. I documenti parlerebbero di un costante arrivo nel centro jonico di materiale nucleare, già dal gennaio 1991. Nel carteggio ci sarebbe un elenco di “partite omogenee” di materiale radioattivo prima custodito nell’Istec Enea di Casaccia (Istituto di Scienza e Tecnologia dei Materiali Ceramici). Sembra però che il materiale giunto a Rotondella non fosse soltanto quello descritto nei documenti, ma ci sarebbe stato dell’altro in quantità ignota e di natura diversa.
Non mancano sospetti su incidenti avvenuti all’interno degli impianti e occultati per evitare allarme nell’opinione pubblica.
C’è un impianto in cui vengono trattati i minerali estratti da rifiuti industriali e c’è un laboratorio di analisi con uno strano nome: “Terre rare”. In quelle stanze possono entrare solo gli addetti ai lavori, perché è nella zona sottoposta a controllo militare. In quel laboratorio sarebbero state fatte delle “porcherie”. Ha indagato la Procura antimafia di Potenza  senza risultati. Il fascicolo è stato a lungo secretato e nel gennaio 2010 è finito in archivio.
Nel marzo del 1993 si verifica un incidente, questa volta scoperto. La condotta di 5 chilometri che dal Centro Enea della Trisaia sbuca nel mar Jonio, viene giudicata contaminata da liquido radioattivo dalla magistratura di Matera che ne dispone il dissotterramento. Nell’aprile del 1994 una cisterna avariata perde liquido radioattivo.
Insomma non è chiaro se a Rotondella sono state trasferite altre tipologie di rifiuti e quanti. Intanto il materiale radioattivo “storico” è ancora in quei depositi. La stessa delegazione della Commissione parlamentare sui rifiuti, in visita a Rotondella nelle scorse settimane, smentisce che all’Itrec sia mai stato trattato plutonio. Rispetto a quanto sostenuto anni fa dall’ex Procuratore della Dda, Giuseppe Galante, e cioè che in Trisaia ci fosse plutonio, la senatrice Magda Negri  non conferma “Dai registri e da questa visita non pare ci sia presenza di plutonio. Ci sono stati anche controlli della GdF tra il ’75 il ’78 e non risultò. Ma siamo aperti a verificare qualsiasi altra informazione, purché sia realistica”.
Chi è la Sogin (Società di gestione impianti nucleari)
Sogin è la società di Stato incaricata della bonifica ambientaledei siti nucleari italiani e della messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi provenienti dalle attività nucleari industriali, mediche e di ricerca. Sogin sarebbe impegnata nella più grande bonifica ambientale nella storia del nostro Paese. Oltre le quattro centrali nucleari italiane di Trino (VC), Caorso (PC), Latinae Garigliano (CE)sono stati affidati in gestione a Sogin gli impianti Enea di Saluggia (VC), Casaccia (RM)e Rotondella (MT)e l’impianto Fabbricazioni Nucleari di Bosco Marengo (AL). La Società, interamente partecipata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, opera in base agli indirizzi strategici del Governo italiano. Sogin, operativa dal 2001, diventa Gruppo nel 2004 con l’acquisizione della quota di maggioranza, del 60%, di NuclecoSpA, l’operatore nazionale incaricato del condizionamento e dello stoccaggio temporaneo dei rifiuti e delle sorgenti radioattive provenienti dalle attività medico-sanitarie e di ricerca scientifica e tecnologica. Sogin coordina le attività previste dall’accordo stipulato dal Governo italiano con la Federazione Russa nell'ambito del programma Global Partnership. In particolare, l'accordo riguarda lo smantellamento e la gestione dei rifiuti radioattivi e del combustibile irraggiato dei sommergibili nucleari russi. In Italia, le 900 persone che costituiscono il Gruppo, selezionate e formate secondo i più elevati standard di eccellenza, rappresentano il più significativo presidio di competenze professionali nella gestione dei rifiuti radioattivi e nella bonifica ambientale degli impianti nucleari. Sogin ha, inoltre, il compito di localizzare, realizzare e gestire il Parco Tecnologico, comprensivo del Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi.
Gestionee messa in sicurezza dei rifiuti a Rotondella
I rifiuti radioattivi liquidi prodotti durante l'esercizio dall'impianto sono cementati e stoccati in sicurezza. Nel 2007, è stata realizzata la barriera di contenimento idraulico per garantire le massime condizioni di sicurezza nello svolgimento dei lavori di bonifica del deposito interrato, denominata fossa irreversibile, dal quale i rifiuti radioattivi presenti saranno rimossi e messi in sicurezza all’interno dei depositi dell’impianto. Nel 2010 è stato approvato dall’Autorità di controllo (ISPRA) il progetto per la realizzazione dell’impianto per la cementazione di circa 3 metri cubi di soluzione liquida uranio-torio, denominata prodotto finito, derivante dalle attività sperimentali di riprocessamento del combustibile. Di questo impianto è stato realizzato e collaudato il prototipo della cella di cementazione (mock up), in scala 1:1, per testare i componenti, il processo e addestrare il personale. Nel marzo 2011, il progetto dell’Impianto ICPF ha ottenuto la VIA, Valutazione di Impatto Ambientale da parte del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare. Nel 2011, sono stati ultimati, all’interno delle celle di taglio appositamente allestite, il trattamento e il condizionamento dei rifiuti solidi pregressi (progetto SIRIS – sistemazione rifiuti solidi) che si trovavano all’interno di 18 containers. I piazzali che li ospitavano sono stati liberati e riqualificati. In linea con il progetto SIRIS, a seguito di un’ulteriore autorizzazione dell’organo di controllo, ISPRA, proseguono i lavori di trattamento dei rifiuti solidi prodotti dal mantenimento in sicurezza e dalle attività propedeutiche allo smantellamento dell’impianto. (Fonte: www.sogin.it)
Gestione del combustibile a Rotondella
Nell’impianto sono stoccati 64 elementi di combustibile irraggiato del ciclo uranio-torio che non possono seguire la via del riprocessamento, perché non esistono al mondo impianti industriali in grado di ritrattare questo tipo di combustibile. Sogin è impegnata a ricercare e a supportare ogni iniziativa che dovesse prospettarsi per il trasferimento del combustibile. Sono in via di realizzazione due cask, (piccoli silos)  in grado di ospitare 32 elementi ciascuno, abilitati allo stoccaggio in sicurezza e al successivo trasporto, in vista del loro trasferimento al Deposito Nazionale. (Fonte: www.sogin.it)
Bonifica ambientale dell’impianto di Rotondella
Nel 2005, è stato realizzato, all’interno dell’impianto, un laboratorio per il monitoraggio ambientale tra i più moderni in Italia. Nel 2008, sono state ultimate le attività di sostituzione della condotta di scarico a mare ed è stata completata e collaudata la nuova cabina di manovra e demolita quella realizzata negli anni ottanta. A luglio 2011 è stata presentata, al Ministero dello Sviluppo Economico, l’istanza di autorizzazione per la disattivazione dell’impianto. La Bonifica sarà finita nel 2026. (Fonte: www.sogin.it) Intanto da pochi giorni, in questo mese di luglio 2012, sono iniziati i lavori di realizzazione della platea dell’infrastruttura che consentirà la bonifica. “I lavori di bonifica del deposito – fa sapere la Sogin - sono suddivisi in quattro fasi e prevedono: la realizzazione di una struttura di contenimento attrezzata per lo scavo del terreno; la progettazione degli interventi di bonifica; il taglio della struttura in quattro parti e la loro rimozione dal terreno; la bonifica e il rilascio finale dell’area per la realizzazione dell’impianto di solidificazione del “prodotto finito”. Le parti rimosse saranno stoccate in sicurezza in un deposito temporaneo del sito, in attesa del loro trasferimento al Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi”
A proposito del Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi
Il Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi è un diritto degli italiani e un’esigenza per il Paese per mettere in massima sicurezza tutti i rifiuti radioattivi. La struttura sarà realizzata all’interno di un Parco Tecnologico, un centro di eccellenza italiano, aperto a collaborazioni internazionali, con laboratori dedicati alle attività di ricerca e formazione nelle operazioni di bonifica ambientale degli impianti nucleari e di gestione e messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi. La collaborazione con enti di ricerca, università e operatori industriali, sia nazionali che esteri, permetterà al Parco Tecnologico di integrarsi con il sistema economico e di ricerca e di contribuire inoltre ad uno sviluppo sostenibile del territorio nel quale verrà costruito.
Il Deposito sarà una struttura di superficie, progettata sulla base delle migliori esperienze internazionali, che consentirà la sistemazione definitiva di circa 80 mila metri cubi di rifiuti di bassa e media attività e la custodia temporanea per circa 12.500 metri cubi di rifiuti di alta attività.
Degli oltre 90 mila metri cubi di rifiuti il 70% proverrà dalle operazioni di bonifica ambientale degli impianti nucleari mentre il restante 30% dalle attività di medicina nucleare, industriali e della ricerca.
Il trasferimento dei rifiuti in un’unica struttura garantirà la massima sicurezza per i cittadini e la salvaguardia dell’ambiente e permetterà di completare le attività di bonifica ambientale degli impianti, ottimizzando tempi e costi ed eliminando la necessità di immagazzinamento temporaneo sui siti. (Fonte: www.sogin.it)
Idee molto chiare e strane coincidenze
La Sogin mostra di avere le idee molto chiare sul Deposito Nazionale. Per seguire meglio la nostra riflessione occorre annotare che il Centro di ricerca Enea Trisaia di Rotondella è, in base al Decreto Legislativo n.31/2010, un Parco Tecnologico. Va inoltre annotato che  il DPCM 8 aprile 2008 (Governo Prodi) – inerente i “criteri per l’individuazione delle notizie, delle informazioni, dei documenti, degli atti, delle attività, delle cose e dei luoghi suscettibili di essere segreto di Stato” – ha di fatto esteso il principio della segretezza dei siti militari ai siti “civili” di interesse energetico e di stoccaggio di rifiuti anche radioattivi, il tutto a beneficio dei supremi e imprescindibili interessi dello Stato ed ovviamente delle società concessionarie come la Sogin. Da notare anche che nel frattempo è stato designato il nuovo presidente di Confindustria Basilicata, Michele Somma, presidente di Tecnoparco spa e firmatario in quanto vicepresidente, del protocollo di intesa tra Sogin, Confindustria Basilicata e Confapi di Matera il 10 novembre dell’anno scorso. L’intesa è stata firmata in occasione della presentazione del piano industriale  2011-2015 della Sogin.  Come vedremo tra poco, la Sogin ha dato molta importanza all’evento e ha offerto alla platea lucana di industriali istituzioni e sindacati molto di più che altrove. Infatti l’evento è stato replicato in Lazio e Campania, a Roma, e in Piemonte, dove esistono impianti simili a quello di Rotondella, ma i comunicati stampa della Sogin per questi ultimi eventi sono molto meno carichi di enfasi locale. Da ricordare che nel 2010 la Sogin avrebbe già stilato una lista di siti potenzialmente adatti ad ospitare il deposito.
Il comunicato stampa e la gara di appalto
In concomitanza con la presentazione del piano industriale Sogin diffonde un comunicato stampa nel quale scrive: “Le attività di decommissioning e messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi che Sogin portate avanti nell'impianto Itrec di Rotondella sono svolte nel rispetto della normativa vigente e sono realizzate in linea con i migliori standard internazionali, per garantire la massima sicurezza per i lavoratori, la popolazione e l'ambiente. La realizzazione del deposito temporaneo, annesso all’impianto di cementazione dei rifiuti liquidi radioattivi, denominati “prodotto finito”, è progettato secondo le migliori esperienze internazionali, garantirà la massima sicurezza nello stoccaggio temporaneo esclusivamente dei rifiuti radioattivi, derivanti dalle attività di cementazione dei rifiuti radioattivi liquidi già presenti nel sito. Questa struttura ospiterà anche i due contenitori che saranno realizzati per lo stoccaggio a secco del combustibile “Elk River”, attualmente presente in piscina, in vista del loro trasferimento al Deposito Nazionale. Al termine delle operazioni di trasferimento il deposito sarà smantellato.” Il 13 luglio 2011, cioè  quattro mesi prima del comunicato stampa la Sogin indice una gara di appalto – procedura ristretta -  per  “l’esecuzione dei lavori di realizzazione dell’impianto di cementazione di una soluzione liquida radioattiva denominata “Prodotto Finito” e dell’edificio deposito per lo stoccaggio temporaneo di manufatti cementati.”.  Si deduce che alla data del 10 novembre 2011 fosse noto l’aggiudicatario dell’appalto. Infatti la scadenza, prorogata, per la presentazione delle manifestazioni di interesse era fissata al 27 settembre 2011.  Ma sul sito della Sogin le informazioni a proposito difettano di chiarezza. Chi è l’aggiudicatario dell’appalto? Sul sito www.sogin.itla gara risulta chiusa, ma non è riportata alcuna informazione sull’assegnazione. Probabilmente le valutazioni sono ancora in corso. Perché?
L’oggetto della gara
Nella descrizione dell’appalto e degli acquisti si legge: “ Realizzazione dell’impianto di cementazione del “Prodotto Finito” e dell’edificio deposito per lo stoccaggio temporaneo di manufatti cementati prodotti e di cask (barili) contenenti combustibile irraggiato. Tali opere sono costituite da: Edificio di processo per la cementazione del prodotto finito: volumetria di circa 6 500 m3; Edificio deposito, per lo stoccaggio dei manufatti cementati prodotti e dei cask contenenti combustibile irraggiato: volumetria di circa 14 000 m3; Sistemi e apparecchiature all’interno dell’edificio di processo per il trattamento della soluzione radioattiva ed il trasferimento all’interno dell’edificio deposito dei manufatti prodotti e dei cask; Movimentazione dei manufatti tramite sistemi remotizzati; Impianti ausiliari. L’appalto comprende l’avviamento di tutti gli impianti con esecuzione delle prove in bianco, di formazione del personale ed i ricambi che dovessero necessitare in tale fase e per tutto il periodo di garanzia. L’appalto inoltre comprende i servizi, per un periodo di 2 anni, di assistenza alle prove nucleari dell’impianto e di assistenza tecnica nel primo periodo di esercizio dell’impianto di cementazione. Le attività eseguite successivamente alla realizzazione dell’impianto, saranno svolte in zona controllata/sorvegliata ai sensi del D.Lgs. 230/95 e s.m.i.  Importo stimato totale 41.140 000,00. Uno dei problemi di questi lavori è che riguardano cifre e cubature superiori al fabbisogno interno di smantellamento dei materiali radioattivi che attualmente sarebbero custoditi all’Itrec di Rotondella. Delle due l’una. O i dati forniti sul materiale depositato sono sottostimati, quindi c’è dell’altro, oppure il nuovo impianto appaltato servirà anche per smaltire rifiuti provenienti da altri fornitori.
La variante al progetto e il tavolo della trasparenza
E’ evidente nelle specifiche del bando di gara che il progetto originario è stato modificato. Sogin aveva presentato una variante al progetto inerente l’impianto ICFP (solidificazione del prodotto finito e capannone deposito di stoccaggio). Progetto che ha ottenuto il decreto di compatibilità ambientale nel 2011. La modifica di cantierizzazione prevede, come è evidente nella gara,  di realizzare i due corpi (impianto ICFP e capannone deposito per le scorie) in due corpi separati e distinti rispetto al primo progetto che prevedeva un corpo unico e la bonifica della fossa 7.1 (ex fossa irreversibile) . Secondo la Sogin, questa modifica è necessaria per non far slittare eccessivamente i lavori dell’impianto e garantire nel minor tempo possibile la maggior sicurezza nucleare del sito. Intanto il tavolo della trasparenza non viene convocato dall’ottobre 2010, ossia dai tempi di Vincenzo Siggillito e di Agatino Mancusi.
L'enfasi di un evento e la “bontà” della Sogin
E’ il 10 novembre 2011, alla Trisaia di Rotondella la Sogin  presenta il piano industriale 2011-2015. All’evento partecipano rappresentanti delle istituzioni, delle organizzazioni sindacali e della associazioni industriali. L’amministratore delegato Giuseppe Nucci illustra il piano.  Ma l’enfasi è tutta centrata sul protocollo d’intesa tra Sogin, Confindustria Basilicata e Confapi Matera: “Il protocollo d’intesa tra Sogin, Confindustria Basilicata e Confapi Matera, di durata triennale, prevede cinque linee d’azione: informazione, formazione, assistenza, comunicazione e coinvolgimento su tematiche di comune interesse. La collaborazione riguarderà l’organizzazione di una conferenza annuale sullo stato di avanzamento delle attività di decommissioning e sulle policy di acquisti e appalti e la pubblicazione di una newsletter Sogin rivolta alle associazioni. Nel campo della formazione saranno promossi seminari rivolti alle imprese per la qualificazione in Sogin e iniziative sul tema della sicurezza da sviluppare con la Scuola di Radioprotezione e Sicurezza Sogin di Caorso. Sono inoltre previste visite agli impianti nucleari e specifici master universitari patrocinati dalle associazioni.” Troppo buoni loro, mentre gli imprenditori locali si sfregano le mani. C’è da fidarsi?
Quella lista dei siti idonei ad ospitare il Deposito unico
Perché la Sogin ha da molto tempo le idee chiare sul Deposito unico? Nel 2010 la società avrebbe ultimato il lavoro di individuazione delle aree potenzialmente idonee per ospitare il deposito nazionale di rifiuti radioattivi. La lista elencherebbe 52 siti, ma non è mai stata resa pubblica. Alcune indiscrezioni hanno fatto riferimento in particolar modo ad alcune regioni: Emilia-Romagna, Toscana, Puglia, Basilicata. Ogni area individuata avrebbe dimensioni di circa 300 ettari, e dovrebbe essere in grado di accogliere, oltre ai depositi per le scorie di varia gradazione, anche un parco tecnologico che a regime avrà oltre mille ricercatori. La domanda è: ma in base a quali criteri la Sogin ha individuato le aree? Non doveva essere l’Agenzia nazionale per la sicurezza nucleare a fornire i criteri? Qualcosa non quadra. Intanto nel gennaio 2011 qualcuno sospetta che…
Il sito per il deposito dei rifiuti radioattivi è stato già deciso nel 2010?
Dobbiamo ricorrere alla memoria. Fare un passo indietro di circa un anno. Il 21 gennaio 2011 compare un articolo sul quotidiano L’Unità (sezione “Politica”) che riporta alcuneinformazioni interessanti relative all’ individuazione del sito per ospitare il deposito nazionale di rifiuti radioattivi. Come abbiamo detto, nel settembre 2010 fu diffusa da molti giornali la notizia dell’ esistenza di una lista di 52 siti che la Sogin avrebbe individuato quale aree potenzialmente idonee.  Ebbene, l’ articolo de L’Unità svelerebbe invece che vi potrebbe essere già una situazione ben più chiara in merito al luogo da scegliere per ospitare il deposito nazionale di rifiuti radioattivi. E l’ articolo de L’Unità dichiara questo sulla base di alcune intercettazioni telefoniche del luglio del 2008 fatte dalla Procura di Potenza (era in corso l’ indagine “Nucleare connection” su un presunto traffico di rifiuti radioattivi in Basilicata ed a tale indagine, si precisa, è poi seguito un decreto di archiviazione nel dicembre 2009): tra le utenze messe sotto controllo vi era quella del generale Carlo Jean (ex presidente ed ex commissario delegato della Sogin).
L’ articolo de L’Unità scrive quanto segue:
“[il generale Carlo Jean] All’epoca delle intercettazioni [luglio 2008] è nominalmente fuori ma fa ancora il bello e il cattivo tempo nella società. Dunque, l’ intercettazione. Da una parte dell’ apparecchio c’è Silvio Cao. Cao è stato in Consiglio di amministrazione di Sogin ed è molto amico del generale. Sono le 8.44 del mattino. Cao alza il telefono nell’ ufficio del generale [Carlo Jean] e compone il numero di un cellulare. Scrivono i Carabinieri in ascolto: «Il Cao chiama utilizzando la linea del generale Jean tale Giancarlo e chiede se ricorda i nomi che erano stati individuati da loro per le seconde categorie. Il Cao fa riferimento al fatto che uno era Craco e poi chiede quali altri siti erano stati individuati. Il Giancarlo riferisce che al momento non ricordava i nomi e che avrebbe controllato e fatto sapere”.
L’ articolo de L’Unità aggiunge anche chi potrebbe essere il “tale Giancarlo” a cui Silvio Cao telefona ed infatti ecco cosa viene detto nell’ articolo de L’Unità:
“L’informativa dei Carabinieri non lo specifica, ma tutti gli indizi sembrano portare al nome di Giancarlo Ventura. Ventura faceva parte della prima task force Enea incaricata, siamo nel 2003, di individuare il sito nazionale di deposito dei materiali radioattivi.” [La “Task Force per il Sito Nazionale di Deposito dei Materiali Radioattivi (Task Force SITO)” fu una struttura dell’ ENEA che operò a cavallo degli anni novanta-duemila e quindi prima che tutta la materia nucleare fosse trasferita alla Sogin. La Task Force SITO dell’ ENEA stilò una lista di 214 siti (idonei ad opitare depositi di superficie per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi di I e II categoria), da cui fu dedotta una lista ristretta non pubblicata. Si sottolinea inoltre che la località precisa per il sito non fu mai ufficialmente individuata]
L’ articolo de L’Unità continua:
“Passano venti minuti dalla prima telefonata e Cao richiama. «Il Cao» si legge nel brogliaccio dei Carabinieri «richiama il Giancarlo e lui dice che sta aprendo un file e gli dettai nomi di questi siti che in totale sono sei: due in Basilicata, uno nel Lazio, tre in Puglia, per quelli di tipo superficiale. Poi cade la conversazione.» Sono sei i siti potenziali per ospitare i rifiuti di seconda categoria…”
“Trenta secondi dopo l’ interruzione, Cao richiama per la terza volta «Giancarlo». Scrivono i Carabinieri: «(…) Dopo aver ribadito che i superficiali erano i sei prima individuati, il Giancarlo dice chei subsuperficiali erano nove. Ed erano tre in Basilicata, uno in Campania, uno in Emilia Romagna, uno nel Lazio, uno in Puglia, uno in Sardegna e uno in Toscana». […] La telefonata prosegue: «Poi (Cao) chiedevai nomi dei primi classificati delle due categorie e il Giancarlo dice che sicuramente avevano messo Craco e quello dell’ Emilia Romagna».
E quindi?
Questo è quanto viene scritto nell’ articolo de L’Unità e se quanto scritto è vero (e che quindi l’ articolo de L’Unità riporta effettivamente trascrizioni di vere telefonate), si possono fare due considerazioni:
1 - innanzitutto non ci sarebbe nulla di particolarmente eclatante che Silvio Cao (ex Consiglio di amministrazione Sogin) chieda ed ottenga informazioni dal “tale Ventura” se davvero questo Ventura fosse individuabile nella persona del Dott. Giancarlo Ventura. Infatti il Dott. Giancarlo Ventura in quanto responsabile della “Geografia del sito” all’interno della Task Force SITO dell’ ENEA è sicuramente a conoscenza sia della “lista estesa” (di 214 siti) sia della “lista ristretta”. Ed è abbastanza ovvio che anche oggi (nel 2011) la Sogin nell’ individuazione del sito per ospitare il deposito nazionale di rifiuti radioattivi considererà prezioso il lavoro in precedenza svolto dalla Task Force SITO dell’ ENEA.
2 - interessante è invece scoprire finalmente quale sarebbero le località che furono inserite nella mai pubblicata “lista ristretta”. Sei siti per i depositi superficiali: due in Basilicata, uno nel Lazio, tre in Puglia.Nove siti per i depositi subsuperficiali: tre in Basilicata, uno in Campania, uno in Emilia Romagna, uno nel Lazio, uno in Puglia, uno in Sardegna e uno in Toscana.E più in dettaglioai primi posti vi sarebbero sicuramente un sito della Basilicata (viene esplicitamente nominato Craco, in provincia di Matera) ed un sito dell’ Emilia Romagna (che non viene meglio precisato). (Fonte: archivionucleare.com)
Craco, Pisticci, Rotondella, Val Basento, Petrolio e Gas
Tutto lascia immaginare che Rotondella non è esclusa dalla “lista ristretta”. Ma c’è Craco, ossia Peschiera a valle, a un passo c’è Tecnoparco, a due passi c’è la Trisaia, intorno le industrie della Val Basento, il prossimo mega-impianto di stoccaggio dal gas della Geogastock a Grottole-Ferrandina-Pisticci. Ancora a due passi ci sono i pozzi petroliferi. Tutta questa zona della Basilicata è interessata da processi di industrializzazione eterodiretti ed esogeni fondati sulla chimica, sull’energia, sui rifiuti. Una specie di mega distretto in cui ci sono tutte le condizioni per realizzare il deposito unico nazionale dei rifiuti radioattivi. E dove se non qui? Che sia Craco che sia Rotondella o Ferrandina una cosa è certa, si tratta della Basilicata. Siamo i primi, per quantità di siti identificati. Può darsi che l’ipotesi sia infondata, che la Basilicata non ospiterà alcun deposito. Bene, ma è sempre meglio mettere le mani avanti. Intanto ci auguriamo che i lavori di bonifica non siano una copertura per ben altro tipo di lavori.
Fonte :  Basilicata 24
Ultimo aggiornamento Martedì 24 Luglio 2012

lunedì 23 luglio 2012

Don Milani e le sue cariche di esplosivo.

Se voi avete diritto «di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri.


di Luca Kocci, da il manifesto del 12 Luglio 2012

Poco prima di essere trasferito dalla parrocchia di San Donato a Calenzano – un centro operaio tessile alle porte di Firenze – nella sperduta Barbiana – un gruppo di case sparse sul monte Giovi, nel Mugello – don Lorenzo Milani scrisse una lettera appassionata alla madre: «Ho la superba convinzione che le cariche di esplosivo che ci ho ammonticchiato in questi cinque anni non smetteranno di scoppiettare per almeno 50 anni sotto il sedere dei miei vincitori».

Era il 1954, lo scontro Dc-Pci era aspro, il decreto con cui il Sant’Uffizio nel ‘49 aveva scomunicato i comunisti restava pienamente in vigore, e quel giovane prete – che comunista non era, ma aveva più volte confessato come errore il voto alla Dc il 18 aprile del 1948 («è il 18 aprile che ha guastato tutto, è stato il vincere la mia grande sconfitta», scrive a Pipetta, un giovane comunista calenzanese) – non allineato agli ordini della Curia, di piazza del Gesù e della Confindustria andava reso inoffensivo: esiliato sui monti, priore di una chiesa di cui era già stata decisa la chiusura, «parroco di 40 anime», come disse egli stesso. Eppure, nonostante il confino imposto dall’arcivescovo di Firenze Ermenegildo Florit, la «superba convinzione» di Milani pare essersi realizzata: le «cariche di esplosivo» piazzate «sotto il sedere» dei vincitori, a 45 anni dalla sua morte (il 26 giugno 1967), continuano a «scoppiettare». Non hanno avuto la forza d’urto in grado di sovvertire il sistema, ma alcune intuizioni, per lo più inattuate, e molte denunce, inascoltate, conservano intatta la loro dirompenza. Per cui, se è vero che il valore di una vicenda si misura anche con la capacità di anticipare i tempi della storia, allora quella di Lorenzo Milani resta un’esperienza “profetica” che ancora parla alla società, alla politica e alla Chiesa di oggi.

La scuola rimane l’ambito principale, ma non l’unico. Insieme ai suoi “ragazzi” ne denunciò il classismo in Lettera a una professoressa e la sperimentò come prassi liberatoria, sia nella scuola popolare serale per gli operai di Calenzano, 20 anni prima delle “150 ore” conquistate con lo Statuto dei lavoratori del ‘70, sia nella scuola di Barbiana per i piccoli montanari del monte Giovi. I ministri, sia politici che tecnici, che negli anni si sono avvicendati a viale Trastevere, con qualche eccezione, si sono mostrati devotissimi all’idea milaniana di una “scuola per tutti” – il 26 giugno è in programma l’ennesimo convegno al ministero: “Salire a Barbiana 45 anni dopo” – e contemporaneamente abilissimi ad ignorarla nella prassi. Magari immaginando una didattica multimediale 2.0 in istituti con classi di 30-35 alunni o inventando premi speciali a pochi studenti apparentemente meritevoli – l’ultima idea di Profumo –, mentre si tagliano risorse, maestre, prof, insegnanti di sostegno e ore di lezione per tutti, così da trasformare la scuola in «un ospedale che cura i sani e respinge i malati», «strumento di differenziazione» piuttosto che ascensore sociale, si legge in Lettera a una professoressa. E «se le cose non vanno, sarà perché il bambino non è tagliato per gli studi», anche in prima elementare, come i 5 alunni bocciati nella scuola elementare di Pontremoli, pochi giorni fa. È dimenticata la lingua, «la lingua che fa eguali», e le lingue che, in un’ottica “internazionalista”, consentono agli oppressi di tutto il mondo di unirsi: a Barbiana studiamo «più lingue possibile, perché al mondo non ci siamo soltanto noi. Vorremmo che tutti i poveri del mondo studiassero lingue per potersi intendere e organizzare fra loro. Così non ci sarebbero più oppressori, né patrie, né guerre». Milani mandava all’estero i giovanissimi studenti del Mugello, bambine comprese, vincendo paure e resistenze delle famiglie: ne è testimonianza vivente Francesco Gesualdi, ex allievo di Barbiana, a 15 anni spedito in Nord Africa ad imparare l’arabo, oggi infaticabile animatore del Centro nuovo modello di sviluppo per i diritti dei popoli del sud del mondo.

Non c’è solo la scuola. Ci sono anche i beni comuni: acqua e casa. È poco nota, ma di grande significato, la lotta fatta insieme ai montanari barbianesi per la costruzione di un acquedotto che avrebbe dovuto portare l’acqua a nove famiglie. Una battaglia persa, perché un proprietario terriero rifiutò di concedere l’uso di una sorgente inutilizzata che si trovava nel suo campo, mandando così all’aria, scrive Milani in una lettera pubblicata nel ‘55 dal Giornale del Mattino di Firenze (allora diretto da Ettore Bernabei) «le fatiche dei 556 costituenti», «la sovranità dei loro 28 milioni di elettori e tanti morti della Resistenza», madre della Costituzione repubblicana. Di chi è la colpa? Della «idolatria del diritto di proprietà». Quale la soluzione? Una norma semplice, «in cui sia detto che l’acqua è di tutti». E la casa, col piano Ina-Casa di Fanfani che avrebbe dovuto assicurare un tetto ai lavoratori, ma che venne realizzato solo in minima parte, mentre continuavano gli sgomberi di chi occupava le ville di ricchi borghesi che di abitazioni ne avevano due o tre, tenute vuote «per 11 mesi all’anno». «La proprietà ha due funzioni: una sociale e una individuale», e «quella sociale deve passare innanzi a quella individuale ogni volta che son violati i diritti dell’uomo», scrive Milani nel ‘50 su Adesso, il giornale di don Mazzolari. Queste parole «domenica le urlerò forte. Vedrete, tutti i cristiani saranno con voi. Sarà un plebiscito. Faremo siepe intorno alla villa. Nessuno vi butterà fuori». Ma non succederà nulla, noterà Milani, che ripeterà: «Mi vergogno del 18 aprile».

La guerra e la storia, attraversate dalla responsabilità individuale – «su una parete della nostra scuola c’è scritto grande: I care», ovvero «me ne importa, mi sta a cuore. È il contrario esatto del motto fascista “Me ne frego”» –, altri temi forti dell’esperienza di Milani: la difesa dell’articolo 11 della Costituzione, l’obiezione di coscienza agli ordini ingiusti soprattutto se militari («l’obbedienza non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni»), l’opposizione alla guerra e alla guerra preventiva, 40 anni prima di Bush, perché «in lingua italiana lo sparare prima si chiama aggressione e non difesa». E una rilettura della storia che prende le distanze da ogni suo “uso pubblico” nazionalista e patriottardo, passando in rassegna le italiche guerre, tutte «di aggressione»: da quelle coloniali di Crispi e Giolitti, al primo conflitto mondiale, fino a quelle fasciste di Mussolini, passando per il generale Bava Beccaris, decorato da re Umberto, che nel 1898 prese a cannonate i mendicanti «solo perché i ricchi (allora come oggi) esigevano il privilegio di non pagare le tasse». Ma «c’è stata anche una guerra giusta (se guerra giusta esiste). L’unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana». Quindi, scrive ai cappellani militari che avevano chiamato «vili» gli obiettori di coscienza, se voi avete diritto «di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto, senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto».

Non è stato un “cattolico del dissenso” Milani – il ‘68 era ancora lontano –, ma un “ribelle obbediente”, forse proprio per questo guardato con ancora maggiore ostilità dall’istituzione ecclesiastica a cui il prete fiorentino rimproverava di aver perso di vista il Vangelo per inseguire il potere: «Non abbiamo odiato i poveri come la storia dirà di noi. Abbiamo solo dormito. È nel dormiveglia che abbiamo fornicato col liberalismo di De Gasperi, coi Congressi eucaristici di Franco. Ci pareva che la loro prudenza ci potesse salvare», si legge nella visionaria Lettera dall’oltretomba di un «povero sacerdote bianco della fine del II millennio» ai «missionari cinesi» che nel futuro arriveranno in un Europa senza più preti, uccisi dai poveri, pagina conclusiva di Esperienze pastorali, il volume di Milani giudicato «inopportuno» dal Sant’Uffizio nel ‘58 e non ancora riabilitato. «Insegnando ai piccoli catecumeni bianchi la storia del lontano 2000 non parlate loro dunque del nostro martirio. Dite loro solo che siamo morti e che ne ringrazino Dio. Troppe estranee cause con quella del Cristo abbiamo mescolato».

Giochi olimpici : una storia antica, da re Ifito (776 a.C.) a Pierre de Coubertin 1896)


Dal 27 luglio al 12 agosto si terrà a Londra la 36ma edizione dei Giochi Olimpici. Una storia antica, da re Ifito (776 a.C.) a Pierre de Coubertin 1896), che qui ripercorriamo.

di Claudio Dutto, da micromega

È arcinota, superdiscussa, ipermediatizzata: è la trentesima edizione dei Giochi Olimpici, in programma a Londra dal 27 luglio al 12 agosto 2012. Trenta candeline per una manifestazione che ha visto la sua prima edizione moderna nel 1896, ma che discende da un passato molto più lontano e, forse, molto più sentito. Il fenomeno “Olimpiadi” ha infatti avuto origine nella Grecia antica, ma se si va a ben vedere, non è l’unico tipo di giochi che veniva svolto: il calendario greco prevedeva una lunga serie di manifestazioni sportive e, addirittura, veniva scandito da queste ricorrenze. L’inizio dell’epoca greca risale al 776 a.C., anno della prima edizione dei Giochi di Olimpia.

Situata nell’area centro-occidentale del Peloponneso, nella regione dell’Elide, Olimpia non fu mai una vera e propria città, ma solo un santuario di notevole importanza dedicato al culto di Zeus e di Era. Ricca d’acqua e di tranquillità, questa zona fu spesso oggetto di contese tra le città circostanti, che si contendevano le ricchezze e il prestigio dei giochi. Questi ultimi, leggende a parte, vennero istituiti da Ifito, re dell’Elide, che intorno all’inizio del VIII secolo a.C. volle rendere ancora più sontuosa una festa religiosa. In questa occasione, e per la prima volta, venne anche imposta la tregua bellica alle città della regione, al fine di consentire un facile arrivo degli atleti e degli spettatori allo stadio. Questa stessa usanza venne in seguito estesa a tutta la Grecia e divenne un vero e proprio marchio di fabbrica delle Olimpiadi.

Le gare avevano luogo ogni 49-50 mesi lunari (all’incirca 4 anni solari) e si svolgevano al primo plenilunio dopo il solstizio d’estate, intorno alla metà di luglio. In un primo tempo essi erano riservati ai soli atleti dell’Elide, poi vennero allargati anche al Peloponneso, quindi a tutta la Grecia (intesa come madrepatria e colonie). Fino al 724 a.C. era in programma solo la corsa dello stadio, cui si aggiunsero il diaulos, due giri dello stadio, e il dolicos, corsa di fondo. Nel corso del tempo il numero di discipline crebbe: la lotta fu aggiunta nel 708 a.C., il pugilato nel 688 a.C., la corsa nei carri nel 680 a.C., il pancrazio e le corse di cavalli nel 648 a.C. Al 628 a.C. risale il pentathlon, una gara che comprendeva prove di corsa, salto in lungo, lancio del disco, lancio del giavellotto e lotta. Anche la durata dell’evento andò crescendo: si partì con sole due giornate di spettacolo, una dedicata agli dei e una alle competizioni, per poi passare a tre e infine a cinque giorni in età classica (V e IV secolo a.C.). Il programma prevedeva manifestazioni di carattere sportivo, culturale e religioso, ma non mancavano gli interventi di intellettuali e filosofi che istruivano la folla in merito ai problemi più scottanti del periodo. Celebre fu l’esempio di Lisia, che pronunciò, forse nel 388 a.C., l’orazione Olimpico per cercare di convincere i suoi conterranei ad abbattere la tirannide di Dionigi di Siracusa, accusato di voler affermare il proprio potere personale anche oltre i confini della Magna Grecia.

Altri giochi vennero organizzati a Corinto, Nemea e Delfi, ma non mancavano manifestazioni di carattere più locale in diverse altre città. Punto di passaggio obbligato per l’accesso terrestre al Peloponneso, ma anche porto di fondamentale importanza per i commerci con l’Asia, Corinto diede luogo a dei giochi di grande risonanza proprio per la posizione cruciale che occupava. I Giochi, definiti “istmici” per via dell’istmo su cui sorge la città, vennero istituiti in onore del dio Poseidone e si distaccavano dagli altri per il loro carattere popolare e semplice. Istituiti nel 582 a.C., erano ripetuti ogni due anni nel mese di aprile e prevedevano il conseguimento di una corona di pino o di sedano. Così come nelle altre località, il premio in sé aveva un ruolo marginale per gli atleti: conquistare la vittoria significava soprattutto veder riconosciuto il proprio valore, essere elevati al rango di “migliori” ed essere portati in trionfo dai propri concittadini. Non mancavano, naturalmente, degli incentivi alla vittoria: i governi promettevano ai propri portacolori premi e riduzione delle imposte, proprio perché i giochi avevano una valenza simbolica e politica molto forte. A immagine delle gare di Olimpia, il programma di Corinto presentava soltanto competizioni ginniche e ippiche e solo nel III secolo furono integrate le esibizioni musicali.

Non molto distante dall’istmo sorgeva poi la città di Nemea, teatro, secondo il mito, della prima fatica di Eracle. All’eroe è attribuita l’istituzione di questo evento, che di fatto era organizzato e gestito dalla città di Argo, capoluogo della regione. La prima edizione si svolse nel 573 a.C. e fin da allora venne assegnata ai vincitori una corona di sedano.
L’unico centro agonale situato fuori dal territorio peloponnesiaco era presso il santuario di Apollo a Delfi, nella regione della Beozia. Zona sacra e rispettata, Delfi diede origine a dei giochi basati fortemente sulle esibizioni musicali. Questo indirizzo faceva dei giochi, chiamati “pitici” per via di un appellativo del dio Apollo, Pizio, un complemento dei più sportivi Giochi Olimpici. Ciò nonostante, per poter partecipare gli atleti e gli artisti erano tenuti a rispettare l’ideale greco del kalos k’agathos, letteralmente “bello e buono”, cioè rientrare nei canoni di bellezza esteriore e interiore richiesti. È per questo motivo che autori del calibro di Omero (cieco) e di Esiodo (non sapeva suonare la cetra) secondo la tradizione vennero rifiutati. La cadenza di ogni manifestazione era originariamente di otto anni, ma visto il grande successo ottenuto a Olimpia, si passò a una ricorrenza quadriennale, in particolare nel mese di agosto del terzo anno di ogni Olimpiade. Premio del vincitore era una corona d’alloro, pianta sacra ad Apollo, e la dedica di componimenti poetici da parte di Pindaro e altri poeti celebri in tutta la Grecia.

In un panorama piuttosto articolato, comunque, la parte del protagonista era sempre ricoperta dalle Olimpiadi. Le vicende della Grecia vennero segnate in maniera decisa da eventi che accaddero durante i giochi e l’inizio del Medioevo ellenico può essere segnato quasi un secolo prima della data convenzionale. Se l’Alto Medioevo viene datato 476 d.C., anno della caduta dell’Impero romano d’Occidente, infatti, in Grecia la civiltà era finita almeno ottant’anni prima, quando l’imperatore Teodosio aveva chiuso definitivamente le gare. Ma per capire fino in fondo quale significato ricoprissero, è utile vedere l’evoluzione che hanno avuto nel corso del tempo.

In una prima fase, che va dal VIII al VI secolo a.C., furono istituite le feste e furono regolarizzati e definiti i programmi; in una seconda, nell’arco di tutto il V e fino al 338 a.C., si registra l’apogeo delle manifestazioni. Una terza fase, di declino, avviene infine sotto la dominazione macedone e in seguito sotto quella romana.

Inizialmente il diritto di partecipare ai giochi panellenici fu concesso soltanto ai greci continentali, di qualunque estrazione sociale, purché liberi e con diritto di voto (a tutti i πολίται, politai). Ciò restringeva notevolmente il numero dei potenziali atleti, perché non erano ritenuti cittadini né le donne né gli schiavi né tutti gli stranieri presenti o residenti nella regione. Questo vincolo faceva dei giochi un evento privato ed elitario nel mondo antico. In seguito, però, con l’espansione delle città e la fondazione di colonie, soprattutto in Asia Minore e Italia, tale diritto fu allargato a tutti gli appartenenti alla cosiddetta “stirpe greca” (venivano cioè esclusi tutti coloro che erano definiti “barbari”). Ma quando Filippo II fu insignito del titolo di comandante della Lega di Corinto, anche ai macedoni, riconosciuti come di stirpe ellenica, fu concesso di partecipare. Gli stessi Filippo e suo figlio Alessandro (che alla morte del padre venne chiamato “Il Grande”) vi presero parte, vincendo alcune gare. Alessandro, però, mal sopportava le gare atletiche, poiché le considerava inutili e fini a loro stesse, ma ne riconosceva l’importanza sociale e politica. Per questo motivo organizzò egli stesso delle manifestazioni in Macedonia, dove furono premiati poeti tragici, musici e rapsodi (cioè cantori professionisti), ma anche i vincitori di battute di caccia, gare di scherma e scontri oplitici (tra atleti che indossavano le armature e l’equipaggiamento militare). Queste nuove discipline furono introdotte perché vennero considerate più utili per un soldato e propedeutiche per il piano di conquista che il generale Alessandro voleva intraprendere.

In seguito alle espansioni territoriali del Regno di Macedonia, sempre più popolazioni, ritenute fino a quel momento barbare, poterono partecipare alle gare. Molti atleti stranieri, come testimoniato dai registri che sono stati ritrovati, risultarono vincitori in numerose discipline.
Con l’avvento dei Romani, infine, i giochi divennero ancor più internazionali: nel 228 a.C. fu concesso ai cittadini romani di prendere parte alle competizioni, come segno di gratitudine per aver fermato le razzie dei pirati illiri. Nel 196 a.C., poi, proprio in occasione dei Giochi Istmici, il console Tito Quinzio Flaminino proclamò la liberazione della Grecia dalla tirannia macedone. Ciò nonostante anche i Romani disprezzavano le Olimpiadi perché le trovavano prive di ogni applicazione pratica e vergognose agli occhi degli spettatori, visto che gli atleti gareggiavano praticamente nudi. Da dominatori del Mediterraneo e poi d’Europa, però, ciò che meno tolleravano era l’idea di una gara tra persone di pari diritti e dignità. I giochi che i Romani presentavano al proprio pubblico erano semplici esibizioni, prive di qualsiasi premiazione, inscenate da attori o atleti comprati per lo più sul mercato degli schiavi e considerati alla stregua delle bestie tropicali.

Nel periodo repubblicano, dunque, gran parte del popolo romano guardò i Greci e i loro costumi con tono dispregiativo, ma con l’avvento dell’impero le cose cambiarono. L’imperatore Augusto (27 a.C. – 14 d.C.) e tutta la sua gens si dimostrarono ammiratori delle tradizioni elleniche. In questo periodo i giochi vennero rivalutati, vennero costruiti nuovi ginnasi in tutto l’impero e i membri stessi della famiglia imperiale furono invitati a partecipare alle Olimpiadi: Tiberio, figlio adottivo di Augusto e suo successore (14 d.C. – 37 d.C.), risultò vincitore nella corsa dei cocchi. Non sempre, però, l’ammirazione del princeps nei confronti della cultura ellenica risultò vantaggiosa per quest’ultima: Caligola (37– 41 d.C.) tentò di trasportare a Roma la statua di Giove Olimpico, ma essa risultò troppo pesante e non poté essere rimossa; Nerone (54 – 68 d.C.) depredò Olimpia di centinaia di opere d’arte e poi le gettò nelle fogne dell’Urbe in segno di disprezzo. Questi, inoltre, pretese di gareggiare in tutte le prove di tutte le manifestazioni ufficiali greche, dove risultò sempre vincitore per l’evidente corruzione dei giudici che volevano ingraziarsi le alte sfere dell’impero. L’imperatore, per nulla imbarazzato dagli eventi, sfilò trionfante in molte delle principali città d’Italia, divenendo così oggetto dello scherno e della derisione di molti epigrammatografi e dello stesso Seneca, suo maestro e mentore. Con Adriano (117 – 138 d.C.) l’ideale ellenico tornò in auge e l’imperatore stesso si prodigò affinché l’antico costume della Grecia classica, al quale era molto legato, non andasse perduto.

L’avvento del Cristianesimo, però, mise sempre più in crisi le feste atletiche greche, considerate centri di paganesimo e dunque ostacoli da rimuovere per il pieno sviluppo del rito monoteista. Costantino il Grande (306 – 337 d.C.) fece smantellare Delfi e confiscò tutti i suoi tesori per decorare Costantinopoli. Teodosio (379 – 395 d.C.), come detto, fu responsabile della fine di Olimpia nel 393 d.C. Erano passati millecentosettantanove anni e duecentonovantuno edizioni dalla gara indetta da re Ifito e occorrerà attendere altri millecinquecentotre anni per trovare un altro uomo, Pierre de Coubertin, che sappia far rivivere il mito dei Giochi Olimpici.

(23 luglio 2012)

domenica 22 luglio 2012

'Noi, onorevoli e nullafacenti'




di Emiliano Fittipaldi, dall'Espresso
Carlo Monai è l'unico, dopo sette tentativi andati a vuoto, che ha accettato di raccontare a "l'Espresso" com'è cambiata la sua vita da quando è entrato nella casta. E' un avvocato di Cividale del Friuli, ex consigliere regionale e oggi deputato dell'Idv al primo mandato parlamentare. Uno dei peones, a tutti gli effetti.

Uno coraggioso, direbbe qualcuno, visto che ha deciso di metterci la faccia e guidarci come novello Virgilio nella bolgia di indennità, vitalizi, doppi incarichi, regali, sconti e privilegi in cui sguazzano politici di ogni risma. Un paradiso per pochi, un inferno per le tasche dei contribuenti italiani, stressati da quattro anni di crisi economica e da una Finanziaria lacrime e sangue che chiederà ulteriori sacrifici. «Per tutti, ma non per noi», chiarisce Monai. «I costi della politica sono stati ridotti di pochissimo, e alcuni sprechi sono immorali. Non possiamo chiedere rinunce agli elettori se per primi non tagliamo franchigie e sperperi».

L'incontro è al bar La Caffettiera, martedì mattina, davanti a Montecitorio. Difficile ottenere un appuntamento di lunedì. «Noi siamo a Roma da martedì al giovedì sera», spiega. «Ma in questa legislatura pare che stiamo facendo peggio che mai: spesso lavoriamo due giorni a settimana, e il mercoledì già torniamo a casa. Nel 2010 e nel 2011 l'aula non è mai stata convocata di venerdì. Le sembra possibile?».

Anche in commissione l'assenteismo è da record. «Su una quarantina di membri, se ce ne sono una decina presenti è grasso che cola. Io credo che lo stipendio che prendiamo sia giusto, ma a condizione che l'impegno sia reale. Se il mio studio fosse aperto quanto la Camera, avrei davvero pochi clienti».

La busta paga di Monai è identica a quella dei suoi colleghi: l'indennità netta è di 5.486,58 euro, a cui bisogna aggiungere una diaria di 3.503,11 euro. Per ogni giorno di assenza la voce viene decurtata di 206 euro, ma solo per le sedute in cui si svolgono le votazioni. E se quel giorno hai proprio altro da fare, poco male: basta essere presenti anche a una votazione su tre, e il gettone di presenza è assicurato ugualmente. Lo stipendio è arricchito con il rimborso spese forfettario per garantire il rapporto tra l'eletto e il suo collegio (3.690 euro al mese), e gli emolumenti che coprono le uscite per trasporti, spese di viaggio e telefoni (altri 1.500 all'incirca). In tutto, oltre 14 mila euro al mese netti. Ai quali molti suoi colleghi con galloni possono aggiungere altre indennità di carica.

Monai inizia il suo viaggio. «Non bisogna essere demagogici. Parliamo solo di fatti. Partiamo dagli assistenti parlamentari: molti non li hanno. Visto che le spese non vanno documentate, preferiscono intascarsi altri 3.690 euro destinati ai portaborse e fare tutto da soli. Altri colleghi per risparmiare si mettono insieme e ne pagano uno che fa il triplo lavoro».

Ecco così svelata la sproporzione tra il numero dei deputati (630) e i contratti in corso per i segretari (230). «Non c'è più tanto nero come qualche anno fa. Anche un altro mito va sfatato: la Camera non ci regala cellulari, come molti credono, ma ogni deputato può avere altri 3.098 euro l'anno per pagare le telefonate. La Telecom ci offre poi dei contratti, chiamati "Tim Top Business Class", destinati a deputati e senatori. Per i computer? Abbiamo un plafond di altri 1.500 euro». Anche quand'era in consiglio regionale del Friuli le telefonate non erano un problema: «La Regione copriva tutto. Se non ti fai scrupoli puoi spendere quanto vuoi. Lo sa che lì c'è pure un indennizzo forfettario per l'utilizzo della propria macchina? Per chi vive fuori Trieste, 1.800 euro in più al mese. Tutti
rendevano il treno regionale, e si intascavano la differenza».



Ogni parlamentare, ha poi, una tessera che gli consente di non pagare l'autostrada, i treni e gli aerei (sempre prima classe) e le navi, in modo da potersi spostare liberamente sul territorio nazionale. «Tutto gratis, anche se devo andare al compleanno della nonna», chiosa l'onorevole. «Dovrebbero essere pagati solo i viaggi legati al nostro incarico pubblico». 

Oltre a questi soldi è previsto un ulteriore rimborso mensile per taxi e varie che va, a secondo della distanza tra l'abitazione e l'aeroporto, da 1.007 a 1.331 euro al mese. Questa è una cosa nota. Pochi sanno però che quasi tutti i deputati, per comprare i biglietti aerei, fanno riferimento esclusivamente all'agenzia americana (con sede in Minnesota) Carlson Wagonlit. «A loro noi chiediamo sempre di volare con Alitalia, che è la più cara di tutte. Nessuno ci vieterebbe, però, di scegliere compagnie low cost».

I politici se ne guardano bene: da un lato il prezzo di un biglietto low cost lo devi anticipare tu (mentre con Alitalia anticipa il Parlamento), dall'altro perderesti i punti per la carta fedeltà "Millemiglia". «I punti li giriamo a mogli e figli, ma in genere i deputati li usano per andare gratis all'estero: perché tranne qualche missione coordinata con il presidente della commissione», ragiona Monai, «i viaggi all'estero dobbiamo pagarceli di tasca nostra».

Se non siete capaci di "AZZERARE I PRIVILEGI", "Zero" è il voto che meritate e che il popolo lucano vi darà !


"Il 17 luglio scorso, come da Regolamento delle Istituzioni Regionali Lucane, alla prima seduta utile dopo tre mesi di adeguata “riflessione”, dalla avvenuta consegna, Il Consiglio Regionale ha votato la proposta di legge di iniziativa popolare “Zero Privilegi”, firmata da 3849 cittadini Lucani, che prevedeva un dimezzamento netto delle retribuzioni degli stessi Consiglieri, l’eliminazione  del vitalizio e dell’indennità di fine mandato e un’adeguamento delle spese e rimborsi al pari di ogni dipendente pubblico non precario.

L’esito del voto è stato di quasi totale bocciatura, cioè di 23 voti contrari di Pd, Pdl, Idv, Mpa, Ial, Pu, Api e di un astenuto, il Consigliere di SEL Romaniello, che voleva così rimandare alla Commissione dei capigruppo la sua discussione per un’eventuale e parziale accoglimento.

Le motivazioni addotte della bocciatura sono ovviamente diverse per ogni gruppo consiliare, per Braia Pd, “riteniamo come gruppo che debbano essere analizzati in maniera adeguata in un provvedimento che sia in qualche modo incardinato all'interno dello Statuto, che tenga conto anche dei dettami e delle indicazioni costituzionali”; vi sono alcuni aspetti interessanti ma il tema delle retribuzioni andrebbe rimandato per una sua organica riforma a quello complessivo di quello statutario già in corso. Per Venezia Pdl, “Io voglio dire questo, che già le indennità che noi prendiamo sono molto più basse rispetto al Piemonte, 16.000 euro, addirittura al Molise, che è molto più piccolo di noi e quindi richiede meno impegno, 10.255 euro”; (il dato sulla retribuzione dei Consiglieri Piemontesi non corrisponde alla realtà), sarebbe frutto di Antipolica e la funzione del rappresentante andrebbe tutelata con adeguate retribuzioni, a suo dire i nostri Consiglieri Regionali sarebbero tra i meno garantiti d’Italia. Autilio Idv, “io ho rispetto assoluto dei firmatari, in quanto è una proposta popolare degna, ma quando quella proposta popolare diventa proposta di una forza politica, perché tale è ormai il Movimento Cinque Stelle, essendo presente in varie istituzioni nazionali, allora a quel punto io penso che quella proposta perde l'asetticità, la trasparenza, la chiarezza che, probabilmente, l'avrebbe caratterizzata se rimanevano solamente 3800 firme, ma assume un significato che è qualificato politicamente”; ci dispiace ma nostro parere la politica è portare avanti istanze dei cittadini e quindi popolare e vorremmo chiedergli se le raccolte firme di Idv che è una forza politica sono prive di asetticità, chiarezza e trasparenza?. Falotico Mpa, “io se potessi chiederei proprio a questi 3.800 cittadini: provate a fidarvi di un percorso che è stato già iniziato e che con la discussione sulla bozza dello statuto, sempre se vogliamo stare all'interno di un senso vero della democrazia che è fatto anche di regole”;  vorremo ricordargli che le regole vengono modellate in funzione delle istanze che rappresenta, quando il tema andrebbe ripreso in sede di riforma statutarie. Il Presidente Folino, che ha dato una relativa celerità alla discussione ritiene che la proposta “Zero Privilegi” possa venire discussa in futuro, “così come sono legittime tutte le questioni che qui sono state affrontate, anche la sottolineatura che questo Consiglio Regionale ha già fatto molte cose, altre le farà, allorché concluderà la fase dello Statuto regolamentare”.

Va detto che il Consigliere Romaniello che già ha avanzato in sede consiliare una articolata proposta di legge in merito a retribuzioni e rimborsi e annullamento di privilegi, “ perché oggi, non sfugge a nessuno che uno dei punti centrali della indisponibilità dei cittadini ad accettare privilegi, è dato dal fatto che nel mentre si chiede sacrifici c'è chi ha e conserva dei privilegi”, in parte paragonabile alla “Zero Privilegi”, ma che non è stata ancora discussa.

Per gli attivisti del Movimento 5 Stelle di Basilicata e delle varie associazioni che vi hanno collaborato, che per 6 mesi hanno raccolto ai banchetti le firme questa è, da parte della massima rappresentanza politica attuale un’occasione mancata, avrebbero potuto dare un segno di rispetto dei tempi di crisi economica che i cittadini Lucani stanno subendo, ricominciando a darsi credibilità, mai come ora ai minimi livelli.

Già si sono blindati dalle recenti riforme parlamentari che avrebbero dovuto comportare un taglio complessivo del 20% delle retribuzioni lorde ( un altro 10% da aggiungersi al taglio già in essere dal 2010); che dire poi dei loro privilegi, vitalizio, indennità di fine mandato e rimborsi forfettari, possono continuare a rappresentare un intero popolo al quale vengono chiesti ulteriori sacrifici?

A titolo esemplificativo poi, la Regione Emilia-Romagna ha provveduto a recepire i tagli imposti dal Parlamento Nazionale che aggiunti a quelli già adottati dal Consiglio Regionale portano ad un complessivo 30% la riduzione della retribuzione lorda, paragonandola agli stipendi medi di tale Regione si ottiene che percepiscono 4 volte in più di un lavoratore Emiliano-Romagnolo, invece in Lucania la proporzione è di 8 a 1 conosciamo tutti le condizioni economiche delle due realtà, tutto questo può avere un suo senso logico?

Il Movimento 5 Stelle Basilicata non intende fermarsi e si batterà per far promuovere la proposta “ZERO PRIVILEGI” qualora, come indicano i recenti sondaggi, dovesse essere chiamato a rappresentare i Lucani nel Consiglio Regionale".



Movimento Cinque Stelle Policoro

sabato 21 luglio 2012

Bersani e Vendola aggiornate il calendario



Nel disinteresse generale il parlamento ha approvato il fiscal compact. E questo disinteresse, costruito dalla disinformazione di regime, è l’ultimo segnale del disfacimento della nostra democrazia. In tutta Europa di Europa si discute e sull’ Europa ci si divide. In Irlanda si è fatto un referendum. Da noi una Camera quasi vuota e con l’assenza dei principali leaders, approva il più brutale e vasto servaggio economico della storia repubblicana.

Secondo quel patto, che i cittadini non per colpa loro ignorano, l’Italia si impegna a dimezzare in venti anni lo stock del debito pubblico. Cioè dobbiamo pagare 1000 miliardi, 50 all’anno. In aggiunta agli interessi che ora ci costano 80 miliardi all’anno.

Insomma un costo paragonabile alle riparazioni di una guerra perduta. E di guerra infatti ha parlato Monti, guerra al popolo italiano.

Il fiscal compact non può minimamente essere rispettato senza portare il reddito e le condizioni sociali del paese indietro di un secolo, esattamente come si sta facendo in Grecia, Spagna, Portogallo. Ma di tutto questo la politica italiana non discute, quella di centro sinistra meno di tutte.

In una recente intervista Bersani ha parlato di alleanza di progressisti e moderati, ma che ridicolo teatrino è?

Se si rispetta il fiscal compact si dovrà continuare ed estendere il massacro sociale. Se lo si mette in discussione, si dovrà rompere con Monti, Draghi, Merkel e… Napolitano.

Tutto il resto sono chiacchiere. Esattamente quelle che fanno per non pagare dazio Bersani e gli altri tifosi del vecchio centrosinistra come Vendola.

Tutti costoro fanno finta di non essere in questa Europa delle banche, che detta le decisioni alla politica.

Aggiornate il calendario signori. Non siamo alla vigilia delle elezioni del 2006. Allora il centro sinistra imbrogliò con un programma di 200 pagine e altrettante versioni, volete riprovarci oggi?

Diteci con onestà se volete continuare con la politica di Monti o rompere con essa. Dateci con onestà la ragione di fondo per non votarvi.

di Giorgio Cremaschi, da micromega

(20 luglio 2012)